I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

d706a7d5_o

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

Questa rubrica sta piacendo molto ai nostri lettori ed è un piacere per noi accontentarli con un altro articolo sulle personalità nostrane che con la loro calabresità hanno reso un contributo importante all’umanità. Molti personaggi hanno nomi altisonanti ma si conosce davvero la loro storia e ciò che li ha resi grandi? Molti invece non si conoscono proprio ma le loro gesta hanno cambiato il modo di vivere di tutti noi. E poi ci sono quelli che si conoscono ma non si sa che sono calabresi, e scoprirlo ci rende ancora più orgogliosi di essere nati nella loro stessa terra. Siete pronti ad inorgoglirvi, per l’ennesima volta, con questi nuovi pezzi da novanta “made in Calabria”?

GIOACCHINO DA FIORE

gioacchino_da_fiore_g_grecokk.jpg

Gioacchino da Fiore nacque intorno al 1130 a Célico, in provincia di Cosenza, da famiglia ricca e stimata infatti il padre Mauro era tabulario o notaio. Venerato come beato dalla Chiesa cattolica (da parte dei florensi e dei gesuiti Bollandisti), fu monaco, abate, teologo, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta e Dante Alighieri nel XII canto del Paradiso dice di lui: “…il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato…”. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza. Ben presto fu mandato dal padre a lavorare, sempre a Cosenza, presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la Corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, con i Notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo l’Arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano si allontanò definitivamente dalla Corte Reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta, dove ebbe il privilegio di visitare i luoghi della nascita e della predicazione di Cristo. Forse nel corso di questo viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re (Dio).

gioacchino-da-fiore

Si fece monaco cistercense presso l’abbazia della Sambucina da cui però si allontanò per andare a predicare dall’altra parte della valle vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino Rende. Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove il Vescovo lo ordinò sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Poco tempo dopo si trasferirì proprio qui, dove divenne abate nel 1177. A Corazzo l’abate Gioacchino cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia. Durante questo periodo incontrò, nell’Abbazia di Casamari, il Papa Lucio III che gli concesse la “licentia scribendi”, scaturita dall’interpretazione di Gioacchino di una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Matteo d’Angers. Con l’aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca Campano, fututo Arcivescovo di Cosenza nonchè realizzatore del duomo, iniziò quindi la stesura delle sue opere principali: “La Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento” e “L’Esposizione dell’Apocalisse”.

1200px-Abbazia_di_Corazzo,_Calabria

Al ritorno da un viaggio a Verona per incontrare Papa Urbano III, si ritirò a Pietralata, da lui ribattezzata Petra Olei, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell’Abbazia di Corazzo. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino, pertanto nell’autunno del 1188 Gioacchino salì in Sila con i suoi discepoli alla ricerca di un territorio abitabile e lo trovò nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. Dopo un complesso confronto tra Gioacchino e il re dei normanni Tancredi, l’asceta ebbe in dono un vasto tenimento posto nelle adiacenze del luogo scelto precedentemente, con l’aggiunta di 300 pecore e 30 some di grano, per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire il protomonastero di Fiore Vetere e successivamente nel 1194, dopo la morte di Tancredi, il nuovo regnante Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II, concesse a Gioacchino privilegi sovrani su tutta la Calabria.

pietrafitta

Gioacchino fondò molti monastreri e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma ricevendo da Papa Celestino III l’approvazione della “Congregazione Florense” e dei suoi Istituti il 25 agosto del 1196. I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e misero a coltura i terreni, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del “novus ordo”. Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale, ultima sua costruzione. Il suoi resti furono traslati nell’abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L’ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.

urna_gioacchino_da_fiore
I seguaci di Gioacchino subito dopo la sua morte raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditatogli ingiustamente. Il 20 luglio 1684 il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all’Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull’altare vicino al sepolcro dell’abate Gioacchino. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie. All’approssimarsi dell’VIII centenario della morte dell’Abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l’iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana.

abbazia-Florense-di-San-Giovanni-in-Fiore_1000
Gioacchino da Fiore ebbe tante interessanti e originali intuizioni tra le quali le più importanti sono:
– l’esistenza di diverse forme di concordia tra l’Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio e con questo concetto, noto come modello “binario della teologia della storia”, data la piena proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di “proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l’età apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro”;
– da questo concetto binario, Gioacchino elabora un “modello ternario”, connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l’analisi teologico-iconografica delle lettere “ALFA” e “OMEGA”;
– dallo sviluppo di queste due concezioni basilari Gioacchino approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle “Tre Età della Storia terrena”, sostenendo che se c’era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre (corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda (784-746)) e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio (appresentata dal Vangelo e compresa dall’avvento di Gesù, estesa nel tempo che va da Ozia fino al 1260), allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del “millennio sabbatico”, ovvero quel periodo in cui l’umanità attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. Un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l’uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e il ricongiungimento di cristiani ed ebrei.

02-gioachino-da-fiore-webNel suo “Monasterium” delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione della chiesa, della quale condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere, con la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un’età di perfezione.

f1d8fb1a77f3fd989b2e888c938fae1f
Oltre ad essere un punto di riferimento spirituale del tempo, infatti tra coloro che seguivano le sue idee c’erano regnanti e papi, le sue straordinarie intuizioni hanno cavalcato i secoli arrivando ai giorni nostri, influenzando sia alcuni movimenti religiosi, tra cui il più importante è senza dubbio l’ideologia dei Francescani spirituali francesi e italiani tra i quali esponenti ricordiamo Ubertino da Casale, Jacopone da Todi, Arnaldo de Villanova e moltissimi altri e addirittura l’apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi e la struttura urbanistica che i francescani diedero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc., e sia di molte personalità tra cui Roger Bacon (Bacone), Girolamo Savonarola, Celestino V, Michelangelo Buonarroti nella costruzione della struttura compositiva della Cappella Sistina, Dante Alighieri citandolo direttamente o indirettamente diverse volte nel Paradiso e Barack Obama che fece del pensiero di Gioacchino da Fiore, oltre che un punto di riferimento per la stesura della sua tesi di laurea, anche la base portante dei sui discorsi durante la sua campagna elettorale per le presidenziali e successivamente citandolo a più riprese nei discorsi alla nazione, definendolo come “maestro della civilta’ contemporanea” e “ispiratore di un mondo più giusto”, usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto “change we can”, per indicare la necessità di un cambiamento radicale della storia e proclamandolo il portabandiera di una società più equa e di un’epoca straordinaria, in cui lo spirito riuscirà a cambiare il cuore degli uomini.

MILONE DI CROTONE

11127574_10205281690915485_7385132936783685452_n.jpg

Tra i personaggi più illustri della Magna Grecia e certamente l’atleta più forte di tutti i tempi, il grande Milone fu pugile e lottatore imbattuto per oltre vent’anni. Nato e vissuto nell’antica Kroton (Crotone) del VI secolo a.C. grazie alle sue gesta sportive e non, divenne tra gli uomini più influenti del gruppo aristocratico che governava la città di Miscello. La sua prima vittoria sportiva la ottenne all’età di 15 anni (540 a.C.), partecipando e vincendo nella disciplina sportiva della lotta. Si dice infatti che, per allenarsi, era solito portare sulle spalle vitelli, così da potenziare maggiormente la sua massa muscolare. Può essere considerato a tutti gli effetti il prima culturista della storia. Nel corso della sua vita fu capace di sei vittorie olimpiche disputate fra il 540 a.C. e il 512 a.C. e di altre sei vittorie ai Giochi Pitici di Delfi che si tenevano in onore di Apollo, dieci ai Giochi Istmici presso Corinto e nove ai Giochi Nemei. In 28 anni di carriera, Milone vince 33 volte. La sua specialità era l’orthopale, un tipo di lotta. Per di più, quando partecipò alle olimpiadi per la settima volta e si scontrò con un suo concittadino, il diciottenne Timasiteo, il quale lo ammirava fin da piccolo e da cui imparò anche molte mosse, alla finale, il suo avversario si inchinò senza nemmeno iniziare a combattere, in segno di rispetto all’uomo a cui gli dei diedero in dono la forza e la disciplina. Forse siamo di fronte al primo caso nella storia delle Olimpiadi antiche in cui sappiamo il nome del secondo classificato, anch’esso calabrese, in quanto le liste tramandate sin dall’antichità hanno per protagonisti solo i primi classificati.

pancrazioUna leggenda vuole che in occasione dei giochi olimpici, prima di vincerli, corse da Crotone ad Olimpia con un toro sulle spalle provocando un grande clamore. Tanta gloria rese Milone uno dei personaggi più illustri e famosi del mondo antico, conosciuto ovunque per la sua proverbiale forza e considerato eroe leggendario appartenente alla stirpe degli Eraclidi, discendente diretto di Eracle, a sua volta ritenuto “ecista morale” della città di Crotone. Molte notizie ci vengono tramandate da storici come Diodoro Siculo che lo inserisce anche in alcuni scenari cittadini che ne hanno fatto di lui, eroe “nazionale”. Era noto, oltre che per la grande forza, anche per il grande appetito. Pare, infatti, che una volta avesse portato di peso un toro di 4 anni allo stadio, fatto un giro di campo con l’animale sulle spalle, che l’abbia ucciso con un colpo solo e che se lo sia mangiato tutto nello stesso giorno. Come se non bastasse, si racconta che egli fosse alto circa due metri e che era capace di sollevare anche un uomo con un dito della mano.

Milone-e-il-vitello

Del resto, ad uno sportivo vincente come lui potevano essere portati solo onore e rispetto, tanto che un suo ammiratore di nome Dameas, come regalo, gli fece erigere una statua nello stadio di Olimpia in cui Milone era rappresentato ritto su un disco con i piedi uniti. Milone è noto anche per essere stato discepolo di Pitagora e sposo di sua figlia Myia. In occasione di un terremoto, che colse il gruppo dirigente aristocratico guidato da Pitagora mentre era in riunione proprio in casa del filosofo, Milone si sostituì ad una colonna spezzata dal sisma reggendo sulle sue spalle il soffitto dell’abitazione permettendo così alla struttura di non crollare e di far scappare tutti in tempo. Mito o realtà storica? Sta di fatto che quando si tramandano le gesta e le imprese di certi affascinanti personaggi, tutto ciò che li riguarda viene molto romanzato, per far risaltare ancora di più le imprese. Milone fu comandante dell’esercito crotoniate in occasione della famosa battaglia di Trionto contro i sibariti del 510 a.C. che sancì la sconfitta e la distruzione dell’opulenta colonia di Sybaris. Milone vestito come Eracle, con la clava e la pelle di leone sulle spalle, guidò il suo esercito verso una delle vittorie più schiaccianti della storia antica. Persino Democede, crotoniate e medico personale del re Dario di Persia, per tornare a casa contro il parere del re persiano, sposò in tutta fretta una figlia di Milone, costringendo Dario a desistere dai suoi piani.

MiloofCrotonFalconet

La data della morte di Milone è sconosciuta ma, come per la maggior parte degli antichi greci famosi, la dinamica del decesso è divenuta un mito. Secondo Strabone e Pausania, l’ormai vecchio Milone stava attraversando un bosco quando s’imbatté in un ulivo secolare sacro alla dea Hera, antistante appunto al tempio Crotonese di Hera Lacina, dal tronco cavo. Il lottatore inserì le mani nella fenditura per spezzare in due il tronco in un’ultima dimostrazione di forza, ma vi rimase incastrato e divenne preda di un branco di lupi.

11013179_10205281689715455_1379589783746889549_n
Il mito della forza e dalla vita di Milone ha alimentato la fantasia di diversi artisti, facendo del lottatore celebre soggetto di opere d’arte e di letteratura. Già nel 1590 il bronzista veneziano Alessandro Vittoria fuse una statua raffigurante Milone. La morte del lottatore divenne poi un soggetto ricorrente nella produzione artistica del XVIII secolo ma, per onorare il personaggio, si ricorse spesso alla raffigurazione dei leoni invece che dei lupi quali responsabili della sua morte. Nella scultura “Milone di Crotone” del francese Pierre Puget (1682), l’artista predilesse invece una rilettura del mito in chiave barocca, focalizzando come soggetti la vittoria dell’età sulla forza del lottatore e la vana gloria del trofeo olimpico. L’originale si trova nel museo del Louvre a Parigi ma esistono anche delle copie che si trovano nel Parque Buenos Aires di San Paolo in Brasile, in Cours Estienne d’Orves a Marsiglia in Francia e nel piazzale antistante il PalaMilone a Crotone. Il “Milone di Crotone” di Étienne-Maurice Falconet (1754) permise all’artista di ottenere l’accesso alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di Parigi. Sempre nel Settecento, il pittore Joseph-Benoît Suvée realizzò l’olio su tela “La morte di Milone”. Nel XIX secolo, uno sconosciuto artista realizzò una statua bronzea di Milone ora in Holland Park, a Londra e il pittore irlandese James Barry tornò a raffigurare su tela la morte del lottatore.

533613_398329810248064_257707642_n

Una statua di Milone si trova allo stadio dei Marmi di Roma. François Rabelais citò Milone di Crotone nel suo “Gargantua”, Shakespeare fece lo stesso nel secondo atto dell’opera “Troilo e Cressida” e Alexandre Dumas descrive brevemente la figura di Milone in “Vent’anni dopo” e lo cita nel “Visconte di Bragelonne”. La Nestlè produce bevande e prodotti ispirati al famoso Milo di Crotone. La Coca Cola dedica una cartolina ai più grandi campioni Olimpici e tra di essi Milone di Crotone. Nel Maine, negli Stati Uniti, esiste una città, Milo, che prende il nome da Milone di Crotone.

RENATO DULBECCO

164614-004-D1D3E601kl.jpg

Renato Dulbecco nacque a Catanzaro il 22 Febbraio 1914 da Leonardo, ingegnere ligure del Genio Civile, e da Maria Virdia, proveniente da una famiglia di professionisti originari di Tropea. Fin da bambino fu educato dai genitori al sacrificio e allo studio, era ateo e fortemente antireligioso. All’età di cinque anni, dopo la fine della prima guerra mondiale, si trasferì in Liguria con la sua famiglia, nella casa paterna di una frazione di Imperia: trascorse un’infanzia serena che favorì la sua curiosità e la sua vocazione per la ricerca scientifica. Qui visse anche alcune esperienze, fra cui la morte dell’amico Peppino, che furono decisive per la scelta della sua carriera futura, dal momento che si accese in lui la consapevolezza dell’impotenza della medicina dinanzi a malattie molto gravi. Qui Dulbecco compì gli studi secondari, presso il Regio Liceo ginnasio Edmondo De Amicis ed il suo tempo libero lo trascorreva presso l’Osservatorio Meteorologico e Sismico della sua città dove iniziò a mostrare una spiccata propensione per le materie scientifiche e una notevole manualità tecnica che lo portarono a costruire strumenti all’avanguardia grazie a quanto aveva appreso dalla lettura di alcune riviste scientifiche del tempo come il primo sismografo elettronico, poi usato da Herlitska per registrare le contrazioni dei muscoli.

Dulbecco-lab-NY-470x260

Seguendo le orme di uno zio materno, nel 1930, a soli sedici anni, fece il proprio ingresso nella facoltà di medicina dell’Università di Torino, nello stesso anno di Rita Levi Montalcini e un anno dopo l’iscrizione di Salvador Luria, compagni con cui condividerà negli anni a venire il magistero di Giuseppe Levi, l’emigrazione negli Stati uniti e il premio Nobel. Fra i primi del corso, al secondo anno venne ammesso come interno nel laboratorio di Giuseppe Levi, anatomista di fama internazionale, nonché pioniere della coltura dei tessuti in vitro. Nell’Istituto di anatomia normale umana ebbe la possibilità di disporre «di un laboratorio e di un banco per poter lavorare» ai propri esperimenti, ma fu anche un’occasione per conoscere meglio la personalità carismatica del maestro, un docente che si era imposto alla sua attenzione per il rigore scientifico e l’«esplicito antifascismo». Dopo qualche anno, il giovane Renato lasciò il laboratorio di Levi e si trasferì presso quello di Anatomia Patologica di Ferruccio Vanzetti, divenendo anche interno all’ospedale Mauriziano, spinto dall’interesse per la clinica. Si laureò a soli 22 anni, nel 1936, con una tesi sulle alterazioni del fegato dovute al blocco nell’efflusso della bile e ricevette in quest’occasione diversi premi, essendo stato riconosciuto come il migliore laureato dell’università con la migliore tesi.

dulbecco1

Partì per il servizio militare come ufficiale medico fino al 1938. Un anno dopo é richiamato per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e inviato prima sul fronte francese e quindi in Russia. Fu una caduta sul ghiaccio e la lussazione di una spalla durante l’offensiva sul Don a garantirgli un provvidenziale periodo di congedo: una volta dimesso decise infatti di disertare le armi sino al giorno della liberazione per aiutare come medico i partigiani nascosti sulle colline torinesi e per un breve periodo fu membro del Comitati di Liberazione Nazionale. Successivamente avvia l’attività di ricerca e contemporaneamente si iscrive alla facoltà di Fisica, che frequenta e concluse dal 1945 al 1947. Su consiglio di Rita Levi Montalcini, si trasferisce negli Stati Uniti per lavorare con Salvador Luria, ormai docente all’università di Bloomington e scoprendo un mondo totalmente diverso dalla sua terra natia. Si imbarcano sulla stessa nave, la Montalcini andrà a St. Louis, lui alla Indiana University. Negli Usa Dulbecco studia certi virus che attaccano i batteri, per ciò chiamati batteriofagi. Fa la prima scoperta quasi per caso, quando si accorge che questi virus vengono riattivati dalla luce ultravioletta di un tubo al neon.

Renato Dulbecco

Il contratto di lavoro offertogli da Luria prevedeva una durata di due anni, ma date le dimostrazioni di grande capacità e acutezza dello scienziato, egli ebbe la possibilità di proseguire a Bloomington le sue ricerche, acquisendo definitivamente la cittadinanza americana. La stima da parte del suo “datore di lavoro” fu tale che nell’estate del 1948, lo invitò a lavorare con lui per alcuni mesi presso il Cold Spring Harbor, un prestigioso laboratorio in cui affluivano scienziati da tutte le parti del mondo. Intanto aveva conosciuto Max Delbruck, un collaboratore di Luria. Delbruck (Nobel 1969) lo invita al California Institute of Technology di Pasadena, più noto come Caltech, uno dei più importanti laboratori scientifici del mondo. Qui sviluppa ricerche sui virus animali che si dimostreranno utili a Sabin per la preparazione del vaccino per la poliomielite. A partire da questo momento, la fama dello scienziato accrebbe e tutta la ricerca sui virus fu rivoluzionata.

8f394a4093614c1186c4c98bbcd40466

Nel 1958 comincia ad interessarsi alla ricerca oncologica, studiando virus animali che provocano forme di alterazione nelle cellule. La scoperta più importante è la dimostrazione che il DNA del virus viene incorporato nel materiale genetico cellulare, per cui la cellula subisce un’alterazione permanente. Nel 1964 vince il premio Lasker per la ricerca medica e sempre per queste ricerche nel 1975 gli fu conferito il premio Nobel per la medicina con David Baltimore e Howard Temin. La sua sorpresa alla notizia di quest’ultimo riconoscimento si evince chiaramente da queste parole: « Il cuore mi saltò in gola. Avevo capito bene? […] Non osavo dirlo, ma facendomi coraggio mormorai: “il premio Nobel”». Alla cerimonia del Nobel, Renato Dulbecco, che era da sempre un alfiere della lotta contro il fumo, non perse l’occasione per lanciare una dichiarazione contro il tabagismo.

161301854-30310beb-ff7c-4e58-9c1a-987cf08d7f39.jpg

Dal 1972 si trasferisce a Londra, all’Imperial Cancer Research Fund, dove ha la possibilità di lavorare nel campo dell’oncologia umana, e successivamente al Salk Institute di La Jolla (California). La personalità del grande scienziato, mai pago di conoscenza, lo portò ad immergere se stesso in un nuovo colosso della scienza moderna: il Progetto Genoma, con l’obiettivo di mappare l’intera sequenza del genoma umano, in modo da comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro. Conoscere tutti i geni dell’uomo era l’anello mancante di questa catena vitale, e l’unico modo per smuovere la titubante comunità scientifica fu quello di lanciare il progetto mediante una delle riviste scientifiche più autorevoli: Science. Nell’arco di pochi mesi, furono attuate numerose iniziative, la scintilla del nuovo “ordigno” della scienza era stata innescata. Nel 1993 rientra in Italia dove lavorò presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Milano, oltre a guidare la Commissione Oncologica Nazionale e a ricoprire l’incarico di presidente emerito del Salk Institute, completando, nel 2003, la mappatura del genoma.

06mil03f3p

Renato Dulbecco è stato insignito della laurea honoris causa in Scienze dall’Università Yale ed è stato membro di diversi organismi scientifici internazionali, tra cui l’Accademia dei Lincei, la National Academy of Sciences statunitense, la Royal Society britannica e l’IPPNW (International Physicians for the Prevention of Nuclear War). Nel 1999 presenta il quarantanovesimo Festival di Sanremo insieme a Fabio Fazio e Laetitia Casta. Muore il 20 febbraio del 2012 a La Jolla, località nei pressi di San Diego dove risiedeva da anni, colpito da un infarto tre giorni prima del suo 98º compleanno.

Renato_Dulbecco_1

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, treccani.it, calabriatours.org, mediterraneoantico.it, lastampa.it, biografieonline.it.

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (3° Parte)

d706a7d5_o

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (3° Parte)

Continua il nostro excursus tra le personalità calabresi che, con la loro arte e la loro genialità, hanno cambiato le sorti della storia e della cultura italiana e mondiale. Queste pillole hanno interessato molto i nostri lettori e anche in questo articolo cercheremo  di conoscere alcuni personaggi che ci rendono orgogliosi di appartenere a questa fantastica terra chiamata Calabria.

GIOVANNI BARRACCO

BARRACCO

Il barone Giovanni Barracco nacque il 28 aprile 1829 a Isola Capo Rizzuto, nella Calabria ionica, ottavo di dodici figli, da Luigi Barracco e da Maria Chiara Lucifero dei marchesi di Aprigliano in una nobile e ricca famiglia del Regno delle Due Sicilie. Le fortune dei Barracco erano principalmente legate alle vaste proprietà terriere situate nell’odierna Calabria. L’apice della fortuna dei Barracco, che legano la loro storia a quella del latifondo calabrese, può essere stabilito al 1868 quando, dai documenti dell’archivio di famiglia, risulta che la proprietà aveva raggiunto i 30.000 ettari (una superficie di oltre 2250 chilometri quadrati), per oltre 100 chilometri di lunghezza, comprendendo un territorio che andava da Crotone, sede di un settecentesco Palazzo Barracco, fino al centro della Sila Grande. Questa proprietà faceva dei Barracco i più grandi proprietari terrieri d’Italia e la famiglia più ricca del Regno delle Due Sicilie e il padre Luigi era introdotto alla corte dei Borbone dove rivestiva cariche onorifiche (tra cui quello di Gentiluomo di Camera del Re). Giovanni Barracco trascorse i primi anni della sua vita in Calabria dove fu educato privatamente da Costantino Lopez, un erudito sacerdote originario di San Demetrio Corone. Alla morte del padre, nel 1849, Giovanni si trasferì a Napoli presso il fratello maggiore che aveva stabilito la sua residenza in un sontuoso palazzo a via Monte di Dio.La famiglia, ormai pienamente inserita negli ambienti aristocratici napoletani aveva scelto di aderire, dopo i moti del ’48, agli ideali liberali che animavano lo scenario politico dell’epoca. Erano gli anni della repressione e la famiglia prendeva le distanza dalla corte dei Borbone: mentre il primogenito Alfonso rifiutava il titolo di cavaliere dell’Ordine di S. Gennaro, anche Giovanni rispose negativamente alla proposta del giovane re Francesco II per una carica onorifica a corte e indusse la famiglia a finanziare con 10.000 ducati l’impresa garibaldina in Calabria.

giovan2

Intanto il nome che portava gli apriva le porte dell’alta società. Cominciò quindi a frequentare un circolo di intellettuali che si riuniva presso Leopoldo di Borbone, introdotto dal cognato Enrico d’Aquino principe di Caramanico (che ne aveva sposato la sorella Emilia Barracco), fratello del Re ma animato da ideali liberali. In quell’ambiente, frequentato da artisti e letterati, conobbe Giuseppe Fiorelli, il grande archeologo che divenne direttore degli scavi di Pompei e del Museo Archeologico di Napoli. Questa amicizia, che durò tutta la vita, lo introdusse all’amore per l’archeologia e l’arte antica. L’impegno politico di Barracco e le sue idee liberali lo portarono a partecipare attivamente all’organizzazione del Plebiscito e a ricoprire la carica di consigliere comunale a Napoli nel 1860, mentre nel 1861 il collegio di Crotone e quello di Spezzano Calabro lo fecero eleggere deputato nel primo parlamento dell’Italia unita come rappresentante della destra storica. In questa veste si trasferì a Torino, allora capitale del Regno, dove ritrovò l’antica passione dell’alpinismo diventando il primo Italiano ad arrivare in vetta al Monte Bianco ed al Monte Rosa, e nel 1863, primo tra gli italiani, insieme a Quintino Sella, a scalare il Monviso: da quell’avventura nacque il Club Alpino Italiano CAI che, ispirandosi ad analoghe associazioni esistenti in altri paesi europei, ha per scopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale.

LAPIDE_20PONTECHIANALE_20cai_201_1_

Tra i primi incarichi parlamentari Barracco fu chiamato a far parte della commissione che, su suggerimento di Cavour, conferì a Vittorio Emanuele II il titolo di re d’Italia. Dopo un breve passaggio a Firenze, legato allo spostamento della capitale, Giovanni Barracco giunse a Roma e scelse la città come sua patria d’elezione. Fu rieletto alla Camera dei deputati oltre che per l’VIII (quella del primo parlamento unitario) anche per la IX, l’XI e la XII legislatura, ricoprendo la carica di questore e poi di vicepresidente della Camera. In parlamento fu membro della Commissione bilancio e relatore in quella degli esteri. La sua intensa attività parlamentare di meridionalista sempre teso al progresso morale ed economico del Mezzogiorno d’Italia è ben documentata. Si prodigò con passione per sottolineare l’urgente necessità di strutture adeguate per lo sviluppo del Meridione, per favorire l’incremento dei trasporti e gli scambi commerciali, per la salvaguardia e il potenziamento del porto di Crotone, per la tutela della montagna e della collina tramite l’istituzione di una politica forestale e di rimboschimento, per l’irregimentazione delle acque, per la diffusione dell’edilizia rurale, per l’introduzione di colture più redditizie in agricoltura. Promosse e difese, assieme al conterraneo Bruno Chimirri, la Legge Speciale Pro Calabria “Provvedimenti a favore della Calabria”, per cercare di risolvere, con avanzate idee economiche e sociali, l’arretratezza della sua terra. Dal 1875, fece parte della Commissione che doveva approvare le “opere idrauliche per preservare la città di Roma dalle inondazioni del Tevere”. Nel 1886, su proposta di Agostino Depretis, Barracco fu nominato Senatore del Regno: anche al Senato ricoprì la carica di questore occupandosi attivamente e con passione dei lavori di restauro e di abbellimento di Palazzo Madama, impegno che ricordò in un volumetto edito nel 1904. In quegli anni si occupò attivamente dei provvedimenti relativi al patrimonio artistico: nel 1888 intervenne sulla creazione della Passeggiata Archeologica e sulla redazione della Legge Coppino “per la conservazione dei monumenti e degli oggetti di arte e di antichità”.

cai

Ma non dimenticò mai la Calabria: memorabile rimase un suo intervento del 1906 sui “provvedimenti a favore delle Calabrie dopo il terremoto del 1905”. Alla fine della sua vita, nel 1911 si ricorda il suo ultimo intervento di rilievo al Senato: Barracco scrisse la relazione sul disegno di legge “per la sovranità piena ed intera del Regno d’Italia sulla Tripolitania e sulla Cirenaica”, ispirata ad alti sensi patriottici. Nello stesso anno partecipò all’inaugurazione del Monumento a Vittorio Emanuele II e alle celebrazioni per il cinquantenario del Regno d’Italia: con grande commozione ricevette il caloroso applauso dell’intera aula del Senato, tributato all’ultimo rappresentante ancora vivente della commissione che nominò Vittorio Emanuele II Re d’Italia. Fu accolto nel circolo della Regina Margherita, alla quale dedicò una raccolta di poesie intitolata Regalia, con cui strinse un’intensa amicizia cementata da comuni interessi intellettuali e dalla passione per la montagna che entrambi condividevano. E fu Barracco che, a nome del Senato, porse alla Regina le condoglianze in occasione dell’uccisione del Re Umberto I.

incontro_e_visita_guidata_sul_tema_la_passione_della_collezione_giovanni_barracco_e_la_scultura_antica

La sua passione culturale fu tuttavia sempre preponderante sugli altri interessi ed attività. Questa lo portò a costituire sin dalla giovinezza una vasta biblioteca, donata poi al Comune di Roma assieme alla collezione archeologica, e comprendente l’opera omnia di autori quali Omero, Euripide, Tucidide e Senofonte, nonché testi di archeologia classica ed egizia, di cui Barracco fu grande conoscitore (fu insignito per questo della cittadinanza onoraria di Roma). Alla morte di Barracco, la collezione comprendeva oltre 380 pezzi di arte egizia, sumera, assira, etrusca, cipriota, fenicia, greca, ellenistica, italica, romana e medievale.
Giovanni Barracco morì il 14 gennaio 1914.

ALFONSO RENDANO

alfonso-rendano

Alfonso Rendano fu uno dei musicisti italiani più significativi della tradizione tardo-romantica sviluppatasi fra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Compositore versatile e originale, fu anche un pianista straordinario. Esponente della grande scuola pianistica napoletana, è poco conosciuto in Italia, ancor meno in Calabria, che pur gli ha dedicato il suo principale teatro a Cosenza. Era un musicista dalla personalità spiccata, peraltro riconosciuta dalla critica musicale del suo tempo, ma oggi la sua conoscenza è limitata a un pubblico d’essai e affidata a qualche rara incisione discografica. La critica musicale attuale ha avviato una profonda rivalutazione critica della sua opera, riconoscendogli una propria originalità stilistica ed espressiva nel panorama musicale italiano fra Otto e Novecento. Nacque a Carolei (Cosenza) il 5 aprile 1853, da Antonio e da Giuseppina Bruno. Si avvicinò precocemente alla musica, da autodidatta, suonando fin da bambino l’organo di una chiesa del suo paese. Il padre, resosi conto delle sue doti non comuni, gli fece compiere dapprima studi di pianoforte a Cosenza, e nel 1863 decise di fargli sostenere l’esame di ammissione al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, superato tanto brillantemente da sollecitare l’attenzione del direttore, Saverio Mercadante. Rimasto studente del Conservatorio napoletano per soli sei mesi, studiò poi privatamente con Nicola Nacciarone e Giorgio Miceli, il quale lo fece esordire nel 1866 al Circolo Bonamici di Napoli e fin da subito fu giudicato un raro talento musicale. Fu per breve tempo anche allievo di Sigismund Thalberg, che nel capoluogo campano aveva preso stabile dimora. Nel 1867 proprio Thalberg gli propiziò un incontro con Gioacchino Rossini a Parigi, il quale procurò al ragazzo una borsa di studio del governo italiano per poter seguire le lezioni di Georges Mathias, illustre allievo di Fryderyk Chopin. Rimasto nella capitale francese dal 1867 al 1870, Rendano mieté consensi come pianista in diversi salotti aristocratici e in alcuni concerti pubblici. Partito nel 1870 per una tournée in Inghilterra, da Londra si diresse alla volta di Lipsia, dove perfezionò gli studi con Carl Reinecke ed Ernst Richter. Le esibizioni al Gewandhaus lo rivelarono alla critica tedesca e lo misero nella condizione di intensificare l’attività pianistica. Rientrato in patria nel 1874, Rendano diede concerti in varie città italiane, non senza intraprendere altri viaggi Oltralpe.

Rendano

Conobbe Anton Rubinstein in Germania, dove si esibì sotto la direzione di Bottesini, e sarà proprio il celebre compositore e pianista russo a diffondere le musiche di Rendano in Russia. Nel 1880 a Vienna conobbe Hans von Bülow e strinse amicizia con Franz Liszt, che lo invitò a Weimar, dove Rendano si trattenne per tre mesi: qui, grazie all’intercessione dello stesso Liszt, ebbero luogo le prime esecuzioni delle due composizioni strumentali di maggior respiro concepite dal pianista italiano negli anni precedenti, il Concerto per pianoforte e orchestra e il Quintetto per pianoforte e archi. Eseguito alla corte granducale insieme a Liszt nella trascrizione per due pianoforti, il Concerto di Rendano (finito di comporre entro il 1875) aveva un carattere pionieristico in un contesto, quello italiano, dove fino ad allora mancavano quasi del tutto esempi significativi di concerti per pianoforte; per quanto scarsa sia poi stata la fortuna esecutiva, esso aprì la strada alle analoghe composizioni di Giovanni Sgambati (1880) e Giuseppe Martucci (1878 e 1885). Sorte simile ebbe il Quintetto, composto intorno al 1873, uno dei primissimi esemplari della discreta fioritura di tale genere cameristico nell’Italia dell’ultimo quarto di secolo. Al rientro da Weimar, nel settembre del 1880, Rendano sposò la pianista milanese Antonietta Trucco, dalla quale ebbe tre figli: Fausto, morto in giovane età, Franz, battezzato da Liszt, e Maria. Dopo avere suonato ancora in varie città europee, nel 1883 tornò definitivamente in Italia, producendosi più volte in pubblico e affermandosi con scelte di repertorio che lo ponevano in linea con l’impegno interpretativo di Martucci e Sgambati. Negli stessi anni compose anche un buon numero di brani pianistici oscillanti tra il pezzo caratteristico (Barcarola, Valse fantastique), lo ‘stile antico’ (Tre sonatine in stile antico), e i richiami al folclore calabrese (Il montanaro calabro, Variazioni sopra un tema calabrese).

R-8578607-1464428438-7356.jpeg

Quella di Rendano fu vera gloria, e ciò indusse il Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli a conferirgli nel 1883 la cattedra di pianoforte, che tuttavia tenne per poco tempo: a causa dell’ostilità con cui fu accolta la sua proposta di riforma degli studi musicali, imperniata sull’idea di organizzare le cattedre secondo un sistema graduale anziché parallelo, si dimise dall’incarico nell’aprile 1886. In un suo opuscolo, “In proposito dell’insegnamento musicale” (Napoli 1889), portò a sostegno delle sue idee le testimonianze e le lettere inviategli da famosi didatti come Mathias, Bülow, Reinecke e Salomon Jadassohn. Nel frattempo fondò sempre a Napoli una propria scuola di pianoforte, nella quale chiamò a insegnare Alessandro Longo e Francesco Cilea. Dal 1889 divenne direttore artistico e pianista principale della Società del Quartetto, ruolo ricoperto fino allo scioglimento dell’associazione (1891). Nel 1892 Rendano fece ritorno a Cosenza, dove rimase circa un decennio per far fronte alle difficoltà generate dal tracollo economico della famiglia. In quel periodo, ritiratosi dall’attività concertistica, si dedicò a comporre il dramma lirico Consuelo, libretto di Francesco Cimmino (tratto dal noto romanzo di George Sand, che ha tra i personaggi Nicola Porpora, insegnante di canto della zingarella eponima). La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Regio di Torino il 24 marzo 1902: lontano dal linguaggio verista, questo unicum teatrale di Rendano riscosse un certo interesse nella critica che ravvisò nella partitura una «copiosa vena melodica» e una «padronanza assoluta della tecnica armonica e strumentale» (Valetta, 1902, p. 743).

51FHsMHDalL.jpg

Tornato a Napoli nel 1901, poco dopo Rendano si stabilì definitivamente a Roma, riprendendo anche l’attività concertistica. Fra il 1904 e il 1909 ebbero una certa risonanza i grandi cicli di concerti intitolati “Letture ed interpretazioni musicali”, tenuti a Napoli, Roma e Milano: sviluppando gli esempi dei ‘concerti storici’ di Anton Rubinstein, Rendano propose serie di esecuzioni integrali di capisaldi della letteratura per tastiera dal Settecento fino al tardo Ottocento, includendo le 32 Sonate di Beethoven e tutti gli Studi di Chopin. Negli anni intorno al primo conflitto mondiale Rendano diradò sempre di più le apparizioni pubbliche fino all’ultimo concerto, dato al Teatro Valle di Roma nel 1925. Si dedicò allora in prevalenza all’insegnamento privato e a ricerche sulla meccanica del pianoforte. Introdusse in quel tempo un terzo pedale allo scopo di aumentare l’espressività e la possibilità di estensione di un suono o un accordo determinato indipendentemente dagli altri suoni: quest’innovazione, brevettata nel 1919 come “pedale indipendente” o “pedale Rendano”, costituì un passo avanti rispetto al pedale tonale (introdotto nei pianoforti Steinway nel 1874). La sua produzione comprende circa settanta brani per solo pianoforte, un Concerto per pianoforte e orchestra, un Quintetto per pianoforte e archi, un Allegro in La minore per due pianoforti, l’opera Consuelo ed alcune composizioni d’insieme, fra le quali la Marcia funebre in morte di un pettirosso per piccola orchestra. In particolare, il citato Quintetto per pianoforte e archi, riassume in modo emblematico lo stile e la poetica del maestro Rendano, sospeso fra il Romanticismo di matrice tedesca e una certa musicalità tipica della tradizione popolare calabrese. Significativo, in tal senso, il movimento centrale Trio “alla calabrese”, che ripropone il tema di un antico canto popolare calabro che filosofeggia sulla morte. Morì a Roma il 10 settembre 1931.

sala-grande1

Nel 1935 gli fu intitolato il teatro di tradizione Comunale di Cosenza, fulcro delle attività artistiche dell’intera Regione. Di stile neoclassico ottocentesco, dove spiccano belle decorazioni pittoriche e in stucco, ha forma a ferro di cavallo con tre ordini di palchi e una galleria e con una capienza di 800 posti.

RINO BARILLARI

esterne311217023105121810_big.jpg

Saverio Barillari detto Rino è nato a Limbadi nel 1945 e per le sue doti da fotografo dei vip è soprannominato “The King of Paparazzi” (il re dei paparazzi). Le sue parole esprimono al meglio i suoi inizi: «Conoscevo tutti i personaggi dello spettacolo perché aiutavo mio zio, titolare della sala cinematografica del paese in cui sono nato, Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. Poi decisi di andare a vederlo dal vivo, quel mondo. Arrivai a Roma con due amici. Loro non hanno resistito, e dopo un po’ sono tornati a casa. Io sono rimasto, e sono ancora qui. È stata dura. Dovevo cercarmi da mangiare e da dormire. Ho fatto sacrifici perché non ero raccomandato. E dovevo pure stare attento a non fare casino, sennò la polizia mi rimpatriava. In un certo senso ero un po’ come un immigrato clandestino». Trova lavoro aiutando gli “scattini”, accompagnandoli nei loro appostamenti venatori non autorizzati fra piazza di Spagna e piazza del Popolo, Fontana di Trevi e, soprattutto, a via Veneto. Di lì a poco, compra una macchina fotografica, una Comet Bencini. Vende i negativi delle foto scattate di giorno ad agenzie giornalistiche come Associated Press, UPI e ANSA. Da mezzo secolo fa questa vita. Mai avrebbe immaginato di diventare lui stesso un pezzo di quella storia italiana che va raccontando col suo lavoro. Lui è un “fotografo per caso”: “Non sono andato a scuola. Ma ho avuto la grande fortuna di vivere accanto ai migliori fotoreporter del mondo. Loro mi hanno fatto capire la fotografia. Io sapevo a malapena cosa fosse una pellicola… All’inizio, per sbarcare il lunario, facevo il loro fattorino. Poi, senza che se ne accorgessero, ho imparato il mestiere. Apprendevo la tecnica senza rompergli le scatole. Facevo finta di sbagliare e dal modo in cui meccanicamente mi correggevano capivo e rubavo i trucchi del mestiere. Del resto, anch’io nel mio piccolo spesso risultavo molto utile alle loro eroiche performance di paparazzi, ad esempio quando mi usavano come “provocatore”. Nel momento in cui individuavano il vip, mi mandavano in avanscoperta come un minuscolo centravanti di sfondamento. Io creavo confusione poi loro arrivavano e colpivano la vittima famosa con mitragliate di scatti.”

BARILLARI_RINO_ANNI_80

Il celebre fotoreporter della “dolce vita” capitolina, il ragazzo di Calabria approdato nella capitale alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, conosciuto in tutto il mondo, è un instancabile cacciatore di prede famose,ancora oggi attivissimo. Innumerevoli i suoi trofei, tra cui le celebri stars internazionali rimaste per sempre impigliate nelle sue pellicole come i Beatles, Marlon Brando, Audrey Hepburn, Jean Paul Belmondo, Kirk Douglas, Shirley McLaine, Richard Burton, Liz Taylor, Peter O’Toole, Frank Sinatra, Ingrid Bergman, Brigitte Bardot, per non parlare delle stars nostrane come Virna Lisi, Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Vittorio Gassmann, Anna Magnani, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, e ai vips più moderni come Robert De Niro, Sylvester Stallone, Al Pacino, Francis Ford Coppola, Michael Jackson, Demi Moore, Angelina Jolie, Elton John, Matt Damon, Madonna, Maradona e Lady Gaga. Inutile tentare di stilare l’elenco completo. Impossibile. Una rissa con Peter O’Toole in Via Veneto gli porta la notorietà. È il 1963, l’attore gli spacca un orecchio e il padre del giovane Barillari sporge denuncia perché minorenne. Durante 54 anni di carriera da paparazzo Rino Barillari ha collezionato 162 visite al pronto soccorso, 11 costole rotte, 1 coltellata, 76 macchine fotografiche fracassate, 40 flash divelti, numerose manganellate durante i tumulti di piazza e coinvolto in diverse sparatorie (terrorismo, rapine, rapimenti e fatti di cronaca nera). Dagli anni sessanta in poi Barillari si occupa di cinema, degli anni di piombo e di vari episodi di cronaca nera lavorando per Il Tempo e dal 1989 per Il Messaggero.”Sono stati tempi duri, in cui ho pianto e sofferto molto. Mi è capitato di fotografare amici stesi a terra, sul punto di morire: pochi minuti dopo non c’erano più, non facevano neppure in tempo ad arrivare in ospedale. In quei momenti molti mi hanno accusato di cinismo, ma poi si è compreso il valore di quello che stavo realizzando. Era doloroso, eppure bisognava rendere una testimonianza, bisognava fare la storia”.

RinoBarillari-Rino-Barillari-1963

Il Re dei “paparazzi” è un epiteto di cui va fiero infatti racconta: “Lo portò alla ribalta Fellini nella “Dolce vita” e deriva proprio dalla Calabria infatti lo prese dal libro “Sulle rive dello Jonio” di George Gessing (Coriolano Paparazzo era un albergatore catanzarese che aveva ospitato lo scrittore inglese nel suo viaggio in Calabria), e oggi è il terzo vocabolo italiano più conosciuto nel mondo. Come non esserne fieri? Il problema è che è un mestiere in via di estinzione. Con la scusa degli scandali ne stanno distruggendo la credibilità. Oggi chiunque può improvvisarsi paparazzo. Basta un cellulare e si va all’arrembaggio, per sfornare tonnellate di foto postprodotte, finte. E poi dilagano i servizi anonimi costruiti. Questo crea un bel po’ di difficoltà a chi come me ci mette la firma e la faccia.” E continua: “Sono cambiate le tecnologie per la fotografia, adesso ci sono le macchine digitali e i grandi obiettivi. Ma soprattutto sono cambiati i personaggi. Oggi la star è costruita da un’équipe: c’è una produzione intera dietro a un personaggio, che di sé offre in ogni momento un’immagine studiata nei dettagli. Al reporter non rimane niente da documentare se non quello che la star stessa vuole mostrargli: non si può entrare nella sua vita privata, è tutta una finzione. Sono più stanchi, annoiati. Stufi anche della gente che li ferma per i selfie. Alcuni si autopromuovono pubblicando gli scatti sui propri siti. E il servizio se lo fanno da soli: l’attore rivela di essere innamorato, l’attrice di essere incinta. Che gusto c’è mostrare fotografie ritoccate e bellissime, di dive che appaiono lontane anni luce dalla gente comune?”. È stato nominato docente honoris causa in fotografia presso la Xi’an International University nell’ottobre 2011 e Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana il 2 giugno 1998. Molte sono state le mostre dei suoi scatti nel mondo tra cui le più importanti a Roma, Gerusalemme, Stoccarda, Mosca, Los Angeles, San Pietroburgo e Xi’an. Ha partecipato ad alcuni film dove per lo più ha rappresentato se stesso tra cui “Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica, “Stanno tutti bene” di Giuseppe Tornatore, “Paparazzi” di Neri Parenti, “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino e “Frank and Ava” di MIchael Oblowits per citarne qualcuno.

Ecco cosa pensa Barillari della fotografia: “La fotografia è la storia fissata e raccontata per immagini, il suo carattere fondamentale è la possibilità di immortalare l’istante: è questo che voglio fare con il mio lavoro. La mia idea è di fermare e comunicare l’importanza di un determinato momento, o di un particolare personaggio in quel momento; si può anche sbagliare lo scatto, ma ciò che conta per me, al di là del valore artistico di un’immagine, è documentare. Una volta che lo si è fotografato, si consacra l’istante alla storia. Quando ho iniziato a lavorare non pensavo che i miei scatti avrebbero assunto questo significato, me ne sono reso conto dopo. Hanno iniziato a parlare delle mie fotografie, sono stato anche molto criticato, ma si è riconosciuto che in quelle immagini c’era la storia del nostro Paese.”

 

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, eccellenzecalabresi, treccani, utopiecalabresi, italianways.com, libreriamo.it

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

Come promesso continuiamo la carrellata di personaggi importanti della nostra Calabria. Nelle puntate precedenti (da leggere con voce baritona), abbiamo parlato di Telesio, Barlaam, D’amico. Viste le reazioni dei lettori, è evidente che l’obiettivo è stato raggiunto, incuriosire e far conoscere nomi noti e meno noti. In questa seconda parte incontreremo personaggi di epoche diverse, che per molti sono fonte di ispirazione grazie al loro pensiero.

TOMMASO CAMPANELLA

Tommaso_Campanella_1.jpg

Tommaso Campanella, al secolo Giovan Domenico Campanella, nasce a Stilo in Calabria, il 5 settembre 1568, da povera famiglia. Entra in un convento domenicano a tredici anni prendendo il nome di fra Tommaso. La sua formazione è fortemente influenzata dal filosofo calabrese Bernardino Telesio (1509-1588), da cui riprende le posizioni antiaristoteliche e naturalistiche. Sulla sua scorta scrive un’opera in latino, Philosophia sensibus demonstrata [La filosofia dimostrata attraverso i sensi], che gli attira le persecuzioni della Chiesa. Arrestato a Napoli, dove frequentava Giambattista Della Porta, esperto in magia naturale e in arti occulte, Tommaso Campanella subisce un primo processo nel 1592. Fugge viaggiando da una città all’altra, ma a Padova, dove conosce Galileo Galilei, è nuovamente arrestato; portato a Roma, dove resta in prigione per alcuni mesi, viene costretto all’abiura e poi condannato a ritornare in un convento calabrese. Nel 1599, in Calabria, dove le masse contadine erano costrette a subire, in terribile miseria, l’oppressione della Spagna e della Chiesa, Tommaso Campanella organizza una rivolta popolare che avrebbe dovuto instaurare una società teocratica secondo il modello poi esposto nella Città del sole. La congiura viene scoperta. Tommaso Campanella, arrestato nel novembre 1599, può salvarsi solo fingendo di essere pazzo: i folli, infatti, non potevano essere condannati a morte. Nonostante venga torturato più volte, riesce a resistere alle sofferenze e a restare fedele alla propria finzione. Così viene condannato all’ergastolo, a Napoli, nel 1602.

Tommaso_Campanella
In carcere resta per 27 anni, dal 1599 al 1626. Qui scrive La Città del sole, le poesie e molte delle sue opere filosofiche, fra difficoltà incredibili di ordine materiale e intellettuale che lo costringono a venire a patti con le autorità: cosicché non è facile capire quanto, in questo periodo, risponda al suo effettivo pensiero e quanto, invece, alle esigenze di un compromesso con la Chiesa. Per l’intervento del papa Urbano VIII, Tommaso Campanella riottiene la libertà, dapprima condizionata e limitata, poi definitiva, vivendo a Roma, nella cerchia di intellettuali e di prelati che assistevano il pontefice. Ma nel 1633 la scoperta di una congiura antispagnola in cui è coinvolto un suo discepolo, lo pone di nuovo in una posizione di pericolo, cosicché l’anno successivo si rifugia in Francia, alla corte di Luigi XIII. Qui prepara un piano di pubblicazione delle sue opere in dieci volumi, ma riesce a pubblicarne solo tre, perché muore il 21 maggio 1639.

campanella_big
Nella cultura di Tommaso Campanella confluiscono tendenze diverse: da quelle dei movimenti ereticali del Medioevo (si pensi a una figura come quella del monaco calabrese Gioacchino da Fiore, 1130-1202, la cui concezione religiosa era fondata sull’attesa della fine del mondo, profetizzata per l’anno 1260, e dell’avvento successivo di un nuovo “millennio”, in cui Dio e il Bene avrebbero governato la vita umana) a quelle del naturalismo, del magismo e dell’ermetismo che avevano caratterizzato la cultura platonica rinascimentale; dalla cultura popolare calabrese, con la sua concezione magica e animistica della natura, alla teologia della Controriforma, che mirava a unire potere politico e potere religioso (programma ripreso infatti da Tommaso Campanella). Della cultura rinascimentale egli riprende la tendenza alla magia, non il metodo scientifico e razionalistico; la spregiudicatezza intellettuale, non l’individualismo né la fiducia nell’azione del singolo; egli privilegia invece l’aspetto comunitario, sociale, collettivo spingendosi fino a ipotizzare una società comunistica nella Città del sole.

Campanella_Civitas-solis_colore-1024x903

Tommaso Campanella scrisse le sue poesie perlopiù in carcere. Un gruppo di 89 venne pubblicato nel 1622 in Germania, per interessamento dell’amico Tobia Adami, con il titolo Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla (pseudonimo di Tommaso Campanella), accompagnate dal commento dell’autore. Sono sonetti, madrigali, odi e tre elegie «fatte con misura latina» (è uno dei primi tentativi di rendere nella metrica italiana quella latina), tutti componimenti scritti fra l’inizio del secolo e il 1613.
Le poesie di Tommaso Campanella partono spesso da temi autobiografici (anzitutto quello del carcere) per innalzarsi sino all’esaltazione della superiore missione del poeta, alla condanna dei vizi e delle ipocrisie dominanti, alla riproposizione dei motivi politici che parallelamente confluiscono nella Città del sole.
Accanto alle opere in latino (come la Philosophia realis [Filosofia reale], la Theologia e la Metaphysica) spicca il trattato in volgare, scritto nel 1604, Del senso delle cose e della magia. Il mondo vi è immaginato come un animale, come un organismo vivente i cui vari aspetti sono tutti dotati di sensibilità. Tutta la natura dunque è pervasa da un’unica vita, da un’anima comune: la morte è solo un momento necessario alla continuazione di questa vita perpetua. La magia permette di intervenirvi così come l’astrologia concede di prevederne gli sviluppi. Dio si identifica con il processo naturale guidandolo verso una complessiva conciliazione di tutte le cose, verso un’armonia universale che si realizza progressivamente nel flusso stesso dell’esistenza. Il progetto politico si inserisce appunto in questa fiducia. Si tratta di portare a compimento quanto è già previsto dal piano di Dio. Il teorico della politica è dunque anche un profeta.

civitas-solis
Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all’esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea (materia).
citta1g.jpg
Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all’azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l’America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l’uomo e pertanto afferma l’esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di autocoscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus’, che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus’ che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d’Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus’ sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito’: io penso quindi esisto (cogito ergo sum).
thumbnail-by-url
In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l’ordine universale dell’universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il cristianesimo è l’unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma al contempo coincide con l’ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.
Civitas Solis
Campanella fu autore anche di un’importante opera di carattere utopico, ovvero La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all’Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell’utopismo campanelliano è da annoverare anche La nuova Atlantide di Ruggero Bacone. L’utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere. L’incertezza è già evidente nell’interpretazione della critica idealistica, che nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell’opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale.

city-of-the-sun2
Per Silvio Spaventa, Campanella è il “filosofo della restaurazione cattolica”, in quanto, la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: “Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo”. È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi “sono vani se non hanno per base l’istruzione e la felicità delle classi più numerose”. Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo.

PASQUALE GALLUPPI

Pasquale_Galluppi
Pasquale Galluppi nacque a Tropea il 2 aprile del 1770 da un’antica casata nobiliare e possidente terriera. Formato al cattolicesimo, dopo i primi studi incentrati soprattutto sulla filosofia e sulla matematica, nel 1788 fu mandato a Napoli a studiare giurisprudenza. Egli tuttavia disattese il volere paterno: apprese il greco con Pasquale Baffi, seguì le lezioni di teologia (passione nata già ai tempi di Tropea grazie alla Teodicea di Gottfried Wilhelm von Leibniz e alle opere di Christian Wolff) di Francesco Conforti e si dedicò a una lettura attenta dei testi biblici e dei Padri della Chiesa, dalla quale fin da subito emerse un interesse peculiare per gli scritti e la figura di sant’Agostino. Dopo il suo ritorno nella città natale, nel 1794, egli proseguì gli studi filosofici, approfondendo in particolare testi appartenenti alla scuola cartesiana. Al 1795 risale il deferimento da parte del Sant’Uffizio di Roma a causa di una dissertazione di teologia tenuta presso la Regia accademia degli Affaticati di Tropea circa l’idea che le «supposte virtù dei pagani […] mancanti della vera carità debbono dirsi vizi» (L. Meligrana, prefazione a P. Galluppi, Memoria apologetica, a cura di L. Meligrana, 2004, p. XXIX). Per difendersi dall’accusa di eresia egli compose una Memoria apologetica ispirata a sant’Agostino, il cui pensiero ritenne essere la difesa più efficace della propria innocenza. L’introduzione a tale scritto fu redatta da monsignor Carlo Santacolomba, le cui teorie gianseniste, cariche di ferrea intransigenza morale e caratterizzate da salde «tendenze anticurialiste e antitemporaliste»  sono ben riconoscibili.

Statue_of_Pasquale_Galluppi_-_Tropea_-_Italy_2015_(2)

Al 1799 è datato invece il coinvolgimento nei fatti della Repubblica partenopea. Alcuni anni più tardi ricoprì la carica di Controllore delle contribuzioni dirette per diciassette anni, dunque sia sotto i Napoleonidi che sotto il governo dei Borboni. Intorno al 1800 scoprì Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), un autore che egli non solo ritenne importante, ma addirittura un punto di svolta di tutto il suo percorso di studio e di pensiero. Il sensismo dell’abate francese, insieme all’empirismo dell’Essay concerning human understanding di John Locke (1632-1704), fu infatti il viatico per uno scandaglio filosofico di tipo analitico-fondativo precedente ogni ricerca metafisica su Dio e sull’universo. Pur essendo per indole lontano da ogni estremismo, dunque, tra i due schieramenti – dei giacobini e dei sanfedisti – il pensatore tropeano non solo fu vicino per formazione intellettuale alla causa giacobina, ma si adoperò anche, tramite la traduzione di fogli propagandistici in favore delle truppe del generale francese Championnet, perché questa potesse diffondersi. L’episodio fu causa del suo imprigionamento nella fortezza di Pizzo quando la città di Tropea si assoggettò alle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, contro il quale il nostro si scagliò duramente nel primo scritto politico intitolato Pensieri filosofici sulla libertà individuale compatibile con qualunque forma di governo, risalente al 1805, che tuttavia, forse per prudenza, non diede alle stampe e che rimase inedito fino alla pubblicazione nel 1865. Tale scelta di comodo non deve tuttavia far dimenticare il valore delle parole, queste sì non ambigue, rivolte contro un clero che svilisce «il vero spirito del Cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo» e che ha permesso a «un Cardinale di comandare delle masse di ribaldi e di fanatici» e di «innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e di ogni sorta d’iniquità» (Tulelli 1865, pp. 111-12).

memoria

Il 1820 è l’anno dei moti carbonari in Piemonte e nel Regno di Napoli: questo nuovo fervore gli ispirò, tra l’altro, la composizione degli Opuscoli politico-filosofici sulla libertà. In questi libelli troviamo interventi a favore “della eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni e della propria industria”, oltre che della libertà di stampa e di culto, interventi stimolati tra l’altro da avvenimenti come la promulgazione della legge sulla libertà di stampa nel Regno di Napoli, risalente al 26 luglio 1820, e dalle discussioni sui principi costituzionali e sulle libertà civili che avevano luogo all’interno del Parlamento del Regno. La difesa di un liberalismo monarchico-costituzionale può spiegare anche la presa di posizione a favore del re Ferdinando I, contenuta nello scritto intitolato Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli, che appare a tutti gli effetti non solo una valutazione storica errata, ma anche una triste contraddizione rispetto alla memoria dei martiri del 1799, considerato che il re aveva fatto massacrare buona parte dell’avanzata intellighenzia illuminista napoletana, tra cui anche i maestri del filosofo Conforti e Baffi. Essa, infatti, potrebbe rientrare in un orizzonte più ampio, finalizzato a salvaguardare in ogni modo l’identità di uno Stato, che egli chiama già «nazione» (Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, cit., p. 85), delineando una posizione netta contro l’ingerenza straniera nel territorio italiano.  Il cambiamento di prospettiva sarebbe dovuto quindi proprio alla necessità di perseguire con la maggiore efficacia possibile un progetto nazionale di autonomia per gli Stati italiani. È per questo che «nel nome del filosofo di Tropea» si è inteso evocare la rinascita speculativa della Nazione Italiana, quale simbolo e auspicio di quello che sarebbe stato, più tardi, l’agognato risorgimento politico della nostra terra.

Galluppiweb

Con i suoi scritti egli pone al centro una questione politico-civile fondamentale: quale è quella libertà civile, di cui deve godere il cittadino, in rapporto al potere politico in generale, prescindendo da qualunque forma di governo? In primo luogo vi è per Galluppi la libertà di pensare, che nessun errore o eccesso può limitare, e di seguito la libertà di stampa, di cui tuttavia sono ammessi alcuni vincoli rispetto alla religione. Egli sostiene la possibilità per ciascuno di non uniformarsi alla religione di Stato e l’illegittimità di azioni da parte dello Stato stesso che forzino in qualche modo scelte e libertà dell’individuo in questo campo: si tratta però appunto di libertà di coscienza, e non di libertà di culto, rispetto alla quale la decisione è invece rimessa allo Stato. Questa limitazione è connaturata a un concetto stesso di libertà di ispirazione essenzialmente giusnaturalistica, intesa come un diritto naturale precedente ogni ordinamento positivo.

targa-pasquale-galluppi.gif

Lungimirante e all’avanguardia per i tempi resta tuttavia la sua posizione a favore del matrimonio civile, il cui significato di principio in termini legislativi e sociali è evidente quanto innegabile: in forza della libertà di coscienza già riconosciuta, la legislazione non può più riguardare il matrimonio se non come un contratto civile; altrimenti il cittadino non avrebbe la libertà di essere non conformista. «La libertà di essere non conformista»: in questa espressione si racchiude l’essenza del Galluppi teorico e filosofo della libertà. Le sue istanze e spinte liberali, pur se mediate sovente da una distanza di comodo, indicano tuttavia un elemento centrale della sua dimensione politico-civile destinato a riversarsi in maniera coerente e sentita nell’opera filosofica, ovvero il primato della coscienza. La “filosofia dell’esperienza” galluppiana è a tutti gli effetti un tentativo di riscrittura e di oltrepassamento del criticismo gnoseologico kantiano. Una gnoseologia elaborata per superare sia gli eccessi dogmatico-soggettivi del razionalismo sia quelli scettico-oggettivi dell’empirismo in una conciliazione teorica che neanche nelle tre Critiche sarebbe stata raggiunta. Secondo Galluppi, il discorso kantiano è messo in crisi in maniera decisiva proprio dalla constatazione che un fenomeno suppone necessariamente due realtà; quella del soggetto, a cui qualche cosa apparisce; quella della cosa che al soggetto si mostra. L’accesso al fenomeno dunque non è solo mera espressione o proiezione di un soggetto, ma è sempre interazione di soggetto e oggetto; ciò induce a individuare una dimensione che garantisca proprio tale interazione: la coscienza: «io percepisco il me, il quale percepisce un fuor di me». Giungiamo così al cuore della filosofia morale del filosofo tropeano: i precetti morali non sono né massime né imperativi, ma verità primitive che si fondano sull’esperienza, pur se prescritti dalla ragione: «l’esistenza de’ doveri, e perciò del bene e del male morale è una verità primitiva, che la Coscienza ci manifesta».

elementi-filosofia-barone-pasquale-galluppi-tropea-71177465-36c8-43d7-842a-65f8d339f758

Nel 1831 si insediò con successo presso la cattedra di logica e metafisica dell’Università di Napoli. Intanto la sua fama di studioso si diffondeva non solo in Italia (dove fu insignito di molte onorificenze), ma anche all’estero. Una testimonianza di siffatta considerazione proviene dal privilegiato rapporto con l’ambiente culturale francese, che fu suggellato nel 1838 con la nomina a socio corrispondente estero dell’Académie des sciences de l’Institut de France e nel 1841 con il conferimento della Legion d’onore. Galluppi morì a Napoli, al suo tavolo di lavoro, il 13 dicembre 1846.

 

LUIGI GIGLIO (LILIO)

Mezzobusto-Lilio-Capoano.jpg
Luigi Giglio, in latino Aloysius Lilius, nacque intorno al 1510 a Cirò, presso Crotone, in Calabria, da una famiglia di modeste condizioni. Delle vicende della sua vita ben poco si sa, tanto che in passato ne è stata persino messa in dubbio l’origine calabrese e il nome di battesimo è stato indicato nella forma di Alvise Baldassarre. Luigi Lilio, medico e astronomo, ideò la riforma del calendario, promulgata da Papa Gregorio XIII (da cui prese il nome) nel 1582. Fu una delle piu’ importanti riforme del Rinascimento italiano, ideata da Lilio e portata avanti a Roma, nella seconda meta’ del XVI secolo, da un gruppo di calabresi guidati dal Cardinale Guglielmo Sirleto.  Insieme al fratello Antonio, frequento’ l’Universita’ di Napoli dove si laureo’ in medicina, non tralasciando pero’ di coltivare la passione per la matematica e l’astronomia. Nella città partenopea era agli stipendi della famiglia Carafa, feudatari di Cirò, non essendo sufficienti le magre sostanze paterne per potere attendere agli studi. Dopo una permanenza presso l’Universita’ di Perugia, quale docenti di medicina nel 1552, i fratelli Lilio frequentarono un influente gruppo di intellettuali che facevano capo all’Accademia delle Notti Vaticane, fondata a Roma dal Cardinale Sirleto e dal Cardinale Carlo Borromeo.  A quanto sembra Giglio dedicò l’ultimo decennio della vita a perfezionare la sua proposta di riforma del calendario, ma morì prima che questa fosse presentata al papa.

330px-Bolla_intergravissima_riforma_calendario

Il grande problema astronomico-confessionale che Lilio si trovo’ ad affrontare era stato posto quando il Concilio di Nicea stabili’ che la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima domenica dopo il plenilunio di primavera. In epoca successiva pero’ era stato evidenziato che l’anno solare risultava piu’ lungo di 11 minuti e 14 secondi, per cui ogni 128 anni si sommava un giorno in piu’ (13 giorni nel 1500). Nel tentativo di risolvere il rompicapo, tutti i piu’ grandi astronomi e matematici di varie epoche si erano cimentati inutilmente. Fu Lilio a proporre di calcolare l’anno solare in base alle Tavole Alfonsine: in questo modo la durata dell’anno solare risulto’ essere di 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 12 secondi. La proposta di ricondurre l’equinozio di primavera al 21 marzo, eliminando dieci giorni e sopprimendo il bisesto a tutti gli anni centenari non multipli di 400 (gli anni centenari venivano cosi’ calcolati normalmente ad eccezione di quelli le cui prime cifre erano divisibili per quattro – 1700, 1800, 1900 – mentre il 2000 era considerato a cadenza normale), alla fine risulto’ vincente. L’anno di 366 giorni fu detto bisestile, perché quel giorno complementare doveva cadere sei giorni prima delle calende di marzo (facendo raddoppiare il 23 febbraio), e chiamarsi così bis sexto die ante Kalendas Martias (nel doppio sesto giorno prima delle calende di marzo). Inoltre, al fine di una più corretta misurazione delle lunazioni, essenziale per indicare il termine pasquale, il Giglio propose di sostituire al sistema del ciclo metonico (che prevedeva l’intercalazione, in un periodo di 19 anni composti ciascuno di 12 mesi, di altri sette mesi) un nuovo metodo basato sul calcolo delle epatte, di cui redasse delle tabulae.

Bassorilievo_mausoleo_Gregorio_XIII

Sfortunatamente Lilio non pote’ seguirne il destino perche’ mori’, nel 1576, dopo una grave malattia. Nel 1577 Antonio Lilio presento’ pero’ il lavoro del fratello a Papa Gregorio XIII che lo accolse con molta gratitudine. Nello stesso anno venne stampato un volumetto che riportava le osservazioni di Luigi Lilio con i passaggi piu’ significativi, i calcoli e le tavole del nuovo calendario. La stampa venne eseguita a cura del Cardinale Sirleto, sorta di ‘deus ex machina’ dell’impresa, e curata da Pietro Ciaconio, esperto in Storia della Chiesa per le implicazioni civili ed ecclesiastiche, e Cristoforo Clavio, gesuita di Bamberga, astronomo e matematico, direttore dell’Osservatorio Vaticano. Nell’ultima pagina era possibile leggere la proibizione, da parte di Sirleto, pena la scomunica, di vendere o ristampare il volume.Dopo innumerevoli polemiche e veleni, il 14 settembre 1580, la Congregazione voluta da Gregorio XIII presento’ la relazione conclusiva dal titolo “Ratio corrigendi festes confirmata et nomine omnium qui ad calendarii correctionem delecti sunt oblata SS.mo D.N. Gregori XIII”. Di questo testo esistono due copie: l’una conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’altra presso la Biblioteca Casanatense di Roma. Il 24 febbraio 1582 il documento venne poi firmato e promulgato dal pontefice che, in data 5 marzo 1582, lo fece pubblicare, per affissione, sulla porta della Basilica di San Pietro.

FOTO

Un’intuizione che, in breve tempo, divento’ oggetto di discussione tra esperti di matematica ed astronomia. Astronomi e matematici, come Giuseppe Giusto Scaligero, Georgius Germanus e François Viète non approvarono la riforma liliana e cercarono in tutti i modi di creare calendari alternativi senza però riuscirci. James Heerbrand, professore di teologia a Tubinga, presentò le sue obiezioni nel Disputatio de adiaphoris et calendario gregoriano, tanto che accusò il papa, da lui definito “Il Calendarista”, di essere “l’Anticristo” che aveva creduto di poter mutare il tempo, ingannando i veri cristiani a celebrare le festività religiose in giorni volutamente sbagliati. In un altro scritto polemico, i cui principali autori furono Maestlin e il teologo Osiander, si argomentava che il papa avesse rubato dieci giorni dalla vita di ciascuno, i contadini non sapevano più quando arare o seminare i campi e gli uccelli smarriti non sapevano più quando cantare o emigrare. La prima difesa del calendario fu pubblicata nel 1585 ad opera del gesuita Johannes Busaeus, le cui argomentazioni, dirette principalmente contro le posizioni del teologo Heerbrand, vertono sulla correttezza scientifica e soprattutto interpretativa della riforma rispetto alle direttive del Concilio di Nicea. Tycho Brahe e Giovanni Keplero, gli astronomi più autorevoli del tempo, nonostante fossero protestanti, fattore che indubbiamente limitava le loro pubbliche dichiarazioni, considerarono la riforma elaborata da Lilio perfetta da un punto di vista scientifico. Keplero lasciò un articolo, pubblicato dopo la sua morte, nel quale presenta le sue argomentazioni in forma di dialogo tra un cancelliere protestante, un predicatore cattolico e un esperto matematico. La frase finale di questo dialogo è illuminante: ”La Pasqua è una festa e non un pianeta. Tu non puoi determinarla con giorni, ore, minuti e secondi.” L’opinione di Brahe è nota grazie a due lettere nelle quali l’autore afferma che le critiche mosse dagli astronomi contrari alla riforma erano dettate non da rigore scientifico ma da avversione verso il pontefice.

luigi_lilio_giglio_calendario_gregoriano

Egidio Mezzi, storico di Lilio, afferma: ‘Matematici ed astronomi italiani e stranieri non danno il giusto rilievo a questa straordinaria figura  che riusci’ ad elaborare un calendario che ancora oggi, nonostante i ritmi vertiginosi raggiunti dalla scienza, non e’ stato superato”. Il fisico Antonio Zichichi in un’intervisse disse del Giglio: “Il mio interesse per Luigi Lilio nasce dal fatto che se fosse stato un inglese, un tedesco o una persona non italiana a scoprire il calendario perfetto lo saprebbero tutti, invece nessuno sa che e’ stato un italiano. Nessuno sa che e’ stato Aloysius Lilius, nato a Ciro’ in Calabria, a elaborare questo calendario passato alla storia con la benedizione di Papa Gregorio XIII, un bolognese. Bologna e’ la mia citta’ universitaria. Penso sia corretto rendere omaggio a questi due grandi personaggi della storia d’Italia e del mondo”. Il Calendario Gregoriano elaborato da Aloysius Lilius, ha detto Papa Giovanni Paolo II agli scienziati della World Federation of Scientists è: «… un contributo tra i più significativi e duraturi offerto dalla Cultura Cattolica sin dal lontano 1582 a tutti i popoli del mondo».

330px-Relazione_finale_mezza

Il Calendario Gregoriano venne man mano adottato nei diversi Paesi del mondo: in Italia, Portogallo e Spagna nell’ottobre del 1582; nel dicembre dello stesso anno in Francia e nei Paesi Bassi di Fede Cattolica. Diciotto anni dopo, nel 1600, venne adottato in Scozia. Bisogna attendere il 1700 per vederlo in uso nei Paesi di Fede Protestante: Danimarca e Norvegia. E addirittura il 1752 per vederlo in uso nel Regno Unito d’Inghilterra. Nei paesi di Fede Ortodossa andò in vigore tra il 1916 e il 1923. In Russia fu introdotto nel 1917. In Cina il governo repubblicano adottò il Calendario Gregoriano il 20 novembre 1911. Negli usi comuni però rimase in vigore il vecchio Calendario finché il governo di Nanking stabilì che col 1º gennaio 1930 il solo Calendario valido a tutti gli effetti giuridici dovesse essere quello Gregoriano di Aloysius Lilius. È attraverso queste diverse fasi che oggi, per la prima volta nella storia del mondo, tutte le Nazioni si trovano ad avere lo stesso Calendario.

Nel 2012 la Regione Calabria ha istituito la Giornata del Calendario in memoria di Luigi Lilio fissandola per il 21 marzo di ogni anno.

Il cratere Lilius sulla Luna prende il suo nome.

Cirò-Lilio-Caruso-resta-una-sfida-culturale5

 

Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria, adnkronos, eccellenzecalabresi, treccani.

 

 

 

 

 

 

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (1° Parte)

d706a7d5_o

Iniziamo quest’altra rubrica sulla Calabria, dopo aver evidenziato bellissimi castelli, aree archeologiche, miti e leggende, o Città fantasma. Questa volta vogliamo parlarvi di personaggi noti e meno noti, da Filosofi a Scienziati o Letterati, di cui tutti conoscono il nome, ma non hanno la benché minima idea della loro influenza nel mondo. Parliamo di personaggi storici di diverse epoche, i quali con la loro saggezza e genialità hanno ispirato personaggi più noti, ma non per questo superiori. Siamo sempre più consapevoli che per portare il nome della nostra Regione oltre i confini locali è necessario prendere coscienza, noi per primi, dei nostri tesori e della nostra storia. Ma altrettanto importante è conoscere le opere e le attività, e non solo i nomi, dei nostri figli più illustri. Quanti di voi hanno parcheggiato la loro auto in una via che per molti è un nome, hanno trascorso del tempo in una piazza, senza sapere a chi fosse dedicata? Alcune hanno nomi altisonanti Kennedy, Mazzini che difficilmente possono non essere conosciute, ma altre hanno nomi di uguale se non addirittura maggiore importanza, ma spesso ignoriamo di chi stiamo parlando. L’idea di questo articolo in realtà nasce qualche anno fa quando per trovare un negozio nella mia città (Cosenza) ho dovuto usare il tom tom, che ovviamente mi indicava tutte le vie e piazze che avrei dovuto attraversare. Proprio lì mi sono reso conto di quanti nomi trascuravo l’origine. E’ nata da lì una curiosità e quindi una ricerca e uno studio su questi personaggi. Oggi spero di fare cosa gradita iniziando con questi primi nomi, in realtà sono tantissimi, concentrandomi principalmente su personaggi Calabresi.
Avendo citato la mia “diletta” città non posso che iniziare dal grande Filosofo Bernardino Telesio. Vi indicherò quindi per lui come per gli altri alcuni cenni principali sperando di accendere la curiosità e la voglia di bramare altro. Sono tutti dati facilmente reperibili sul web, ma la speranza è che leggendo delle loro vite e dei loro pensieri,in questa carrellata, si possa generare la volontà di riscoprire i loro studi.

BERNARDINO TELESIO

Nato a Cosenza nel 1509 da famiglia nobile, riceve una buona formazione classica sotto la guida dello zio Antonio, umanista e poeta, che il giovane Bernardino seguirà, a partire dal 1517, anche nei suoi spostamenti verso Milano, Roma (dove avrà modo di stabilire contatti e legami con esponenti del mondo ecclesiastico e della stessa curia papale) e Venezia. Dopo un probabile passaggio nell’ambiente universitario padovano e un periodo di meditazione solitaria in un convento benedettino sulla Sila, sposa Diana Sersale. Nel 1563 è a Brescia, per incontrare un autorevole aristotelico, Vincenzo Maggi, professore a Padova e a Ferrara, e sottoporre al suo giudizio le tesi filosofiche che ha ormai intenzione di divulgare. Incoraggiato dal parere positivo di Maggi, nel 1565 pubblica a Roma, presso Antonio Blado, il De natura iuxta propria principia, in due libri. Dopo un prolungato soggiorno romano, Telesio torna stabilmente a vivere a Cosenza, pur mantenendo legami molto forti con la città di Napoli, e in modo particolare con la casa di Ferrante Carafa, dove troverà costante ospitalità e protezione. E proprio a Napoli, nel 1570, vede la luce la seconda versione del De natura, ancora in due libri, ma ampiamente corretta e rielaborata e con un titolo lievemente modificato: De rerum natura iuxta propria principia. Contestualmente, presso il medesimo stampatore napoletano Giuseppe Cacchi, Telesio fa uscire anche tre opuscoli: il De colorum generatione, il De mari e il De his quae in aëre fiunt et de terraemotibus. Nel 1586, ancora a Napoli, viene pubblicata l’ultima (e definitiva) rielaborazione del De rerum natura, in nove libri. In questo giro di anni Telesio compone o riordina pure diversi opuscoli di argomento fisico e medico-fisiologico, spesso polemici nei confronti dell’Aristotele dei Meteorologica e di Galeno. Dopo la sua morte, avvenuta a Cosenza nel 1588, nove di essi saranno pubblicati dall’allievo Antonio Persio sotto il titolo di Varii de rebus naturalibus libelli(Venezia 1590). Nel 1596 il De rerum natura e gli opuscoli Quod animal universum ab unica animae substantia gubernatur e De somno (entrambi inclusi nella silloge del 1590) saranno inseriti, sia pure con la clausola attenuante donec expurgentur, nell’Indice dei libri proibiti promulgato da Clemente VIII. Ma l’expurgatio sarà presto liquidata dagli organismi censori come impossibilis, trasformando la condanna condizionata in un divieto integrale, destinato a soffocare bruscamente, come nel caso delle tante proibizioni di quegli anni, un dibattito culturale tutt’altro che periferico o irrilevante.


Principi e forze del mondo naturale
Il laboratorio degli scritti telesiani è particolarmente complesso e intricato. Perennemente insoddisfatto delle soluzioni via via individuate e fermate nelle edizioni a stampa e, insieme, preoccupato per le reazioni degli avversari e delle autorità ecclesiastiche, il filosofo sottopone i suoi scritti a una revisione continua, instancabile. E questo è vero soprattutto nel caso dell’opera maggiore, con le sue tre stesure a stampa, le redazioni intermedie, il costante movimento di varianti. Riarticolata senza posa, la posizione telesiana resta tuttavia sostanzialmente immutata nei suoi tratti distintivi e nelle linee di fondo.L’obiettivo principale del filosofo è quello di superare l’immagine aristotelica del mondo. L’esercizio della sensibilità rivela che quel che agisce in natura non sono le forme sostanziali, le cause o le qualità aristoteliche, ma piuttosto due principi attivi o forze fondamentali, creati da Dio all’inizio del mondo. Questi principi sono il calore e il freddo. Il calore ha la sua sede nel Sole, il freddo nella Terra.Il Sole e i cieli, in quanto corpi ignei e caldi, si muovono per virtù propria, per un moto naturale che non necessita, per essere spiegato, del ricorso al primo motore o alle intelligenze motrici della tradizione aristotelica. Mentre la Terra, principio del freddo, rimane necessariamente immobile e inerte al centro dell’universo (di conseguenza, nessuna apertura, nella filosofia telesiana, a suggestioni copernicane).Le due forze universali, incorporee, necessitano di un sostrato fisico su cui esercitare la propria attività. Telesio identifica questo supporto o principio passivo nella materia o mole corporea, la quale, di per sé inerte, subisce innumerevoli trasformazioni indotte dal calore e dal freddo, nel loro contrasto perenne per il predominio e la reciproca assimilazione, in cui gioca un ruolo fondamentale il principio di autoconservazione. Il caldo è forza che illumina, riscalda, alleggerisce, dilata la materia e la mette in movimento; mentre il freddo la condensa, ispessisce, appesantisce e immobilizza.E proprio da questo rapporto, ed equilibrio, fra contrari la natura trae la spinta al divenire e la possibilità stessa della vita: il calore celeste si diffonde sulla Terra e dalla tensione, dalla polarità fra i due principi si originano tutti i fenomeni e i processi, compresa la generazione degli esseri viventi, la cui diversità, complessione e grado di vitalità è correlata alla quantità di calore e movimento da essi recepita.In natura si dà quindi una sostanziale unità e continuità: fra cielo e terra, dato che i corpi celesti sono ignei, e dunque né eterei, né impassibili, né inalterabili; e fra i diversi enti, dato che la differenza tra esseri inorganici, animali e uomo appare legata a una differenza di grado e non di natura.
L’uomo fra spiritus e anima
Anche l’uomo, che Telesio colloca al vertice degli enti mondani superiori, è immerso in questa dimensione squisitamente naturale. La sua complessione fisica, ma anche i meccanismi della conoscenza e della vita morale sono il prodotto e l’espressione di un processo cosmico più generale: come per ogni altro ente, anche nell’uomo il calore celeste si concentra e si caratterizza in una porzione di materia terrena, pervadendola e in certo modo strutturandola come organismo vivente. A partire da questo presupposto, Telesio individua il criterio ultimo di spiegazione dei processi conoscitivi umani nel concetto di spiritus. Lo spiritus è il luogo in cui, nei corpi animati, si specifica e si manifesta al suo livello più alto e acuto la sensibilità (cioè la capacità di percepire modificazioni o alterazioni) di cui ogni ente, nella natura telesiana, è dotato. “Simile e parente del cielo”, vale a dire espressione della vita universale del cosmo, lo spiritus è una sostanza materiale estremamente sottile e rarefatta, generata dal principio del calore, capace di movimento, coestensiva ai corpi e quindi mortale. Nella psicologia e nella gnoseologia telesiana lo spiritus presiede alle funzioni vitali dell’uomo e, in quanto organo e strumento non solo della sensazione, ma di ogni possibile attività conoscitiva (dall’immaginazione alla memoria, allo stesso esercizio dell’intelligere), assorbe e riassume in sé le funzioni tradizionalmente proprie dell’anima.

1321615618818_Eduardo_Bruno,_Bernardino_Telesio_-.jpg

Preoccupato di annullare in questo modo ogni tratto di specificità umana, Telesio accosterà successivamente al concetto di anima/spiritus, “generata dal seme” e quindi materiale e mortale, l’immagine di una mens superaddita, vale a dire un’anima superiore e immortale, infusa direttamente da Dio (substantia a Deo immissa). Questa seconda anima, tuttavia, non sembra esercitare alcuna funzione conoscitiva specifica; il suo ruolo, e il suo senso, attengono piuttosto alla dimensione pratico-morale: essa si pone all’origine dell’aspirazione dell’uomo a valori soprasensibili ed eterni, trascendenti la semplice dimensione della vita naturale. E proprio in base a questo ordine di considerazioni, è motivo di discussione fra gli interpreti se questa duplicazione di anime sia frutto di una effettiva evoluzione della riflessione telesiana oppure una misura meramente prudenziale, una concessione all’ortodossia metafisica e teologica.

Dalla conoscenza alla morale
Nonostante le cautele (o i compromessi), anche sul terreno delicato e scivoloso dell’etica Telesio non rinuncia al suo deciso naturalismo. Nell’ultimo libro del De rerum natura (1586) egli declina e sviluppa i presupposti della sua gnoseologia sul piano della morale, delineando una fenomenologia dei vizi e delle virtù dominata dall’azione dello spiritus, e ancora una volta ispirata al concetto chiave di autoconservazione. Nel contatto con le cose, lo spiritus prova sensazioni piacevoli oppure dolorose. Ciascun ente percepisce con piacere (e tende quindi a ricercare) eventi e fenomeni volti a perfezionare e tutelare il proprio essere, mentre percepisce con dolore (e tende a rifuggire) quanto può danneggiarlo o distruggerlo. Questa disposizione dello spirito a perpetuarsi e dispiegarsi liberamente, in quanto capace di orientare le azioni e le scelte degli uomini, si identifica con la virtù: al fondo, un calcolo o una previsione corretta dell’utile e del vantaggioso che Telesio interpreta di conseguenza come realtà naturale, non culturale. Polemizzando con le soluzioni dell’Etica Nicomachea, egli sottolinea che la virtù non si costruisce né si esplica attraverso l’educazione, l’esperienza, la ricerca e la costruzione di una misura. È piuttosto la maggiore o minore perfezione e purezza dello spirito di ciascun individuo a determinare il suo temperamento, la qualità della sua azione morale, e, per estensione, perfino i costumi e gli ordinamenti dei diversi popoli.
Se gli ideali dell’etica telesiana sono improntati alla moderazione, alla temperanza, alla costruzione di mutui legami fra uomini, il bene che lo spiritus è in grado di conseguire, “secondo natura e secondo le proprie forze”, necessariamente “momentaneo” e talora “incerto”, appare peraltro in armonia con il “vero bene” dell’uomo, garantito dalla promessa divina di salvezza e di immortalità.
Del resto, in tutta la filosofia telesiana il finalismo del mondo naturale e gli stessi meccanismi di conservazione sembrano trovare la loro ultima ragione di essere nel perfetto, e ordinatissimo, atto creatore di Dio. Una sapienza creatrice e ordinatrice che l’uomo può celebrare e contemplare, ma mai penetrare. All’interno di questa filosofia non è di fatto possibile, né sul piano epistemologico, né su quello etico, forzare i confini della conoscenza sensibile per cogliere il disegno nascosto dell’artefice del mondo.

Ricezione e influenza delle dottrine telesiane
L’eversivo naturalismo telesiano suscita negli ambienti filosofici italiani immediato interesse, dibattiti spesso vivaci e non poche polemiche (la più nota e significativa è quella con Francesco Patrizi da Cherso). Ma non mancano pure avversari più insidiosi e pericolosi: nel mondo delle università, nei circoli romani e nella stessa città di Cosenza, come rivela la lettera inviata da Telesio nell’aprile 1570 al cardinale Flavio Orsini, arcivescovo della città, ove si registrano con preoccupazione le “proposizioni contra la religione” individuate nei suoi scritti da alcuni concittadini: “ch’io metto l’anima mortale, et che negho ‘l Cielo sia mosso dall’intelligentie” (Girolamo De Miranda, Una lettera inedita di Telesio al cardinale Flavio Orsini, “Giornale critico della filosofia italiana”, 72, 1993, fasc. 3, p. 374).
E nonostante il gran lavoro di riscrittura e la costante volontà di negoziato con avversari e autorità ecclesiastiche, negli anni Novanta anche la sua opera sarà investita dal severo intento di normalizzazione e dalle rigidissime chiusure filoaristoteliche e filotomiste che caratterizzano il papato di Clemente VIII. Ormai consolidati e sempre più consapevoli e selettivi, gli organismi inquisitoriali ampliano il proprio perimetro di azione e di controllo, puntando a colpire non soltanto l’eresia religiosa e dottrinale, ma ogni forma di dissenso culturale. Si apre così una fase di verifica minuziosa dell’ortodossia di filosofi, naturalisti e scienziati, al fine di attenuare o ridurre a formulazioni consone al dettato scritturale, alla norma teologica o al precetto scolastico anche il pensiero dei novatores e le formulazioni della nuova fisica. In questa prospettiva, l’iscrizione all’Indice dei testi telesiani appare ascrivibile non solo a un generico antiaristotelismo, ma anche e soprattutto al carattere materialistico e immanentistico della sua filosofia (certo non incrinato dal dispositivo un po’ forzato dell’anima a Deo immissa), unito a una cosmologia che insiste sull’unità e omogeneità di mondo celeste e mondo sublunare.
Ma, al di là delle resistenze e dei divieti, il richiamo alla concretezza dei processi naturali e il rifiuto del principio di autorità sono elementi destinati a esercitare una suggestione indiscutibile e potente sui contemporanei. Già i primi lettori del De rerum natura percepiscono e interpretano le dottrine telesiane, costruite con lessico e immagini volutamente arcaizzanti, come un palese recupero della filosofia naturale presocratica. Così, il nesso – istituito in modo particolare da Patrizi – fra Telesio e Parmenide innesca una riflessione sui caratteri della materia e della corporeità i cui echi arriveranno fino a Francis Bacon (sua è la definizione di Telesio come “riformatore di non poche opinioni e primo degli uomini nuovi”) e Pierre Gassendi.
E anche Bruno e Campanella si confronteranno con le sue dottrine e non mancheranno di attribuirgli una funzione di rilievo nella sovversione dell’auctoritas aristotelica, premessa ineludibile per la costruzione di una filosofia della natura davvero nuova e libera da ipoteche secolari. La lettura del De rerum natura, con la sua dottrina della sensibilità universale, avrà per Campanella i caratteri di una vera e propria rivelazione, celebrata sia nella Philosophia sensibus demonstrata che nel celebre sonetto dedicato al “gran Telesio”. Mentre Bruno, pensatore mai particolarmente prodigo di elogi, nel De la causa, principio et uno ricorderà con dichiarato rispetto l’“ingegno” del “giudiciosissimo Telesio” e la sua “onorata guerra” contro Aristotele, giustamente combattuta alla luce di una concezione positiva e vitale della natura e delle forze che operano in essa. Ma non basta: perché l’immagine, tracciata in primo luogo da Campanella, di Telesio come capostipite della genealogia dei novatores sarà destinata a una lunga fortuna, soprattutto nell’Italia meridionale. Qui, infatti, fino alle soglie dell’Illuminismo, il filosofo cosentino, pur letto in misura sempre minore, sarà regolarmente evocato come maestro esemplare di un processo di rinnovamento culturale ancora in atto, e simbolo di una declinazione squisitamente italiana della libertas philosophandi.

 

GIOVAN BATTISTA D’AMICO

planetario.jpg

Nome tornato agli onori della cronaca proprio in questi ultimi giorni, per le vicende inerenti il nuovo planetario che si appresta ad aprire i battenti a Cosenza, ma a differenza del precedente noto davvero solo a pochi.
Astronomo, Filosofo, matematico è nato a Cosenza nel 1511 ed è morto a Padova nel 1538, autore dell’operetta De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis, pubblicata a Venezia nel 1536 e nel 1537 e a Parigi nel 1549.Le sue osservazioni furono una delle fonti per il lavoro di Niccolò Copernico. Da (wikipedia) Contemporaneo di Bernardino Telesio, frequentò lo Studium dei Domenicani, università aperta a tutti e non solo all’ordine dei Padri Predicatori. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non quanto trapela dalla sua maggiore opera, il De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis et epicyclis, pubblicato nel 1536 a Venezia per i tipi di Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli. Dalla sua opera si traggono le uniche scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato nell’opera, che Amico fosse cosentino di nascita e che all’epoca della pubblicazione avesse la giovane età di 24 anni. Questo farebbe collocare la nascita dell’Amico a Cosenza forse nell’anno 1512, seppure alcuni studiosi propendano per il 1511. Tuttavia la nascita dell’astronomo risulta di difficile datazione non essendo noto in quale mese del 1536 il De motibus fu pubblicato e in quale periodo esso venne compilato dall’autore.Sempre all’interno del De motibus, nel proemio, l’Amico riferisce di essere stato allievo di Vincenzo Maggi (1498-1564), Marco Antonio Passeri detto il Gènua (1491-1563) e di Federico Delfino (1477-1547), professori all’Ateneo di Padova negli anni precedenti la pubblicazione del De motibus e anche professori del Telesio; queste informazioni porrebbero l’Amico nel filone di pensiero dell’aristotelismo padovano rinascimentale e dimostra che l’astronomo cosentino avesse frequentato l’Università di Padova, una delle più prestigiose dell’epoca, dalla quale tuttavia non si ha certezza se si fosse licenziato con una laurea, dato che il suo nome non risulta in nessuna lista di laureati di quell’ateneo. Dopo la frequentazione dei corsi di Padova parrebbe, ma anche qui non vi è certezza alcuna, che l’Amico fosse stato ammesso all’Accademia Cosentina forse nell’anno 1537, ovvero un anno dopo la prima pubblicazione a stampa del De motibus e un anno prima della morte del giovane astronomo che avrebbe avuto fra i 26 e i 27 anni. Va detto che il De motibus fu la prima operetta a mettere in discussione il modello tolemaico e che l’opera si concludeva anticipando per sommi capi alcuni dati oggetto di una futura pubblicazione e che promettevano di essere assolutamente rivoluzionari. L’Amico considerò due ordini di obbiezioni che erano state mosse al sistema esposto da Aristotele: da una parte le combinazioni di movimenti circolari che egli aveva supposto non spiegavano tutte le particolarità del percorso degli astri, dall’altra la variazione dei diametri apparenti della Luna e del Sole escludeva che essi si trovassero sempre ad ugual distanza dalla Terra. L’Amico aumentò quindi considerevolmente il numero delle sfere deferenti (e delle relative reagenti) attribuite a ciascun pianeta. La variazione, poi, dei diametri apparenti del Sole e della Luna, se pur la sua rilevazione non fosse dovuta a difetto degli strumenti, era spiegata dall’Amico, con cause geometriche. Da questa considerazione gli studiosi tendono a pensare che la prematura morte per assassinio di Amico fosse stata provocata dall’invidia della sua dottrina, così come suggerito da un anonimo che compose l’epitaffio del giovane astronomo nel quale si leggeva:
« IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut putatur, virtutisque, invidia, interfectus est MDXXXVIII. »
(Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11)
ovvero “ammazzato da ignoto sicario si pensa per invidia della sua scienza e delle sue virtù”.

Nel 1538 Amici venne assalito, derubato e ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che seguì accertò che era scomparsa una borsa contenente alcuni documenti, che forse erano proprio le carte con quelle rivoluzionarie osservazioni che aveva promesso l’autore, o almeno così sembrava credere l’Inquisizione nel processo postumo per eresia che subito dopo istituì contro lo studioso defunto. Dell’Amico fa menzione nella sua orazione in morte di Telesio, Giovanni Paolo d’Aquino, filosofo e oratore calabrese nato a Cosenza e morto intorno al 1612, che definisce l’Amico “così grande astrologo e filosofo” e nulla aggiunge alla sua biografia rispetto a quanto già noto. Un mistero impossibile da risolvere, visti i secoli trascorsi. Quel che resta certo è che, pochi anni dopo, le intuizioni del cosentino si rivelarono meritevoli di considerazione. Sembra che fossero note  anche al grande Niccolò Copernico, che pubblicò la sua teoria, nel De revolutionibus orbium coelestium appena cinque anni dopo la morte di Amico. E secondo alcuni non fu solo un caso.

 

BARLAAM

Così il Petrarca:
La morte mi ha privato del mio Barlaam. Ma, a dir vero, io stesso me ne ero privato. Non mi accorsi che l’onore si sarebbe risolto in un mio grave danno. Difatti, aiutandolo a diventare vescovo, persi il maestro con il quale avevo cominciato a studiare con fiduciosa speranza (Familiares, XII, 2.7).
Barlaam Calabro, al secolo Bernardo Massari, conosciuto anche come Barlaam di Seminara o Barlaam di Calabria (Seminara, 1290 ca.; † Avignone giugno[1], 1348), è stato un monaco, vescovo, matematico, filosofo, teologo e studioso della musica bizantino. Uomo di vasta cultura, fu maestro di lingua e di letteratura greca di Francesco Petrarca e di Giovanni Boccaccio, rivoluzionò l’aritmetica, scrisse di musica; ma fu anche profondo teologo, che si oppose alla dottrina dell’esicasmo dei monaci della Chiesa d’Oriente.
Nacque a Seminara, nei pressi di Reggio di Calabria, verso la fine del XIII secolo, e tradizionalmente si riporta l’opinione di Ferdinando Ughelli[2], non documentalmente provata, che il nome di battesimo fosse Bernardo.Le notizie certe sulla sua formazione si ricavano dalla bolla con cui papa Clemente VI lo nominò vescovo di Gerace: il documento informa che Barlaam fece il percorso monastico e sacerdotale in Calabria, nel monastero basiliano di Sant’Elia di Capasino (diocesi di Mileto).Dagli scritti di Barlaam stesso apprendiamo anche che egli fu formato nella fede nell’ambito della Chiesa Ortodossa, che in quegli anni era ancora molto diffusa nell’Italia meridionale[3]. Al contrario, non abbiamo evidenze sulla formazione culturale: tuttavia, emerge dai suoi scritti una profonda conoscenza dei filosofi greci, specialmente di Platone e Aristotele, ma anche di San Tommaso d’Aquino e della Scolastica, per cui si devono presupporre contatti con le maggiori scuole di filosofia e teologia dell’Italia meridionale e centrale.
Nella seconda metà degli anni Venti del XIV secolo si mise in viaggio, verso l’Etolia e Tessalonica, per poi giungere a Costantinopoli (approssimativamente nel 1326 o 1327) dove regnava Andronico III Paleologo, e dove il dotto Barlaam guadagnò i favori dell’imperatrice Anna di Savoia. Divenne igumeno dell’importante convento di San Salvatore; nel frattempo scrisse con successo trattati di logica e di astronomia (ne è sopravvissuto sino a noi uno sull’etica stoica) che lo resero famoso; ottenne una cattedra nell’università. Il suo successo come filosofo lo portò però anche allo scontro con l’intellighenzia della capitale e scatenò la gelosia dell’umanista bizantino Gregorio Niceforo, un professore nel monastero di Chora che in un suo libello narrò della sfida accademica tenutasi fra i due eruditi nel 1331 su tutti gli argomenti dello scibile umano di quei tempi. Dopo la sfida, Barlaam divenne stimato professore nel secondo centro culturale dell’impero, Tessalonica, dove ebbe fra i suoi allievi alcuni dei migliori futuri teologi e dotti bizantini: Gregorio Acindino, Nilo Cavasila, Demetrio Cidone.

barlaam

Nel 1333-1334, nell’ambito delle trattative per la riunificazione tra le due Chiese di Oriente e di Occidente, giunsero a Costantinopoli i domenicani Francesco da Camerino, arcivescovo di Vosprum, e Riccardo, vescovo di Cherson, incaricati dal papa Giovanni XXII.Grazie al suo prestigio e alla stima di cui continuava a godere presso gli ambienti di corte, Barlaam fu scelto dal patriarca Giovanni Caleca come portavoce della Chiesa ortodossa.Il punto di divisione, come noto, era principalmente il dogma della processione dello Spirito Santo: in tale occasione Barlaam sviluppò le sue argomentazioni teologiche e filosofiche, sulla base delle posizioni del volontarismo di Duns Scoto e Guglielmo di Occam, in opposizione alle tesi domenicane basate sul realismo di San Tommaso d’Aquino.
Le posizioni delle due parti rimasero inconciliabili e le trattative non ebbero alcun risultato; ma Barlaam, nelle sue dissertazioni, sviluppò anche critiche verso l’esicasmo e sottolineò la differenza di valore tra la teologia scolastica e la contemplazione mistica; con ciò divenne inevitabilmente protagonista di una violenta polemica contro le concezioni ascetiche e mistiche dei monaci del Monte Athos nella persona soprattutto di Gregorio Palamas.Nei confronti del monaci athoniti Barlaam ebbe parole dure, accusandoli di eresia gnostica e deridendoli col nomignolo di umbilicamini (omphalopsychoi). Il dibattito divenne uno scontro, che sfociò in una denuncia di eresia mossa da Barlaam contro Palamas davanti al patriarca Giovanni Caleca con lo scritto “Contro i Massaliani.La controversia, non vista di buon occhio dalle autorità che desideravano mantenere la pace religiosa, fu risolta nel Concilio di Costantinopoli (1341). Il discorso finale tenuto da Andronico, che celebrò una generale riconciliazione, non rispecchiò la realtà dei fatti: Barlaam, perdente, vide la condanna delle proprie dottrine e fu costretto a scusarsi formalmente con gli esicasti e a sospendere ogni futuro attacco verso di loro.Addirittura Giovanni Caleca, con un’enciclica, condannò le tesi di Barlaam e impose la distruzione dei suoi scritti.
Nel frattempo, nel 1339 era stato inviato da Andronico III ad Avignone come delegato in missione diplomatica in Europa, alla quale l’imperatore intendeva sollecitare un intervento per una crociata contro l’avanzata dei Turchi ottomani.
Barlaam si era recato a Napoli, insieme a Stefano Dandolo, presso Roberto d’Angiò e poi a Parigi da Filippo VI di Valois per chiedere aiuti militari; infine i due erano andati presso la Curia di Avignone di papa Benedetto XII per ottenere la sua approvazione alla crociata (in cambio Barlaam aveva prospettato un concilio ecumenico per la riunione delle due grandi Chiese).La missione non aveva avuto buon esito, a causa della situazione politica europea, ma nell’occasione Barlaam aveva costruito delle importanti relazioni personali.
Nel 1341, dopo il fallimento del concilio di Costantinopoli e la morte di Andronico III (15 giugno), Barlaam nel mese di luglio tornò in Calabria e da lì raggiunse a Napoli l’umanista Paolo da Perugia con cui collaborò nella compilazione delle Collectiones e nel riordinamento della libreria angioina.Tra l’agosto di quell’anno e il novembre del successivo fu ad Avignone da papa Clemente VI.Questo soggiorno fu particolarmente importante, perché Barlaam conobbe Francesco Petrarca, al quale insegnò il greco e dal quale fu avviato alla conoscenza del latino, con cui aveva poca dimestichezza; ma ancor più importante fu il definitivo passaggio di Barlaam alla fede cattolica.

Gerace,_Petrarca_e_Boccaccio.JPG
Grazie alla nuova obbedienza al papa, alle sue qualità personali e all’intercessione dei buoni uffici di Petrarca, gli fu assegnata la diocesi di Gerace, di cui Barlaam fu nominato vescovo il 2 ottobre dello stesso 1342, consacrato dal cardinale Bertrando del Poggetto.A Gerace non ebbe vita facile, a causa dei contrasti con la curia di Reggio.
L’ultima missione diplomatica
Nel 1346 fu nuovamente inviato in missione diplomatica dal papa a Costantinopoli in un rinnovato tentativo ecumenico.Tuttavia la situazione nella capitale bizantina era sempre molto tesa: sul trono sedeva Anna di Savoia reggente in nome del figlio Giovanni V; nel 1343 Palamas era stato arrestato e scomunicato.Giovanni Caleca, diventato nemico degli esicasti, fu deposto il 2 febbraio 1347 e il giorno stesso Giovanni Cantacuzeno, favorevole agli esicasti e appoggiato da Palamas tornato in auge, si autonominò coimperatore accanto a Giovanni V.Barlaam, già compromesso dalle sue precedenti posizioni, non poté far altro che tornare in Occidente.
In primavera fece ritorno ad Avignone, dove rimase fino alla morte avvenuta probabilmente agli inizi di giugno 1348.In effetti, non conosciamo la data certa della morte, ma la bolla di nomina di Simone Atumano, suo successore a Gerace, datata 23 giugno 1348, descrive l’evento come recente.
La copiosa produzione di Barlaam è andata in parte perduta e di quella sopravvissuta la maggior parte è ancora inedita. Ce ne è giunto un elenco con gli incipit nella Biblioteca graeca di Johann Albert Fabricius. Si contano opere teologiche, fra cui:
opuscoli contro la processione dello Spirito Santo Filioque;
scritti sul primato del papa;
il progetto di unione delle Chiese elaborato per la prima missione ad Avignone (in greco);
un discorso per il sinodo di Costantinopoli (in greco);
due discorsi in latino tenuti al cospetto di papa Benedetto XII;
varie lettere e scritti in latino successivi alla conversione;
otto lettere relative allo scontro con gli esicasti;
l’opera Contro i Messaliani è perduta in quanto fu distrutta a seguito della sconfitta di Barlaam nella disputa; ci restano solo alcune citazioni in altre fonti.
Opere filosofiche:
Ethica secundum Stoicos ex pluribus voluminibus eorumdem Stoicorum sub compendio composita, che espone l’etica stoica (mostra un’ottima conoscenza di Platone);
Le soluzioni dei dubbi proposti da Giorgio Lapita:
opere scientifiche:
Arithmetica demonstratio eorum quae in secundo libro elementorum sunt in lineis et figuris planis demonstrata, che è un corfimentario al secondo libro di Euclide;
un’opera in sei libri di algebra e aritmetica;
Logistica nunc primum latine reddita et scholiis illustrata, che è un trattato di calcolo con frazioni ordinarie e sessagesimali con applicazioni all’astronomia. L’opera fu pubblicata a Strasburgo nel 1592 e a Parigi nel 1600, insieme ad una sua traduzione in latino;
un commentario alla teoria dell’eclissi solare dell’Ahnagesto di Tolomeo;
una regola per la datazione della Pasqua;
commentari su tre capitoli degli Armonici di Tolomeo; questi capitoli trattano la relazione fra i numeri primi del Sistema Perfetto greco e le sfere celesti, come le consonanze musicali e il movimento dei pianeti si debbano trovare attraverso i numeri, e come le qualità delle sfere si accordino con quelle dei suoni musicali.
Sino ai tempi più recenti le opere teologiche e legate all’attività diplomatica sono state più studiate, mentre ultimamente si è rivalutata l’opera di Barlaam anche come acutissimo e brillante scienziato, versatile e innovativo, oltre che come significativo contributore nella reintroduzione del greco in Occidente, attraverso l’insegnamento della lingua a personalità come Paolo da Perugia e Petrarca e anche Boccaccio.

La novella di Barlaam
L’ENIGMATICO ZOO DELL’ANTELAMI SCOLPITO SUL BATTISTERO DI PARMA

Il complesso ha tre portali. Uno si apre sul lato settentrionale ed è chiamato della Vergine. Il secondo, che guarda a occidente, è detto del Giudizio e, per le regole liturgiche, costituisce l’ingresso principale. Il terzo, definito della Vita, è senza dubbio il più semplice. Evocano rispettivamente la nascita di Cristo, il suo ritorno per giudicare gli uomini e la possibilità di salvezza dalle tentazioni demoniache. L’ultimo, tuttavia, si differenzia dagli altri per la straordinarietà del contenuto. Nella lunetta c’è un bassorilievo che contiene una rappresentazione allegorica dell’esistenza umana. Al centro, tra i rami di un albero, siede un giovinetto con i piedi appoggiati al tronco.

La mano mancina estrae del miele da un alveare e l’altra lo porta alla bocca. Intanto, però, due roditori non facilmente definibili cercano di recidere le radici della pianta, mentre in basso un drago che sputa fiamme attende minaccioso che il ragazzo precipiti giù. Ai lati della pianta si vedono 4 tondi. L’inferiore a sinistra mostra il carro del sole trainato da due cavalli. Apollo impugna una frusta e punta verso la notte, quasi a voler fugare le ultime tenebre. Il superiore ritrae un profilo maschile che rappresenta il giorno. Nel medaglione in basso a destra si nota il cocchio della luna mosso da due tori, che Diana stimola con un pungolo. Intorno sono disposti due fanciulli nudi che suonano delle trombe e due bimbetti vestiti che cercano con dei bastoni di frenare la veloce corsa della biga. In quello più in alto si scorge la notte con una fiaccola e dietro la testa di un toro.


Il tessuto simbolico sembra quasi scontato e ricorda che l’esilio terreno è incessantemente consunto dall’implacabile incalzare del tempo, mentre le fauci dell’inferno attendono chi ha preferito la dolcezza dei piaceri effimeri al vero bene. In ogni modo i protagonisti del quadro non sono un’invenzione dell’artista. Prescindendo dai miti pescati tra i tesori della civiltà classica, lo scorcio ricalca fedelmente il succo d’un romanzo conosciuto nell’Europa occidentale a partire almeno dal X secolo. Si tratta dell’adattamento ellenico d’una leggenda popolare che parla di Josafat, figlio del re indiano Abenner. Costui decide di tenere il figlio nella bambagia, o meglio in un luogo di delizie, per evitare che subisca le sofferenze del mondo. Ma, nonostante tutte le precauzioni del padre, a un certo punto il principe incontra le cruciali testimonianze dell’infermità, della vecchiaia e della morte. E, incalzato dagli interrogativi che sorgono spontanei di fronte alle prove del dolore, sotto la guida dell’eremita Barlaam scopre la vita non edulcorata abbracciando la verità evangelica.


Un brano del libro, narrato dal maestro spirituale al nobile, racconta d’un uomo che, alla vista d’un unicorno imbizzarrito, fugge via a gambe levate ma finisce sul ciglio d’un burrone. Si aggrappa a un fuscello e pensa che da quel momento in poi può stare tranquillo. Ma, guardando bene, vede due sorci che stanno rosicchiando le radici dell’arbusto al quale è sospeso. Anzi, sono proprio sul punto di troncarle di netto. Allora scruta in fondo al burrone e scorge un mostro orribile, che spira fuoco dalle narici. Ha un aspetto torvo e minaccioso, spalanca ferocemente le fauci e non vede l’ora di divorarlo. A quel punto aguzza lo sguardo per esaminare la base d’appoggio su cui tiene puntellati i piedi. Nota quattro teste d’aspidi che si protendono fuori dalla parete rocciosa cui si tiene avvinghiato. Levando però gli occhi in alto, scopre che dai ramoscelli della pianta stilla qualche goccia di nettare. Allora cessa di preoccuparsi dei pericoli che lo circondano e si gusta in santa pace la zuccherata ghiottoneria. Orbene, l’aristocratico al quale la vicenda viene riportata non è altri che Siddharta. In sostanza, si è al cospetto della trasposizione in chiave cristiana della religione buddista.

Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria

I Miti e le Leggende più Interessanti della Calabria

Che la Calabria sia una terra intrisa di storia, è cosa ormai nota. Più di quanto si possa immaginare. In questo scorrere del tempo, la “Storia” si è imbevuta di tante leggende e miti. Questi spesso si intrecciano con la storia dei luoghi e il sottile tra storia e leggenda resta sottilissimo. Altre volte sono evidenti tracce mitiche che sono state tramandate nel tempo, ma che restano affascinanti e ci dovrebbero far capire, come la Calabria sia spot di se stessa semplicemente raccontandosi. Abbiamo trovato in giro per il web e su alcuni libri, di autori Calabresi diverse leggende e miti, ne citeremo solo alcuni da noi ritenuti interessanti.

Le bocche dell’inferno a Cessaniti

Nella periferia di Cessaniti in Provincia di Vibo Valenzia c’è una zona conosciuta dalla gente del luogo come “vucchi du ‘mpernu” (bocche dell’inferno). Un luogo misterioso, dove nel terreno accanto alle radici di giganteschi ulivi secolari ci sono delle grandi cavità dalla forma circolare quasi perfetta, profonde più di quaranta metri, delle buche da cui escono fortissime correnti d’aria. Secondo la leggenda il diavolo dimora lì sotto e le correnti sono il suo respiro; secondo un’altra leggenda ci vivono dei piccoli folletti vestiti di rosso, molto dispettosi. Una terza leggenda narra che in questo luogo si nasconde Lamia, un mostro donna che si nutre di sangue umano. Si narra che queste bocche un tempo ingurgitarono tutto il centro abitato.

Pietra Kappa in Aspromonte

Una leggenda legata a Gesù ed agli apostoli aleggia in prossimità di un monolite ai piedi dell’Aspromonte. Si narra che Gesù camminava insieme ai suoi apostoli e ad un certo punto avvertirono un senso di fame. Gesù propose di fare una penitenza, invitando gli apostoli a prendere una pietra ed a portarla fin su in montagna. Tutti gli apostoli presero pietre abbastanza pesanti e si incamminarono verso la vetta. Solo Pietro prese un piccolo ciottolo e si avviò. Arrivati in cima le pietre si trasformarono in pane e mentre gli altri apostoli si ritrovarono con delle belle pagnotte, Pietro si dovette accontentare di un misero pezzo di pane, grande quanto il ciottolo che aveva trasportato. Per ricordare l’episodio Pietro chiese a Gesù di lasciare lì quella pietra e sfiorandola essa diventò gigante, al punto da ricoprire tutto il terreno circostante. Successivamente Pietro decide di imprigionare in quel masso la guardia che schiaffeggiò Gesù al Sinedrio. La leggenda narra che la guardia sia stata condannata a schiaffeggiare le pareti della roccia e che chiunque passi da lì sente i suoi lamenti e le sue grida.

Fata Morgana

Una delle più belle e affascinanti leggende che vi sono in Calabria è sicuramente questa. Chi è riuscito a “vedere” questa magia ne è rimasto colpito. E’ la Fata Morgana, un fenomeno ottico simile a un miraggio che si può osservare dalla costa calabra quando aria e mare sono immobili. La leggenda racconta che anche Ruggero I d’Altavilla fu incantato dal sortilegio. Per indurlo a conquistare la Sicilia, con un colpo di bacchetta magica la Fata Morgana gliela fece apparire così vicina da poterla toccare con mano. Ma il re normanno, sdegnato, rifiutò di prendere l’isola con l’inganno. E così, senza l’aiuto della Fata, impiegò trent’anni per conquistarla. La costa siciliana, vista da quella calabrese, sembra distare pochi metri. Si possono distinguere molto bene le case, le auto e addirittura le persone che camminano nelle strade di Messina. Il tutto avviene quando sulla superficie del mare, minuscole goccioline di acqua rarefatta, fanno da lente di ingrandimento. Il fenomeno prende nome dalla Fata Morgana della mitologia celtica.
Questa è un’altra versione del mito della Fata Morgana. Era agosto, il cielo e il mare erano senza un alito di vento, e una leggera nebbiolina velava l’orizzonte, durante le invasioni barbariche dopo avere attraversato tutta la penisola, un’orda di conquistatori giunse alle rive del mare Jonio nella città di Reggio Calabria e si trovò davanti allo stretto che divide la Calabria dalla Sicilia. A pochi chilometri sull’altra sponda sorgeva un’isola con un gran monte fumante, l’Etna, ed il Re barbaro si chiedeva come fare a raggiungerla trovandosi sprovvisto di imbarcazioni quindi impotente davanti al mare. All’improvviso apparve una donna meravigliosamente bella, che offrì l’isola al conquistatore, e con un cenno la fece apparire a due passi da lui. Guardando nell’acqua egli vedeva nitidi, come se potesse toccarli con le mani, i monti dell’isola, le spiagge, le vie di campagna e le navi nel porto. Esultando il Re barbaro balzò giù da cavallo e si gettò in acqua, sicuro di poter raggiungere l’isola con due bracciate, ma l’incanto si ruppe e il Re affogò miseramente. Tutto infatti era un miraggio, un gioco di luce della bella e sconosciuta donna, che altri non era se non la Fata Morgana. Il fenomeno si ripete ancora oggi nei giorni calmi e limpidi d’estate, nelle acque della riva di Reggio.

Scilla e Cariddi

Cariddi, nella mitologia greca era un mostro marino, figlia di Poseidone e Gea, che formava un vortice marino, capace di inghiottire le navi di passaggio. La leggenda la situa presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all’antro del mostro Scilla. Le navi che imboccavano lo stretto erano costrette a passare vicino ad uno dei due mostri. In quel tratto di mare i vortici sono causati dall’incontro delle correnti marine, ma non sono di entità rilevanti. L’espressione «essere tra Scilla e Cariddi», indica il rischio di sfuggire ad un pericolo per correrne un altro. Secondo il mito, gli Argonauti riuscirono a scampare al pericolo, rappresentato dai due mostri, perché guidati da Teti madre di Achille, una delle Nereidi.Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell’Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo. Scilla è una figura della mitologia greca, era un mostro marino. La leggenda vuole che dimori sotto il promontorio di Scilla, da cui uscirebbe di tanto in tanto scatenando spaventose tempeste e terrorizzando i naviganti che possono solo sperare nell’intervento di Glauco, trasformatosi in un tritone marino per amore della ninfa, che emerge a placare i venti ogni volta che infuria la tempesta. Nell’Odissea, Omero la descrive come un’immortale, figlia della dea Crateis. La indica come un mostro con sei teste e dodici gambe, che strappava i marinai dalle loro navi, quando, per evitare i vortici di Cariddi, si avvicinavano alla sua tana. Altre tradizioni la indicano come figlia di Forci e di Ecate. La fanciulla era amata da Poseidone, Anfitrite ne era gelosa ed avvelenò l’acqua nella quale si bagnava e la trasformò in mostro. Scilla viene talvolta indicata come la personificazione della piovra che vive nelle acque del Mar Mediterraneo.

Il Mito di Ligea

Ligea è una figura della mitologia dell’antica Grecia e di Roma. Nell’arte greca, fin dal periodo arcaico, fu raffigurata con busto di donna dalle braccia nude e con corpo di uccello con coda e ampie ali. Compare in statue isolate e in rilievi ad ornamento di tombe, generalmente in atto di suonare la cetra, oppure in vasi dipinti, mosaici, pitture, sarcofagi romani. Considerate originariamente geni della morte, le sirene, capaci di ammaliare gli uomini, hanno avuto larga parte nell’Odissea di Omero quali tentatrici, con il loro canto, del re Ulisse.
La loro sede fu variamente localizzata nell’Italia meridionale, mentre il loro numero variò da due a quattro. Erano considerate figlie di Forci e di Ceto. La leggenda dice che, compagne di giochi di Persefone, per non aver salvato dal rapimento da parte di Plutone la figlia di Demetra, furono da questa trasformate in sirene.
Nel 1998 su Piazzetta S. Domenico, nel mio paese, a Nicastro (oggi Lamezia Terme), in Calabria, hanno inaugurato una statua, opera dell’artista napoletano Dalisi, dedicata alla sirena Ligea.
Secondo la leggenda Ligea, la più piccola delle sirene, come le sue consorelle, subì un tragico destino. Decisa a morire, si affidò al mare in tempesta da cui si fece trasportare senza opporre resistenza finché non arrivò al Golfo di Sant’Eufemia. Fu trovata morta dai marinai sulla riva dell’Ocinaro, dove fu sepolta. Su una piccola isola formata da materiale ghiaioso trasportato durante le alluvioni fu eretto un gran monumento a suo ricordo. Si ipotizza che l’Okinaros altro non fosse che il fiume Bagni, la cui foce a quell’epoca molto frastagliata era circondata da una vegetazione molto fitta.
“O viandante, se vorrai conoscere il percorso della sirena Ligea che sarà spinta dai flutti a Terina…I Faleri la seppelliranno nelle arene del lido contiguo ai vortici dell’Ocinaro dove era anche il sepolcro del Marte dalle corna di bue, dovrai attraversare la Via Traiana, raggiungere Terina dal Golfo Terineo o Lametino…”
Gli abitanti di Terina furono dispersi da Annibale nel 203 a.C., ma la vera fine di Terina fu opera dei Saraceni nel 950 circa, che, distruggendo Lamezia (oggi Sant’Eufemia) e Aiello, distrussero Terina che si trovava tra queste due.
L’interrogativo sull’esatta individuazione di Terina, città della Magna Grecia, fondata dai Crotoniati nel corso del VI secolo a. C., rimane ancora senza risposta e solo dopo che sarà trovata sarà anche possibile trovare il monumento sepolcrale eretto a Ligea.
Ligea è raffigurata in varie monete di Terina: in alcune è seduta su un cippo mentre gioca con una palla lanciata con la mano destra, in altre riempie un’anfora con l’acqua che esce dalla bocca di un leone.

L’assedio del castello Normanno di Stilo

Secondo una leggenda, nell’anno 982, il califfo arabo Ibrahim Ibn Ahmad partì dalla Sicilia per nuove conquiste nella Calabria bizantina. Quando giunse in prossimità di Stilo, fu avvistato dagli abitanti della zona che, per ordine del “granduca”, su suggerimento di San Giorgio, protettore di Stilo, tutta la popolazione si rifugiò all’interno del castello normanno. Il califfo turco considerando che era quasi inaccessibile raggiungere il castello, avendo una sola via di accesso stretta e angusta, percorribile da una persona alla volta, in fila indiana, decise di assediarlo e attendere di poterlo conquistare “per fame” quando le provviste si sarebbero esaurite. Arrivò il tempo che le provviste all’interno del castello cominciarono a scarseggiare, aumentava così la preoccupazione per una resa ormai prossima. Il granduca, nella disperazione del momento, astutamente, tentò uno stratagemma per far desistere il nemico dal suo intento di conquista. Fece raccogliere il latte delle donne che avevano avuto dei figli da poco e con lo stesso fece fare una grossa ricotta che sparò contro gli Arabi appostati fuori le mura. Gli invasori si convinsero così che nel castello avessero grandi riserve di cibo se si permettevano il lusso di usarlo come proiettile contro il nemico e quindi l’assedio si sarebbe protratto ancora per molto tempo. Tra l’altro il califfò mangiò la ricotta ammalandosi di dissenteria che, erroneamente curata con decotti di salvia dai suoi medici, peggiorarono ulteriormente la malattia. A prendere il comando dell’esercito musulmano fu il nipote del califfo, Gabir, che decise di togliere l’assedio al castello e ritarsi. Il luogo in cui la ricotta che permise di liberare il castello dall’assedio Arabo fu chiamato “Vinciguerra”, denominazione tutt’oggi esistente.

L’oracolo di Capo Vaticano

A lungo considerato luogo inaccessibile e sacro, Capo Vaticano, con il suo promontorio magico, si affaccia sul mar Tirreno nella provincia calabrese di Vibo Valentia. La magia salta agli occhi già dal nome: Vaticano deriverebbe infatti dal latino Vaticinium, che significa oracolo, responso, a rievocare una leggenda che vuole la punta estrema del promontorio abitata dalla profetessa Manto. A lei si sarebbero rivolti i naviganti prima di avventurarsi tra i vortici di Scilla e Cariddi e lo stesso Ulisse, scampato agli scogli del pericolo, avrebbe chiesto auspici a Manto circa la prosecuzione del suo viaggio. Ricorda le antiche origini di questo mito anche lo scoglio che sta davanti al capo e porta il nome di Mantineo, dal greco Manteuo, dò responsi. Sotto il promontorio si distendono spiagge di sabbia bianca e finissima, lambite da un’acqua cristallina. Tra le spiagge più suggestive Torre Ruffa, teatro di una triste e leggendaria vicenda. Rapita dai Saraceni, la bella e fedele vedova Donna Canfora si sarebbe gettata dalla loro nave al grido: “Le donne di questa terra preferiscono la morte al disonore!”. Proprio per onorarne il sacrificio il mare cangia colore ad ogni ora ad assumere tutte le sfumature dell’azzurro velo che ne cingeva il capo, mentre l’eco delle onde che s’infrangono contro la battigia altro non sarebbe che lo struggente lamento con cui Donna Canfora saluta ogni notte la sua amata terra.
Pagine piene d’amore furono invece dedicate a questa terra dal veneto Giuseppe Berto che scelse Capo Vaticano per dimora e definì questo tratto di litorale “Costabella”, molto contribuendo allo sviluppo turistico della zona. Un tempo arido e selvaggio, oggi il promontorio è un giardino incantevole, un affaccio naturale sul mare con una delle viste più sorprendenti sulle isole Eolie.

Il tesoro di Alarico


Cupi a notte canti suonano
da Cosenza su’l Busento,
cupo il fiume li rimormora
dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe ‘l fiume passano
e ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono
il gran morto di lor gente
(da “La tomba nel Busento” tradotta in italiano da Giosuè Carducci,
dalla poesia di August Graf Von Platen)

Narra le leggenda che, nel 410 d.c., l’esercito dei Goti guidati dal re Alarico, dopo aver saccheggiato indisturbato Roma, si mosse verso il sud Italia con l’intento di attraversare lo Stretto e spingersi verso l’Africa. Ma alle porte della città di Cosenza, la malaria colse improvvisamente il capo dei barbari che si congedò presto dal mondo e dai suoi soldati.
I Goti piansero sinceramente la sua scomparsa e decisero di rendergli onore secondo l’antica usanza che voleva che un condottiero venisse sepolto con il suo cavallo, l’armatura e i tesori raccolti nelle azioni di guerra. Non potendo permettere che l’immenso bottino frutto del sacco di Roma venisse ritrovato e che la tomba del loro re rimanesse in balia delle orde di predatori, i guerrieri Goti decisero di seppellire Alarico nel Busento, deviandone il corso. Utilizzarono centinaia fra schiavi e prigionieri per scavare la tomba del loro re in mezzo all’alveo del fiume e lo seppellirono nel suo grembo, abbigliato con l’armatura da parata, insieme al suo destriero e agli inestimabili ori e gioielli di Roma. Dopo di che, ricondussero le acque del fiume nel loro letto naturale e uccisero tutti gli schiavi e i prigionieri, in modo che nessun protagonista dell’ardua impresa potesse sopravvivere e far trapelare il segreto del sepolcro. Così, il luogo esatto della tomba di Alarico rimase per sempre un mistero e del leggendario tesoro nascosto tra le acque del Busento si favoleggiò per secoli, ispirando i versi di Dumas, Carducci e dei più grandi vati e dando origine ad una febbre che colpì, a più riprese, intellettuali, studiosi, politici e gente comune di tutti i tempi. Addirittura i Nazisti con Himmler si recarono qui alla ricerca del tesoro, senza ovviamente trovare nulla. Vi sono in ogni caso molte altre leggende che si sono intrecciate a quella principale. Fonti storiche ci dicono che nell’ XI sec Eremitani di Sant’ Agostino monaci Calabresi capeggiati dal vescovo Arnolfo II di San Lucido provenienti da San Martino di Pietrafitta trovano la tomba di Alarico e trovano dei documenti che avrebbero avuto a che fare la figura Gesù, e la Decima Legio Fretensis per intenderci la legione di cui faceva parte Longino, colui il quale trafisse il costato di Gesù sulla croce e il tempio di Salomone. Nel 1070 infatti si ha notizia di un gruppo di monaci calabresi nelle Ardenne ad Orval, esistono documenti storici che attestano il fatto. Ricevettero accoglienza e protezione oltre ad un vasto terreno sul quale venne costruita un abbazia. Quindi Storia o Leggenda? A queste latitudini le idee sono abbastanza chiare.

U Lupo Minaru

Fra tutti i popoli, contrariamente a quanto affermano oggi gli etologi, l’immagine del lupo è stata sempre quella di una bestia feroce e aggressiva.
Di questa triste fama approfittavano gli adulti per farci stare buoni e conciliarci il sonno durante la nostra infanzia.
L’idea che il lupo dovesse guidare le anime dei defunti nell’Oltretomba si perde nella notte dei tempi. Essendo infatti più abile e più forte dell’uomo, l’animale rivestiva un ruolo totemico e nei rituali sciamanici veniva imitato per propiziarsi lo spirito.
“Lykaion”, territorio del lupo, era invece ad Atene il bosco sacro attorno al tempio di Apollo dove il filosofo Aristotele teneva le sue lezioni, tanto che il termine “liceo” significò un luogo di sapere.
La “licantropìa” (dal greco “lykos”, lupo e “ànthropos”, uomo) è un disturbo mentale delirante di tipo somatico per cui i malati, solitamente isterici, si credono trasformati in belve.
Nelle leggende del nostro continente l’anomalia si collegava al mito del “lupo mannaro” e i soggetti colpiti vagavano di notte, urlando come detti animali.
Si poteva divenire lupi mannari per una maledizione scagliata da una persona timorata di Dio in seguito ad un cattivo comportamento di un individuo, per stregoneria, per infezione licantropica o vampirica, per un patto col demonio o per altri diversi motivi. La luna piena, che ha sempre esercitato una forte azione nella fervida fantasia dei romanzieri ed in quella popolare, col suo fascino singolare conduceva l’individuo alla violenza. La metamorfosi animalesca, il nostro satellite, i luoghi di sepoltura avvicinavano sempre più la mentalità degli avi a quella delle culture primitive.
L’influsso negativo venne anche descritto da noti moralisti, nonché storici greci e latini come Plutarco e Plinio il Vecchio.
Gli studiosi hanno riscontrato un’incidenza di crimini durante il plenilunio, molto più elevata rispetto agli altri periodi.
Essendo il corpo composto per circa due terzi di acqua, la luna determina l’incremento delle “onde di marea umana”.
Ai poteri malefici e magici del satellite si collega la licantropìa, già nota in Babilonia dove il re in persona, Nabucodonosor, si riteneva d’essere un lupo.
Anche presso i Romani, Gaio Petronio Arbitro nel “Satyricon” racconta di Nicerote che persuade un suo ospite ad accompagnarlo nel viaggio:
«Si trattava di un soldato coraggioso come un leone. Ci avviammo al canto del gallo: splendeva la luna che pareva giorno. Ma, arrivati a certe tombe, il mio uomo si nasconde a fare i suoi bisogni tra le pietre, mentre io continuo a camminare canticchiando e mi metto a contarle. Mi volto e che ti vedo? Il mio compagno si spogliava e buttava le vesti sul ciglio della strada. Mi sentii venir meno il respiro e cominciai a sudar freddo. Sennonché quello si mette a inzuppare di orina le vesti e divenne d’improvviso un lupo».
Numerosi episodi del genere vengono riportati da noti scrittori e da studiosi.
Nel romanzo postumo dello spagnolo Miguel de Cervantes, “Persiles y Sigismunda”, che nella dedica al conte di Lemos del 19 aprile 1916 reca la frase:
«Con il piede già nella staffa, nell’angoscia della morte…», s’incontrano isole di
lupi mannari e di streghe che si mutano in lupe onde allevare la prole.
Per secoli i “lupi mannari” e le “versiere” (donne malvagie e scarmigliate) costituirono il terrore delle foreste, poiché si riteneva che vi fosse nei medesimi l’influsso demoniaco.
Il diavolo poteva trasformare in lupi famelici ogni stregone.
Lo attestano Strabone, Dionisio Afro, Varrone e tanti altri.
Scrive Virgilio nelle “Egloghe”:

“His ego saepe lupum fieri et se condere silvis
Moerim, saepe animas imis excire sepulchris
atque satas alio vidi traducere messis”.

(“L’ho visto spesso trasformarsi in lupo e nascondersi nel bosco di Moerim, far uscire spesso le anime da profondi sepolcri e trasportare messi ben piantate altrove”).
L’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, figlio di Carlo IV, che conosciamo per aver costretto l’antipapa Giovanni XIII a convocare il Concilio di Costanza, fece discutere in sua presenza il problema dei lupi mannari. Fu stabilito che la trasformazione di questi animali costituiva un fatto positivo e qualunque scroccone poteva spacciarsi per una versiera onde mettere in fuga la gente.
Si riteneva che gli stregoni portassero, fra carne e pelle, pelo di lupo.
Al dire di Fincel, un giorno si prese al laccio un lupo mannaro che correva per le vie di Padova. Gli furono amputate le zampe e subito la bestia riprese le sembianze umane, ma con braccia e piedi tagliati.

Si legge ancora nel “Dizionario infernale”:

«L’anno 1588, in un villaggio distante due leghe da Apchon, nelle montagne d’Alvernia, un gentiluomo, trovandosi verso sera alla finestra, vide un cacciatore di sua conoscenza e lo pregò di recargli la cacciagione. Il cacciatore glielo promise, ed essendosi avanzato nella pianura, videsi un grosso lupo che gli veniva incontro. Egli prese la mira e gli vibrò un colpo che andò fallito. Il lupo gli si scagliò addosso e lo assalì vivamente. Ma l’altro difendendosi, gli tagliò una zampa col suo coltello da caccia, e il lupo storpiato si mise in fuga, né si lasciò più vedere. Siccome avvicinavasi la notte, il cacciatore giunse alla casa del suo amico, il quale gli domandò se aveva fatta buona caccia. Egli trasse la zampa che aveva tagliata al preteso lupo: ma fu meravigliatissimo di vedere quella zampa convertita in mano di donna, e ad un dito stava un anello d’oro, che il gentiluomo conobbe appartenere a sua moglie. Egli andò tosto a trovarla, e la vide seduta presso il fuoco che nascondeva il braccio destro sotto il grembiule. Siccome ricusava di farlo vedere, egli le mostrò la mano che il cacciatore aveva recata, e l’infelice così scoperta, confessò che ella lo aveva assalito in forma di lupo mannaro. Il marito sdegnato la pose in mano alla giustizia che la fece dare alle fiamme».
Un episodio riguardante la “licantropa di Nicastro”, venne pubblicato nel 1883 a Londra nella guida turistica: “Cities of Southern Italy and Sicily”.
Il Conte di Masano, appassionato di caccia, aveva sposato la bella figlia del Barone di Arena. Possedendo costui una vasta riserva, per tenere lontani i bracconieri la faceva controllare dai suoi fidati guardiani.
Uno di questi ultimi, tornando dal padrone, raccontò che un compagno durante la notte era stato aggredito da un branco di lupi e che per difendersi aveva ingaggiato un’aspra lotta. Il malcapitato, col coltello, era riuscito ad amputare una zampa ad uno di quei feroci animali. Ma quale non fu la sua sorpresa allorquando, nell’estrarre dal tascapane la zampa, la vide trasformata in una mano di donna che dall’anello il Conte riconobbe essere quella della sua consorte? Effettivamente, chiamata, la signora aveva un braccio fasciato; tolte le bende apparve il moncherino sanguinante. Per punizione la nobile donna, prima fu rinchiusa nel castello e poi venne condannata a morte.
Nei racconti, chiaramente, si lavorava molto di fantasia.
Pure nella nostra società agricola pastorale del passato s’immaginava che nelle notti di plenilunio il lupo mannaro (“marcalupu”, “lupu minàriu” o “lupupampinu”) andasse in giro urlando e depredando, alla ricerca di sorgenti d’acqua per sbrodolarsi. I peli diventavano ispidi, le unghie gli si allungavano e poteva sbranare chiunque incontrasse, compresi amici e familiari.

In Calabria i lupi mannari sono chiamati lupu pampanu o marcalupu, sgozzano pecore e capre senza divorarle, solo perché amano il sangue caldo. Sono detti anche lupi minariu e così sono citati in un racconto popolare calabrese, noto come “la prima notte di nozze”: presso San Giorgio Morgeto (RC), una ragazza aveva sposato un uomo, senza sapere che fosse un lupo. Durante la prima notte di nozze, comprendendo che stava per avere una crisi, l’uomo si allontanò, dicendo alla moglie di non venirlo a cercare, ma lei lo seguì ugualmente, trovandolo in piena crisi e venendo sbranata. Quando rinvenne, dal dispiacere per la sua morte, si uccise anch’egli.

Bermani ci ricorda che a Catanzaro si riteneva che il licantropo girasse accompagnato da cani:

“Anche a Satriano (Catanzaro) si riteneva […] che il lupo fosse seguito da cani: […] A volte di notte, dentro la casa, fuori si sentivano degli ululati, però c’erano cani, si sentivano cani abbaiare, ma non uno, dieci o venti cani. E di solito si pensa che quando c’è sto lupo manaro è contornato da venti o trenta cani che gli stanno dietro.”

In “Storia e Folklore calabrese”, Domenico Caruso cita interessanti esempi locali:

“a S. Martino di Taurianova (RC) si consigliava di pungere con una canna appuntita, da un posto sicuro (possibilmente dall’alto), il licantropo che, alla prima perdita di sangue, faceva ritorno alla dimensione umana. In altre località della Piana di Gioia Tauro, il lupo mannaro, appena uscito di casa, custodiva gli abiti in un posto segreto per scorrazzare nei campi e alla periferia del paese. Prima dell’alba, poi, riprendeva i vestiti e raspava alla sua porta, ma soltanto al terzo tentativo i familiari potevano aprirgli. Anzi, in qualche abitazione si praticava un foro nell’uscio per essere certi dell’avvenuta trasformazione del proprio congiunto da lupo a uomo. Il segno di croce incuteva paura al licantropo che evitava, perciò, di attraversare ogni quadrivio. Lo stesso motivo induceva i nostri antenati a tracciare a Natale con dei carboni accesi, per tre notti consecutive, una croce sotto la pianta dei piedi dei piccoli affinché venisse loro scongiurato da grandi l’eventuale grave disturbo.”
Non possono mancare le vicende di santi che compiono miracoli. Qua abbiamo San Martino che, una notte, ferma un giovane che aveva la sfortuna di diventare lupo mannaro da mezzanotte all’alba, vagando per il paese e la campagna, spaventando tutti. Il santo gli fa tre segni della croce, intimandolo di uscire dal corpo del cristiano. Dopo le sue parole, un terremoto scuote la terra e il demonio esce dal corpo del ragazzo, la cui anima innocente è adesso salva.

Fonti: Scoprilacalabria.com
Calabriaonline.com
ascienzairiggiu.com
Portalecalabria.com

Giuseppe Oliva – Team Mistery Hunters

Il Tesoro di Cosenza: La Stauroteca Di Federico II

slide3

Il Reliquiario della vera Croce, detto Stauroteca (dal greco Stauròs che significa Croce, e heke, che significa raccolta) o Croce bizantina o Croce di Federico II può essere considerato il tesoro più importante di Cosenza. Interessante e affascinante è la sua storia. Questa importante reliquia giunse a Cosenza il 30 gennaio del 1222, in occasione della cerimonia di consacrazione della Cattedrale dopo il devastante terremoto nel 1184, come dono dell’Imperatore Federico II Hohenstaufen di Svevia alla città: “una reliquia del legno della Croce custodita in una croce aureo-gemmata”. Nonostante non si sia in possesso di un documento che ne attesti la veridicità, la critica ritiene l’evento verosimile in considerazione della politica federiciana di unità del Regno Meridionale e dei suoi rapporti con l’arcivescovo Luca Campano, promotore della ricostruzione e della consacrazione dell’edificio. In seguito ad una recente rilettura del Liber usuum Ecclesiae Cusentinae composto da Luca Campano, si attesta l’uso di una croce-reliquiario nella liturgia del Venerdì Santo che fa riferimento alla Stauroteca e alla “crocetta d’oro” fatta baciare da Carlo V quando entrò nella città nel 1535 e annoverata nel 1695 da G. B. Pacichelli tra le reliquie della Cattedrale.

Stauroteca-cosenza

Da “Cæsar Semper Augustus”, Federico II ha la medesima visione laica del nonno materno calabro-normanno Ruggero II il quale gli ha lasciato oltretutto uno stato che è quasi un impero ma anche ereditato la potente visione unitaria dell’impero germanico dal nonno paterno Federico Barbarossa. Non vuole separare la corona imperiale da quella del regno dell’Italia meridionale, e con grande rammarico di papa Onorio III, continua ad operare in modo da annullare anche le resistenze feudali, adottando un sistema di governo che completa e razionalizza quanto di più innovativo proviene dall’esperienza politica dei nonni.  Lo “stupor mundi et immutator mirabilis”, lo stupore del mondo e il miracoloso trasformatore come ebbe a scrivere Matteo da Parigi.

federico-II-exultet

Federico ha più volte rinviato una crociata già concordata e papa Onorio III invia alla corte di Palermo il legato apostolico Niccolò Chiaromonte, vescovo di Tuscolo e cardinale, con l’incarico di obbligare il regnante, sotto la minaccia della scomunica, a rispettare le promesse. Il legato ingiunge infine all’imperatore di partire immediatamente per recarsi a colloquio con il pontefice presso la nuova Abbazia cistercense di Casamari a Veroli. Federico è un pericoloso rivale del papato nel voler gestire il potere spirituale e temporale, e con la crociata il pontefice intende allontanarlo dall’Italia, forse per sempre.

Federico_II

È ormai inverno e Federico con la sua armata intraprende l’ennesimo viaggio nella penisola, cavalcando lungo le reliquie del cursus publicus ab Regio ad Capuam, nota anche come Via Popiliamostrandosi, alle popolazioni che incontra, in tutta la sua magnificenza imperiale. Tra intemperie e terribili tempeste si dirige a Veroli come gli ha chiesto il papa, ma vuole prima presiedere alla consacrazione della Chiesa di Cosenza, la città di Gioacchino da Fiore, confessore e guida spirituale di sua madre, Costanza d’Altavilla.

images.jpg

Nella capitale dei bruzi, sotto la guida dell’arcivescovo Luca Campano, discepolo e biografo di Gioacchino da Fiore e abate della Sambucina a Luzzi, sono tutti impegnati a completare la chiesa, ora Duomo di Cosenza, dopo diciotto anni di duro lavoro, così come sul vertice del Colle Pancrazio di riassettare il Castello normanno, ricostruito, come l’Ecclesia maior, dopo la distruzione della città causata dal terribile terremoto del 9 giugno 1184.

Cosenza_castello_panoramica.jpg

Il suono delle campane saluta il potente imperatore svevo e tutti in città assistono all’arrivo della corte, composta da principi, guerrieri musulmani, falconieri, scienziati, notai, musici e altri addetti alle mansioni più varie, tutti vestiti con un abbigliamento sfarzoso.  Ma è ancora più grande lo stupore dei cosentini al passaggio del serraglio imperiale composto da animali esotici come i leopardi e i ghepardi, giraffe, leoni ed elefanti, dromedari e cammelli con palanchini con tende che coprono alla vista donne velate misteriose accompagnate da giganteschi eunuchi neri.

Falconieri-De+arte+venandi+cum+avibus+1240-Federico+II.jpg

Tra sacerdotium e imperium, Federico II è oggetto di esaltazione, quasi di culto. Le maestranze erigono nel cortile del castello padiglioni eleganti con tende in grado di ospitare l’imperatore e tutto il suo seguito. Chi è ammesso all’accampamento può meravigliarsi del fastoso banchetto e dalle rappresentazioni degli artisti provenienti da tutto il Mediterraneo e disquisire con l’imperatore di argomenti che vanno dall’imminente Terza età dello Spirito di Gioacchino da Fiore alla leggenda del tesoro di Alarico fino all’interpretazione dei versi della bibbia e altre questioni teologiche.

la-cucina-alla-corte-di-Federico-II.jpg

Federico di primo mattino si reca presso la grangia di San Martino di Canale a Pietrafitta dove Gioacchino da Fiore passò gli ultimi giorni della sua vita e successivamente venne sepolto.

s mart retro.jpg

È il 30 gennaio dell’anno 1222, nel sesto anno del pontificato di papa Onorio III, e in tutta Cosenza è un giorno di festa.  Federico entra nella chiesa, indossando una tunica crociata con un ampio manto blu ricamato in oro, perle, filigrane e smalti e porta in dono la stauroteca consegnandola nelle mani di Luca Campano. In questo modo si rinnovava, una tradizione risalente a Guglielmo II (1153-1189) che era solito omaggiare con preziose croci d’oro e argento le fondazioni ecclesiastiche del regno. Niccolò Chiaramonte non può fare altro che porgere l’apostolica benedizione all’imperatore e al suo seguito e rivolgendosi alla folla consacra solennemente la Cattedrale di Cosenza in quel particolare giorno cosicché i posteri ricordino per sempre questo avvenimento.

Cosenza-Duomo-Calabriatravel.jpg

La storia critica della stauroteca  di  Cosenza – essa fra l’altro si può dire sia l’unica opera d’arte calabrese che possiede una vasta bibliografia – ebbe invece inizio  solo  alla  fine dell’Ottocento  quando  fu  presentata  all’Esposizione  di  Orvieto  (1896) ed è stata fin da subito oggetto di varie e contrastanti attribuzioni e datazioni.  Il silenzio perdurato fino  a  quel momento  è,  per certi  versi,  sorprendente. Nel commento a margine della mostra, Émile Bertaux riconobbe nella croce «la rivelazione più straordinaria  dovuta  all’Esposizione  (orvietana)»  e  ravvisò  in  essa «un’opera fatta a Costantinopoli, nell’epoca più florida dell’arte dello  smalto, verso i primi  anni  dell’XI  secolo». La traccia  segnata  dallo  studioso  francese  sulla provenienza orientale della stauroteca fu seguita negli anni successivi da tutti coloro che  si  occuparono  del  pregevole manufatto  e le uniche distinzioni  riguardarono  solo la cronologia del pezzo. Fu però  solo  a  seguito  della  presentazione  della  stauroteca all’Exposition internationale  d’art byzantine di  Parigi  del  1931 che il  dibattito  critico entrò  nel  vivo.  Zaloziecky   propose infatti  di  riconoscere  al  pezzo  un’origine siciliana  e  la  sua  ipotesi  fu  accettata  da  Lipinsky,  Hackenbrock   e  Haftmann, anche  se  il  giudizio  di  quest’ultimo,  espresso  nella  recensione  alla  Mostra Autarchica  Minerale  (Roma,  1939),  fu  in  parte  condizionato  dal  carattere  politico dell’esposizione.

03_Immagini_page23_image4

Si delinearono  dunque  due  filoni  critici  principali:  il  primo,  sostenuto  in modo particolare  da  bizantinisti,  tese  ad  attribuire  la  croce‐reliquiario  a  manifatture costantinopolitane  o,  quanto  meno,  a  distinguere  tra  la  parte  di  oreficeria (occidentale) e gli smalti (orientali); il secondo, portato avanti perlopiù da specialisti italiani,  ricercò  l’origine  della  stauroteca  nell’ambito  dei  laboratori  siciliani  della corte normanna.   In tempi recenti l’opzione dell’origine occidentale dell’opera si è resa prevalente e sostenuta anche dalla sua esposizione alle importanti mostre sui Normanni  (Roma, 1994) e su Federico II e la Sicilia (Palermo,  1995). I problemi di attribuzione della croce cosentina, rimasti  a  lungo  centrali nella  disamina critica del manufatto,  non  appaiono decisivi  per il  corretto inquadramento del reliquiario  che si  dimostra comunque un’alta ed originale espressione dell’arte comnena, espressione massima dell’arte ellenistica, a prescindere  da  questioni  attribuzionistiche,  anche  se  è  del  tutto  lecito supporre  che il manufatto cosentino possa essere frutto di un maestro costantinopolitano chiamato nelle officine di Palermo e/o essere stata realizzata in età tardo-normanna nei laboratori regali siciliani ed è plausibilmente entrata in possesso di Federico II assieme al composito tesoro dei suoi predecessori.

03_Immagini_page23_image2.jpg

Nonostante le lacune e le perdite, soprattutto la scomparsa di  tutti i fili  di  perle, che profilavano la croce all’esterno e i  singoli medaglioni, la stauroteca di  Cosenza emerge,  ancora  oggi, come uno  dei  vertici  più alti  della produzione dei  laboratori della  corte palermitana,  soprattutto  per il  sapiente  accordo  tra ciascuna  delle  sue parti. Se da un lato la croce affonda le proprie radici nella migliore produzione  costantinopolitana del  programma  figurativo dello  smalto  cloisonné, l’incastonatura di pietre preziose e di paste vitree entro un reticolato di cellette ad alveolo su lamina d’oro, la vera gloria artistica di Bisanzio almeno dal X secolo,  dall’altro  alcune peculiarità  iconografiche  e  stilistiche  la  connotano  indubbiamente  come  opera occidentale come  la  cosiddetta  filigrana  ‘a  vermicelli’  o  i  castoni  ‘a  cestello’ che conferiscono  all’intera superficie dell’opera un effetto di  brulicante  movimento  che,  per contrasto,  sottolinea la  fissità  delle immagini  a smalto. Sono certamente più coevi allo stile bizantino gli evangelisti, nei medaglioni laterali e la figura di Cristo, in quello centrale, mentre più vicino alla scultura gotica del 1200, sembra essere Cristo crocifisso per la resa della sua fisicità.

stauroteca_croce_493521e6556cb.jpg

Calata in un contesto storico ed artistico preciso, la stauroteca di Cosenza appare dunque  nella  pienezza  del  suo  significato  di  manufatto  prezioso  per  la  corte,  di squisita  custodia  per  la  reliquia  della  Vera  Croce  e  di  veicolo  iconografico  di meditazione sui  temi  della  Passione di  Cristo  per  quei  pochi  eletti  che avevano  la possibilità di  tenerla tra le mani  e di  osservarla da vicino. È dunque espressione di un’epoca in cui  le arti suntuarie avevano  una vocazione alla rappresentatività della dignità — veicolata dai materiali preziosi, su tutti l’oro, lavorati e combinati insieme con sapienza — se non pari, quanto meno paragonabile a quella espressa dai cicli musivi delle principali chiese. Nella  stauroteca  affiorano,  in  una  sintesi  originale  di  eccellente livello,  le differenti  tendenze culturali  che caratterizzavano  la  Sicilia normanna sullo  scorcio del XII secolo.

Stauroteca-Museo

La Stauroteca di Cosenza, così descritta, sembrerebbe una delle tante croci reliquario diffuse nella nostra penisola ed esposte nei più prestigiosi musei. Ma in realtà non è così. Ciò che rende tanto preziosa la Stauroteca di Cosenza è la preziosità della tecnica utilizzata per la sua realizzazione. (In questo link trovate la stauroteca in 3D http://www.museodiocesanocosenza.it/opere-360/360-stauroteca/). E’ alta cm. 26,2 e larga cm. 20,7. I medaglioni laterali misurano cm. 4,5 e il medaglione centrale cm. 5. E’ una Croce potenziata a schema cruciale quadrilobato in lamine d’oro ed orlo in filigrana. Fissata ad uno scheletro di legno, e ornata di smalti e gemme preziose. La Croce evidenzia una preziosa descrizione iconografica sul recto e sul verso. Da ambo le parti è presente l’iscrizione IC-XC, monogrammi del nome di Cristo.

Il recto presenta cinque medaglioni a smalto e sette placchette ornamentali a smalto: il disco centrale è più grande e ritrae l’immagine del Pantocratore, Cristo Signore assiso in trono, quelli laterali raffigurano gli Evangelisti per intero, seduti e nell’atto di scrivere: San Matteo (in alto), S. Luca (in basso), S. Marco (a sinistra), S. Giovanni (a destra); le placchette probabilmente rappresentano l’Albero della Vita. La disposizione dei medaglioni è stata ritenuta confacente a uno schema canonico-liturgico che, trovando affinità con quello architettonico-liturgico delle chiese ortodosse e protonormanne a cinque cupole, affermerebbe il carattere cerimoniale della stessa faccia.

03_Immagini_page23_image99

03_Immagini_page23_image101

Sotto l’immagine del Redentore, per contenere la reliquia della Croce, vi è un incavo cruciforme.

legno

Il verso presenta quattro medaglioni a smalto e una placca cruciforme a smalto: la piastra centrale rappresenta Cristo Crocifisso con quattro chiodi (iconografia del Patiens) e si qualifica per l’accentuato plasticismo d’accezione puramente costantinopolitana. Lungo la linea dei bracci corre l’iscrizione greca lstaurosis (crocifissione);

03_Immagini_page23_image34

il medaglione in alto rappresenta un arcangelo, forse Michele; i due laterali rappresentano la Vergine sulla sinistra e San Giovanni Battista in atteggiamento intercessore sulla destra, illustrati secondo i dettami dell’iconografia bizantina della Dèisis, cioè la preghiera della Madonna e del Precursore al fine di ottenere la clemenza divina; il disco inferiore rappresenta un altare con i simboli della Passione, della Resurrezione e dell’Eucarestia, le Arma Christi, con la scritta HC – TA (=la croce).

Il piedistallo a pianta ottagonale, tardo gotico in argento dorato arricchito con statuette, sul quale poggia la Stauroteca tramite un puntale, è stato realizzato da un orafo spagnolo tra la fine del ‘400 e i primi quattro decenni del ‘500.  Si può spiegare il motivo della possibile sostituzione dell’antica base, forse logorata dall’uso o andata perduta, con il ritorno del culto per la reliquia e della devozione alla Vera Croce in seguito al Concilio di Firenze del 1439. Infatti, risalgono a quest’epoca i numerosi rifacimenti e le aggiunte di importanti reliquiari bizantini importati in Occidente. Si è pure ritenuto che il cardinale Taddeo Gaddi – o un non meglio identificato cardinale Torquemada (Juan?) – al seguito di Carlo V, abbia regalato alla Cattedrale cosentina il bel piedistallo d’argento dorato in stile flamboyant che da allora sorregge il reliquiario e oggi costituisce, assieme al coevo e simile “Calice del Duomo”, uno dei pezzi più interessanti d’oreficeria spagnola presenti in Calabria.

Immagine3

La struttura interna della Stauroteca è in legno di acero, mentre il rivestimento esterno è composto da oro, pietre preziose e smalti. Il profilo del prezioso reliquiario, che doveva essere completato da un filo di piccole perle, insieme alla distribuzione delle gemme, rimanda a quello della Crux gemmata dalle estremità potenziate; queste, si allargano comprendendo medaglioni ornati ognuno da quattro castoni, in origine probabilmente impreziositi da gemme e ora ricostruiti, nel restauro del 1982, in numero di quaranta su tutta la superficie, del tipo “a cestello” realizzati con un filo d’oro ripiegato tante volte fino a formare una corolla – che trattengono un piccolo alamadino tagliato “a cabochon”. La concezione costruttiva e la decorazione del profilo delle due facce è identica, ma sul davanti la superficie dei bracci e arricchita da decorazione a filigrana disposta “a vermicelli”. La disposizione e la distanza delle strisce metalliche, atte a contenere lo smalto e dividere le sezioni colorate, delineano con efficacia le figure e il loro accamparsi nei medaglioni, esprimendo, fra l’altro, la morbidezza delle stoffe, sottolineando la struttura corporea dei personaggi e conferendo volume e vivacità icastica. Oggi è possibile visionare questo bellissimo e importantissimo tesoro nel Museo Diocesano collocato nel centro storico della città di Cosenza.

esterno.jpg

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: http://www.museodiocesanocosenza.it/la-stauroteca/ , http://www.ladeaeditori.it/federico-ii-a-cosenza-ita.html , http://www.incalabriatiguidoio.it/la-stauroteca-di-cosenza/ , http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it , Martinelli Stefano:La stauroteca di Cosenza.Iconografia, tecnica, stile, foto da internet.

Tra Grotte e Misteri: La Civiltà Rupestre in Calabria

cxy17soxuaaqjww-e1517352942785.jpgAncor prima della fondazione delle numerose città Magno-Greche in Calabria, risalenti al periodo che va dall’VIII al V secolo A.C., vi sono vestigia di agglomerati urbani che fanno pensare a più antichi centri abitati, ma non con tracce di città in muratura, bensì si fa riferimento a siti, ancora integri, di insediamenti rupestri. Sulle loro origini, che per tanti versi sembrano misteriose, è in corso da alcuni decenni una ricerca che dà ormai luogo ad interessanti scoperte. Il popolo che ha scavato tali grotte ha fondato la “Civiltà rupestre”. Ma in che epoca? Deduzioni logiche ci dicono che bisogna risalire ad una civiltà pre-ellenica: non bruzia, o latina, o greca non use ad abitare in siti rupestri, e nemmeno Enotra e Iapigia di cui è nota la tipologia degli insediamenti. Nè vi sono testimonianze letterarie che parlano di un popolo scavatore di insediamenti rupestri che già da sempre sono descritti come esistenti (Senofonte nell’Anabasi). Inoltre queste costruzioni se edificate in “periodo storico”, avrebbero dovuto lasciare memoria in numerosi riferimenti da commentari e da storici (il fenomeno non sarebbe sfuggito a Plinio, a Strabone, a Stefano Bizantino) mentre nulla permane. Ed allora bisogna risalire ad epoche precedenti, e, per deduzione, a popoli decisamente preistorici, anzi ad un unico popolo scavatore di grotte: questo popolo operò e visse sia da noi che nel Nord-Africa ed in Asia Minore e soprattutto nei paesi dell’Europa orientale. Una attenta ricerca archeologica, del resto mai operata, potrebbe indicarne il periodo originario con maggiore precisione. Fu primo il prof. Cosimo Damiano Fonseca ad aver detto che le grotte di tutto l’arco ionico ed altre d’oltremare sembrano edificate dalla mano di uno stesso popolo. Anzi ha precisato: “Quello che v’é da dire per un insediamento, vale per tutti gli altri!” L’asserzione convalida adeguatamente le ipotesi formulate su una unica civiltà preistorica che per libera scelta abitativa adottava insediamenti ipogei ed in tutto il bacino del Mediterraneo. Infatti si sono potute osservare delle caratteristiche architettoniche comuni in tutti gli insediamenti. Le analogie sono fondate su così sottili particolari che non vi é ombra di dubbio sulla loro unica matrice. Ne enumeriamo alcuni:

1) grotta di civile abitazione, alta in media m. 2,50, ad uso della famiglia troglodita, molto spesso divisa in due antri interni da colonna divisoria (Casabona, Matera, Massafra, Cappadocia);

2) piccole nicchie absidali alla base delle pareti e triangolari nella parete alta per riporvi orcioli di acqua, vino, miele, ecc. (Casabona, Matera Massafra);

3) fori alti per inserirvi la struttura di ripiani lignei, fori bassi per lettiere. (Matera, Casabona, Massafra, Petilia, Zungri)

4) criptoportico: intorno all’atrio spesso insistono una serie di grotte a raggera (Bari, Massafra, Casabona, Petilia);

4) sistemi di grotte caratterizzati talvolta da corridoio di ingresso (dromos), con distribuzione degli ambienti sui due lati (Bari, Matera, Casabona);

7) vasto camerone quale ” laboratorio ” che in periodo medievale ospitò, poi, trappeti o palmenti (a Casabona ancora oggi, Zungri).

caccu3

Sulle colline digradanti dalle pendici orientali della Sila, verso il mar Ionio, si concentra un gruppo consistente di aggrottamenti distribuiti in vari comuni della provincia di Cosenza e di Crotone. Questi centri più che mai si configurano come preistorici, e, siccome dalle caratteristiche appaiono coeve alle grotte materane, anch’esse sono da classificare d’origine del Paleolitico superiore con prosecuzione nel Neolitico. Le tipologie dell’habitat rupestre calabrese includono una vasta gamma di modelli di villaggi: si va dai grandi casali rupestri, quali Casabona, Verzino, Caccuri e Sbariati di Zungri ai piccoli nuclei insediativi composti da poche unità come Melissa e Rocca di Neto, fino alle dimore rupestri isolate, assimilabili all’insediamento sparso, come l’abitazione di Belvedere Spinelli. Un’analoga complessità si riscontra anche nella strutturazione urbanistica dei maggiori villaggi rupestri calabresi, riconducibili sostanzialmente a due categorie: la prima include unità disposte su più livelli ricavate nella roccia sfruttando gravine con pareti verticali ad andamento sinuoso o a gradoni lungo piste parallele, con accesso sia dalla sommità dell’altura che dal fondovalle, come ad esempio nei casi di Verzino, Casabona, Caccuri, Pietrapaola o, in parte Zungri, dove tuttavia la disposizione appare meno regolare; in altri casi le unità abitative si dispongono lungo un unico livello, come nel villaggio di Colle della Chiesa a Petilia Policastro o negli aggrottamenti di Rocca di Neto e Melissa. La sussistenza nei maggiori tra i casali rupestri considerati di un efficace impianto di viabilità interna, di raccordi tra i diversi livelli dell’insediamento realizzati con gradini ricavati nella roccia, di sistemi per la canalizzazione e la raccolta delle acque pluviali, costituisce l’indice di un embrionale ma efficace modello di ‘urbanesimo rupestre’, peraltro ancora sfuggente sotto molti aspetti. Così la stessa, diremmo, qualità della vita in relazione al materiale delle dimore rupestri risulta comparabile se non, per alcuni versi, superiore, rispetto a quanto si coglie dallo studio dei coevi villaggi epigei o di alcuni settori delle città medievali, dove abitazioni in materiale deperibile, di certo per tanti aspetti più precarie e meno salùbri delle dimore ricavate nella roccia, costituivano una costante del paesaggio. All’interno di alcuni villaggi si colgono altresì indizi di una seppur minima gerarchizzazione sociale, quali la maggiore raffinatezza di alcuni manufatti all’interno di uno stesso villaggio, come nel caso della cosidetta Grotta del Principe a Pietrapaola, o alcune abitazioni rupestri di Zungri che si distinguono per una ricercatezza estetica e per una certa complessità spaziale. La non infrequente attestazione, accanto a stalle, di strutture di lavorazione e trasformazione dei prodotti della terra quali i palmenti, l’individuazione di silos per la conservazione dei cerali, di vasche di lavorazione, e di forni, consente di scorgere, seppur in maniera ancora confusa, il rapporto tra i centri rupestri e il territorio circostante. Allo stesso modo la presenza di artigiani-intagliatori della pietra indica la capacità dei rupestri di disporre di saperi empirici non irrilevanti che potevano tornare utili in attività artigianali, come attestato a Petilia Policastro. Infine il collegamento, nella gran parte dei casi ad arterie viarie che connettevano tali nuclei demici (si pensi solo ai centri posti lungo le vie della valle del Neto, o Melissa e Verzino lungo l’itinerario della via Silara ricordata in una carta dell’imperatrice Costanza del 1196), fornisce la possibilità di postularne un rapporto con i fulcri economici principali dei rispettivi territori. Si tratta di elementi che concorrono nel delineare una situazione che inserire nella categoria socioeconomica della marginalità apparirebbe quantomeno azzardato.  Non usa mezzi termini Marilena De Sanctis, professoressa e autrice di un importante studio sull’urbanistica rupestre: “I monaci basiliani non scavarono nulla, semplicemente riutilizzarono qualcosa di preesistente”.

cere

Nella zona dello Ionio Cosentino sono presenti queste caratteristiche “città fatte di grotte” permeate da un alone di mistero riguardante le loro origini e dove poi successivamente furono trasformate, riadattate e modellate ad usi congrui per ogni epoca come per esempio Rossano con i monaci basiliani. Proseguendo verso mezzogiorno, nella provincia di Crotone, lungo la valle del Neto, un’importante arteria di penetrazione verso la Sila e il versante tirrenico (la Silara) agganciata alla via litoranea jonica traianea, la medievale via de Apulia, si snoda una serie di insediamenti che presentano le caratteristiche peculiari dei casali rupestri. E se Casabona era il centro propulsore di una civiltà, la città capoluogo, molti villaggi rupestri le ruotavano intorno: Caccuri e Cerenzia con oltre un centinaio di grotte, Petilia Policastro con un congruo villaggio rupestre, Cotronei con ben tredici siti ipogei, Mesoraca con la sua località “Grutti”, e poi a Nord i caratteristici Melissa e Verzino e a Sud Santa Severina, Rocca di Neto e Belvedere Spinelli; e tutti i siti sono disposti in piccole valli, ma a ridosso di percorsi transumanti per indicare la vocazione pastorale seminomade di quella antica popolazione. L’utilizzazione delle grotte a scopo abitativo sarà stata poi praticata, ma in tono del tutto trascurabile, durante l’Evo Antico, il Tardo Antico ed il periodo bizantino. Il Monachesimo italo-greco in alcuni di tali siti fu solo un fenomeno transitorio, come a Colle della Chiesa, a Santa Lucia, a Timpa dei Santi, da riferire ad epoca tra il VII e il XII secolo d.C. e più che aver scavato ha rimodellato alcune grotte. Presso il sito di Colle della Chiesa è stata rinvenuta un’ascia in pietra ed oggetti di selce e presso Timpa dei Santi delle asce dell’età del bronzo testimonianza che la zona era già abitata in epoche molto precedenti; non sembra affatto, infine, una coincidenza che le grotte di Casabona furono costruite in terreni del “Cenozoico” formati da calcareniti e da arenarie molto atte ad essere incise e soprattutto in strati geologici ricchi di selce che potrebbe essere stata la motivazione primaria della ubicazione, ma sicuramente lo è stata dello sviluppo della città rupestre preistorica. Scendendo poi più a Sud nel reggino abbiamo i casi isolati di Gerace e Sant’Ilario allo Jonio e Brancaleone e Vinco. Ancora più raro è invece il villaggio situato nel comune di Zungri che può considerarsi un unicum nel panorama dei villaggi rupestri in Calabria perché si affaccia sul mar Tirreno.

GrotteZungri_GalleriaAlta_02.jpg

ROSSANO

Gli insediamenti rupestri di Rossano risultano tra i più rilevanti e meglio studiati; qui, ad un consistente complesso all’interno del perimetro urbano con unità pluricellulari a pianta tendenzialmente rettangolare concentrate in tre nuclei principali, si affianca un secondo complesso in rupe nelle campagne circostanti. Un’identita scavata nel tufo da una comunità che viveva di pastorizia e agricoltura che ha dato vita ad un insediamento trogloditico. Le strutture sono scavate nell’arenaria e dislocate in quasi tutto il territorio; alcune sono inglobate in abitazioni e sono diventate magazzini. NeI rione “Pente” vi sono ventuno unità rupestri, di cui sette rilevate, oltre a quelle non più visibili perché andate distrutte. Un secondo nucleo omogeneo di undici unità, di cui sette rilevate, è situato nell’area Nord-Est del centro urbano, nella zona detta Conceríe, nella quale, come suggerisce il toponimo, era fiorente l’industria conciaria: ciò permette di ipotizzare che esse fossero opifici o magazzini. Sette, tre rilevate, sono ubicate nell’area denominata “Spuntone”, sei grotte al “Ciglio della Torre”. In Contrada Calamo si riscontrano quattro unità rupestri scavate in unico sperone roccioso e intercalate da una serie di gradini che consentono un facile accesso alla sovrastante spianata. Marilena De Sanctis commenta così i suoi studi su Rossano: ”Rossano presenta un centinaio tra grotte ed insediamenti rupestri. Di questi ne sono stati documentati trenta, con un accurato rilievo e documentazione, in sezioni e piante. Tanto da poter parlare di Rossano come città in rupe. Da qualsiasi parte si voglia raggiungere il centro storico, è facile vedere delle feritoie nella montagna, alternando ad abitazioni private del centro storico con un piano terra scavato. Una sorta di grotta palazzo sul modello pugliese. Rossano come Matera, come Casalrotto, come le Gravine di Puglia, come Massafra. Tutte zone in cui l’insediamento e la documentazione di una civiltà rupestre è parte integrata di un contesto, che fino agli anni ’50 non raccoglieva alcun interesse e che invece oggi, ha permesso a Matera di diventare capitale della cultura 2019. A Rossano si potrebbe fare altrettanto. Ogni casa di proprietà ha centinaia e centinaia di metri quadri di grotte, monocellulari e pluricellulari, scavati da pastori e contadini.”

_1010732.jpg

Grotta-dellEremita-a-Rossano-2Grotta-dellEremita-a-Rossano-3

PIETRAPAOLA

Di grande interesse risultano gli aggrottamenti di Pietrapaola costituiti da un nucleo rupestre principale dispiegato lungo il costone della Timpa del castello, un massiccio bastione arenitico ospitante numerose unità rupestri, ricavate su livelli grossomodo paralleli, e da un secondo nucleo ricavato lungo un imponente costone prospiciente, della stessa natura geologica, la Roccia del Salvatore, dove spicca, sul punto più alto dell’insediamento, la cosiddeta Grotta del Principe, un esempio estremamente raffinato di architettura rupestre, individuato negli anni ’70 da Domenico Minuto: si tratta di un invaso tricellulare cui si accede attraverso una serie di gradini ricavati in roccia, al cui interno si rinviene un arco a tutto sesto e una serie di colonnine con capitelli a motivi floreali riprodotti nell’arenaria. Oggi molte delle grotte sono state chiuse da privati e adibite a stalle o cantine. Una dimensione rupestre che del resto trova riferimento già nel nome stesso del paese derivante, secondo alcuni studiosi, dalla combinazione fra il termine pietra e il nome proprio Paula (dal lat. Paulus) oppure da un termine osco arcaico “petrapa” col significato di ‘luogo della rupe’ riferibile alla grande rupe che lo sovrasta.

thumbs_grotte

grotte-sila

CAMPANA

Altra comune interessato al fenomeno rupestre è senza dubbio Campana. Molto interessanti sono le centinaia di grotte in tutto il circondario del territorio di questo paese silano( ricordiamo anche quelle del comune vicino di Scala Coeli) e tra queste quelle più conosciute sono le “Grotte di Guardia”, un complesso di grotte scavate con grandissima cura nell’arenaria che hanno una larghezza e una profondità davvero notevole. Gli studiosi e gli storici parlano di abitanti del Neolitico, di guerrieri-pastori enotri e bruzi, di profughi fuggiti dalle invasioni arabe, di monaci bizantini, di eremiti che praticavano l’ascetismo e di contadini e briganti. Una lunga serie di gente che ha vissuto qui. Oggi le loro uniche tracce sono i segni di scalfittura, la patina di fuliggine sulle pareti e due grotte sono state murate con pietre e mattoni e usate come granai, magazzini e stalle. Ma forse quelle più importanti si trovano in località Incavallicata sotto le maestose e gigantesche “statue di pietra”, a tre metri l’una dall’altra, dell’Elefante e del Ciclope.  La prima figura è un elefante, precisamente un “elephans antiquus” antenato dei mammut, alto circa 5 metri, splendidamente scolpito, con le zampe posteriori in una flessione ponderale che lo fa sembrare in movimento e con gli occhi, la proboscide e le zanne ben marcati (i fossili di un intero elefante di questo esemplare sono stati ritrovati a pochi chilometri di distanza nel 2017 sul lago Cecita. Le misure del fossile coincidono con quello della statua). Dietro la zanna c’è un’altra protuberanza cilindrica mutilata che si protende verso il basso, e dà l’impressione della gamba di un uomo in groppa all’animale, ma la statua nella sua parte alta è incompleta. La seconda è alta sei metri ed è di interpretazione più difficile, ma forse rappresenta due gambe umane fino alle ginocchia, (poi la statua si interrompe poiché mutilata della sua parte superiore). Sarebbe stata nel complesso una figura davvero gigantesca. La posizione ricorda molto le statue di Memmone a Tebe e quelle di Ramses II nella facciata del Tempio di Abu Simbel in Egitto. I blocchi mancanti sono in parte andati perduti, in parte giacciono sul terreno circostante a qualche decina di metri di distanza.  Come dice lo scopritore del sito, l’architetto Domenico Canino: ”Se tali giganti fossero opera umana, saremmo di fronte alle sculture preistoriche più grandi d’Europa” e quindi ad una civiltà molto evoluta. Sotto le due figure nel blocco di roccia sottostante sono state scavate due piccole grotte, testimonianza di una civiltà cavernicola. La zona e’ particolarmente ricca di testimonianze preistoriche: il territorio di Campana, in base ai reperti rinvenuti negli anni e conservati all’ interno dei musei di Reggio Calabria e Crotone, risulta essere abitato sin dall’età del Ferro. Sono una testimonianza millenaria di una straordinaria civiltà preistorica della Calabria.

campa

11012310695151704

CASABONA

Il complesso rupestre calabrese più esteso è costituito senza dubbio dall’insediamento di Casabona . Oggi piccolo centro di appena 3000 abitanti, si configura come il villaggio preistorico più popoloso dell’antica Calabria. Se si escludono le grotte scavate di recente, le altre presentano le caratteristiche tipiche delle grotte neolitiche, mentre numerose sono state inghiottire dalla moderna urbanizzazione, altre ritoccate, ingrandite. Dal numero di quelle arcaiche doveva contenere, approssimativamente, almeno 200 fuochi (una enormità per il Neolitico) e gli abitanti dediti soprattutto ad una economia piuttosto pastorale che agricola, quindi seminomade, come è considerata per esempio dai Materani la civiltà neolitica dei Sassi.  Il villaggio si distribuisce sui due versanti della forra di Vallecupa. Lungo il versante sinistro della valle, al di sotto dell’attuale abitato, il Casu Bonum delle fonti medievali, si distende il nucleo maggiore, distribuito a scacchiera su ben sette terrazze parallele degradanti a spirale, ad andamento sinuoso confluenti verso l’unico asse viario di fondovalle, come ancora appare, su ognuna delle quali si dispongono, lungo piste naturali decine di grotte scavate nell’arenaria.  Molte delle unità rupestri presentano le caratteristiche tipiche dell’abitazione e l’utilizzo di elementi in muratura, articolate in uno o più vani. In quest’ultimo caso la parte più interna risulta divisa in due ambienti da un setto ricavato nella stessa roccia. Alla base dei vani spesso si aprono piccole nicchie per la conservazione dei prodotti. Gli ambienti si caratterizzano per la presenza di numerosi fori funzionali all’alloggiamento di pali lignei: pertugi sulla parte bassa indicano la presenza di lettiere sulle quali si posizionava il materasso, altri fori, posti più in alto, costituiscono innesto per ripiani e mensole. Alcune abitazioni sono fornite anche di focolare, né mancano locali adibiti ad attività di trasformazione dei prodotti della terra, quali vasche di palmenti per la realizzazione del vino: quest’ultimo ambiente è parte di un’unità tricellulare organizzata intorno ad un atrio centrale. All’interno di alcune grotte si rinvengono nicchie archiacute, elemento che sembra poter indicare una cronologia tardo medievale. La dimora rupestre spazialmente più complessa di Casabona si articola in un corridoio lungo il quale si accede da un lato e dall’altro a 4 vani scavati nella roccia. Il complesso conserva le tracce di un efficace sistema di canalizzazioni esterne ricavate nella roccia funzionale al deflusso delle acque. La lunga durata di attività dell’insediamento antropico a Vallecupa è testimoniata dalla circostanza che ancora negli anni 40 quasi tutte le unità rupestri, circa 450, erano utilizzate dagli abitanti del luogo che le detenevano in fitto dall’ente comunale. Che sia stata in epoca successiva al Neolitico l’antica Cone o l’antica Pandosia, o abbia avuto altro nome non cambia l’importanza della sua presenza nella preistoria calabra.

Casabona_grotte

7-interno6-grotta-pluricellulare

casa.jpg

MELISSA e VERZINO

Nel territorio di Melissa si individua un gruppo di nuclei rupestri, alcuni fagocitati dalla conurbazione del borgo, almeno altri due ancora ben visibili nelle campagne; qui l’aggrottamento si sviluppa lungo una pista di fondovalle ai piedi del colle sulle cui pendici sono ricavate le unità rupestri, tutte monocellulari a pianta quadrangolare, di diversa estensione. Talvolta gli ingressi risultano tompagnati da pietre legate da malta mentre i soffitti sono piatti o a capanna. Non distante, nel territorio di Crucoli si individuano altre unità rupestri. Il villaggio rupestre di Verzino fu ricavato lungo i fianchi arenitici della collina Spiruni su cui sorge l’attuale borgo a circa 500 m s.l. m., pochi chilometri ad est di Melissa. L’insediamento si compone di oltre 70 unità rupestri disposte su 4 livelli di terrazze ad andamento spiraliforme, attualmente per lo più adibite a deposito per attrezzi agricoli. Le unità rupestri di Verzino presentano planimetrie differenti con articolazioni interne che vanno dal semplice vano, probabilmente depositi, alle più complesse strutturazioni tricellulari tra loro comunicanti, con tracce di sedili risparmiati e nicchie sulle pareti con funzioni di credenze e per l’appoggio di lucerne. All’interno delle unità si notano spesso buchi di palo che dovevano reggere sistemi di scaffalature per la conservazione dei prodotti. I diversi livelli sui quali si dispone il villaggio, risultano raccordati da piste che costeggiano le unità rupestri.

Verzino(grotte)Grotte-Petilia-Policastro

22_05_17-11_41_01-u41a00081767a6ea67c44dea215e5483

CERENZIA e CACCURI

Non lontano da Casabona, nel comune di Cerenzia, nei pressi dell’antico centro è ancora visibile un piccolo nucleo abitativo rupestre composto da 9 unità ricavate lungo un costone di arenaria, al cui interno sono nicchie, incisioni cruciformi, forni in muratura e pilastri divisori ancora in muratura. Appena a sud di Casabona e Cerenzia, nel territorio di Caccuri, si individuano almeno 4 distinti centri demici rupestri. L’insediamento più consistente è posto lungo la parete meridionale dello spalto di arenaria sulla cui cima fu edificato il castello di Caccuri. Le unità rupestri attualmente rilevabili sono circa 50, disposte lungo terrazzamenti paralleli. Di particolare interesse un’abitazione con due ambienti comunicanti parzialmente divisi da un setto risparmiato nella roccia e un livello superiore. Il livello inferiore presenta una pianta rettangolare con soffitto a capanna; nella parete di sinistra si notano due nicchie e un’apertura per accedere alla quale furono realizzati gradini ricavati nella roccia; sulla destra è un foro praticato in corrispondenza dell’imposta della falda del soffitto. La porta conduce ad un secondo ambiente di pianta rettangolare irregolare, con soffitto a volta a botte irregolare e chiusa da un muro a secco sul lato meridionale. Attraverso una “botola” si accede ad un ambiente soprastante a pianta elissoidale. Si tratta di un tipo di abitazione rupestre che non trova confronti in Calabria. In genere le abitazioni rupestri di Caccuri risultano strutturate in ambienti monocellulari e dicellulari, con nicchie scavate lungo le pareti e, talvolta, con chiusure in muratura. Poco distante, in contrada Patia, nei pressi del monastero dei tre fanciulli, è presente un piccolo aggregato rupestre formato da almeno sette unità all’interno delle quali si scorgono nicchie e fori per travi, con ingressi in muratura. Sempre in territorio di Caccuri un nucleo di 5 grotte si rinviene nella località Vurdoi in prossimità dei ruderi di un’anonima chiesetta. Ancora lungo la valle del Neto, è l’insediamento rupestre di Timpa dei Santi: si tratta di un nucleo insediativo di cui oggi sussistono almeno 4 unità rupestri monocellulari gravitanti intorno ad una chiesa rupestre ricavata nella calcarenite con tre nicchie sul fondo affrescate.

caccucaccu1cere1caccu2

COTRONEI

Nel territorio di Cotronei si individua una costellazione di aggrottamenti, disposti lungo le vie di crinale che costituivano itinerari di risalita dallo Jonio in direzione della Sila sin dall’epoca preistorica. Tra questi i più consistenti e meglio conservati si rinvengono nelle contrade Rivioto, Santa Lucia e Favata. Quest’ultimo è costituito da almeno 20 unità rupestri visibili lungo un costone arenitico, mentre altre sono state inglobate in recenti edifici in muratura. Si tratta di unità per lo più monocellulari, di dimensioni variabili tra i 20 e i 30 mq, frequentemente tompagnate parzialmente da pareti in muratura. A poche centinania di metri si rinviene il piccolo nucleo rupestre di Santa Lucia, dove sussistono alcune unità, anche di notevoli dimensioni (fino a 100 mq), articolate in più vani, alcune comunicanti tra loro con solai a volta e a capanna, mentre altre sono state cancellate dalla conurbazione della zona. La vicinanza dei due complessi all’abitato medievale di Cotronei ne indica la natura di piccoli villaggi rupestri. Infine sei unità rupestri costituiscono il piccolo nucleo di località Rivioto, disposto su un unico livello: qui le grotte presentano una tipologia standardizzata, con intradossi voltati, nicchie interne e fori per mensole; in una delle unità si riscontra un raro caso, per la Calabria, di lettiera ricavata nella roccia di una foggia riconducibile alla tipologia ad arcosolio.

cotroneiCotronei-grotte-preistoriche-in-loc.-Liffi

PETILIA POLICASTRO

Il villaggio rupestre di Colle della Chiesa si articola in circa 30 unità, distribuite sui due livelli digradanti che caratterizzano il colle, 7 sulla terrazza superiore, almeno 23 sul costone inferiore. La tipologia degli ambienti rupestri di Colle della Chiesa risulta alquanto varia: le unità differiscono per dimensioni ( ve ne sono di monocellulari e bicellulari divise da setti risparmiati nella roccia, oltre a due esempi di ipogei con tre ambienti che si aprono lungo un portico esterno), per icnografia (tendenzialmente circolare o trapezoidale), per la forma dei tetti (a capanna e a volta), ma anche per i modi di realizzare i giacigli, che potevano essere ricavati nella roccia o con il già ricordato sistema delle lettiere lignee. Gli ingressi non presentano segni di chiusure in muratura. Singolare nel panorama rupestre policastrese risulta essere una grotta il cui ingresso è posizionato ad oltre tre metri dal piano di calpestio. Fori nella parete rocciosa testimoniano come l’accesso avvenisse attraverso una scala con pioli lignei. Alcune grotte presentano numerosi fori parietali su di una medesima parete, tracce in negativo di una complessa struttura di scaffalature, probabilmente per l’essiccazione dei formaggi o per la conservazione di altri prodotti. L’individuazione in uno di questi ambienti di una croce incisa nella roccia, con evidente funzione apotropaica, testimonia l’importanza che, nel contesto della loro economia, gli abitanti di quei casali attribuivano ai prodotti lì conservati.

peti

PETILIAgrottesandemetrio

pet

MESORACA

A Mesoraca, nel cui territorio ricadeva la celebre abbazia cistercense di Sant’Angelo de Frigillo, in località “Grutti”, nelle vicinanze dei ruderi di una chiesa medievale, si conserva un insediamento costituito da circa 20 unità rupestri disposte su un unico livello. All’interno delle grotte si scorgono nicchie ricavate nella roccia con funzioni di ripostigli, nicchiette laterali basse e triangolari, fori laterali alti per ripiani, e fori posti in basso per lettiere. Non mancano, in qualche caso, forni con volte realizzate in muratura utilizzando calcarenite e argille. In alcune unità rupestri, almeno in 5, si nota la presenza di intonaci dipinti e in un’altra si scorge un efficace sistema di raccolta interna delle acque. L’elemento icnografico e spaziale più notevole del complesso rupestre mesorachese si rinviene nella parte centrale dell’insediamento: qui, attorno ad un atrio, si distribuiscono a raggiera tre ambienti; partendo di qui altre tre unità risultano collegate da un cunicolo interno che si estende per una lunghezza totale di ben 40 metri.

mes

meso

SANTA SEVERINA, ROCCA DI NETO, BELVEDERE SPINELLI

Anche il centro di Santa Severina conserva tracce di un insediamento rupestre lungo i fianchi rocciosi del colle, nel quartiere Grecìa qui alcune unità rupestri, già notate da Paolo Orsi, sembrano indicare l’esistenza di un nucleo demico consistente in rapporto con il borgo soprastante. Poco distante da questi casali, ancora nel territorio Marchesato lungo la riva destra del Neto, si rinvengono altri nuclei rupestri con caratteristiche analoghe. Nei pressi della confluenza del torrente Vitravo nel fiume Neto, a pochi km dalla costa jonica, il territorio di Rocca di Neto custodisce un casale rupestre composto da oltre 40 unità ricavate nell’arenaria, lungo le pareti di tre colli nelle vicinanze dell’antica Rocca di Neto. Le unità, monocellulari e bicellulari, si dispongono su di un unico livello e presentano schemi planimetrici quadrangolari, con soffitti piani e nicchie scavate lungo le pareti. Scendendo lungo la valle del Neto, in territorio di Belvedere Spinello, si conservano i ruderi di un piccolo oratorio rurale nelle cui immediate vicinanze si rinvengono tre unità rupestri scavate in una calcarenite molto compatta. La tipologia potrebbe far pensare ad un piccolo insediamento lavritico ma non è da escludere si tratti un minuscolo nucleo di casale rupestre.

netossSanta-Severina_Grotte-di-Giulianetta.jpgneto1.jpg

BRANCALEONE e VINCO

Il piccolo borgo di Brancaleone superiore, oggi abbandonato, sorge su di una collinetta a circa 300 m s.l.m. nei pressi della costa jonica. Il complesso ipogeo, individuato da Francesca Martorano, si posiziona nei pressi dell’abitato subdiale ed è costituito da una ventina di unità rupestri disposte in tre nuclei principali di aggrottamenti, in parte inglobati in abitazioni in muratura. I nuclei rupestri erano collegati alla viabilità maggiore attraverso un sistema di sentieri che conducevano al fondovalle da dove si accedeva agevolmente alla via litoranea jonica. Le unità abitative di Brancaleone si caratterizzano per le dimensioni ridotte con presenza di nicchie per lucerne e sedili ricavati nella roccia, una articolazione interna elementare (solo di rado si riscontrano suddivisioni interne) e per una planimetria tendente alla circolarità. In un caso si osserva la presenza di vasche per la lavorazione la cui funzione specifica non è possibile precisare. La strutturazione dei piccoli nuclei demici rupestri di Brancaleone si completava con la presenza di una chiesa rupestre a pianta elissoidale, la Madonna del Riposo, dove sono conservati affreschi databili al XVI secolo. La più famosa è sicuramente la “Grotta dell’Albero della vita”, famosa in tutta Europa perché unica nel suo genere per tipologia (si pensi che delle grotte simili si trovano soltanto in Cappadocia); essa attira ogni anno studiosi ed appassionati che si immergono in un atmosfera suggestiva che solo questo luogo riesce a trasmettere. Sono ancora visibili dei graffiti davvero incredibili, posti dove un tempo vi era l’altare, orientato secondo la tradizione verso levante, un pavone stilizzato ed una croce astile. Sebastiano Stranges (noto archeologo e ricercatore, attivo collaboratore nella gestione del Parco Archeologico Urbano di Brancaleone a cura della Pro-Loco di Brancaleone), dopo aver scoperto molte grotte nel 2016 nel comune di Brancaleone, ha dato notizia che, agli inizi del 2018, nella zona detta “Calvario”, sono state individuate delle grotte interrate da detriti di frana che non sono state mai censite dagli studiosi perché praticamente nascosti dalla vegetazione affermando che è un altro passo per la riscoperta dell’antica Sperlinga, dal Greco Spelingx che vuol dire caverna-spelonca-grotta, che secondo i suoi studi corrisponde proprio con Brancaleone. Alla punta estrema della Calabria, poco a nord della città di Reggio, è stata individuata una serie di insediamenti rupestri alla falde meridionali dell’Aspromonte nei pressi del centro di Vinco a pochi km da Reggio, 13 nuclei per un totale di circa 50 unità rupestri, che, a differenza di Brancaleone, appaiono totalmente isolati, privi di qualsiasi collegamento con la non lontana città sullo Stretto e con la viabilità maggiore della zona. Alcune delle unità rupestri identificate, tuttavia, presentano una organizzazione planimetrica relativamente complessa, articolandosi in diversi ambienti e, in un caso, strutturandosi intorno ad un piccolo vestibolo centrale avente la funzione di raccordo tra diversi ambienti, fornito di camino con fori d’areazione in alto.

Brancaleone-vecchio-Foto-Enzo-Galluccio-6bra

brancaleone-superiore-resti-antichi1Brancaleone-vecchio-Grotta-Foto-Enzo-Galluccio

GERACE e SANT’ILARIO DELLO IONIO

Nei pressi del borgo, in contrada Stefanelli, è stato individuato un piccolo nucleo di villaggio, già attivo in età preistorica, dalla quale provengono ricche testimonianze archeologiche conservate nel Museo Civico della Città sito in Piazza Tribuna. Si pensa che la zona sia abitata da lungo tempo perché sono stati rinvenuti resti del periodo neolitico anche sull’acrocoro di Prestarona (dal greco”colombaia”) e nella grotta di Kau (dal greco baratro/voragine”) tra cui un’ascia bipenne in bronzo, dei coltellini in ossidiana e una testa di mazza a forma di virgola. Anche nella vicina grotta del Ponte sono stati rinvenuti ben 14 asce di bronzo che secondo il compianto scrittore Salvatore Gemelli appartenevano ad una popolazione preistorica che aveva contatti con la cultura egeo micenea. A Sant’Ilario ha fatto scalpore ultimamente il ritrovamento, fatto dell’Ingegnere Giuseppe Fausto Macrì insieme ad un gruppo di suoi amici, di un complesso rupestre di sensazionale bellezza composto da due ambienti. Il primo, a sezione pressoché quadrata, misurava approssimativamente 2.70 metri in larghezza e poco meno di 3 metri in altezza, per una profondità di circa 15 metri. La presenza di piccole stalattiti sul soffitto e di notevoli concrezioni calcaree sulle pareti concorre a far supporre un lunghissimo periodo di inutilizzazione della grotta se non come sorgente: il muro, ora crollato, all’imbocco della grotta serviva appunto a raccogliere l’acqua, che, poi, raggiunta l’altezza di un foro, fuoriusciva all’aperto. Per questo motivo, tra l’altro, il sito era conosciuto come sorgente (è anche così riportato in mappa catastale). Sul fondo di questo primo ambiente, parallelamente alla sezione di imbocco, persiste una parete perfettamente liscia, al centro della quale c’è un varco, della profondità di quasi 2 metri, che conduce ad un secondo ambiente: la particolarità di questo varco è data dalla forma ad arco a “sesto acuto” del traverso superiore, che denota ulteriormente la fattura antropica dell’intero complesso.  Questo secondo ambiente ha pianta circolare, con le pareti perimetrali che si innalzavano verticalmente per circa 2 metri, per poi assumere una conformazione a cupola, con un’altezza interna massima di circa 4.00-4.50 metri. In posizione fondale, perfettamente in linea con l’asse longitudinale dell’intero complesso e con il varco di collegamento, una piccola nicchia, anch’essa apparentemente sormontata da un arco a sesto acuto, delle dimensioni di circa 60 x 100 cm ed una profondità di circa 40. All’interno di questo, un altro incavo, di dimensioni molto ridotte (10 x 20 cm, per una profondità di un’altra decina di cm), che appariva essere la vera e propria bocca della sorgente, essendo in tal punto lo stillicidio un po’ più copioso e continuo. Alla base della “nicchia”, consistenti concrezioni minerali, bianchissimi, stratificati e declinanti verso il centro dell’ambiente. Parzialmente inglobati in questo ammasso di concrezioni, si intravedevano alcuni elementi litici (uno a forma concava, per metà emergente dalle concrezioni, apparentemente sbozzato a mano), e alcuni blocchi squadrati di circa 60 cm di lunghezza. Sulle pareti erano ancora a fatica visibili dei piccoli fori, di qualche cm di diametro e profondità, forse effettuati per l’alloggiamento di fiaccole. La presenza di due sorgenti, di cui la prima, in posizione defilata nella prima sala e caratterizzata dalla presenza di zolfo, mentre la seconda, pura e cristallina, in posizione più solenne, nella sala circolare, suggeriscono l’ipotesi che il complesso fosse destinato alla celebrazione di riti orfici in cui il divieto di bere alla prima fonte e l’importanza di bere alla seconda, la fonte della dea Memoria, risulta atto indispensabile per avviarsi alla via sacra.

ger.jpg

ila

ila5

ZUNGRI

Nel panorama dei rarissimi villaggi rupestri individuati lungo il versante tirrenico calabrese, l’esempio più ragguardevole è costituito dal casale degli Sbariati di Zungri, località ricordata per la prima volta nelle Rationes decimarum del 1310. Il villaggio sorge sull’altopiano del monte Poro dominante il promontorio di Tropea, intorno ai 600 m.s.l. Posizionato nei pressi del tratto della via Popilia che collega le pianure di Sant’Eufemia e di Gioia Tauro, non lontano da Mileto, l’insediamento rupestre degli Sbariati si compone di circa 80 unità rupestri, disposte in maniera abbastanza caotica lungo una serie di terrazzamenti e piccole gole. L’impressione iniziale di casualità nella disposizione delle abitazioni rupestri di Zungri è fugata dalla presenza di un efficace sistema di raccordo dei vari nuclei del villaggio disposti su livelli diversi, costituito da una serie di scale scavate nella roccia, funzionali alle piste che percorrono il villaggio, così come notevole risulta la raccolta delle acque attraverso un sistema di canalette ricavate nella roccia. Le unità abitative, di pianta circolare e quadrangolare, risultano frequentemente articolate in più vani, talvolta su due livelli e il buono stato di conservazione permette di rilevarne le caratteristiche peculiari. Alcune abitazioni presentano accessi elaborati con archi sagomati e stipiti in rilievo o varchi di ingresso a prospetto rettangolare, con porte di legno i cui controtelai erano poggiati in apposite riseghe. Le finestre delle abitazioni hanno fogge circolari e rettangolari, con alto dente interno ricavato nella roccia come parapetto. I soffitti delle abitazioni possono essere piatti, voltati e, in un caso, cupolati con foro d’areazione. Le pareti delle abitazioni rupestri di Zungri presentano numerose incavi ricavati nella parete rocciosa con funzione di ripostiglio e nicchiette per lucerne; in alcuni casi le nicchie sono poste a livelli più elevati al di sotto di soppalchi per raggiungere i quali vi erano scale interne talvolta ricavate nella roccia. Nelle abitazioni si rinvengono letti ricavati nella roccia mentre serie di fori a circa 40 cm da terra costituiscono l’alloggiamento per le traverse lignee sulle quali veniva posto il materasso del giaciglio. Attività agricole condotte dagli abitanti del villaggio sono suggerite dalla presenza di un grande silos per la conservazione dei cereali, di un palmento costituito da una doppia vasca sovrapposta per la pigiatura e la raccolta del mosto, e di un forno in muratura, oltre alla presenza di un certo numero di vasche di lavorazione all’interno degli ipogei.

zu1zu2.jpgzu

Un’ultima considerazione scaturisce dalla distribuzione geografica dell’insediamento rupestre in Calabria, dalla quale risulta evidente come il versante jonico della regione si caratterizzi per una consistente presenza di villaggi rupestri, a fronte di una quasi totale assenza lungo il Tirreno, se si esclude il singolare episodio di Zungri, versante dove, come hanno mostrato numerosi studi, si rinvengono per lo più antri naturali trasformati in santuari. Anche in questo caso bisognerebbe capire se una tale circostanza sia riconducibile a fattori di carattere eminentemente pratico, quali la migliore lavorabilità della roccia nell’area jonica o a motivazioni di ordine più propriamente culturale, come sembrerebbe potersi dedurre dalla pletora di villaggi rupestri, spesso analoghi nella strutturazione agli episodi calabresi, che punteggiano la medesima costa tra il Salento e la Sicilia orientale. Rimane la questione del silenzio finora riscontrato nelle fonti su questi villaggi, circostanza che, peraltro, rende oltremodo rischioso avanzare cronologie assolute che solo indagini globali potranno fornire con una certa accuratezza.

caccu4.jpg

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: Alessandro di Muro:Il popolamento rupestre in Calabria, famedisud.it, radicicalabre.it, Nadia Lucisano ph., Andrea Martini ph.

La Madre Geometrica : Vesica Piscis.

02646ac945089acc4e6449744a86c10a--relaxation-meditation-sacred-feminine

La geometria sacra è un insieme di rapporti e formule che permettono all’uomo di rimanere in contatto con tutte le emanazioni energetiche che giungono costantemente dal cosmo. La geometria sacra è la struttura morfogenica che sta dietro la realtà stessa, è l’immagine della struttura del cosmo e può essere utilizzata come lettura simbolica rappresentativa dell’universo. E’ presente in ogni cosa e nell’armonia geometrica di ogni struttura si ritrova la proporzione evolutiva di ogni elemento dell’universo, di cui rappresenta la verità trascendentale. Con la geometria, l’architettura sacra esprime i concetti più complessi per trasmetterli. Molti scienziati sono convinti che la matematica sia il mezzo con cui spiegare la realtà, ma il vero salto sarà fatto quando sposteranno la loro attenzione sulla forma, unica generatrice delle leggi fisiche.

51328467-simboli-geometria-sacra-e-insieme-di-elementi-12-a-1-Alchemy-religione-filosofia-astrologia-e-spirit-Archivio-Fotografico.jpg

La geometria sacra a volte viene chiamata linguaggio della luce o linguaggio del silenzio, questo è molto significativo, in quanto è a tutti gli effetti un linguaggio, è l’idioma attraverso il quale viene creata ogni cosa. E’ recente la scoperta scientifica, che ha dimostrato che il nostro cervello trasforma tutte le informazioni in entrata in immagini, prima di trasformarle in pensieri, parole e concetti e lo stesso avviene in uscita. E’ pertanto dimostrato che il cervello umano funziona per archetipi. Gli archetipi e le icone della geometria sono realtà assolutamente perfette, immutabili, senza tempo e scaturite direttamente dalla “Mente di Dio”. Un’immagine, quasi sempre geometrica, nasconde un significato a volte anche molto complesso.

1_iuZG-GN5-Hy8FZMuh5Jg0g.png

Nel simbolo sono spesso racchiusi diversi concetti contemporaneamente, può considerarsi praticamente un codice contenente una mola enorme di informazioni che si trasferiscono nel cervello in maniera subliminale. L’universo è vibrazione, e i principi della Geometria Sacra sono direttamente corrispondenti a tutti i fenomeni di forma d’onda. Tutte le vibrazioni. La Scienza è d’accordo, l’Universo è vibrazione, e la geometria è vibrazione manifesta a livello visivo sul piano del tempo e dello spazio. La Geometria Sacra è l’architettura dell’universo.

Geometria-sacra.jpg
Dall’ archetipo più semplice rappresentato dal punto, l’idea più semplice possibile, l’unità, la prima dimensione, l’onnipresente-onnipotente centro, la radice di tutto il pensiero olistico “IL TUTTO È UNO”,

punto_singolo

si passa all’universo bi-dimensionale con la divisione del punto singolo in due punti, la dualità, formando la prima relazione architettonica dell’Universo e allo stesso tempo creando la prima unità di misura astratta: lo spazio. Improvvisamente, il punto A è qui e il punto B è lì.

due_punti
Le potentissima energia contenuta nella prima relazione bi-dimensionale dell’universo (I Due Punti) si manifesta come un moto duale: il moto diritto (dal punto A al punto B) e il moto circolare (il punto B intorno al punto A). Questo movimento duale è chiamato Il Raggio/Arco. E’ il moto radice, il Big Bang concettuale. Tutte le varie energie dell’universo sono ricondotte al gioco tra il Raggio e l’Arco. Il Raggio/Arco è lo Yin e Yang, Luce e Ombra,Sinistra e Destra, Su e Giu, Madre e Padre… e così via. Tutte le manifestazioni di dualità vengono ricondotte al Raggio/Arco.

cerchio
Il rapporto senza tempo, sempre tenuto all’interno del Raggio/Arco, espresso scientificamente come Pi-greco (è un numero trascendente o cosiddetto irrazionale avente un valore di 3.14159265. Ai fini pratici, il valore è approssimato a 3,1416), è la formula matematica principale e si sviluppa visivamente per diventare la prima forma chiusa della Geometria Sacra, il Cerchio. Il Cerchio è l’unione e unità, è la manifestazione bi-dimensionale del Singolo Punto. Esso è anche l’essenza del Mandala, poichè contiene TUTTO in sé.

raggio_arco
La prima forma (Il Cerchio) viene creata ruotando il punto B attorno al punto A. Ma I Due Punti sono gemelli perfetti con eguale potenziale, e il punto A può anch’esso ruotare attorno al punto B usando il medesimo raggio. Questa naturale polarità, questo scambio di ruoli, produce un altro cerchio che interseca quello precedente creando la prima forma sovrapposta della Geometria Sacra, chiamata “I Due Cerchi Di Raggio Comune”.
Questi due cerchi sovrapposti con un raggio comune, creano la seconda forma chiusa della Geometria Sacra. Gli antichi chiamavano questo archetipo la Vesica Piscis. Il nome latino, che letteralmente significa “vescica di pesce”, deriva dall’osservazione che la forma di questa figura ricorda quella della vescica natatoria dei pesci. OGNI forma dimensionale di questo cosmo evolve da questa struttura. Questa figura può essere considerata “il grembo materno dell’universo”, infatti da essa, a ingrandimento continuo, si formano le altre strutture.

nuovi_due_punti
Come prima figura si forma il petalo, creato ruotando i primi due punti (A & B) intorno ai nuovi punti di intersezione C & D (i primi figli dell’universo, i gemelli), formato da quattro cerchi di raggio comune e cinque Vesica Piscis, e che rappresenta l’essenza della famiglia rivelata nella Geometria Sacra: i genitori (cerchi 1 e 2) e i figli (cerchi 3 e 4), il cuore della famiglia. Chiamato la “forma-seme” dato che tutte le forme necessarie sono ora presenti.

quattro_cerchi
Le altre figure sono create tracciando nuovi cerchi attorno ai nuovi punti E,F,G,H e poi così via, dando vita ad un’infinità di Punti, Cerchi, Vesica Piscis e Petali per formare quella che viene chiamato “Il Primo Motivo della Natura” o “Motivo della Creazione” di cui fanno parte il “Germe della vita”, il “Seme della vita”, il “Fiore della Vita” e inscritte in esso altre figure come l’”Albero della Vita” o il “Cubo di Metatron”. Esso è il motivo bi-dimensionale perennemente in espansione che, a livello concettuale, percorre l’intero universo. In altre parole la Matrix, la Griglia Sacra attraverso la quale la Vita si manifesta. Per comprendere ancora meglio il Primo Motivo della Natura è però necessario capire che nella realtà, questa griglia si sviluppa in tre dimensioni, e dove vediamo dei cerchi dovremmo invece immaginare delle sfere che si intersecano, non su un piano, ma in una rete infinita che si espande in tutte le direzioni.

modello_natura

germ_della_vita seme_della_vitafiore_della_vita

Tree-of-Life_Flower-of-Life1   MC-In-NFP-08A

Da uno dei suoi centri infiniti, il Primo Modello della Natura si divide naturalmente in dodici parti uguali. Questi 12 fette uguali sono di 30 gradi ciascuna e sono alla base dell’antico Sistema delle 12 Case Astrologiche. Questa divisione naturale è anche la responsabile per il nostro orologio di 12 ore e quindi del nostro metodo di divisione del tempo.

686449-Blue-zodiaco-orologio-d-oro-e-la-decorazione-deatail-Archivio-Fotografico.jpg

Ritornando alla “Struttura Madre”, cioè la Vesica Piscis o Mandorla Mistica, di per sé è un simbolo arcaico semplice ma dalla grande forza evocativa e simbolica che accompagna la spiritualità umana da millenni.

download

Questa figura ha differenti proprietà geometriche che l’hanno resa oggetto di numerose speculazioni filosofiche ed esoteriche nel corso dei secoli. Si può innanzitutto osservare che tracciando il tratto orizzontale mediano e unendo i suoi estremi con i due vertici, si vengono a formare al suo interno due triangoli equilateri uguali e contrapposti. In pratica, essi simbolicamente rappresentano il “Doppio Ternario”, attivo e passivo, maschile e femminile, che portati l’uno sull’altro formano un altro ben noto simbolo della Tradizione: l’Esagramma, o Stella di Davide.

gs7images.png
La particolare costruzione della Vesica Piscis fa sì che il rapporto tra la sua altezza e la sua larghezza sia pari alla radice quadrata di 3, ovvero 1.7320508…, un numero irrazionale, illimitato ed aperiodico, un numero sacro ai pitagorici chiamato “la misura del pesce”. Già Archimede di Siracusa dimostrò, quando si occupò della misurazione del cerchio, che questo rapporto era compreso tra due ben determinati valori razionali. La divisione tra 265 e 153 è quella più bassa per arrivare a questo risultato.

formula

Si può dimostrare che non esistono altre frazioni ottenibili con numeri minori di questi che diano un’approssimazione migliore per questo valore. Ebbene, il più piccolo di questi numeri, il 153, viene citato da Giovanni nel suo Vangelo (21:11) come numero di pesci miracolosamente catturati nella rete a seguito di un miracolo operato da Gesù dopo la sua resurrezione.

fig04-300x240

Molti studi e speculazioni sono stati fatti su questo numero e sui suoi significati esoterici, e sul perché sia stato citato nel passo del Vangelo. Tutti sono concordi, infatti, che nel contesto del racconto del miracolo citare il numero esatto di pesci catturati non ha senso (coincidenza o riferimento esoterico al credo pitagorico?). Giovanni, tuttavia, non sta redigendo un libro contabile, ma sta scrivendo un Vangelo, ossia un libro di fede e di insegnamenti mistici.

pesca_miracolosa_Monreale.jpg

Sant’Agostino spiega che Dio aveva fatto all’umanità due grandi doni: il Decalogo, ossia un gruppo di 10 comandamenti, e i doni dello Spirito Santo, che sono 7. Questi due valori combinati insieme danno il numero 17. Ora, è noto che 153 è un multiplo di 17 tramite il fattore 9 (153 = 9 x 17), ma è anche la somma dei primi 17 numeri, ossia:

153 = 1 + 2 + 3 + 4 + … + 16 + 17

Questo numero è uno di quelli che in matematica vengono definiti “numeri triangolari”. Ma il numero 153 ha molte altre proprietà matematiche. Ad esempio è la somma dei primi cinque fattoriali:

153 = 1! + 2! + 3! + 4! + 5! = 1 + 2 + 6 + 24 + 120

Il 153 è anche un numero “narcisistico”, cioè uno di quegli strani numeri che si possono ottenere da particolari combinazioni delle loro cifre componenti. In particolare, il numero 153 può essere ottenuto sommando i cubi delle sue cifre componenti:

153 = 1³ + 5³ + 3³ = 1 + 125 + 27

153-fish

Secondo l’esoterista indiano Drunvalo Melkisedek (nel suo libro “The Ancient Secret of The Flower of Life”) la proporzione della Vesica Piscis indicherebbe la frequenza dello spettro elettromagnetico della luce. La stessa Luce del primo verso della Bibbia, quella stessa di cui Iside si fa portatrice in alcune opere dell’antichità, come il Faro di Alessandria (luce della conoscenza e della consapevolezza). Si tratta di un concetto comune anche ai pitagorici e raffigurato in diverse opere, come la statua della Legge Nuova sul Duomo di Milano e la Statua della Libertà di New York.

statua-della-libertà-2.jpg

Inoltre considerandone l’impiego misterico e l’utilizzo dei suoi rapporti geometrici nei progetti di alcune notissime opere architettoniche, si giunge ad intuire l’importanza del tutto particolare del soggetto che stiamo trattando. Tutte le costruzioni, qualunque esse fossero, tenevano conto della geometria sacra diventando casse di risonanza delle vibrazioni della terra. Dall’anno Mille in poi, sull’onda dei grandi pellegrinaggi, si cominciarono a costruire chiese studiate e calcolate in funzione di parametri sacri della geometria che condussero gli uomini, dal periodo oscurantista che aveva appena attraversato, a un momento di grande spiritualità.

bern2.png

Le armonie che derivavano dalla musica erano ritenute l’espressione terrena dell’Armonia divina che Dio aveva emesso nell’atto della creazione e, secondo le leggi di questa armonia, il tempio veniva interpretato simbolicamente come corpo dell’uomo e corpo dell’universo. Per questo la musica usata nelle cattedrali risuonava a tal punto (come quella Gregoriana) che tutta la costruzione portava l’uomo a elevare il proprio stato di coscienza. Unendo la perfezione delle forme geometriche con la scelta oculata del posizionamento sul terreno, con l’orientamento in funzione delle stelle o dei momenti cosmici, con l’attuazione delle regole della geometria sacra, con le proporzioni e con il simbolismo, i costruttori di tutti i tempi tentarono di riunire l’uomo a dio. In architettura, ed in particolare in quella gotica, la forma della “vesica piscis” viene usata come sistema geometrico per il proporzionamento. Questo sistema è stato descritto nel “Vitruvius” di Cesare Cesariano (1521), con il nome di “regola degli architetti germanici”.

chartres-r_p.jpg
Questo simbolo si rinviene in moltissimi contesti: su megaliti e grotte preistoriche, fu conosciuto nelle prime civilizzazioni della Mesopotamia, in Egitto, in Cina, in India, tra i popoli celti ed in Africa; per gli Ebrei era il simbolo della Creazione dell’Universo, per i Cristiani era il simbolo del pesce, l’Ichthys, acronimo di Iesus Christos Theus Soter, cioè Gesù Cristo figlio di Dio e nella successiva elaborazione dell’iconografia cristiana, la Vesica Piscis viene associata alla figura del Cristo o della Madonna in Maestà e rappresentata in molti codici miniati, sculture e affreschi del Medioevo. Nel Talmud il Messia viene chiamato Dag che vuol dire appunto pesce.

8a4cd9e5245a467eeac376775d534d20
Questo simbolo, legato alla Dea Madre, secondo René Guénon nel suo libro “Simboli della scienza sacra”, ha una radice Iperborea infatti lui afferma che: “la presenza della Vesica Piscis è stata segnalata nella Germania settentrionale e in Scandinavia e in tali regioni essa è verosimilmente più vicina al suo punto di partenza che non nell’Asia centrale, ove fu senza dubbio portata dalla grande corrente che, derivata direttamente dalla Tradizione primordiale, doveva poi dar origine alle dottrine dell’India e della Persia”.

vesica piscis 17th_century_central_tibeten_thanka_of_guhyasamaja_akshobhyavajra_rubin_museum_of_art

Si tratta della vulva della Madre Terra: la mandorla infatti è un chiarissimo richiamo al Femminino Sacro e alle proporzioni della Geometria Sacra di unione degli opposti, analogamente al concetto di Yin e Yang. Le polarità intersecantisi generano il divino figlio della Madre Terra, ossia l’Uomo: un essere superiore in grado di sviluppare dentro di sé l’illuminazione spirituale.

bc8b6b9958dbf51f959f5418f2b65cb7-buddha-statues-buddhist-art.jpg

Ora, essendo essa una figura geometrica formata da sole due linee curve, e dunque un disegno di massima semplicità ed essenzialità, ha fornito nel corso degli anni la base e la struttura di moltissime creazioni artistiche per le civiltà del mondo intero, e non solo: costituisce uno di quei tracciati di base su cui si fondano le complesse architetture realizzate dall’uomo, ma anche dell’universo e l’anatomia degli esseri viventi. Nel corpo umano, gli occhi, la bocca, e quasi tutti gli orifizi attraverso i quali l’interno dell’organismo comunica con l’esterno, sono strutturati geometricamente sulla base della Vescica Piscis.

web-foto-1112

Ma perché questa apparentemente semplice figura geometrica ha avuto una così grande importanza nella raffigurazione dell’intelaiatura dell’Universo e dell’iconografia religiosa ed esoterica? La risposta è insita proprio nella sua origine geometrica: essa segna e rappresenta visivamente l’incontro e la compenetrazione di due mondi o dimensioni dell’essere. Essa è il nucleo unitario preesistente alla separazione degli opposti, o la loro riunificazione. Rappresenta perciò una sintesi, e l’abbandono o il superamento di ogni dualismo. Così se abbinata al Cristo o ad altre figure messianiche dei culti religiosi fondati sul mistero, la Mandorla Mistica ne svela la duplice natura (divina e umana) riunita.

800px-Codex_Bruchsal_1_01v_cropped

Se associata alla vulva ne rappresenta la funzione di ponte fra il celato e il manifesto, fra ciò che ancora deve nascere e quel che è già venuto alla luce. La Mandorla Mistica è anche simbolo delle fasi dinamiche che intercorrono fra l’inizio e la conclusione di un’eclissi solare, matrimonio per eccellenza delle sfere celesti, nel quale l’unificazione degli opposti risulta esemplificata, almeno visivamente, al suo massimo grado. È quindi metafora dell’opera, cosmica ma anche umana ed interiore, di creazione del paradosso costituito dall’unione di ciò che sembra inconciliabile: luce ed ombra, bene e male, maschile e femminile, alto e basso, spirito e materia, movimento e quiete.

vesica_piscis-moon-sun-836
Ma importantissimo è anche il significato della Vesica Piscis legato al culto della fertilità. Infatti l’ovale è un simbolo universale del Femminino Sacro, e la forma della vescica richiama anche quella della vulva femminile, il ‘passaggio della nascita’ e l’origine della vita. In Irlanda e in Inghilterra alcune figure di Sheela-Na-Gig, che possono essere viste in alcune chiese di origini molto antiche e che sono chiari simboli di fertilità, vengono rappresentate nude e con le gambe allargate, apertamente mostrando i loro genitali simbolicamente molto sproporzionati rispetto alla figura, come si nota ad esempio nella scultura trovata sulla chiesa di St. Mary e St. David a Kilpeck, nello Herefordshire, Regno Unito.

KONICA MINOLTA DIGITAL CAMERA
Non sfugge a questa simbologia nemmeno Maria Maddalena, vista come origine della Stirpe Reale, portando in grembo la discendenza avuta da Gesù, la stirpe merovingia e il santo Graal: se il Cristo-Pesce è simboleggiato dalla ‘vesica piscis’ in posizione orizzontale, la mandorla-grembo-vulva-coppa-Graal è la stessa ‘vesica’ in posizione verticale. Maddalena è iconograficamente identificabile da un vaso che reca in mano: il vaso, o coppa, o Santo Graal, è una metafora del grembo materno, ricettacolo della vita. Nella tradizione provenzale è Maria Maddalena che, fuggendo da Gerusalemme su di una barca dopo la crocifissione di Gesù, approda in Francia portando con sé il Santo Graal. La dinastia dei Merovingi, re e taumaturghi dotati di poteri di guarigione, è il frutto di questa discendenza divina: Meroveo, il capostipite, si dice sia nato metà uomo e metà pesce (il nome stesso significa, letteralmente, “uomo del mare”), come l’Oannes, figura mitologica dal torso umano e la coda di pesce.

smaria maddalena.jpg

Un notevole esemplare di vesica piscis è stato posto sul coperchio decorativo del pozzo del Graal a Glastonbury, all’interno del Giardino del Calice. Secondo la leggenda, Giuseppe di Arimatea, prozio di Gesù, avrebbe portato ad Avalon il Calice dell’Ultima Cena (il famoso Santo Graal), e lo avrebbe depositato sotto la collina sacra, da dove è scaturita la sorgente sanguinante, detta così per il colore rosso dato dalla presenza massiccia di ferro nell’acqua. Quindi, secondo la tradizione, il Calice è il recipiente che contiene l’essenza consacrata e Chalice Well e i suoi giardini sono essi stessi un recipiente per l’elisir vivificante della terra madre, Gaia, sotto forma delle acque che sgorgano qui. . Il coperchio è quindi il simbolo del passaggio nell’Altromondo, di protezione, di guarigione sacra, di conoscenza dei misteri della salute.

 

chalice_well_glastonbury_by_liverecs-d2zs1vl.jpg

chalice-well-header-v1b1a11091d4b6ca7425b7353e47034810146
Numerose teorie sulla storicità di Gesù affermano che la cristianità ha adottato certe credenze e pratiche come sincretismo di religioni misteriche come il Mitraismo, dalle quali avrebbe ereditato l’Ichthys. A sostegno di queste teorie è il fatto che sia il simbolo che la denominazione non sono una invenzione cristiana. Ichthys era, infatti il figlio della antica dea babilonese del mare, Atargatis ed era noto in vari sistemi mitici come Tirgata, Aphrodite, Pelagia o Delfina. La parola significava anche ventre e delfino in alcune lingue, e rappresentazioni di questo apparivano nella raffigurazione delle sirene. Il pesce si ritrorva poi in altre storie, fra le quali quella della dea di Efeso (che porta un amuleto a forma di pesce nella regione dei genitali), la Dea Madre cinese Kwan-Yin è una dea-pesce, e così anche la dea Afrodite che, dice la leggenda, nacque dalla spuma del mare. La dea indiana Kali, dopo aver inghiottito il pene di Shiva, diventa Minaksi, la “dea dagli occhi di pesce”, in analogia alla dea egizia Iside, che dopo aver divorato il pene di Osiride diventa Abtu, il Grande Pesce degli Abissi.

8dc841f5ad

La mandorla, come frutto o come seme, è da sempre un simbolo di fertilità, e come tale è stato associato, per esempio, alla dea frigia Cibele. Anche la ninfa greca Phyllis è stata trasformata dagli dei in un albero di mandorle. A Delfi, dove c’era l’oracolo di Apollo, la Pitonessa (o Pizia) profetizzava vaticini a chi lo consultava, ed il luogo era marcato da un omphalos di forma ovoidale. Inoltre nell’antica Grecia, “pesce” e “grembo materno” si esprimeva con la stessa parola: delphos.

428a14105fe7ac01568c3bf9ed4c418e.jpg
Troviamo la Vesica Piscis nei pressi dell’Antro della Sibilla di Cuma dove è chiaramente connessa con la Luna e la fertilità. Le ventotto tacche nelle pareti tufacee lo collegano al calendario mensile lunare, associato al ciclo femminile e alle mestruazioni, simbolo a loro volta della fertilità femminile. La Dea Lunare è qui colei che genera la vita sulla Terra, nel pieno rispetto del concetto della Triplice Dea.

travel-63.jpg

Caratteristiche sono anche molte sepolture nel cimitero vichingo di Lindholm Høje in Danimarca.

b475cddc926f2d1194dbd488ca25ed9e.jpg
Molti sigilli di ordini religiosi, come ad es. quello dei Cavalieri Gaudenti, e sigilli di Gran Maestri sono stati racchiusi all’interno di forme a mandorla invece di forme rotonde, più usuali. Modernamente, la troviamo parimenti rappresentata nella forma dei collari indossati dagli officianti dei rituali massonici, ma è anche considerata la forma più appropriata per inserirvi le figure dei sigilli delle logge, esempio lampante è il simbolo dell’ Ordo Templi Orientis di cui fece parte anche l’esoterista e scrittore Aleister Crowley.

eaa6551342b409e72885f533841b4153

Nei tarocchi la ventunesima carta chiamata “Il Mondo” raffigura proprio una donna in una Vesica Piscis. La carta numero XXI dei tarocchi è l’ultima della serie che, iniziata con il Matto, la carta non numerata, via via si sviluppa fino ad arrivare a compimento della ricerca della propria identità. Dal Mondo, il compimento, si può sempre iniziare un’altra fase della vita vestendo di nuovo le vesti del mendicante, di quello che abbandona tutto e inizia da capo mettendosi in strada, in discussione, ed affrontando le difficoltà che ne conseguono. Una corona d’alloro, segno del vincitore nell’antichità, che circonda una fanciulla ignuda, dal viso estremamente rilassato. Intorno quattro Icone, l’angelo, il bue, l’aquila e il leone. Queste rappresentazioni circondano la donna nella ghirlanda, come se fossero quattro diversi tipi di energia base, in sinergia tra loro. Sono per l’ennesima volta riferimento a simboli che vengono dall’antichità. Per la tradizione cristiana rappresentano i quattro evangelisti. Per gli astrologi erano i quattro segni cardinali dello Zodiaco, rispettivamente Acquario, Toro, Scorpione, Leone. Ma sono anche a memoria dei quattro elementi, Acqua, Terra, Aria e Fuoco.

il-mondo-tarocchi

La Dea Madre di ogni umanità ha partorito i suoi templi consacrando, con la sua presenza silenziosa, diversi luoghi sulla faccia del pianeta. Colei che non possiede altro Genere che il Principio si è adattata a far da cornice al Cristo di Chartre, si è infusa nella globalità dell’impianto del grande santuario di Karnak e nella sostanza progettuale del tempio di Tell el-Amarna.

chartres_sculp014.jpg
In merito a queste osservazioni indichiamo due tra le opere architettoniche più note del passato: Castel del Monte e la piramide di Cheope. Entrambe le costruzioni sono state realizzate attraverso l’applicazione e lo sviluppo dei rapporti geometrici della vescica e questa cosa sott’intende un legame tra i due edifici che si pone oltre il semplice confronto formale.

SphinxGeometry555

Nel tempio di Osiride ad Abydos è intagliato nella pietra,o meglio, è scavato talmente in profondità che anche raschiando per diversi centimetri la pietra, rimane sempre visibile, un fiore della vita. E’ stata usata una tecnica ancora oggi sconosciuta, che nessuno è stato ancora in grado di spiegare e replicare.

piramidi25 (1)

Particolare è la sfera che si trova sotto la zampa dei “Leoni di Fu” nella città proibita a Pechino dove sulla sua superficie troviamo proprio una seria di Vesica Piscis formanti una rete.

piramidi32piramidi30

Molto famosi sono anche i Crop Circles o cerchi nel grano che compaiono in tutto il mondo e solitamente sono costruiti basandosi appunto sulla geometria sacra e soprattutto sulla figura della Vesica Piscis. La teoria più diffusa è che queste formazioni siano fatte da popoli extreterrestri che usano proprio questo codice universale per comunicare con noi lasciandoci dei messaggi impressi nei campi.

FOL-cropcirclecrop-circle-fiore-della-vita774

Questo simbolo a causa della sua chiara associazione con la sessualità è utilizzato nella società moderna in diversi loghi di marchi famosi come Gucci, Chanel, DC Shoes, Mastercard e sigarette Kool solo per citare alcuni esempi.

Una nota curiosa.

In una visita della nostra Associazione presso l’Insediamento rupestre di Zungri, in provincia di Vibo Valentia, abbiamo notato sul muro interno di uno dei silos presenti nello splendido villaggio, una grande Vesica Piscis, scolpita in maniera diligente e rispettando le proporzioni, un motivo in più per visitare questo magico sito sul Monte Poro fatto di grotte scavate nell’arenaria e di sorgenti naturali che sgorgano dal nulla.

19477531_1596972010314105_5933264253051243548_o.jpg

interni-grotte-di-zungri-e1494338662316.jpg

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: amoredivino.it, simbolisignificato.it, ginocacinodiangelo.blogspot.it, orizzontemagazine.it, angolohermes.com

Il Calendario di Adamo: E’ ora di riscrivere la storia.

 

13L’Africa è sempre stata considerata la culla della civiltà. Oggi, questo fatto viene avvalorato da una scoperta che ha dell’incredibile.
A circa 280 km ad ovest del porto di Maputo, la capitale del Mozambico, sono stati rinvenuti i resti di una grande metropoli che misurava, secondo stime prudenti, circa 5.000 km quadrati. Faceva parte di una comunità ancora più ampia, di circa 35.000 chilometri quadrati, risalente ad un periodo che va dal 75000 al 160.000 a.C. Le migliaia di miniere d’oro scoperte nel corso degli ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto scavando l’oro in questa parte del mondo per migliaia d’anni. E se questa regione è in realtà la culla del genere umano, è probabile che stiamo analizzando le attività della più antica civiltà sulla Terra.

p1030263-copy

Sono sempre stati lì. Qualcuno li aveva già notati prima, ma nessuno riusciva a ricordare chi li avesse fatti o perché? Fino a poco tempo fa, nessuno sapeva nemmeno quanti fossero. Ora sono dappertutto, a migliaia, anzi no, centinaia di migliaia! E la storia che raccontano è la storia più importante dell’umanità. Ma c’è chi potrebbe non essere pronto ad ascoltare. Quando i primi esploratori incontrarono queste rovine, davano per scontato che fossero recinti per il bestiame realizzati da tribù nomadi, come il popolo Bantu, che si spostò verso sud e si stabilì in questa terra intorno al sec. XIII. Non si conoscevano le testimonianze storiche di nessuna civiltà precedente, più antica, in grado di costituire una comunità così densamente popolata. Poco sforzo fu stato fatto per indagare il sito perché la collocazione storica delle rovine non era per nulla nota.

2
La situazione è cambiata quando se ne è occupato il ricercatore Michael Tellinger, in collaborazione con Johan Heine, un vigile del fuoco locale e pilota che aveva osservato queste rovine negli anni, sorvolando la regione. Heine aveva il vantaggio unico di vedere il numero e la portata di queste strane fondazioni di pietra e sapeva che il loro significato non era apprezzato. Negli ultimi anni, queste enigmatiche formazioni di pietre sono state promosse, insieme alle piramidi bosniache, come le più antiche strutture umane del pianeta. Possono solo essere veramente apprezzate dal cielo o attraverso immagini satellitari. Molte di loro sono quasi completamente erose o sono state coperte dai movimenti del suolo fatti per l’agricoltura lungo il tempo. Alcune sono sopravvissute abbastanza bene da rivelare le loro grandi dimensioni, con alcuni muri originali in piedi, sino a quasi 2 metri d’altezza e oltre un metro di larghezza, in alcuni luoghi.

5

 

Guardando la metropoli intera, diventa evidente che si trattava d’una comunità ben progettata, sviluppata da una civiltà evoluta. Il numero di antiche miniere d’oro suggerisce la ragione per cui la comunità si trovava in questa posizione. Alcune strade si estendono per circa 500 chilometri  e collegavano le varie comunità basate sull’agricoltura a terrazzamenti molto simili a quelli trovati negli insediamenti Inca in Perù. Un calcolo approssimativo indica che le strade originali avrebbero richiesto l’utilizzo di più di 500 milioni di pietre tra i 10 e i 50 chilogrammi ciascuna.

Banturuins1

metropolis02

Il fiore all’occhiello della zona è senza dubbio il cosiddetto “Calendario di Adamo”.

L’area in questione è visibile nel quadrato formato dalle seguenti coordinate di Google Earth:

Carolina – 25 55′53,28″S / 30 16′ 13,13″ E
Badplaas – 25 47′33,45″S / 30 40′ 38,76″ E
Waterval – 25 38′07,82″S / 30 21′ 18,79″ E
Machadodorp – 25 39′22,42″S / 30 17′ 03.25″ E

calendario-adamo-2

Il Calendario di Adamo, chiamato anche il Calendario di Enki, è conosciuto come il più antico sistema di menhir al mondo, è di forma circolare, simile al più celebre Stonehenge, ma più antica di molte migliaia di anni, e si trova nei pressi di Mpumalanga (significa “il luogo dove sorge il Sole” in lingua Zulu), situato sulla cima di una scogliera in pendenza verso sud, nota come la scarpata di Transvaal, una zona ricca di quarzite e di giacimenti d’oro. La ragione per cui questa struttura è stata chiamata calendario, è dovuta al fatto che è disposta in modo da seguire l’evoluzione del sole lungo tutto il corso dell’anno: così come il sole si muove durante le stagioni, anche l’ombra che proietta sulle rocce si sposta allo stesso modo.

6
Il Calendario di Adamo è costituito da un gran numero di rocce apparentemente sparse a caso, di cui una piccola percentuale è stata posizionata per creare un cerchio, in tutto ci sono una dozzina di pietre che sembrano essere state collocate in posizione verticale, tra cui due alte circa 2 metri e mezzo che si distinguono in mezzo. La forma originale è ancora chiaramente visibile dalle immagini satellitari. Tra le rovine sono presenti le prime forme a piramide e alcuni dettagli scolpiti nelle rocce raffigurano il simbolo Ankh, utilizzato dagli egizi migliaia di anni dopo, come anche alcuni simboli Dogon, una tribù del Mali, dotata di inspiegabili conoscenze astronomiche. Il sito è stato eretto lungo il medesimo meridiano della Grande Piramide di Giza.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Dalla posizione dei monoliti e dalle misurazioni fatte da Heine la struttura circolare è stata volutamente progettata per allinearsi ai punti cardinali della Terra, e con gli equinozi e i solstizi. Heine ritiene di aver individuato vari allineamenti solari, tra cui uno particolarmente interessante che riguarda tre pietre reclinate che, a suo parere, una volta erano orientate verticalmente verso le 3 stelle della cintura di Orione.

calendario-adamo-3

Fin qui la cosa non susciterebbe sorpresa visto che molti siti preistorici sembrano contenere questo tipo di allineamento. La cosa che fa pensare è che l’allineamento delle pietre riguarderebbe la posizione della cintura di Orione come appariva circa 75 mila anni fa, anche se recenti studi portano la lancetta indietro nel tempo sino a 160000 A.C. . Gli indizi sembrano mostrare che ci troviamo di fronte a quella che forse è stata la più grande e misteriosa civiltà esistita sulla Terra.

metr09

Il ritrovamento di Heine ha aperto un vero e proprio ‘vaso di pandora’ sull’Africa del Sud, permettendo la scoperta di numerosi insediamenti in pietra che rappresentano un nuovo affascinante ed enigmatico capitolo per l’archeologia contemporanea. Si stima la presenza di oltre 20 mila antiche rovine in pietra sparse sulle montagne del Sud Africa. Gli archeologi e gli antropologi speculano sull’origine delle misteriose rovine, spesso etichettandole come ‘materiale di poca importanza’ e boicottandole. Mentre la parte della comunità scientifica più attenta e possibilista intravede un quadro completamente nuovo e sorprendente sulla storia antica delle rovine africane e sulla storia dell’uomo più in generale. Questo ritrovamento è in netta contraddizione con la storiografia tradizionale che si ostina inspiegabilmente ad insegnare che le civiltà più importanti ed imponenti sono apparse in Sumer e in Egitto, e che prima di esse non v’era nulla.

11

La verità è che si sa davvero molto poco su questi spettacolari rovine antiche e che purtroppo molte di esse sono andate distrutte per pura ignoranza dalla silvicoltura, dagli agricoltori e dallo sviluppo urbano. E’ chiaro che ciò pone immediatamente un problema enorme per archeologi, antropologi e storici, dato che l’inizio della storia della civiltà umana è comunemente collocata non oltre i 12 mila anni fa, con la nascita dell’agricoltura. E diventa ancora più complessa quando ci si rende conto che non si tratta di semplici strutture isolate lasciate dalla migrazione di orde di cacciatori-raccoglitori ma veri e propri osservatori astronomici e templi di un’antica civiltà perduta che risale a molte migliaia di anni fa.

10

Il ricercatore sudafricano Michael Tellinger si spinge decisamente oltre, fino a suggerire che il Calendario di Adamo possa essere stato realizzato addirittura 160.000 anni fa e così esprime la sua emozione nel scoprire questo luogo: “Quando Johan per primo mi ha fatto conoscere le antiche rovine di pietra dell’Africa australe, non avevo idea delle incredibili scoperte che ne sarebbero seguite, in breve tempo. Le fotografie, i manufatti e le prove che abbiamo accumulato puntano senza dubbio ad una civiltà perduta e sconosciuta, visto che precede tutte le altre – non di poche centinaia d’anni, o di qualche migliaio d’anni… ma di molte migliaia d’anni. Queste scoperte sono così impressionanti che non saranno facilmente digerite dall’opinione ufficiale, dagli storici e dagli archeologi, come abbiamo già sperimentato. E’ necessario un completo mutamento di paradigmi nel nostro modo di vedere la nostra storia umana”.

12

E riferendosi all’oro continua: “Le migliaia di antiche miniere d’oro scoperte nel corso degli ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto e scavato per l’oro in questa parte del mondo per migliaia d’anni. E se questa è in realtà la culla del genere umano, possiamo star guardando le attività della più antica civiltà sulla Terra. Mi vedo come una persona di mente aperta, ma devo ammettere che mi ci è voluto oltre un anno per digerire la scoperta e per capire che abbiamo realmente a che fare con le strutture più antiche mai costruite dall’uomo. Il motivo principale di ciò è che ci hanno insegnato che nulla di significativo è mai venuto dal Sud Africa. Che le civiltà più potenti sono apparse in Sumer e in Egitto e in altri luoghi”.

metr10

Tellinger rispondendo alle domande incalzanti del giornalista Adriano Forgione, in una intervista per la rivista Fenix, ci fa capire il perché del suo interesse per questo misterioso luogo: “Mi occupo di ricerche sulle origini del genere umano e sulla vera storia del  pianeta. Ho iniziato a mostrare interesse per questo tipo di argomenti nel 1979, durante il mio primo anno di università. Il Calendario di Adamo è il luogo principale dove si esplica il mio studio. Fu progettato per essere allineato ai quattro punti cardinali, N-S-E-O, ma presenta anche una pietra scolpita in forma di falco. Sono dell’idea che sia relazionabile alla divinità egizia Horus. Questa scultura segna il sorgere del sole durante l’equinozio di primavera nell’emisfero sud del pianeta. Sembra che questa sia la più antica scultura in pietra di Horus mai trovata sino ad oggi. È noto che Horus rappresenti sempre il sorgere del sole, quindi questo potrebbe significare che siamo davanti al luogo del sorgere dell’Horus primigenio.”

8

“C’è un problema: l’allineamento N-S-E-O è fuori allineamento di 3.1/- 4 gradi in senso antiorario in direzione nord-sud. Questo può significare solo una cosa: il Calendario di Adamo è stato costruito in un momento storico in cui nord e sud  presentavano un diverso angolo. Sto parlando del vero asse nord-sud, non di quello magnetico. Questo supporta la teoria di Charles Hapgood dello scorrimento della crosta terrestre. La pietra “Horus” è in relazione con altri tre megaliti che sono allineati con il sorgere di Orione. Questo allineamento specifico è stato datato ad almeno 160 mila anni fa. So che può sembrare assurdo ma è così. All’interno del cerchio del Calendario di Adamo abbiamo anche misurato un’incredibile quantità di campi elettromagnetici, sia nel vettore verticale che orizzontale del campo stesso. Inoltre, tracce di elevato calore sono riscontrabili sotto la superficie, fatto che suggerisce la presenza di un vulcano sotterraneo. Le frequenze sonore rilevate nel cerchio sono superiori a ogni altra misurazione effettuata in qualunque luogo della Terra, ben oltre i 375 gigaHertz. Tutto ciò è un supporto scientifico incredibile alla presenza in questi luoghi di una civiltà avanzata.  Il Calendario di Adamo è una struttura megalitica ben nota tra i custodi della conoscenza in Africa, sciamani, sangoma e uomini/donne di medicina. È considerato come uno dei due luoghi più sacri della terra, connesso alla creazione della razza umana. Nella cultura Africana di questi luoghi è conosciuto come “La Casa natale del Sole”. ”

9

E continua: ” Ci sono oltre 1° milioni di costruzioni di forma circolare, simili ai nuraghi sardi in tutta l’Africa meridionale. Una cosa pazzesca. Essa copriva la maggior parte del sud Africa, tutto lo Zimbabwe, parti del Botswana e  Mozambico. Un’area grande quanto Francia,Germania e Italia messe insieme. Sono convinto che si tratti di generatori di energia per la lavorazione dei metalli e dei minerali, principalmente oro, per mezzo del suono come fonte di energia. Queste strutture sono tutte collegate da migliaia di chilometri di canali di pietra che regolavano e assicuravano la conduzione di energia tra tutti i cerchi. Ci sono anche terrazzamenti agricoli che usavano questo flusso di energia per migliorare la produzione del grano. Ho trovato pietre di forma allungata che suonano come campane. Credo che servissero come “starter” per avviare il sistema di frequenza sonora, in quanto tali pietre emettono un solo tono. Le migliaia di pietre nelle pareti dei cerchi risuonano a diverse frequenze e ciò indica che possono risuonare con molte pietre “starter”, creando una forte e permanente ondata di energia sonora. Ci sono anche delle pietre coniche, come coni gelati, che sembrano essere le punte che concentravano il suono in fasci di energia sonora. Oggi questi strumenti sono chiamati SASER (Sound Amplification by Stimulated Emission of Radiation), potentissimi dispositivi di energia impiegati in applicazioni belliche. Funzionano come la punta di cristallo in un normale laser, che focalizza la luce in un fascio.”

4

Poi afferma ancora: “Vi sono pietre circolari forate al centro, perfettamente lisce e convesse, come se fossero state modellate dall’acqua nel corso dei millenni. Questi sono gli strumenti dei primi minatori e costruttori. Sono dei convertitori che generavano il passaggio da una frequenza a un’altra. Le misurazioni dell’energia, ha stabilito che i cerchi generano ancora enormi quantità di energia, lo abbiamo misurato. Onde elettromagnetiche, onde sonore e firme di calore. Abbiamo misurato il suono più in alto, 103 dB (decibel) proveniente dalle mura di alcuni cerchi. Una firma di calore di oltre 80°C (176° Fahrenheit) e 1800 Mega Hz nel Calendario di Adamo. Questi sono luoghi ancora molto attivi ed energetici. Quando le onde sonore raggiungono la superficie interna al cerchio formato dalle rocce, si rilevano dei motivi simili a fiori di ‘geometria sacra’. Inoltre, all’interno del cerchio, i segnali Gps si perdono. Se fate un passo là dentro, il segnale sparisce, se si fa un passo indietro, il Gps funziona di nuovo e tutto questo è dovuto al forte campo elettromagnetico. Chi ha creato quindi questo sistema di pietre? Non importa chi fossero quelle persone: avevano un alto grado di conoscenze di acustica e di astronomia.”

C5GH1cKWQAEeQZ6

E conclude: “Molte ricerche restano ancora da fare. Questi cerchi ci fanno tornare al primo popolo della Terra che estraeva oro in Sudafrica quasi 200000 anni fa. Le tavolette sumere lo chiamano Lulu Amelu, ed è il primo uomo Adamu. Ci sono collegamenti diretti con le tavolette sumere degli Annunaki e con la descrizione delle loro attività di estrazione aurifera sulla Terra. Siamo a conoscenza di oltre 75000 miniere d’oro e molte altre sono ancora coperte dal terreno. Questa civiltà è stata distrutta dal diluvio biblico circa 12- 13000 anni fa”.

metr15

Le idee di Tellinger si ispirano agli scritti di Zecharia Sitchin, filologo e studioso della mitologia sumera, il quale in diverse opere ha scritto che gli Anunnaki scavarono buona parte delle miniere d’oro in Sud Africa. Costoro sarebbero giunti dal loro pianeta natale Nibiru in cerca di giacimenti d’oro. Una volta giunti sul nostro pianeta, gli Anunnaki crearono l’Homo Sapiens, modificando geneticamente un ominide (secondo alcuni l’Homo Erectus, secondo altri l’Homo di Neanderthal) e creare un lavoratore che estraesse l’oro per conto loro. La creazione dell’uomo sembra essere descritta come una specie di clonazione o di quella che noi oggi chiamiamo fecondazione in vitro. Questo intervento degli Anunnaki avrebbe dato un colpo di acceleratore all’evoluzione umana, mettendo il turbo ad un processo che naturalmente sarebbe durato migliaia di anni. Le fonti di Sitchin per le sue conclusioni partono da una serie di testi sumeri ed ebraici, tradotti in maniera non convenzionale rispetto all’interpretazione tradizionale. Ci viene detto dalle tavolette che la spedizione è venuta per l’oro, e che grandi quantità sono state estratte e spedite fuori del pianeta. La comunità in Sud Africa era chiamata “Abzu” ed era la posizione privilegiata delle operazioni minerarie.

metr13
Poiché questi eventi sembrano coincidere con la regione delle più ricche miniere d’oro del pianeta (Abzu) e dove gli Homo Sapiens sono “nati”, alcuni ricercatori pensano che le leggende sumere possano, infatti, essere basate su avvenimenti storici. Secondo gli stessi testi, una volta conclusa la spedizione mineraria, fu deciso che la popolazione umana dovrebbe essere lasciata perire in un diluvio che era stato previsto dagli astronomi degli “dèi”. A quanto pare, il passaggio ciclico del pianeta natale degli dèi, Nibiru, stava per portarlo abbastanza vicino all’orbita della Terra e la sua gravità avrebbe provocato una risalita (marea) degli oceani a inondare la terra, mettendo fine alla specie ibrida, Homo sapiens. Secondo la storia, uno degli “dèi” aveva simpatia per un essere umano particolare, Ziusudra, e lo avvertì di costruire una barca per cavalcare l’onda del diluvio. Questo divenne la base per la storia di Noè nel libro della Genesi. Fu un fatto veramente accaduto? L’unica altra spiegazione è immaginare che le leggende sumere, che parlano della vita su altri pianeti e della clonazione umana, fossero straordinarie creazioni di fantascienza. Questo sarebbe di per sé sorprendente. Ma ora abbiamo la prova che la città mineraria, Abzu, è reale e che esisteva nella stessa epoca dell’improvvisa evoluzione degli ominidi a Homo sapiens.

1

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Ancora Forgione ci illustra come il Sudafrica potrebbe essere la culla dell’umanità: “Le teorie di Tellinger sull’origine sudafricana dell’uomo moderno hanno trovato inaspettata conferma qualche anno fa. L’ 8 marzo 2011, l’Università di Stanford in California, ha diramato i risultati di uno studio genetico sulle popolazioni africane. Attraverso la più grande analisi sulla diversità genetica delle popolazioni del Continente Nero mai svolta sinora, si è appurato che gli esseri umani moderni probabilmente ebbero origine in Africa meridionale più che in Africa orientale, come generalmente si supponeva. Lo studio pubblicato su “Proceeding of the National Academy of Sciences” è stato realizzato dai genetisti Brenna Henn e Marcus Feldman. Brenna Henn ha detto che lo studio ha raggiunto due conclusioni principali:  ”Una è che c’è una enorme diversità nelle popolazioni africane di cacciatori-raccoglitori. Questi gruppi di cacciatori-raccoglitori sono altamente strutturati e sono piuttosto isolati gli una dagli altri e, quindi, conservano una grande quantità di variazioni genetiche”. Henn ha aggiunto: “La seconda importante conclusione è che abbiamo preso in considerazione i modelli di diversità genetica tra le 27 diverse popolazioni africane, e abbiamo visto un calo di diversità che inizia proprio in Africa meridionale e progredisce man mano che ci si sposta verso il nord Africa. Le popolazioni dell’Africa meridionale, i Khomani Boscimani, presentano la più alta diversità genetica di qualsiasi altra popolazione. Questo suggerisce che l’Africa meridionale potrebbe essere il luogo migliore per individuare l’origine degli esseri umani moderni”. Gli scienziati non riescono ancora a capire perché questo nuovo tipo umano denominato Homo Sapiens apparve improvvisamente, o come avvenne il cambiamento, ma sono in grado di rintracciare i nostri geni sino ad una sola donna, che è nota come “Eva mitocondriale”.

metr11

Eva mitocondriale (mt-MRCA) è il nome dato dai ricercatori alla donna che è definita come l’antenato comune matrilineare più recente (MRCA) per tutti gli esseri umani attualmente viventi. Tramandato da madre a figlio, tutto il DNA mitocondriale (mtDNA) in ogni persona vivente è derivato da questo individuo di sesso femminile. Eva mitocondriale è la controparte femminile di Adamo Y-cromosomico, l’antenato comune patrilineare più recente, pur vivendo in tempi diversi.
Si crede che Eva mitocondriale sia vissuta tra 150.000 a 250.000 anni a.C., probabilmente in Africa orientale, nella regione della Tanzania e delle zone immediatamente a sud e ad ovest (ma il ritrovamento in Sud Africa, sovverte tale certezza). Gli scienziati ipotizzano che vivesse in una popolazione di forse 4.000-5.000 femmine, in grado di produrre prole. Se altre femmine avessero avuto prole con cambiamenti evolutivi del loro DNA, non se ne registra ad oggi alcun dato sulla loro sopravvivenza. Sembra quindi che siamo tutti discendenti di questa femmina umana.

metr12
Eva mitocondriale sarebbe stata pressoché contemporanea di esseri umani i cui fossili sono stati rinvenuti in Etiopia, nei pressi del fiume Omo e di Hertho. Eva mitocondriale visse molto prima dell’emigrazione dall’Africa, che potrebbe essersi verificata tra 60.000 e 95.000 anni fa. La regione dove si può trovare il massimo livello di diversità mitocondriale è quella segnata in arancione, mentre la regione in cui gli antropologi ipotizzano che la divisione più antica della popolazione umana abbia iniziato a verificarsi è quella in rosso scuro.

7

L’antica metropoli si trova in quest’ultima regione, che corrisponde anche al periodo stimato in cui le mutazioni genetiche improvvisamente accaddero. Strana coincidenza. Abbastanza da darci da pensare per un po’.  Mentre l’umanità continua a riscoprirsi, e nuove conoscenze emergono, riflettiamo sul fatto che anche i libri di Storia dovranno essere riscritti.

 

 

calendario-adamo-4

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Fonti: it.scribd.com , ilnavigatorecurioso.it , liutprand.it , hystoria.info, epochtimes.it

Le Aree Archeologiche più famose della Calabria

inizio.jpg

Continua il viaggio dell’Associazione Culturale Mistery Hunters, attraverso le bellezze della Calabria.
Una serie di ricerche nate dalla volontà di far conoscere posti meravigliosi, con storie affascinanti che aspettano solo di essere scoperte.
Per farvi ripercorrere il percorso fin qui svolto facciamo un piccolo sunto: siamo partiti dai 20 Castelli più belli della Calabria, abbiamo scoperto le 10 città fantasma Calabresi più famose e abbiamo visitato virtualmente le Grotte del Romito , il Codex Purpureus Rossanensis e la mitologica Kaulon.

Oggi invece vi parleremo del patrimonio archeologico della Calabria che ricopre nel sistema dei Beni Culturali una posizione privilegiata, dovuta alla grande rilevanza storica dei siti messi in luce nell’ultimo secolo. I Siti Archeologici in Calabria purtroppo non sono molti rispetto a quella che fu la potenza del territorio nel periodo greco-romano. Ciò è dovuto al fatto che la città odierna sorge spesso sullo stesso posto in cui sorgeva la colonia antica originaria o più semplicemente molti siti sono ancora da portare alla luce o sono stati scavati solo in parte.  I siti archeologici presenti in Calabria sono la testimonianza delle varie dominazioni e culture che hanno interessato il passato di questa regione. L’influenza della dominazione delle popolazioni italiche prima, e di quella greca e romana dopo, rimane evidente ancora oggi nella tradizione e nella cultura calabrese. All’evento TourismA 2017, il più importante evento in Italia di esposizione, divulgazione e confronto di tutte le iniziative legate al mondo antico, svoltosi nel Palacongressi a Firenze, la Calabria archeologica è stata una delle protagoniste con il suo Polo museale presente con uno stand e promotore dell’incontro “Parliamo di Calabria” curato da Angela Acordon, direttore del Polo museale Regionale, con gli interventi di Rossella Agostino, direttore dei musei Archeologici Nazionali di Locri e di Kaulon, Gregorio Aversa, direttore dei musei Archeologici Nazionali di Crotone, Capo Colonna, e Scolacium e Adele Bonofiglio, direttore dei musei Archeologici Nazionali della Sibaritide e di Vibo Valentia. Il dibattito ha fatto conoscere a livello nazionale il rilevante patrimonio storico, artistico, monumentale e archeologico calabrese con un’attenta disamina delle peculiarità delle strutture ricadenti nel Polo Regionale con una attenzione particolare data anche ai musei Archeologici più piccoli, ma altrettanto ricchi di manufatti e di storia. Di seguito sono elencati solo una parte dei siti archeologici valorizzati e non della regione, forse i più importanti e conosciuti.

inizio 2.jpg

Area archeologica di Sibari

L’antica città di Sibari (in greco antico: Σύβαρις, Sybaris) fu la prima colonia fondata dai greci sulla costa ionica della Calabria intorno all’VIII secolo a.C. La città si affacciava sul mar Ionio e si trovava in mezzo a i fiumi Crati e Coscile, a sud del golfo di Taranto. La zona della Sibaritide fu il centro della civiltà degli Enotri, che ebbe la massima fioritura nell’Età del ferro, prima di essere spazzati via dai coloni greci giunti dall’Acaia nel 730-720 a.C. circa. I Greci sconfissero e ridussero i locali alla schiavitù, quindi fondarono Sibari (Sybaris), il centro della zona dove transitavano le merci provenienti dall’Anatolia, in particolare da Mileto. Nell’Antichità la ricchezza di Sibari era proverbiale, ma la sua sorte fu segnata, dopo la sconfitta contro Siris (alleata a Crotone e Metaponto). Il conflitto nacque probabilmente per ragioni di contese commerciali e culminò con la battaglia del Traente (510 a.C.), che vide la vittoria dei crotoniati, l’assedio di Sibari e, settanta giorni dopo, la sua distruzione, per la quale venne anche deviato il fiume Crati affinché passasse sopra le rovine della città sconfitta. I sopravvissuti di Sibari partirono per la madrepatria, dove ottennero l’aiuto di Atene per tornare in Calabria e fondare, nel 444 a.C. con altri nuovi coloni ateniesi, una nuova colonia sullo stesso sito, chiamata poi Thurii. Il nuovo impianto della città fu progettato dal famoso architetto e urbanista Ippodamo. I conflitti però tra sibariti e ateniesi portò a un conflitto interno, che culminò con la cacciata dei sibariti. Nel 194 a.C. la città fu fondata nuovamente come colonia romana con il nome di Copiae, che fu presto cambiato nuovamente in Thurii. Continuò ad essere in un certo qual modo un luogo importante, posta in una posizione favorevole e in una regione fruttifera, e sembrerebbe che non sia stata completamente abbandonata fino al Medioevo. Dimenticata in seguito, i suoi resti vennero individuati scavati a partire dal 1932 e con particolare intensità dal 1969. Tutt’oggi sono aperti vari cantieri, per cui lo scavo è ancora lontano da essere esaurito. Il parco archeologico, sorto in prossimità dei resti della città, riguarda una vasta area che si estende per 168 ettari di terreno. I ritrovamenti archeologici, frutto degli scavi fin ora effettuati, hanno fatto emergere reperti di età romana, risalenti alla colonia di Copia sorta sui resti della città greca di Thurii (in greco antico: Θούριοι, Thoúrioi). Una delle zone di rilevante importanza storica è quella del Parco del Cavallo, nel quale i lavori sono cominciati nel 1932. Il cantiere del Parco del Cavallo è ricco di reperti che riguardano la città di Copia. In quest’area sono stati rinvenuti i resti del più importante edificio pubblico dell’antica città: il teatro-emiciclo. La fase più antica dell’edifico risale al I secolo a.C e si trattava di una struttura a pianta semicircolare che doveva avere la funzione di mercato o di luogo per le riunioni. Dopo un secolo, intorno al I secolo d.C., l’edificio subì profonde trasformazioni e venne riadattato a teatro. Le decorazione dell’edifico, recuperate negli scavi consistevano principalmente in fregi e statue. Di fronte il teatro si trovava il foro, che fu risistemato su un’area risalente al periodo ellenistico che, probabilmente, aveva la funzione de agorà. Nell’area del Parco del Cavallo sono situati i resti dell’edificio termale la cui costruzione risale al I secolo d.C. Le terme si trovavano vicino al teatro ed al foro. All’edificio si accedeva tramite una serie di ambienti comunicanti decorati a mosaico con tessere bianche e nere che formavano motivi geometrici, dai quali si passava per arrivare agli ambienti termali. Delle terme sono riconoscibili il calidarium ed il tepidarium. L’ultima fase dell’edificio risale al VII secolo quando perse la funzione termale e venne riutilizzato come luogo di culto cristiano. Nello stesso cantiere si trovano i resti di alcune abitazioni, tutte con la tipica planimetria delle case romane di età augustea, con cotile quadrangolare. Dietro il teatro sono stati trovati i resti di una domus romana decorata da pavimenti in mosaico. Sempre in quest’area, è stato trovato un bronzo risalente al V secolo a.C. denominato Toro Cozzante. Nella zona del Parco del Cavallo sono emersi, inoltre, i resti di una grande strada lungo 350 m e larga 13 m con direzione nord-sud che incrocia un’altra strada in direzione est-ovest larga 7 metri. Un’altra zona di scavi si estende dal Parco del Cavallo verso il mare e prende il nome di Casa Bianca. Qui è conservato un ambiente costruito nel IV secolo a.C. in cui è presente una torre circolare che aveva una funzione di riparo per le imbarcazioni fino al I secolo a.C., periodo in cui venne edificato un grande ingresso. Successivamente, intorno al III secolo, l’area venne convertita in necropoli, a causa dell’allontanamento della linea costiera. Un’altra area, detta Stombi, infine mostra una zona urbana a insediamento misto, solo in parte riedificata dopo il 510 a.C., con alcune fondazioni di età arcaica, tra le quali un edificio modesto, pozzi e fornaci. A partire dalla fine degli anni Novanta e fino ad oggi, una missione composta da archeologi di diverse Università italiane e straniere, della Scuola Archeologica Italiana di Atene e da archeologi greci ha intrapreso un progetto di scavi regolari a Sibari, grazie al quale la conoscenza archeologica del sito si è enormemente ampliata. Notevole importanza hanno avuto, inoltre, le ricerche archeologiche nelle località poste ai limiti della piana di Sibari: siti come Francavilla Marittima erano noti archeologicamente molti decenni prima di Sibari stessa. Infatti ricerche condotte nel 1879 e ancora nel 1887 avevano portato alla scoperta di una vasta necropoli dell’età del ferro, formata da circa 200 sepolture ,con ricchi materiali anche precedenti l’età della colonizzazione greca, ai piedi della collina. I reperti archeologici dell’antica città sono oggi custoditi nel Museo archeologico nazionale della Sibaritide. Il museo ospita al suo interno reperti che risalgono dall’era protostorica della Magna Grecia fino alla civiltà romana relative alle città di Sybaris, Thurii e Copia, e ai vari stanziamenti presenti nella zona. Le testimonianze di maggiore interesse sono dei frammenti architettonici, i corredi tombali risalenti all’età del ferro, gli ornamenti religiosi del santuario di Atena del VI-IV secolo a.C. Di notevole importanza la tabella in bronzo con dedica appartenenti a Kleombrotos figlio di Dexilaos, cittadino sibarita vincitore di una gara ad Olimpia, risalente agli inizi del VI secolo a.C. Il 18 gennaio 2013 una forte alluvione ha provocato un allagamento dell’area archeologica di Sibari, a causa anche dell’incuria dell’uomo. 20 mila metri cubi d’acqua hanno coperto interamente il parco archeologico. Dopo 1500 giorni, l’11 febbraio 2017, con l’ausilio di pompe idrovore e impianti di sollevamento per il prosciugamento delle aree interessate, il sito è stato riaperto al pubblico e ora fruibile da tutti.

sib 2sib 4ARCHEOLOGIA: PARCO SIBARI TORNA A SPLENDERE DOPO ALLUVIONEsib 3sib 7

Area archeologica di Monasterace

L’antica colonia della Magna Grecia identificata con il nome Kaulon o Kaulonia si trova nei pressi di Punta Stilo nel comune di Monasterace in provincia di Reggio Calabria. L’area intorno al sito su cui insisteva la polis viene chiamata dagli archeologi Kauloniatide. La leggenda più affascinante sulle origini di Caulonia risale a fonti del IV sec. a.C. che narrano della remota presenza sul posto dell’amazzone Clete, la nutrice di Pentesilea, regina delle Amazzoni. La donna-guerriero sarebbe qui approdata dopo la guerra di Troia quando, morta in battaglia la sua regina e deciso il rientro in patria, finì con la sua nave alla deriva sulle coste dell’Italia Meridionale a causa di una tempesta. Qui Clete sarebbe vissuta tranquillamente allorché il mito vuole che gli Achei guidati da Tifone di Aegium sbarcarono sulle coste della Calabria e, con l’aiuto dei Crotoniati, distrussero il suo regno. Solo suo figlio Claulon si sarebbe salvato e avrebbe ricostruito la città che la chiamò con il proprio nome, Caulonia, diventandone così l’eroe eponimo. Secondo Strabone, invece, il nome della città deriverebbe da aulonia, vallonia, cioè valle profonda. La città era limitata a sud dal fiume Sagra, sulle cui rive nel VI secolo a.C. si svolse la famosa Battaglia del Sagra, in cui Caulonia alleata con Crotone fu sconfitta da Locri Epizefiri e Rhegion (Reggio), grazie al miracoloso intervento dei Dioscuri, i due gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus e di Leda, conosciuti sia per essere due degli Argonauti, gli eroi che parteciparono alla ricerca del Vello d’oro, sia perché secondo la mitologia, visto il loro profondo legame, Zeus gli concesse di vivere per sempre nel cielo, sotto forma della Costellazione dei Gemelli. Nel IV secolo a.C. Kaulon fu poi sconfitta dalle forze congiunte dei Lucani e di Dionisio I di Siracusa, sconfitta che costò nel 389 a.C. la deportazione dei suoi abitanti a Siracusa e a Pietraperzia e la cessione del territorio a Locri, alleata del tiranno. Ricostruita da Dionisio il Giovane, Kaulon fu in seguito preda di Annibale durante la seconda guerra punica, finendo poi definitivamente nell’orbita di Roma per opera di Quinto Fabio Massimo nel 205 a.C. Nonostante la città sorgesse in un’area fornita di numerose risorse naturali quali il legname e i giacimenti minerari di rame, argento e piombo, nonché di un buon punto di approdo e di locali cave di pietra da costruzione, il suo rapporto con Crotone l’avrebbe resa col tempo una sua appendice. Caulonia fu tuttavia fra le prime città della Magna Grecia a coniare monete d’argento: sono infatti numerose quelle ritrovate che risultano realizzate con il metallo estratto nella vallata dello Stilaro. Le più antiche (del VI° sec. a.C.) sono gli “stateri incusi”, con figure e iscrizione incavate sul rovescio e rilevate sul diritto, con una figura maschile nuda e dai lunghi capelli ed un’altra più piccola, con accanto un cervo dalla testa rivolta all’indietro e la scritta in greco Kaul. I primi scavi sono attribuibili a Paolo Orsi (1911-1913), che in quel periodo era Soprintendente ai Beni Archeologici della Calabria e cofondatore del Museo della Magna Grecia. Paolo Orsi ritrovò sulla spiaggia i resti di un tempio dorico del quale sono rimaste le fondamenta costituite da blocchi di pietra arenaria. L’edificio è lungo 41 metri per 18,20 metri di larghezza ed è eretto su una terrazza artificiale e sopraelevato su un crepidoma (piattaforma a gradini rialzata in pietra) di 3 o 4 gradini, dove la cella vera e propria, preceduta dal pronao (spazio davanti alla cella), e conclusa da un vano retrostante, era circondata da un colonnato, di 6 colonne sui lati brevi e 14 o 13 sui lunghi che dovevano essere alte oltre 5 metri. L’area archeologica di Monasterace comprende, oltre al tempio, alcune zone situate immediatamente dopo le mura dello stesso. A 200 metri a sud-ovest delle mura sorgeva infatti il santuario della Passoliera del quale sono state rivenute solo alcune terrecotte risalenti a diverse fasi comprese fra il VI e il V secolo a.C. In quest’area archeologica sono presenti, oltre al tempio, i resti del centro urbano di Kaulon, cinto di mura e posto al livello del mare, alcune abitazioni tra cui le più famose sono quelle denominate “La casa del Personaggio Grottesco”, “Casamatta” e “La casa del Drago”, quest’ultima famosa per il ritrovamento di un mosaico di eccezionale fattura raffigurante un drago, diventato poi simbolo del parco.  Nell’edificio denominato “Terme di Nannon”, uno dei pochi edifici termali ellenistici del sud Italia, è stato ritrovato un mosaico raffigurante draghi e delfini che copre un’area di 30 m² ed è quindi considerato il più ampio mosaico della Magna Grecia. In questo sito è stata anche ritrovata una tabella in bronzo che contiene il testo più lungo in alfabeto acheo della Magna Grecia composto da 18 linee, con le lettere ordinate regolarmente secondo il sistema di scrittura detto stoichedon. Si tratta di una lunga dedica votiva, in gran parte metrica, che menziona tra l’altro l’agorà (la piazza pubblica di ogni citta’ greca, cuore della vita politica e commerciale), una statua e un elenco di divinità di grande interesse per la conoscenza dei culti. Importante anche il patrimonio sommerso e restituito dal mare tra cui gli imponenti resti di un tempio Ionico esposti al Museo di Monasterace, ricchezza che ha giustificato il vincolo apposto anche allo specchio di mare antistante il parco. Da quest’area sono emersi anche due contenitori in terracotta ancora pieni di pece, uno dei prodotti che resero famosa la Calabria nell’antichità. Tecnicamente definiti kadoi, sono esemplari molto rari paragonabili solo ad alcuni altri rinvenuti in Puglia. Oggi si sta cercando di salvare il parco archeologico, sia dall’incuria dell’uomo e sia dagli agenti atmosferici che la minano continuamente, con fondi europei che purtroppo vengono sfruttati male o non erogati a causa della burocrazia che attanaglia la nostra regione.

reggio_calabria_museo_nazionale_mosaico_da_kaulontempio-kaulon79870633mon 3.jpgmon 2.jpg

mon1.jpg

Area archeologica di Scolacium

Il Parco Archeologico di Scolacium si trova in località Roccelletta di Borgia, località a 10 km di distanza dall’ attuale Squillace, a sud di Catanzaro Lido. L’identificazione del sito archeologico è da attribuire ad Ermanno Arslan. Il ritrovamento di un’epigrafe con il nome della colonia romana di Minerva Scolacium un’antica città costiera del Bruzio, ma che ebbe una storia millenaria attraverso greci, brettii, romani, bizantini, saraceni e normanni, gli permise di attestare la validità storica dell’area. Minervia Scolacium è il nome della colonia romana che fu fondata nel 123-122 a.C. nel sito dove precedentemente si trovava la città greca di Skylletion, a nord di Kaulon. Il centro greco è nominato da Strabone ed ha un mito di fondazione collegato alle vicende della guerra di Troia: sarebbe stata fondata da Ulisse, naufragato in quella terra o dall’ateniese Menesteo durante il ritorno da Troia. Storicamente la fondazione di Skylletion si deve con ogni probabilità a Crotone, che si contendeva con Locri Epizefiri il controllo sull’attuale istmo di Catanzaro e dei traffici marittimi presenti in quel settore; il centro ebbe all’origine specificamente il carattere di presidio militare, presente dalla prima metà del VI secolo a.C. Sembra sia passata sotto il controllo dell’ethnos italico dei Brettii nel corso del IV secolo a.C. e che abbia conosciuto un periodo di decadenza dal III secolo a.C., fino alla fondazione della colonia romana ad opera di Gaio Sempronio Gracco. La Scolacium romana ebbe vita prospera nei secoli seguenti e conobbe una fase di notevole sviluppo economico, urbanistico e architettonico in età Giulio-Claudia. Vi fu fondata una nuova colonia sotto Nerva, nel 96-98, col nome appunto di Colonia Minerva Nervia Augusta Scolacium. In età bizantina diede i natali a Cassiodoro (487-583), uno dei più grandi autori della tarda romanità a cui si deve una messe di opere di carattere teologico ed enciclopedico. Il declino cominciò con la guerra greco-gotica del VI secolo e le incursioni dei Saraceni dal 902 d.C., concludendosi con l’abbandono della città nell’VIII secolo. Gli abitanti, ripetendo una pratica comune in quell’epoca sul suolo italico, trasferirono il loro insediamento sulle alture circostanti, fondando altri insediamenti tra i quali quello sulla collina prospiciente l’attuale quartiere Santa Maria di Catanzaro. Successivamente questi centri provvisori furono riorganizzati in posizioni più difendibili e le popolazioni insediate intorno allo Zarapotamo come quelle della collina prospiciente l’attuale quartiere S. Maria di CZ contribuirono alla fondazione della nuova città di Catanzaro. Gli scavi, iniziati nel 1965, hanno portato alla luce non solo i resti dell’antica colonia, ma hanno posto l’attenzione anche sull’ abitato greco di Skylletion. La struttura dell’insediamento greco è ignota e dagli scavi sono emerse solo ceramiche e monete databili intorno al VI secolo a.C. Nuove campagne di scavo condotte dalla Soprintendenza archeologica della Calabria hanno fatto emergere strutture murarie di età ellenistica, cosa che farebbe pensare alla sovrapposizione topografica delle città. Il punto più importante dell’area si trova in prossimità del foro, che presenta una pianta rettangolare ricoperta da mattoni quadrati e circondato da portici, nel quale si svolgevano le principali attività della vita quotidiana della colonia romana. Sono ancora visibili i resti del Capitolium, il più importante edificio di culto della città romana che si affacciava sulla piazza. I resti dell’edificio son molto scarsi e l’unico reperto visibile è una parte del podio. La Curia, sede del senato locale, ed il Caesareum, ovvero il luogo in cui veniva celebrato l’imperatore, sono due edifici sorti al posto delle tabernae. Non molto distanti dal foro, adagiati sul pendio di una collina, si trovano i resti del teatro che mostrano tre diverse fasi edilizie: la prima risalente all’età tarda repubblicana, la seconda corrispondente all’età giulio-claudia e la terza databile intorno al II secolo. La capienza del teatro era di circa 3.500 persone; l’edifico aveva anche varie funzioni pubbliche nella Scolacium romana. Della struttura si sono conservati parte della cavea e dell’orchestra e sono ancora visibili i posti riservati alle personalità illustri. Dalla zona del teatro provengono numerosi reperti scultorei ed architettonici; inoltre sono visibili i resti dell’anfiteatro il quale ad oggi resta l’unico conosciuto in Calabria risalente al II secolo d.C. Dalla scena del teatro sono state rinvenute tre teste ritratto delle quali due di età giulio-claudia e una di età flavia. Sono state ritrovate anche due grandi statue di marmo bianco conservate nell’Antiquarium di Roccelletta annesso al Parco Archeologico. La piazza della città era attraversata inizialmente dal decumanus maximus, la principale via della città, successivamente spostata nel il lato corto della piazza e a ridosso di quest’ultima si trovava una grande fontana monumentale. Altri reperti sono stati trovati ai margini della città quali le terme e le necropoli romane con molti mausolei ad oggi ben conservati. All’ingresso del Parco archeologico di Scolacium si trovano i resti di un’imponente Basilica Normanna del XI secolo dedicata a Santa Maria della Roccella che ha subito varie trasformazioni legate allo stile occidentale Romanico,all’età bizantina e araba. L’edificio era costituito da un’unica grande navata illuminata da cinque finestre; il transetto sopraelevato era coperto da volte a crociera; attraverso il transetto si accedeva a tre absidi, abbellite con decorazioni arabo-bizantine, ugualmente sopraelevate. Nel Parco Archeologico ogni anno, durante il periodo estivo, la provincia di Catanzaro organizza la manifestazione culturale “Intersezioni”, curata dal direttore artistico del museo MARCA di Catanzaro Alberto Fiz, esponendo opere di artisti internazionali tra i quali Stephan Balkenhol, Tony Cragg, Wim Delvoye, Jan Fabre, Antony Gormley, Dennis Oppenheim, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto e Marc Quinn.

sco 1sco 3sco 4sco 5sco 2

Area archeologica di Locri Epizefiri

Locri Epizefiri fu una città della Magna Grecia, che si affacciava sul mar Ionio, fondata nel VII secolo a.C. dai greci provenienti dalla Locride. Locri Epizefiri fu l’ultima delle colonie greche fondate sul territorio dell’attuale Calabria. Nel Timeo Platone disse:” Locri, città d’Italia ordinata a leggi bellissime, dove per copia di sostanze e gentilezza di sangue non istà dopo a niuno“.  Il primo insediamento venne fondato nel luogo indicato dall’oracolo di Delfi, presso capo Zefirio (l’attuale capo Bruzzano), ma dopo alcuni anni i coloni – insoddisfatti della località occupata pur corrispondente all’indicazione dell’oracolo – si spostarono verso nord di circa venti chilometri, dove fondarono una nuova città alla quale diedero lo stesso nome del primo insediamento, probabilmente per sentirsi sempre sotto la protezione del dio Apollo, conservando però l’appellativo di Epizephyrioi, che significa appunto “attorno a Zephyrio”. I coloni si trasferirono sul colle Epopis, dove però trovarono insediate popolazioni indigene di Siculi, che sarebbero state scacciate dai locresi con uno stratagemma molto astuto: i coloni giurarono che fin quando avrebbero calcato la stessa terra e portato la testa sulle spalle sarebbero stati fedeli, ma a giuramento fatto essi si liberarono della terra messa in precedenza nei calzari e delle teste d’aglio, scacciando i Siculi dalla zona. Nel corso di un secolo la polis di Locri Epizefiri estese la propria presenza dalla costa ionica al versante tirrenico dell’attuale Calabria, probabilmente per tenere lontana la minaccia di un’espansione della nemica Kroton (Crotone). Verso il 560 a.C.-550 a.C. Locri Epizefiri ebbe alleata Reggio nella vittoriosa battaglia avvenuta al fiume Sagra che fermò la volontà espansionistica verso sud di Crotone. In seguito a tale vittoria nelle due poleis italiote di Reggio e Locri Epizefiri iniziò ad essere praticato il culto dei Dioscuri; in particolare presso gli scavi del tempio ionico di “Marasà” a Locri Epizefiri sono state rinvenute due statue, gli acroteri in marmo, che potrebbero raffigurare i gemelli figli di Zeus (oggi custodite a Reggio presso il Museo nazionale della Magna Grecia). L’esito della battaglia della Sagra confermò Locri Epizefiri come una nuova potenza della Magna Grecia. Dal V secolo a.C. Locri Epizefiri stabilì alleanze con la Siracusa di Dionisio I e del figlio Dionisio II, entrando nell’orbita dei tiranni della polis siceliota. L’alleanza tra Locri e Siracusa venne consacrata dal matrimonio tra Dionigi e la locrese Doride. Quando nel 389 a.C. il tiranno siracusano sconfisse la Lega Italiota, donò a Locri Epizefiri le terre di Kaulonia (presso Monasterace marina) e di Scolacium (nei pressi di Squillace), che delimitavano il confine nord con Crotone, mentre a sud il confine con Reggio era delimitato dal fiume Halex (presso Palizzi). Il IV secolo a.C. fu per Locri Epizefiri un periodo di grande splendore artistico, economico e, soprattutto, culturale. In particolare, di questo periodo storico, vanno ricordate le figure della poetessa Nosside e dei filosofi EchecrateTimeo ed Arione, fondatori di una fiorente scuola pitagorica (introdotto a Locri all’epoca di Dionisio I): lo stesso Platone, secondo quanto attesta Cicerone, si sarebbe recato di persona a Locri per apprenderne i fondamenti. Dopo la morte di Dionigi I, Locri Epizefiri ospitò fra le proprie mura Dionigi II il quale, esiliato da Siracusa, instaurò tra il 357 e il 347 a.C. la tirannide nella polis italiota. Ma la sua politica contro gli aristocratici locali mirava solo al ritorno in patria e dunque, una volta che ebbe svuotate le casse della cittadina calabra, il popolo insorse uccidendo tutta la sua famiglia e cacciandolo ancora. Venne dunque instaurata la democrazia. Nel 280 a.C. Locri Epizefiri si alleò con Pirro, re dell’Epiro, nella guerra tra Romani e Sanniti, sia per esigenza militare che per far fede a un’alleanza stabilita da tempo con Taranto. Dopo qualche anno però i locresi passarono dalla parte dei Romani e Pirro nel 266 a.C. devastò la città e saccheggiò il tempio di Persefone.,Nella seconda guerra punica Locri si schierò con Annibale e fu conquistata dai Romani nel 205 a.C..In seguito la città declinò e nell’VIII secolo fu abbandonata dagli abitanti che si ritirarono nell’entroterra. L’area archeologica si trova nel comune di Portigliola, circa 3 km a sud dall’attuale comune di Locri e si estende nel territorio pianeggiante compreso tra la fiumara Portigliola, la fiumara Gerace, le basse colline di Castellace, Abbadessa e Manella, e il mare. Il fatto che tale area si trovi a distanza dagli odierni centri abitati ha preservato quasi integralmente la città antica: tuttavia, nel corso dei secoli, sono state usate pietre prelevate nell’area per edificare nuove case nei dintorni. Il sito archeologico dell’antica città è oggi diviso in varie parti. La città antica, che era difesa da una cinta muraria di 7 km, in molti tratti ancora visibile. All’esterno delle mura si estendono le necropoli, mentre la maggior parte delle aree sacre sono disposte in prossimità della cinta. I santuari all’interno delle mura sono dotati di edifici templari monumentali e risalgono al periodo arcaico, mentre quelli situati immediatamente all’esterno presentano un aspetto meno monumentale, pur essendovi state rinvenute abbondanti offerte votive. Nella località Marasà, situata alle spalle del Museo Archeologico, si trova il santuario del quale oggi si sono conservate le parti principali. Il primo studio dell’area venne portato avanti da Paolo Orsi; in seguito l’area venne ulteriormente studiata ed il sito di scavo ampliato. La storia del santuario attraversa varie fasi e trasformazioni: secondo gli studi venne edificato intorno alla metà VII secolo a.C. poco dopo la fondazione della polis, fu ampliato verso la metà del VI secolo a.C. e ricostruito nel V secolo. Del tempio ionico che caratterizzava il santuario ci sono pervenute pochissime testimonianze, come la base occidentale del basamento. La scarsa quantità di reperti archeologici è dovuta ad una ricorrente asportazione dei blocchi di calcare avvenuta nel XIX secolo che servirono a costruire i moderni edifici. Gli archeologi sono tuttavia riusciti a dedurre che il tempio ionico, composto da blocchi di pietra arenaria, era costituito da un cella allungata con pronao che in tutto misurava 22 metri di lunghezza per 8 metri di larghezza. Sulla facciata del tempio era posta una decorazione che raffigurava i due Dioscuri a cavallo di un Tritone. Il santuario venne probabilmente costruito in onore della dea Afrodite vista l’importanza della sua venerazione per gli abitanti di Locri; un’altra ipotesi che fa pensare alla dea Afrodite è il ritrovamento di alcuni reperti votivi ma nonostante tutti gli studi dedicati all’area sacra ed al tempio non si può affermare questa ipotesi con certezza. Un’altra località ricca di storia è quella di Centocamere dove si trovano i resti di numerose case e fornaci grazie ai quali si può dedurre che questa zona era il quartiere ceramico della città. I resti del teatro cittadino hanno un’importanza rilevante per quanto riguarda la particolarità della struttura, l’unica presente in Calabria. L’edificio conteneva fino a 4.500 spettatori. Della struttura sono visibili ancora tutte le componenti: dalla cavea semicircolare, da dove si godeva un notevole panorama della città e del mare, con i gradini per gli spettatori divisi da scalette in sette settori, alla scena di forma rettangolare dietro alla quale si trovano due pozzi nei quali sono stati ritrovati molti oggetti di carattere sacro. Il teatro venne costruito intorno al IV secolo a.C. ma sono state apportate varie modifiche in epoca romana. Nell’ area archeologica di Locri sono stati trovati i resti del santuario di Persefone il quale sorge ai piedi del colle della Mannella a ridosso della cinta muraria della polis. Il santuario è databile tra il VII ed il III secolo a.C. La sua scoperta è da attribuire a Paolo Orsi che terminò gli scavi tra il 1908 ed il 1911; il suo lavoro portò alla luce preziosi reperti tra i quali i Pinakes (in greco antico πίνακες) , quadretti in terracotta, legno, marmo o bronzo di carattere sacro tipici dell’antica Grecia; le imponenti mura di pietra arenaria che delimitavano i confini dell’area sacra. Oltre al tempio di Persefone sono presente i resti di altre tre aree sacre: il tempio di Zeus Olimpio, il santuario di Grotta Caruso o Grotta delle Ninfe ed il santuario di Zeus Saettante. Il tempio di Zeus Olimpio non è stato ancora localizzato tranne che per la teca cilindrica, in pietra calcarea, che fungeva da archivio per il santuario. Questa venne riportata alla luce clandestinamente e derubata del suo contenuto il quale venne in parte recuperato ed è costituito da 39 tabelle di bronzo. Il santuario di Grotta delle Ninfe si trova in una grotta al di fuori delle mura della città e risale al VI secolo a.C. e venne scoperto da Enrico Arias nel 1940. Oggi la visita del luogo non è praticabile in quanto una parte della grotta crollò dopo gli scavi ma i suoi reperti sono esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Locri. Il santuario di Zeus Saettante si trova alle spalle del Museo e, grazie a reperti di carattere votivo ritrovati, si può stimare il periodo storico del tempio che va del V al III secolo a.C. Molti tra i resti trovati in quest’area raffigurano Zeus pronto a scagliare uno dei suoi fulmini; da qui l’ipotesi che il tempio sia stato costruito in suo onore. La necropoli locrese più nota è quella di Lucifero, dove sono state rinvenute circa 1.700 tombe databili tra il VII e il II secolo a.C. e spesso segnalate da vasi di grandi dimensioni, di buona fattura e pregio, opera di ceramografi ateniesi di fama, oppure da “arule”, piccoli altari in terracotta decorati con immagini del mondo dell’oltretomba.

lo 2lo 3lo 1lo-5.jpglo 4lo.jpg

Area archeologica di Capo Colonna

L’area archeologica di Capo Colonna è un sito archeologico statale situato in località Capo Colonna, vicino Crotone, raggiungibile tramite una strada costiera dal capoluogo. Il parco fu realizzato dalla Soprintendenza per i beni archeologici della Calabria e raccoglie 30.000 metri quadri di terreno adibito agli scavi e 20 ettari di bosco e macchia mediterranea. In quest’ area si trova il Museo Archeologico, costituito da tre padiglioni incassati nel terreno per ridurre l’impatto ambientale. Esso è strutturato da un percorso all’ inizio del quale c’è un viale immerso nella macchia mediterranea. Successivamente si trova la cinta muraria del VI secolo a.C. rafforzata più tardi dai romani. Dopo le mura si trova l’inizio della via sacra, larga 8,5 metri e di fronte l’ingresso della via, sul alto est del promontorio di Capo Colonna, si accede al maestoso tempio dorico. Se ne erano accorti i greci della sua bellezza già nel VI secolo, quando giunsero nella vicina Kroton e vedendo dal mare il capo lo scelsero come luogo sacro. Il santuario di Hera Lacinia di Capo Colonna, dipendente dalla città di Crotone antica, fu uno dei santuari più importanti della Magna Grecia dall’età arcaica fino al IV secolo a.C., finché cioè fu sede della lega Italiota prima che si trasferisse a Taranto. Il sito del santuario era in una posizione strategica lungo le rotte costiere che univano Taranto allo stretto di Messina, su un promontorio chiamato anticamente Lacinion, che diede anche l’epiteto alla dea venerata, Hera Lacinia. Il nome odierno invece ricorda le rovine del tempio (con l’ultima “colonna” in piedi), mentre il nome usato fino all’epoca moderna, “Capo Nao”, altro non è che una contrazione del greco naos, che significa appunto tempio. Il santuario era stato edificato alla fine del VI secolo a.C. ed era anche chiamato di Hera Eleytheria, come resta testimoniato da un’iscrizione sul cippo del Lacinion, al Museo archeologico nazionale di Crotone. Nel XVI secolo fu quasi completamente saccheggiato per riutilizzare i materiali da costruzione. Il tempio era costituito da una pianta rettangolare e 48 colonne, alte circa 8 metri. La costruzione rispettava i canoni edilizi dei greci e risale intorno al VI secolo a.C. . Il tetto era di lastre di marmo e tegole in marmo pario come testimoniano i resti ora conservati nel museo di Crotone. Nulla si sa delle decorazioni che, però, erano certo presenti, come si può dedurre dal ritrovamento di una testa femminile in marmo della Grecia e pochi altri frammenti. Di tutto l’edificio sacro, oggi, si è conservata una sola colonna alta 8,5 metri, con capitello dorico e un fusto che ha 20 scanalature piatte composto da 8 rocchi sovrapposti. La colonna fino al 1638 era affiancata da un’altra caduta per un terremoto e poggia sui pochi resti del possente stilobate. Nelle adiacenze è tracciata una “Via Sacra” di una sessantina di metri e larga oltre 8 metri. Al complesso del tempio appartengono anche almeno tre altri edifici chiamati “Edificio B”, “Edificio H”, “Edificio K”:

  • L’Edificio B presenta una pianta rettangolare di quasi 200 m² e dagli archeologi è ritenuto il tempio originario; aveva la funzione di raccoglimento e di culto ipotesi sostenuta dal ritrovamento di alcuni reperti, come una navicella di bronzo, che risalgono alla prima metà del VIII secolo a.C.
  • Nel lato nord del Parco si trova il Katagogion, chiamato Edificio K, avente un portico dorico e risale al IV secolo a.C.. La pianta della struttura si sviluppa ad “elle” e ne rimangono solo i basamenti. All’ interno sono presenti ambienti decorati con quadrati e rettangoli. Probabilmente era la foresteria dove potevano trovare alloggio importanti visitatori, mentre i loro accompagnatori si dovevano accontentare di costruzioni molto meno raffinate e resistenti.
  • l’Edificio H, di pianta quadrata, chiamato anche Hestiatorion, è suddiviso in vari locali. Il ritrovamento di suppellettili tipiche dei locali dedicati ai pasti può far dedurre che si trattasse dell’edificio-mensa e ristoro dei viaggiatori oltre che dei sacerdoti. In ogni caso la datazione viene posta al IV secolo a.C. quando il tempio già aveva assunto grande celebrità.

Il vasto numero di ritrovamenti e di reliquie è diviso nei vari musei della città di Crotone: nel Museo di Capo Colonna sono conservati gli ultimi reperti rinvenuti, nell’Antiquarium di Torre Nao c’è qualche reperto di età precoloniale e nel Museo Archeologico Nazionale di Crotone sono custoditi i primi ritrovamenti di età arcaica e soprattutto il tesoro di Hera. Della maestosità del luogo in epoche remoto ci è data testimonianza da tanti elementi rinvenuti sul luogo, tanti gioielli in oro, vasi in terracotta e tanti altri doni portati dai pellegrini devoti, tra cui il famoso Diadema Aureo e la misteriosa Bacchetta Nuragica, che oggi sono custoditi proprio nel museo di Crotone. La località non ha perso l’importanza sacra che ha sempre avuto, infatti sulle rovine del tempio pagano è situato il Santuario di Santa Maria di Capo Colonna, distrutto, ristrutturato e ampliato nel corso dei secoli, ma presente già nel 1519 come risulta da storici manoscritti che descrivono che sul luogo esisteva una piccola chiesa dove si venerava l’immagine della Madonna e dove è narrato di come il dipinto si sia salvato miracolosamente dalle mani dei turchi che ne depredarono l’area. La terza domenica di maggio, in occasione dei festeggiamenti della Madonna di Capo Colonna, il dipinto, custodito nella cattedrale di Crotone, è portato in processione nel santuario alle prime luci dell’alba. Proprio davanti alla chiesa si trova un importante elemento di difesa, la torre del Capo Nao, a pianta quadrata, conosciuta come Torre Nao, costruita dagli spagnoli nel XVI secolo come elemento di difesa dagli attacchi dei turchi, e ora sede del museo Antiquarium.

cc 3cc 1cc 5cc 6cc 2cc-4.jpg

Area archeologica di Vibo Valentia

L’antica Hipponion, che dal 1932 è stata ribattezzata con la denominazione latina di Vibo Valentia, è una delle città della Magna Grecia situate sul versante tirrenico della Calabria. Hipponion sorse poco dopo delle cittò del versante ionico, nel VII sec. a.C., quando Locri Epizefiri si assicurò il controllo di buona parte della Calabria meridionale fondando sul Tirreno le sub colonie che mantennero a lungo con la stessa Locri legami politici e una forte impronta culturale, evidente nei culti religiosi e in molti prodotti artistici realizzati sotto l’influsso locrese. Gli scavi effettuati hanno ritrovato anche reperti riguardanti la città sorta dopo la colonia greca, Vibonia e resti dell’antico centro di Veipo. Hipponion attraversò complesse vicende politiche tra il IV e il II secolo a.C., con una fase di dominio della popolazione italica dei Brettii, che dalle aree interne della Calabria settentrionale si estesero anche assai più a Sud, lasciando a Hipponion importanti testimonianze, come ricchi depositi di monete argentee coniate dalla confederazione dei Brettii. Alle fasi del III sec. a.C. risalgono anche i resti imponenti della cinta muraria in blocchi squadrati di arenaria, il monumento più importante rimasto fino a noi della Hipponion greca e poi brettia. Sotto la dominazione romana la città (che per breve tempo assunse la denominazione beneaugurale di Valentia, anche più a lungo si affermò il nome di Vibo, trasformazione latina dell’antico nome greco) si sviluppò ulteriormente, favorita dalla posizione sulla via consolare Annia-Popilia e dalla vicinanza con il porto (l’attuale Vibo Marina), base navale fondamentale nelle guerre civili che portarono all’impero di Augusto, grazie alla vittoriosa attività di Agrippa collaboratore e poi genero di Ottaviano. Agrippa fu onorato a Vibo con un bellissimo ritratto marmoreo, rinvenuto nel 1972, uno dei pezzi più prestigiosi del locale Museo Archeologico, che dell’età romana ospita anche altre statue in marmo, un mosaico pavimentale con scene di pesca recuperato da una villa romana nei dintorni, mentre altri mosaici pavimentali figurati sono conservati negli edifici di età imperiale messi in luce nel quartiere urbano di S. Aloe, dove è in corso la creazione di un parco archeologico urbano. Il sito dell’antica Hipponion si trova a quattro chilometri dalla costa tirrenica, sull’ altopiano della penisola di Tropea, particolarmente favorevole allo sviluppo perché situata nelle vicinanze del mare e della costa e protetta da imponenti mura. Le mura che circondavano la colonia greca di Hipponion erano lunghe circa 7 km ed alte 10 m e sono state rinvenute da Paolo Orsi nel 1916 nella zona di Trappeto Vecchio. I resti si estendono per un tratto di 350 m; nel 1969 Ermanno Arslan trovò altri tratti di mura. Erano state costruite con blocchi regolari di pietra arenaria e calcarenite ed erano rafforzate ogni 40 metri da torri circolari. Sono state studiate quattro fasi costruttive di cui la più antica appartiene alla costruzione fatta con mattoni crudi (impasto di fango e paglia). Nella zona del Parco delle Rimembranza Paolo Orsi ritrovò i resti di un tempio dorico del 500 a.C. dedicato con molta probabilità alla dea Proserpina molto venerata degli Ipponiati, ma del tempio è rimasto molto poco poiché i marmi e le colonne vennero utilizzati per costruire la cattedrale normanna di Mileto. Oltre al tempio dorico vennero indagati altri due templi: uno ionico situato in zona Cofino, l’altro dorico posto nei pressi della Cava Cardopati. Sono stati rinvenuti inoltre i resti dell’abitato romano di Vibonia del II secolo in via XXV Aprile, mentre nella Località Stanislao Aloe sono stati trovati i reperti di un impianto termale arricchito di mosaici policromi dai quali si può individuare un ritratto di Vespasiano. Nella medesima area sono emerse due domus con pavimenti a mosaico e nell’ area dell’aeroporto militare sono stati rinvenuti i resti di una villa romana con volte a crociera che si sono ben conservate nel tempo. Nella frazione di Vena Superiore è stato scoperto un ambiente ipogeo di grandi dimensioni che riguarda una grotta di circa 1.000 metri quadri che dopo vari studi è da considerarsi una chiesa-grotta costituita da un’unica navata. Il Museo Archeologico Nazionale di Vibo Valentia è intitolato alla memoria di Vito Capialbi, importante studioso ottocentesco e collezionista delle antichità locali, di cui esposta nel museo la ricchissima raccolta numismatica, recentemente acquistata dallo Stato. Il Museo, base operativa e di ricerca per gli scavi condotti in città dalla Soprintendenza fin dalla fine degli anni ’60, ha sede prestigiosa dal 1995 nel monumentale Castello, che conserva imponenti torri e cortine del Duecento e del Trecento e fu poi sede dei principi Pignatelli; è stato restaurato e rifunzionalizzato con impegnative opere dalla Soprintendenza ai Monumenti di Cosenza. Ampi scavi nelle necropoli greche hanno messo in luce corredi funerari dal VI sec. a.C., con molti vasi importati da Corinto, al III sec. a.C., ma il reperto più significativo, che ha dato eccezionale rinomanza internazionale ad Hipponion e al suo Museo è una sottile laminetta in oro, lunga pochi centimetri, rinvenuta ripiegata più volte e deposta sul petto di una defunta nella prima metà del IV sec. a.C.. L’eccezionalità del reperto, di cui esistono solo una decina di esemplari analoghi in tutto il mondo greco, è data dalla lunga iscrizione incisa in minutissime lettere greche, su sedici fitte righe; il testo contiene la formula magico-religiosa, e per questo tracciata su un materiale prezioso e incorruttibile come l’oro, che l’anima della defunta doveva imparare a pronunciare nel suo percorso attraverso il mondo oscuro degli Inferi per superare varie prove e raggiungere un eterna, luminosa serenità nei Campi Elisi riservati ai fedeli iniziati ai rituali attribuiti al mitico cantore Orfeo. Questo tipo di religiosità detta appunto Orfica si diffuse in tutto il mondo greco, e soprattutto in Magna Grecia, a partire dal V sec. a.C., e la lamina aurea di Hipponion ce ne conserva una delle versioni più complete e più antiche. Altri aspetti del culto delle tradizionali divinità elleniche, come Demetra protettrice della fecondità della natura e della coltivazione del grano, è la figlia Persefone, che rapita da Hades signore dell’Oltretomba ne divenne sposa e regina degli Inferi, sono attestati a Hipponion dai rinvenimenti nei santuari del VI e V sec. a.C. ricchissimi depositi di offerte votive. Un caso di particolare interesse è quello del deposito votivo in località Scrimbia, il cui scavo ha fornito materiali di notevole bellezza, e molti elementi del tutto peculiari per la ricostruzione del culto. Si trattò di uno dei santuari più importanti e più frequentati dai fedeli nell’Hipponion del VI e V sec. a.C., come indica l’abbondanza delle offerte, comprese moltissime di tenue valore economico (come vasetti miniaturistici) ma non meno significative come documento del legame dei fedeli con le varie divinità che qui erano oggetto di culto. Le statuette in terracotta, numerosissime, recano immagini di divinità femminili o figure di fanciulle offerenti; i tipi sono per lo più affini a quelli rinvenuti a Locri nel santuario di Persefone: una tavoletta a rilievo reca l’immagine di una dea in trono che regge una lunga spiga stilizzata, che sembra identificabile con Demetra, mentre un’altra rappresenta sicuramente Artemide, con i tipici attributi dell’arco e del cerbiatto. La peculiarità di maggior risalto del santuario di Scrimbia è data dall’eccezionale frequenza di offerte di manufatti in bronzo, materiale di alto pregio che denota offerenti di alte capacità economiche, presumibilmente di rango sociale elevato. Alcuni dei vasi in bronzo furono importati da aree lontane, come i grandi bacili ad orlo perlato, di probabile produzione etrusca, e una brocca decorata prodotta in Laconia. Le offerte di specchi in bronzo e qualche esemplare di orecchini in argento ci riportano ad ambiti di culti femminili, che già sono sembrati dominanti nel santuario. In rapporto a ciò, appaiono quindi quasi sorprendenti le numerose offerte di armi difensive in bronzo, dedicate ad Hades, spesso impreziosite da raffinate decorazioni, evidentemente dedicate da uomini che intendono affermare nel loro rapporto con il divino un rango sociale eminente nella propria comunità. Si tratta di grandi scudi, dai bordi decorati a sbalzo con motivi a treccia multipla, schinieri, elmi di vari tipi, da quello corinzio a quelli detti calcidesi, a quelli con paraguance a testa di ariete, uno dei quali rivestito da lamine in oro e in argento. Altri elmi hanno finissime figure incise, come tritoni, lotte tra animali (un cervo sbranato da due pantere), parti di cavalli rampanti, altri animali. Si tratta evidentemente di armi da parata, che attribuivano a chi le possedeva, e qui le esibiva come offerta nel santuario, un ruolo aristocratico o quasi eroico allusivo ai mitici “guerrieri vestiti di bronzo” protagonisti dei poemi omerici. A Scrimbia la coppia Persefone e Hades forse svolgeva funzioni parallele di tutela per la componente femminile e per quella maschile della società ipponiate, soprattutto a livello dell’aristocrazia dominante tra VI e V sec. A. C.. Per concludere, le immagini di una delle offerte ceramiche più significative a Scrimbia, una “hydria” (un vaso per raccogliere e trasportare acqua, di uso specificatamente femminile) qui decorata con una scena mitica che esalta le virtù militari degli eroi antichi, la partenza di Anfiarao per la guerra dei “Sette contro Tebe”, tema adatto a un’aristocrazia sensibile ai valori eroici dell’arte della guerra. E un vaso prodotto nelle officine ceramiche calcidesi, della seconda metà del VI sec. a.C..

h3h1h4h5h6h2.jpg

Area archeologica di Bova

Il Parco Archeologico ArcheoDeri della vallata del San Pasquale, inaugurato nel giugno 2010, sorge a Bova Marina, intorno all’area sinagogale rinvenuta negli anni Ottanta, presso la contrada da cui trae il nome “Deri”, richiamando la tradizione dell’Antica Delia o Scýle, secondo gli antichi Romani. Ci troviamo in un sito archeologico tra i più importanti del Mediterraneo, infatti, la sinagoga, risalente al IV secolo d. C., è la più antica in Occidente, dopo quella di Ostia Antica, ed il suo ritrovamento ha aperto nuovi scenari storici sulla presenza degli ebrei nella Calabria meridionale. Era venuta alla luce, come accaduto in tanti altri casi, durante i lavori di realizzazione di una strada, per la precisione un tratto della statale 106 e in un primo tempo si pensò ad una villa romana, ma successivamente ne è stata poi accertata l’esatta natura grazie al rinvenimento di un mosaico raffigurante i più importanti simboli giudaici. Dopo il ritrovamento il sito fu visitato dall’allora rabbino capo di Roma Elio Toaff, il quale confermò la piena compatibilità dei ritrovamenti con una struttura sinagogale. Il mosaico è attualmente ospitato all’interno dell’Antiquarium che conserva, inoltre, importanti reperti provenienti dal territorio di Bova, risalenti al neolitico, all’età del bronzo, all’epoca greca romana e bizantina. Del Parco fa parte anche un Centro di Documentazione per il Patrimonio Culturale e l’Ebraismo nell’Area Grecanica, al cui interno si trovano una sala espositiva sulla storia del territorio, una sala dedicata all’ebraismo, una biblioteca con testi riguardanti la grecità calabrese e la storia degli ebrei in Calabria, un archivio multimediale ed una sala conferenze. Campagne di scavi archeologici hanno evidenziato come fin dall’età Neolitica fossero presenti culti legati alla dea Madre, mentre per l’età magno greca sono documentate ritualità in onore di Demetra e di Kore. Queste testimonianze del passato sono riscontrabili attraverso una piccola figura antropomorfa in ceramica, con forte enfatizzazione dei caratteri femminili, della seconda metà del VI millennio a.C., ritrovata in località Penitenzeria e di un balsamario, raffigurante una Kore (VI sec. a.C.), rinvenuto nelle fondamenta di un edificio, alle spalle di Bova, facente parte di una fortezza magno greca, distrutta durante un conflitto tra le polis di Reggio e Locri, nel corso del V sec. a.C. La restante parte dei reperti esposti, concerne invece i ritrovamenti in loco: un insediamento romano del I-II secolo d.C., nel quale pare fosse istallata la statio di Scyle. La radice onomastica di Skyle, simile a Scilla e Squillace, anch’essi posti in prossimità di promontori rocciosi, pare derivi dal latrare che le onde producono infrangendosi sugli scogli, motivando così la traduzione greca del termine “Scyle” in cagna.  L’area del parco archeologico, sita nel fondovalle ai margini della fiumara del San Pasquale, era già indicata nel Settecento come sede dell’antica Delia, una città fondata da greci provenienti dall’isola di Delo. I suoi abitanti, scampati a una incursione barbarica, generarono nel Medioevo i centri di Bova, Paracorio e Pedavoli, questi ultimi più tardi unitisi in un solo comune chiamato Delianuova, in ricordo delle origini. Le medesime fonti affermavano inoltre che queste terre erano in origine abitate “dalla gente Aramea”, giunte qui sotto la guida di Aschenez, pronipote di Noè. Ebrei dunque, poiché con il termine di aramei, erano indicati nel XVIII secolo i giudei ancora presenti nell’Italia Meridionale e nelle Isole. La presenza di una comunità ebraica nel sito di Bova Marina non integra solo il quadro degli insediamenti israeliti della costa ionica, documentati nel Tardo Antico anche a Reggio e nella vicina Lazzaro, ma accerta, grazie al rinvenimento di un timbro con un candelabro a sette bracci, impresso su un’ansa di fabbricazione locale (IV-V sec. d.C.), l’esistenza di una attiva produzione e commercializzazione di cibi kosher, cioè preparati secondo le norme alimentari ebraiche. Che queste realtà sociali fossero integrate nel territorio già da tempo, trova conferma nei Talmud (interpretazioni bibliche tardo antiche), in cui si sosteneva la tesi che la Magna Grecia era stata assegnata da Isacco a Esaù, a consolazione della primogenitura carpitagli da Giacobbe. A documentare la prosperità dell’abitato ebraico di Bova Marina è proprio il mosaico policromo che decorava il pavimento della sinagoga: trenta metri quadrati di tessere, poste in opera alla metà del IV sec. d.C.. Purtroppo le arature del terreno hanno compromesso la sua leggibilità, lasciandoci ampi dubbi circa il simbolismo figurato all’interno di riquadri, delimitati da una ghirlanda floreale e incorniciati da una treccia a più capi. Nei 16 pannelli, decorati con corone di alloro, è certa la presenza del motivo della rosetta, del nodo di Salomone e di una Menorah, (candelabro a sette bracci) affiancata a sinistra dallo shofar (corno d’ariete) e a destra da una palma (lulab) e un cedro (etrog). Questi simboli erano probabilmente disposti sul pavimento musivo nel rispetto di una specifica liturgia che prevedeva l’esistenza di un àron, cioè l’armadio, orientato ad Est, contenente i rotoli delle sacre scrittura (sifré Torà), di una bima, ovvero il pulpito da cui il cantore dirigeva la preghiera, e ancora di una suddivisione tra uomini e donne durante le funzioni religiose (matronei), ed infine di banchi, riservati ai dirigenti della comunità, e che sappiamo disposti ai lati della Torà, lungo la parete di fondo. In età Ostrogota (480-553 d.C.), la sinagoga fu munita di un’abside, di fronte al quale si ricavò nel pavimento uno spazio, mosaicato con il simbolo del Nodo di Salomone tra motivi romboidali, stilisticamente vicini alle novità artistiche importate in Occidente dal Mediterraneo orientale sul finire del V sec. d.C.. La campagna di restauri che interessò la sinagoga in questo periodo, comportò inoltre la creazione di nuovi ambienti di servizio, magazzini e la costruzione di uno ospitalia, destinato ai pellegrini e ai rabbini di passaggio. L’insediamento subì una distruzione violenta alla fine del VI sec. d.C., simultaneamente a quanto documento nel 590 d.C. anche a Taureana e a Locri, forse per mano dei Longobardi, giunti sullo Stretto di Messina al seguito di Autari. Oggi è il Museo Archeoderi che ne detiene l’eredità. In esso sono custoditi le vestigia di grandi civiltà, i fasti della loro gloria e soprattutto la memoria di tutte quelle genti, autoctone e non, che si sono insediate sul nostro territorio e delle quali abbiamo ancora oggi testimonianze nella nostra cultura tra usi, costumi, tradizioni e lingua. Risalendo il corso della fiumara del San Pasquale, la strada taglia in due un sito di età romana, già noto agli studiosi. Effettivamente in località Panaghia esisteva una struttura semicircolare da sempre ritenuta una chiesa di origine bizantina, dal momento che la toponomastica rendeva chiara la presenza di un luogo di culto intitolato alla Madonna tutta Santa. Di recente campagne di scavo effettuate sul versante nord dell’asse stradale hanno permesso di stabilire che si tratta di un complesso residenziale particolarmente vasto, databile dal III al IV sec. d. C.. Lungo il fianco della strada sono infatti emersi magazzini con dolia e diversi ambienti, alcuni dei quali absidati e probabilmente in origine mosaicati, visto l’abbondante rinvenimento di tessere musive. Interessante scoperte sono state effettuate anche nel sito della chiesa della Panaghia, i cui muri perimetrali risultano essere pertinenti una nicchia di una grande aula absidata tardo antica. Tra i reperti spiccano, oltre alle anfore da vino, soprattutto, frammenti di vetri con decorazioni a gocce e di ceramica di Navigius dalla tipica decorazione plastica a stampo. Questa tipologia di ceramica, assieme a quella di altre officine associate, veniva prodotta nella Tunisia centrale, probabilmente nella regione di Henchir e Srira, tra il 290 e il 320 d. C. La lavorazione a matrice di questa singolare ceramica si caratterizza per via di produzioni con raffigurazioni di tipi umani, di cacce, di spettacoli, di scene mitologiche; si tratta di manufatti prodotti per un mercato regionale; solo eccezionalmente si trovano tracce in Italia ed in Cirenaica. Il loro repertorio decorativo è prevalentemente antropomorfo e prevede per lo più figure caricaturali della fisionomia nord africana; le teste femminili, giovani o anziane hanno espressioni grottesche; analogamente le teste virili, con i medesimi caratteri, barbate e non, sono arricchite anche da espressioni lascive e satiresche, con folta capigliatura riccioluta, bocca e naso a volte esageratamente grandi. Le fisionomie satiresche presentano, invece, una corta barbetta, sopracciglia folte, capelli lisci, cadenti, spesso fermati da un nastro, la bocca atteggiata in un sorriso beffardo con i denti parzialmente in vista. Le forme dei vasi somigliano invece alla Lagoena, alla fiaschetta cilindrica, alla brocchetta. A circa 4 km nell’entroterra, in prossimità dell’antico confine tra i comuni di Bova Marina e Bova si trova il sito archeologico di Umbro. Alla base del dirupo roccioso sono stati rinvenuti molti reperti da cui è possibile stabilire che l’area fu intensamente occupata durante il Neolitico, precisamente dalla metà del VI millennio d.C. alla metà del V millennio d.C. (Stentinello). E’ inoltre attestata l’occupazione durante la facies di Diana e, probabilmente in maniera sporadica, durante l’età del Rame. Diversamente la sommità dell’altura risulta abitata nell’età del Bronzo. Nel complesso, l’insediamento di Umbro sembra presentare almeno tre periodi di occupazione. Durante il Neolitico Antico e Medio (VI-V millennio a.C., Strati IV-V della Trincea 1), un’occupazione risalente alla facies di Stentinello potrebbero aver avuto luogo ai piedi del dirupo. Altre aree circostanti possono essere state occupate in questa fase, tuttavia eventuali tracce sono state distrutte dall’erosione che ha interessato la zona. La stessa area occupata durante la facies di Stentinello potrebbe essere stata riutilizzata durante il Neolitico Tardo/Finale in corrispondenza della facies di Diana. I manufatti Neolitici raccolti comprendono ceramica tipica degli stili di Stentinello e Diana, alcuni esempi di ceramica Neolitica di altro tipo, quali ceramica a pittura rossa, ed alcuni probabili frammenti di epoca Eneolitica. Molti i ritrovamenti di ossidiana, una preziosa ascia in anfibolite, una piccola riproduzione di ascia in fillite, alcune macine e alcuni frammenti di concotto e di ocra rossa. I resti faunistici accertano la preponderanza degli ovini e dei caprini, con presenza di maiale; scarsi i resti dei bovini mentre del tutto assente è l’ittiofauna. Non mancano i resti di ossa di cane. Campioni di flottazione provenienti da ogni strato confermano la coltura della veccia, del Triticum e dell’orzo.

bov 2bov 1bov 4bov 3bov 6bov 5

Aree archeologiche di Tauriana e di Medma

Tauriana e Medma erano due città dell’antichità posizionate sulla “Costa Viola”, la parte meridionale della costa tirrenica della Calabria, rispettivamente nei comuni attuali di Palmi e Rosarno. Tauriana  è un’antica città brettia, il cui nome deriva da quello del populus italico che la fondò, i tauriani. La città, che sorgeva sulla riva sud del fiume Metauros (probabilmente il Petrace), segnava il confine del territorio di Rhegion (Reggio Calabria) sul versante tirrenico nord-occidentale, oltre cui iniziava quello di Locri Epizefiri. Successivamente romana e poi bizantina, Tauriana venne distrutta dai saraceni nella metà del X secolo. Gran parte dei rinvenimenti archeologici costituiscono il Parco Archeologico dei Tauriani. Sulla fondazione della città, alcune leggende narrano di una possibile colonizzazione achea dell’area in cui sorse Tauriana. Altre ipotesi ricollegano la nascita della città alla seconda metà del IV secolo a.C., quando dei gruppi brettii, che si erano resi autonomi dai lucani, raggiunsero la Calabria meridionale conquistando diverse città. La città è segnalata in atti ufficiali di età successiva, quando Tito Livio asserisce che nel 212 a.C., in occasione della guerra annibalica, nel Bruttium vi fu il passaggio dei Taureani, unitamente ai Cosentini, «sotto la protezione di Roma». Il passaggio è il seguente: ”Allo stesso tempo di dodici stati in Bruzio, che l’anno precedente per i Cartaginesi si era ribellata, Consentia e Tauriana sono state restituite alla protezione del popolo romano“.Con la romanizzazione della zona, successiva alla guerra sociale, la presenza brettia sul territorio sparì ed i tauriani, grazie ad un buon rapporto con i romani, conquistarono un’autonomia politica e amministrativa che permise loro di avere un proprio territorio, abbandonando la condizione di subordine nei confronti della città di Reghion. Di una «città dei Tauriani» scrivono anche Pomponio MelaPlinio il Vecchio nel I secolo d.C.. Quest’ultimo la definisce come “Tauroentum oppidum” nel seguente passaggio: “Dopo Vibo Valentia, che ora chiamano il Porto di Ercole, il fiume Metauro; la città di Tauriana, il Porto di Oreste e Medma”. Con il passaggio del territorio sotto il controllo dell’Impero romano d’Oriente, all’interno del Thema di Calabria, Tauriana ricadeva nell’area della “Turma delle Saline“. Nei secoli ebbe varie incursioni e scorrerie da parte soprattutto dei saraceni che costrinse la popolazione ad abbandonare la città e trasferirsi in zone più interne fino al completo abbandono. Nel 1086, Ruggiero I conte di Calabria, che aveva istituito nel 1081 il vescovado di Mileto, aggiunse a quest’ultima i territorio della distrutta ed abbandonata diocesi di Tauriana, essendo rimasta vuota la sede. Il porto della città visse fino al secolo XVIII. Difatti si presume che, sempre nell’XI secolo, vi approdò Ruggiero I per sbarcare in Calabria dalla Normandia. Il primo strumento storico sulle ricerche dell’antica Tauriana è il libro “Metauria e Tauriana”, scritto dallo studioso Antonio De Salvo sul finire del XIX secolo, nel quale l’autore indica una pianta dei ruderi ancora visibili. Sono appunto della fine del XIX secolo i primi rinvenimenti fortuiti. Essi si concentrano prevalentemente sul litorale di Scinà e sul pianoro dell’odierna Taureana di Palmi e riguardano l’area in età greco-italica, imperiale e bizantino-medievale. Negli anni novanta dello scorso secolo, alcune ricerche hanno portato all’individuazione di resti di assi stradali, strutture abitative, piani pavimentali, canalette di scolo, dolia per derrate alimentari, tutti riconducibili ad un’età compresa tra la seconda metà del IV secolo a.C. ed il I secolo a. C.. Il parco, con i suoi attuali tre ettari di estensione, occupa la parte centrale di un pianoro dominante la costa Viola. È stato realizzato con fondi APQ Beni culturali Calabria e con un finanziamento dell’Amministrazione provinciale di Reggio Calabria ed inaugurato il 17 settembre 2011. In particolare le strutture rinvenute, ed evidenziate all’interno del parco, sono:

  • Una grande strada urbana passante per l’antica Tauriana, dove si conserva la pavimentazione in basoli di dura pietra Da essa si accedeva alle gradinate dell’edificio per spettacoli. La sua prosecuzione, fuori città, conduceva alla via Popilia, importante asse viario di collegamento tra Reggio Calabria e CapuaRoma.
  • Un edificio per spettacoli. Si tratta di un’architettura singolare nel panorama italiano, che presenta la forma di un teatro ma nasce come anfiteatro per manifestazioni ludiche, come i combattimenti tra gladiatori. Occasionalmente la struttura poteva destinata a rappresentazioni teatrali. La sua capienza sarà stata di circa 3.000 spettatori.
  • Nella parte sud del pianoro è visibile un settore del quartiere abitativo brettio-romano nel quale, ai lati della strada, è possibile leggere la sovrapposizione delle strutture romane su quelle brettie.
  • Della Tauriana “brettia” (I secolo a.C.) è possibile ammirare la «casa del mosaico», così chiamata per il rinvenimento di un mosaico figurato che, insieme a un letto di bronzo decorato in argento e pietre preziose, abbelliva un ambiente identificato come sala da banchetto. Il letto è attualmente esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Al centro della sala, era collocato il mosaico realizzato con minute tessere policrome. Vi è rappresentata una scena di caccia con due cavalieri ed un portatore di lance che si dispongono ai lati di un orso, ferito. Completano la scena, dominata da un grande albero, un cane, un felino e un cinghiale.
  • Dell’area sacra, dedicata a una divinità ancora sconosciuta, sono oggi visibili i resti di un alto podio (m. 10×20 ca) e di un triportico. Originariamente il complesso presentava decorazioni e rivestimenti in pietra locale, marmo e stucchi, la cui tipologia è un “unicum” nel contesto architettonico e religioso della Calabria La scelta di erigerlo nel punto più visibile del pianoro dalle pareti a strapiombo sulla costa, non fu casuale: il tempio, chiamato “Palazzo di Donna Canfora”, a ridosso del ciglio nord, quasi isolato o comunque emergente dal resto del contesto abitativo, sarebbe stato immediatamente visibile a chiunque navigasse da settentrione.
  • Al di sotto della fase brettia e romana, non ancora visibili, vi sono i resti di capanne di un villaggio dell’età del bronzo, attivo per circa mille anni, a partire da 4.000 anni fa. Le capanne sono realizzate con alti muri in pietra e tetto in materiale deperibile.
  • Alcuni storici ipotizzano che il Porto di Oreste, fondato secondo la leggenda proprio da Oreste,  figlio del re Agamennonee di Clitennestra e fratello di IfigeniaElettra e Crisotemi, possa corrispondere al porto dell’antica città di Tauriana. La struttura si doveva trovare probabilmente più a nord di Rovaglioso, nella zona “La Scala”, tra Pietrenere e Scinà. Questo approdo naturale, in età romana, fu forse trasformato con adeguate opere murarie, in un bacino portuale attrezzato con moli.

Il parco archeologico dell’antica Medma racchiude quel che resta della città magno greca venuta alla luce dopo numerosi scavi tra il XIX e il XX secolo. Gli scavi servirono anche a dimostrare in maniera conclusiva la reale posizione di Medma o Mesma che fino ad allora era oggetto di discussione tra l’ipotesi rosarnese e quella nicoterese. Vasto fu il materiale riportato alla luce, che è oggi conservato nel museo alle spalle del parco. Colonia fondata da Locri nel VI secolo a.C. ne distava meno di un giorno di cammino e sembra che tragga il suo nome da una fonte sita nelle vicinanze; un’altra ipotesi è che il toponimo provenga dalla lingua delle popolazioni autoctone e che abbia il significato di “città di confine”. È possibile che entrambe le ipotesi siano fondate, poiché la fonte in questione dà origine all’attuale fiume Mésima, che deriverebbe appunto il suo nome antico dal termine indigeno per “confine”. Comunque, sebbene spesso riportata tra le città greche di questa parte d’Italia non sembra aver raggiunto una particolare importanza o potere ma in ogni caso sono presenti delle monete coniate nel IV secolo a.C. con l’incisione “Mesma”. Alla fine del VI secolo a.C. ebbe luogo una battaglia in cui Medma e Locri, supportarono Hipponion in una guerra contro Crotone. La notizia è riportata dall’epigrafe incisa su uno scudo di Olimpia. In seguito, nel 422 a.C. Hipponion e Medma combatterono contro la fondatrice riuscendo a sconfiggerla. La cittadina, che dalle sue dimensioni poteva ospitare una popolazione superiore ai quattromila abitanti, si trovava su quello che è attualmente il terrazzo di Pian delle Vigne (sito nel comune di Rosarno). Nel perimetro compreso tra il Bellavista del Rione Ospizio, l’attuale cimitero, la contrada Pomaro e la zona “Ospedale” sorgevano le case, i laboratori artigianali, i negozi e i templi. È probabile che la popolazione medmea si sia trasferita a Nicotera, il cui nome è presente nell’Itinerario antonino, e che fu probabilmente fondata dai medmei dopo il declino di Medma. Il parco archeologico dell’antica Medma è costituito da una grande distesa di ulivi ubicata alle spalle del Museo. L’area, espropriata intorno agli anni ottanta del secolo scorso dalla Soprintendenza per i Beni archeologici della Calabria, non senza polemiche e ostilità da parte di alcuni cittadini che hanno vanamente tentato attività speculative, corrisponde alle aree sacre di Calderazzo e S. Anna, note attraverso gli scavi dell’Orsi; ma non mancano settori che illustrano l’abitato medmeo e le zone artigianali con presenza di pozzi e fornaci. Strettamente connesso al parco archeologico è il Museo di Medma che espone una gran parte degli oggetti rinvenuti nei lunghi anni di ricerche che la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria ha effettuato a Rosarno già a partire da Paolo Orsi e fino ai nostri giorni. L’esposizione inizia con la ricostruzione della necropoli: tombe alla cappuccina, a cassa di embrici, a vasca, ricche di oggetti. Splendidi esemplari della coroplastica medmea, tra cui statuette di varie dimensioni e fogge, busti, grandi maschere, criofori (portatori di ariete), e ancora vasi ed armi in ferro rinvenuti nell’area sacra di Calderazzo, sono presentati ai lati di una virtuale via sacra che si arresta davanti ad un altare in terracotta (arula) di grandi dimensioni, con in rilievo i personaggi della tragedia di Sofocle che rappresenta la vicenda di Tyrò, giovane donna, figlia del re Salmoneo ritratta con i figli Pelia e Neleo che per vendicare la madre hanno appena ucciso la matrigna Sidero che giace esamine ai piedi di un altare, mentre il vecchio re Salmoneo fugge disperato davanti a tanto orrore. L’esposizione si conclude con i materiali provenienti dall’abitato tra i quali si segnala un modello di fontana rituale in terracotta. Sono presentati anche oggetti provenienti dalla collezione privata Giovanni Gangemi, donata allo Stato, che è costituita da pregevoli vasi sia a figure nere che a figure rosse tra cui un’anfora con scene della lotta per la conquista delle armi di Achille.

t1t4t5t3t2med2med1med3

Area archeologica di Casignana

Casignana ospita, all’interno del proprio territorio, una pluralità di siti di interesse culturale e paesaggistico. Tra questi spicca il Parco Archeologico della Villa romana di contrada Palazzi lungo la Strada Statale Jonica 106. Venne scoperta nel 1963 grazie ai lavori di costruzione di un acquedotto che riportarono in luce i resti di una domus romana privata con terme annesse che probabilmente sorgeva in prossimità dell’antica strada di collegamento tra Locri Epizefiri e Rhegion. Purtroppo parte delle strutture e de pavimenti a mosaico, in quella occasione, andarono distrutti. La villa sorse in un’area già frequentata in periodo greco, si sviluppò tra il I e il IV secolo d.C. e venne abbandonata nel corso del V sec. d.C. e gli archeologi hanno individuato quattro fasi costruttive. Quella attualmente visibile, l’ultima, risale al IV secolo. L’impianto originario della casa risale al I secolo ma gli scavi portati avanti fino ad oggi hanno indagato 1.300 metri quadri della grande villa. Il sito costituisce uno dei complessi più importanti di epoca romana dell’Italia Meridionale e conserva il più vasto nucleo di mosaici finora ritrovato in Calabria. Sala delle Nereidi, Sala di Bacco, Sala con il volto di donna, Sala delle Quattro Stagioni; fra le opere in situ, un mosaico ancora da restaurare che ha una lunghezza di oltre 25 metri del quale fa parte un “tondo” raffigurante Bacco, Marsia e una biga tirata da due tigri. Nelle terme esistono due nuclei contigui, ciascuno dei quali consente il passaggio da ambienti freddi ad ambienti caldi, secondo la successione canonica frigidarium – tepidarium – caldarium. Alcuni ambienti hanno piante complesse, come il frigidarium ottagono pavimentato a mosaico con motivo geometrico a cubi prospettici. Anche altri vani sono notevoli per qualità e varietà dei mosaici: policromi, geometrici o figurati, come il noto mosaico raffigurante un thiasos marino con quattro Nereidi in groppa a mostri con fattezze di leone, tigre, cavallo e toro. La sala della domus ha una complessa disposizione architettonica con una pianta ottagonale con quattro lati absidati e un pavimento mosaicato da piccole tessere. Il nucleo residenziale è composto da una sequenza di vani, delimitata verso il mare da un ampio e lungo corridoio terminante alle estremità con due avancorpi semicircolari. Si trattava forse di due torrioni che conferivano un aspetto fortificato all’insieme. Si può riconoscere il calidarium che doveva essere ricoperto da una volta. La presenza del calidarium è testimoniata dall’ipocausto e dei tubuli fittili nelle pareti. I reperti rinvenuti suggeriscono una decorazione sfarzosa degli interni, per la presenza di marmi pregiati, intonaci dipinti e mosaici in pasta vitrea multicolore. Arredi e statue facevano da complemento all’architettura. Del complesso della villa fanno anche parte un salone a pianta rettangolare e due ambienti riscaldati tutti decorati con l’opus sectile, una tecnica per pavimentare con lastre in marmo colorato. Nella domus è anche presente un ninfeo monumentale con vasca absidata e cisterne. Faceva sicuramente parte di un gruppo di Villae o di un centro abitato, infatti nelle vicinanze sono stati ritrovati una necropoli con sepolcri a lastroni di terracotta dove veniva praticata l’incenerazione e la sepoltura e testimonianze di costruzioni coeve. Il restauro di questo mosaico, insieme a quello di altri 5 ambienti fra cui quello più grande della villa di oltre 80 mq, è oggetto di un finanziamento già concesso dalla Regione Calabra di 2,5 milioni di euro, attraverso un progetto europeo. L’intervento più imponente, indispensabile per la conservazione e la fruizione della villa, è stata la copertura definitiva dell’intero nucleo di ambienti a monte della S.S. 106. Grazie alla copertura è stato possibile realizzare una serie di percorsi sopraelevati che si snodano all’interno degli ambienti termali, consentendo l’apprezzamento dei mosaici e dei pavimenti a intarsi marmorei. Per consentire una miglior salvaguardia di questi rivestimenti pregiati è stata installata una stazione per il monitoraggio delle condizione microclimatiche e sono stati effettuati tutti gli interventi di restauro necessari alla conservazione delle parti dell’edificio rimaste fuori della copertura. E’ stato inoltre completato lo scavo archeologico del nucleo centrale del complesso, che ha portato alla luce, tra l’altro, nuove stanze con pavimenti a mosaico, ancora non visibili perché in attesa di restauro, e una grande vasca ad ornamento del giardino. Si sono poi estese le indagini geo-archeologiche nelle aree acquisite al patrimonio pubblico, che hanno dato interessanti risultati, confermando l’estensione dell’area archeologica ben oltre il nucleo centrale già conosciuto.

cas 6cas1cas5

cas2cas4cas 8cas 7

Area archeologica di Castiglione di Paludi

L’area archeologica di Castiglione di Paludi riguarda un insediamento riferito quasi sicuramente ad una città brettia del IV secolo a.C. ed una necropoli dell’età del ferro. Questo sito costituisce una delle più importanti e meglio conservate testimonianze di architettura militare della Magna Grecia. Il sito è situato nel comune di Paludi, in provincia di Cosenza, su un colle delimitato dai torrenti Coseria e Scarmaci a circa 8 km dal mar Ionio. La città, posizionata in quest’area archeologica, in seguito alla presenza di bolli con tegole in osco, potrebbe essere potrebbe essere identificata come l’antica città brettia di Cossa, la quale venne anche citata in un frammento di Ecateo di Mileto e nel De bello civili di Cesare che la pone nel territorio di Thurii. Il nome dell’attuale torrente Coseria, nei pressi di Castiglione di Paludi, sembra costituire un ulteriore indizio per l’identificazione proprio dell’antica città di Cossa. In alternativa in base al ritrovamento nel sito anche di iscrizioni in greco, il centro è stato ipotizzato di fondazione ellenica e passato in seguito sotto il controllo brettio, e ipoteticamente identificato con una città fortificata voluta da Alessandro il Molosso nel territorio di Thurii, sul fiume Acalandros, di cui ci informa Strabone. Il centro sarebbe stato costruito come sede della lega italiota per sostituire la tarantina Eraclea. Il sito archeologico di Castiglione di Paludi occupa un’altura articolata in due aree, in buona parte pianeggianti, per un totale di circa 40 ettari, collegate da una sella centrale. Il Pianoro Nord (quota massima 296 metri s.l.m) si affaccia sulla costa, il Pianoro Sud (334 m s.l.m.) si protende in direzione del paese di Paludi e dell’entroterra montuoso. L’altura, per effetto dell’erosione dei corsi d’acqua, ha assunto nel tempo una posizione isolata rispetto alle vicine colline, quindi naturalmente difesa su molti versanti da alti dirupi. Se l’area archeologica di Castiglione di Paludi conserva poche testimonianze dell’antica città di Cossa, della città brettia rimangono invece notevoli resti, primi tra tutti quelli delle mura, costruite in blocchi squadrati di arenaria disposti a secco, alcune scalette interne conducevano sugli spalti. Sul lato orientale era la porta fortificata, a corte rettangolare, difesa da due torri a pianta circolare alte due piani. All’interno, una strada collegava la porta principale al cosiddetto teatro, edificio a pianta semicircolare addossato a un pendio naturale, nel quale erano presenti sedili scavati nella roccia o fatti di pietra arenaria, che poteva accogliere 200 persone circa. Più verosimilmente si tratta di un luogo per le riunioni dell’assemblea pubblica databile intorno al IV secolo a.C. Sempre all’interno della cinta muraria, oltre a una cisterna sono stati rinvenuti i resti di alcune abitazioni, distinguibili in due fasi per la tecnica costruttiva. Il ritrovamento all’esterno della porta di un deposito di terrecotte votive di tipo femminile, testimonia l’esistenza di un piccolo luogo di culto, forense, attivo già con la città di Cossa. Tra i materiali rinvenuti tra gli scavi dell’area archeologica di Castiglione di Paludi, si segnalano per importanza un volto maschile in arenaria locale e alcuni modellini fittili di templi, e delle tegole “vereia” che attestano l’attività di una istituzione pubblica deputata alla produzione in scala di laterizi. Sul pianoro antistante l’abitato, erano già state scavate 50 sepolture del IX a.C. corredate da armi, lance in ferro e bronzo, fibule, lamine decorate ed altri oggetti. L’antico sito di Castiglione rappresentò probabilmente una tappa per la transumanza del bestiame, per l’approvvigionamento di legname e forse anche della famosa pece brettia, raccolta proprio nei vicini boschi della Sila. Per certo, l’abitato di Castiglione fu abbandonato intorno alla fine del III sec. a.C., dopo l’epilogo della Seconda Guerra Punica e la conseguente conquista romana della regione. Nonostante già nel XVIII secolo documenti d’archivio segnalassero la presenza di un antico insediamento sul pianoro di Castiglione di Paludi, solo nel 1949 ci furono regolari indagini sistematiche, seguite dall’Ispettore Giuseppe Procopio. Sul Pianoro Sud fu intercettata una grotta “lunghissima, nessuno ne ha veduto ancora il fondo. Si chiama la Grotta di Castiglione. Vi han trovato un corpo umano di bronzo ed un braccio. In quei pressi son 2 ruscelli, S. Martino e S. Elia. Sopra la grotta son le rovine di Castiglione”, già nota dalla segnalazione di Vincenzo Padula (1870-1880).  Nel 2016 è stato finalmente inaugurato il Parco Archeologico di Castiglione di Paludi, i cui lavori di completamento sono stati eseguiti grazie a finanziamenti regionali.

cp 1cp 4cp 6cp 3cp 2cp 7

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters