Le 10 città fantasma più famose della Calabria

 

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Città fantasma è un termine derivato dalla locuzione in lingua inglese “Ghost Town” che definisce una città abbandonata. Le cause possono essere sociali, come il fallimento dell’economia locale e/o l’esodo della popolazione verso zone economicamente più favorevoli, o conseguenti a guerre o calamità naturali. Le città fantasma possono essere turistiche, con notevoli entrate economiche grazie al turismo, come Oatman, in Arizona, o numerosi siti in Egitto, ma che non possono sopravvivere senza il turismo stesso; oppure una vera città fantasma totalmente abbandonata, come Bodie, in California, e Craco, in Basilicata, spesso meta di turisti o, nel caso di Craco, set cinematografici; una città fantasma può essere inoltre un sito archeologico dove rimane poco o niente sopra la superficie, come Babilonia. Alcune città fantasma rinascono sotto forma di città viventi, come Alessandria d’Egitto. Spesso una città fantasma ha un importante valore artistico e architettonico, come Vijayanagara in India o Changan in Cina. Le città fantasma sono posti allo stesso tempo un po’ tristi e macabri, dato l’abbandono, ma che ancora attirano, oltre che per le bellezze rudimentali, soprattutto per le storie affascinanti nascoste tra le macerie. Provate a camminare per le stradine di quella che un tempo era una comunità viva, con i suoi riti, e i suoi abitanti, proverete un senso di straniamento misto a nostalgia. Esistono città fantasma pressoché in tutti gli stati e le regioni importanti. In Italia sono molti i paesi fantasma. Molti si trovano nelle zone più sperdute lungo l’arco dell’Appennino. E ciascuno di questi paesi fantasma ha una propria storia. Le città fantasma costituiscono anche una parte consistente del tesoro contenuto in quello scrigno chiamato Calabria. Qui ne conosciamo alcune, le più famose e meglio documentate.

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PENTEDATTILO

Considerato  il paese fantasma più suggestivo e famoso della Calabria, il borgo di Pentedattilo fu abbandonato dai suoi abitanti per effetto di fenomeni migratori oltre che per le continue minacce naturali, terremoti e alluvioni. Pentedattilo (Pentadattilo in greco-calabro) è una frazione del Comune di Melito Porto Salvo, in Provincia di Reggio Calabria. Fino al 1811 fu comune autonomo. Posto a 250 metri s.l.m. Pentedattilo sorge arroccato sulla rupe del Monte Calvario, dalla caratteristica forma che ricorda quella di una ciclopica mano con cinque dita, e da cui deriva il nome: penta + daktylos = cinque dita. Sfortunatamente alcune parti della montagna sono crollate ed essa non presenta più tutte e cinque le “dita”, ma rimane comunque un posto affascinante e pieno di mistero, uno dei centri più caratteristici dell’Area Grecanica. Quello che era l’antico paese è risultato, fino a pochi anni or sono, quasi del tutto abbandonato: la popolazione era infatti migrata leggermente più a valle formando un nuovo piccolo centro dal quale si poteva ammirare il vecchio paese fantasma. Il suo fascino è raccontato direttamente dalle parole scritte dall’inglese Edward Learche, nel 1847, viaggiò per la provincia reggina. Scriveva nel suo ‘Diario di un viaggio a piedi’: “ La visione è così magica che compensa di ogni fatica sopportata per raggiungerla: selvagge e aride guglie di pietra lanciate nell’aria, nettamente delineate in forma di una gigantesca mano contro il cielo, mentre l’oscurità e il terrore gravano su tutto l’abisso circostante”. Ma oggi, le casette in pietra autocostruite e adornate dai fichi d’india bruciati dal sole sono diventati alloggi di ospitalità diffusa, il tutto grazie a una rete messa insieme per salvare questo splendido gioiello dell’area grecanica, dal definitivo abbandono. È così che grazie all’Associazione Pro Pentedattilo, all’Agenzia dei Borghi solidali con il sostegno di Fondazione con il Sud, alla Comunità europea e a centinaia di ragazzi che arrivano ogni anno attraverso i Campi della legalità Arci e Libera, il borgo è stato riportato in vita. Ogni estate Pentedattilo è tappa fissa del festival itinerante Paleariza, importante evento della cultura grecanica nel panorama internazionale. Inoltre ospita tra agosto e settembre il Pentedattilo Film Festival, festival internazionale di cortometraggi. Colonia calcidese nel 640 a.C., fu per tutto il periodo greco-romano un fiorente centro economico della zona; durante il dominio romano divenne inoltre un importante centro militare per la sua strategica posizione di controllo sulla fiumara Sant’Elia, via privilegiata per raggiungere l’Aspromonte. Con la dominazione bizantina iniziò un lungo periodo di declino, causato dai continui saccheggi che il paese subì prima da parte dei Saraceni ed in seguito anche da parte del Duca di Calabria. Nel XII secolo Pentedattilo fu conquistato da Normanni e fu trasformato in una baronia affidata alla famiglia Abenavoli Del Franco dal re Ruggero d’Altavilla. Nel 1589, a causa di debiti e questioni di illegittimità, il feudo fu confiscato e venduto all’asta dal Sacro Regio Consiglio per 15.180 ducati alla famiglia degli Alberti insieme al titolo di marchesi. E qui la storia si fa leggenda. La leggenda di Pentedattilo ruota tutta intorno al castello, oggi quasi completamente distrutto da terremoti, alluvioni ma anche, dalla mano dell’uomo (in tempi di carestia gli abitanti utilizzarono alcune parti per autocostruirsi le case) e alla strage degli Alberti. Protagonisti due nobili famiglie: gli Alberti appunto, marchesi del borgo e gli Abenavoli, baroni di Montebello Ionico, altro paesino vicino.
Si narra che la notte di Pasqua del 1686 le due famiglie furono protagoniste di una strage sanguinaria. Il barone Bernardino Abenavoli voleva prendere in moglie Antonietta Alberti. La donna però fu chiesta in sposa e concessa da Lorenzo Alberti a Don Petrillo Cortes, figlio del viceré di Napoli. Questa notizia indusse l’ira passionale del barone che la notte di Pasqua, grazie al tradimento di Giuseppe Scrufari, servo infedele degli Alberti, si introdusse all’interno del castello di Pentedattilo con un gruppo di uomini armati. Giunto nella camera da letto di Lorenzo, lo sorprese durante il sonno sparandogli due colpi di archibugio e finendolo con 14 pugnalate e costrinse Antonietta a sposarlo. Ma il vicerè Cortez, inviò una sua spedizione per vendicarsi e fece uccidere tutti gli uomini di Bernardino. Il barone però riuscì a fuggire portando con sé Antonietta, a Vienna. In seguito l’uomo entrò nell’esercito e la donna in convento di clausura. La strage porta con sé altre leggende come quella che, nelle notti di vento, tra le gole della mano del Diavolo si possono udire le urla di dolore di Lorenzo Alberti. Nel 2007 Robert Englund, famoso attore statunitense, noto al grande pubblico per aver interpretato il ruolo del mostruoso serial killer Freddy Krueger della saga horror Nightmare,  ha visitato (per le location del film The Vij) Pentedattilo dichiarando: “Personalmente ho tratto grandissima ispirazione da due paesini della provincia di Reggio Calabria: Pentedattilo e Bova. Quando li ho scoperti ho pensato che fossero set da milioni di dollari preparati per noi da Peter Jackson!”.

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ROGHUDI VECCHIO

Altra famosa città fantasma calabrese, Roghudi (Richùdi o Rigùdi in greco-calabro) è un comune di 1.137 abitanti della città metropolitana di Reggio Calabria. La caratteristica principale del comune di Roghudi è quella di essere suddiviso in due differenti porzioni non confinanti poste a grande distanza l’una dall’altra (circa 40 km). La prima di esse è posta nelle vicinanze di Melito di Porto Salvo, del cui territorio comunale costituisce un’enclave, contenente l’attuale sede comunale e l’abitato di Roghudi Nuovo; la seconda è posta all’interno, sulle pendici meridionali dell’Aspromonte, nella quale si trova l’abitato, ora abbandonato, di Roghudi Vecchio. La parte di Roghudi Vecchio, abitata sin dal 1050 e facente parte di un’area grecanica, ha le abitazioni posizionate sull’orlo di un precipizio e fu dichiarata totalmente inagibile a seguito delle due fortissime alluvioni avvenute nell’ottobre 1971 e nel gennaio 1973. La popolazione di Roghudi fu distribuita nei paesi limitrofi. Le leggende di Roghudi sono davvero tante e a tramandarle sono gli anziani che vi hanno trascorso la loro infanzia. Secondo una leggenda a Roghudi esistevano le Naràde, o Anaràde, che erano delle donne dalle sembianze metà umane con zoccoli di asina che vivevano nella contrada di Ghalipò, prospiciente Roghudi. Di giorno, rimanevano nascoste tra le rupi; di notte, cercavano di attirare con ogni stratagemma, come la trasformazione della voce, le donne del luogo con l’intento di ucciderle, al fine di sedurre gli uomini del paese. Per proteggersi dalle loro irruzioni vennero costruiti tre cancelli, collocati in tre differenti entrate del paese: uno a “Plachi”, uno a “Pizzipiruni” e uno ad “Agriddhea”. Non molto distante da Roghudi, sorge la frazione di Ghorio di Roghudi, anche questa completamente abbandonata. La caratteristica di questa frazione è rappresentata da un particolare masso da una forma particolare , nota come a Rocca tu Dracu, il cui significato risale al termine ellenistico Draku che vuol dire occhio. Secondo le leggende di Roghudi, infatti, si tratterebbe della testa di un drago che sul colle custodiva un tesoro inestimabile. Vicino la pietra della testa del drago è presente un’altra roccia particolare a forma di groppe. Secondo le credenze popolari si trattava delle sette caldaie o caddareddhi che permettevano al drago di nutrirsi. Il tesoro custodito dal drago, secondo le leggende, veniva assegnato soltanto a un combattente coraggioso, capace di superare una prova. Il cavaliere per poter ottenere il tesoro del drago doveva sacrificare tre esseri viventi maschio: un neonato, un capretto e un gatto nero. Nessuno ebbe mai il coraggio di sfidare il furioso drago fin quando un giorno venne alla luce un bambino con delle malformazioni, che venne affidato a due uomini affinché se ne sbarazzassero. Cosi i due uomini, pensando alla vecchia leggenda, decisero di prepararsi alla prova di coraggio per il sacrificio e ottenere il tesoro del drago. L’altare era pronto e il gatto e il capretto erano già stati sacrificati. Nel momento in cui stavano per uccidere il bambino, una violenta e improvvisa tormenta di vento scaraventò i due uomini contro le caldaie del drago, uccidendo uno dei due. In seguito nessuno osò sfidare il drago mentre l’uomo sopravvissuto visse in tormenta del diavolo fino alla fine dei suoi giorni. Stando a quanto dichiarato dallo studioso Tommaso Besozzi, intorno alla metà del Novecento nel borgo di Roghudi erano presenti dei grossi chiodi conficcati nei muri delle abitazioni, dove venivano fissate delle corde legate alle gambe o alle caviglie dei bambini. Si trattava di sistemi di sicurezza, per impedire ai bambini distratti di precipitare nel burrone che circonda il borgo fantasma.

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ACHERENTIA (Cerenzia Vecchia)

Acerenthia (più correttamente Akerentia o Acheronthia, chiamata ora Cerenzia vecchia) è un borgo abbandonato posto sul territorio di Cerenzia (KR). La città sorgeva, circondata da mura alte, sulla vallata del fiume Lese che un tempo era noto come Acheronte (da qui il nome del borgo). Il borgo venne abbandonato definitivamente nel 1844 a causa delle difficili condizioni igieniche che il paese stava vivendo. Per via delle epidemie la popolazione si ridusse con il passare del tempo, fino a raggiungere il numero di poche centinaia di persone tra il 500 e la prima metà del 600. Dopo il terremoto del 1738 che distrusse diverse zone della Calabria tra cui lo stesso borgo di Acerenthia, gli abitanti decisero di trasferirsi e costruire un nuovo borgo, su un colle posto sopra l’ormai vecchio comune. Venne realizzato il nuovo centro urbano di Cerenzia e il vecchio borgo di Acerenthia venne ufficialmente abbandonato. Il borgo è stato abbandonato per diversi decenni con zone spesso utilizzate per il pascolo. Solo nel corso degli ultimi anni sono stati lanciati dei programmi di valorizzazione e recupero del territorio, con la realizzazione di un Parco Archeologico, grazie all’intervento dell’Amministrazione Comunale. Il borgo fantasma di Acerenthia dista appena 10 chilometri a est rispetto a San Giovanni in Fiore. Sede di un importante vescovato per ben 9 secoli, tanto da essere considerata la diocesi suffraganea nel meridione, Cerenzia Vecchia si mostra ora come una vasta città diruta e abbandonata dove è possibile percorrere le antiche strade e visitare le antiche abitazioni e palazzotti, tra cui i resti dell’antico palazzo del Vescovado, simbolo e monumento di Acerenthia. Altra struttura importante del borgo era la chiesa, dedicata a San Leone e al martire San Teodoro di Amasea. Nonostante la chiesa sia in rovina, è visibile l’architettura originaria a 3 navate. Sono presenti anche le Grotte Basiliane, nella zona Giancola a 2 chilometri di distanza. Era proprio in queste grotte che si tenevano i riti della tradizione greco bizantina.

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CIRELLA VECCHIA

Cirella è l’unica frazione di Diamante, in provincia di Cosenza. Il promotorio che la sovrasta e che propende verso il mare, naturalmente difeso, ospita sulla sua sommità i resti dell’antica “Cerillae”. È un antico borgo medievale, con struttura arroccata tipica dei centri bizantino-normanni dell’alto Tirreno calabrese. Il luogo risulta abitato da tempi antichissimi infatti ci sono evidenze della presenza di tribù primitive e gli stessi luoghi erano fiorenti in età Romana. Nel 649 al Sinodo di Papa Martino I prese parte un Romanus Episcopus Cerellitanus, e ciò consente di affermare che Cirella costituiva un importante punto di riferimento nell’organizzazione della Calabria in quanto sede diocesana. Ceriallae fu una fiorente colonia della Magna Grecia. L’abitato sul monte ebbe origini in epoca successiva, intorno al IX secolo, quando le incursioni saracene sulla costa spinsero gli abitanti a stabilirsi in una posizione più sicura e facilmente difendibile come il promontorio del monte Carpinoso. Un’incursione saracena del 950 d.C., guidata dall’emiro Al Hasan avrebbe addirittura raso al suolo l’abitato costiero. Nel 1556 la famiglia Stocchi di Scigliano cedette la proprietà alla famiglia Scaglione. Nel 1576 venne saccheggiata da sette galee barbaresche, capitanate da Kair ‘el Din, detto Barbarossa. Secondo la leggenda, i pirati sarebbero arrivati a saccheggiare il paese su indicazione di un mercante romano, che aveva ricevuto dei torti dai cirellesi. La memoria di un’incursione turca avvenuta nel 1576 comunque è confermata dalle fonti sopravvissute all’abbandono del paese antico. Fu oggetto di altre scorribande da parte dei pirati ottomani Sinam Cicala Pascià, Dragut Rays e Uccialì. Successivamente con la pestilenza del 1656 e i terremoti del 1638 e 1738 che colpirono la Calabria, il feudo cadde in rovina e la sua proprietà passò dalla famiglia Sanseverino ai Catalano Gonzaga. Nel 1806-1807 un contingente di truppe napoleoniche assediò e occupò il borgo medievale, stabilendosi nella residenza dei duchi Catalano-Gonzaga. Dall’evento nacque la leggenda che il borgo venisse assalito da formiche giganti, le quali divorarono gli abitanti del paese. Nel 1808, la marina britannica, dal mare, effettuò un pesante bombardamento dell’avamposto francese, compresa la torre presente sull’isola di Cirella. L’ultimo uomo a lasciare l’abitato fu il parroco Francesco de Patto che decise di lasciare il borgo alla sua sorte portando con se gli arredi sacri della chiesa. L’abitato sul monte venne cancellato definitivamente e gli abitanti superstiti quindi decisero di ricostruire il centro sulla costa. Le strutture rimanenti vennero poi usate come cava di pietre e vandalicamente spogliate dei manufatti presenti. Attualmente la vegetazione spontanea ha invaso i vicoli e le costruzioni, rendendo, in alcuni punti, difficile il passaggio. Da visitare tra i ruderi ci sono sicuramente il castello, costruito e ampliato nei secoli con vari stili dalle famiglie che lo hanno abitato, la chiesa di San Nicola Magno che conteneva affreschi bellissimi di cui oggi rimangono poche tracce, la chiesa dell’Annunziata dove oggi rimangono solo un altare, i muri perimetrali e dei banchi per i fedeli. Tra il monastero dei minimi di San Francesco da Paola del XVI secolo (lato monti) e i ruderi della Cirella medievale (lato mare) sorge il teatro dei ruderi. La struttura, in stile greco, venne costruita tra il 1994 e il 1997, ed è attualmente utilizzata per spettacoli e concerti. Il panorama rende il teatro un posto molto suggestivo.

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AFRICO VECCHIO

Fondato nel IX° secolo col nome latino di “aprìcus” che significa “soleggiato”, Africo Vecchio è ciò che rimane di un tranquillo paese, tutto costruito in pietra, che nel 1951 si spopolò a causa di una di terribile alluvione che provocò morti ed ingenti danni materiali. Stessa sorte è toccata alla frazione Casalnuovo, ormai anch’essa fantasma. La realtà di Africo è quella di una vita dura e aspra quasi ai confini della realtà. Una storia di uomini, donne, anziani e bambini, casolari e ricoveri per le bestie, vette innevate e dirupi profondissimi. È stata avanzata l’ipotesi che nel luogo siano esistiti insediamenti in epoca precedente o contemporanea alla colonizzazione magnogreca; esistono comunque reperti archeologici di epoca bizantina. Probabilmente già nel decimo secolo vi erano presenti dei monaci basiliani. In epoca normanna, fra i secoli XI e XII, visse San Leo, il patrono del paese; secondo la tradizione, egli nacque a Bova e prima di diventare monaco studiò nel convento basiliano della SS. Annunziata di Africo. Nel 1571 Gabriele Barrio scrive che ad Africo i riti sacri sono celebrati in greco e che la popolazione adopera il greco anche nei rapporti familiari, assieme al latino. In epoca napoleonica si ebbe ad Africo uno scontro tra francesi e borbonici, in cui gli abitanti parteggiarono per questi ultimi. Nell’Ottocento fu attivo nel territorio di Africo il brigante Antonio Zemma. Le condizioni sociali ed igieniche di Africo nel periodo interbellico erano disastrose. Il meridionalista Umberto Zanotti Bianco, coadiuvato dal giovane Manlio Rossi Doria, eseguì un’inchiesta su Africo nella quale riferiva come il paese fosse annidato su case dirute per il pregresso terremoto, isolato geograficamente, afflitto da tasse indiscriminate e da malattie, fosse privo di medico, di aule scolastiche (le lezioni si svolgevano nelle stanza da letto della maestra); gli abitanti si nutrivano di un immangiabile pane fatto con lenticchie e cicerchie considerandolo il paese « più povero,  più triste, e più infelice della Calabria». Il 20 gennaio 1945 la popolazione di Africo assaltò con armi da fuoco e distrusse con bombe a mano la locale caserma dei carabinieri, costringendo i tre o quattro militi presenti a rifugiarsi negli scantinati e liberandoli solo dopo averli disarmati. In questo periodo si costituirono nel paese la sezione del Partito socialista, quella del Partito comunista e la Camera del lavoro. Nel marzo 1948 il settimanale “L’Europeo” pubblicò un reportage da Africo a firma del giornalista Tommaso Besozzi, corredato da alcune fotografie di Tino Petrelli; tale reportage (che faceva parte di un’ampia inchiesta sulle condizioni del Mezzogiono promossa da Arrigo Benedetti) mostrava come le condizioni del paese non fossero sostanzialmente migliorate rispetto a quelle descritte vent’anni prima da Zanotti Bianco. Fra il 14 e il 18 ottobre del 1951 una violenta alluvione devastò Africo e Casalnuovo, causando tre vittime ad Africo e sei a Casalnuovo nonché ingenti danni materiali. Su ordine delle autorità i due paesi semidistrutti furono evacuati e la popolazione dopo essere stata costretta a lungo a vivere in campi profughi, scese dai monti per fondare, con il nome di Africo, un nuovo paese situato a breve distanza sul mar Jonio tra i comuni di Bianco e Brancaleone, nel malcontento più totale da parte della politica locale e nazionale tanto che nel 1958 Antonio Marando poté scrivere che con la fondazione di Africo Nuovo era sorto «il primo paese italiano senza territorio». Di fatto, il comune di Africo Nuovo rimase fino al 1980 privo di delimitazione territoriale, mentre i suoi abitanti avevano perso la loro antica condizione sociale (di contadini poveri) senza però averne acquistata una migliore dovuta per lo più ai sussidi dati durante quegli anni prima come profughi e poi come disoccupati. Quello che porta dal borgo di Africo Vecchio a Casalnuovo (meglio conservato rispetto al primo) è un itinerario affascinante non solo per gli amanti del trekking e della natura ma anche per chi volesse comprendere l’intimo legame che ancora oggi lega la gente di Africo a questa terra.

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FANTINO E CARELLO (San Giovanni In Fiore)

Fantino e Carello sono due frazioni del comune di San Giovanni in Fiore, in Provincia di Cosenza, oramai abbandonate dai propri abitanti. Fantino è stata la più grande frazione della cittadina silana, ed è sita nelle vicinanze di Caccuri. Il borgo di Fantino sovrasta la vallata di Carello e l’omonimo borgo. L’origine di Fantino, o anche Infantino in forma dialettale, ha origini ancora poco chiare: molti pensano che sia riferito al fatto che i monaci basiliani, che hanno vissuto in questo paesino, abbiano portato in loco una statua di San Giovanni proveniente da una chiesa dedicata a San Fantino. La statua fu riposta dapprima nella vecchia chiesa, una chiesetta di piccole dimensioni (6 × 4 m), e in seguito al decadimento e al successivo diroccamento della stessa negli anni avvenire dopo l’abbandono, fu sistemata nella nuova chiesetta fatta erigere dal parroco dell’abitato negli anni ’70, una chiesetta dalle dimensioni simili e di forma ottagonale. Il borgo medievale di Fantino, è la frazione più antica di San Giovanni in Fiore. Un tempo è stata certamente la frazione più popolosa e grande. Il borgo nonostante la buona accessibilità, garantita dalla Sp 180, nel dopoguerra non è riuscito a garantirsi uno sviluppo economico che sostentasse la popolazione.Negli anni ’60 contava oltre 800 abitanti che costituivano così, un vero e proprio paesino. Il borgo risale al 1600 e si è sviluppato alle pendici del monte Gimmella (Jimmella in dialetto). Si narra che il primo fondatore del villaggio fu un pastorello di Pedace.  Il borgo si è poi sviluppato in una zona fortemente scoscesa e ripida, dalla quale si può ammirare la vallata di Iannia. Dopo il periodo di maggiore crescita, culminato negli anni ’60, il paese cominciò a subire un lento ed inesorabile declino, che lo portò al completo abbandono nella seconda metà del 2000. Il villaggio si è sviluppato in un luogo certamente ameno ma ricco di vegetazione e dal clima mite e favorevole a molte coltivazioni quali la vite e l’ulivo, e nel quale era molto diffusa la pratica della pastorizia ovina. Posto fra il paese di San Giovanni in Fiore e di Caccuri, lungo la vecchia strada interpoderale che collega i due paesi, sino al 2001 vi abitavano 29 persone e tutte anziane, mentre oggi (conta 4 abitanti) il vecchio borgo si anima solo per un giorno all’anno, in occasione della festa patronale di San Giuvanniellu, ovvero San Giovanni Battista Infante, quando i vecchi proprietari, e soprattutto i nipoti dei vecchi proprietari, riaprono le case facendo rivivere il paese. La festa che dura dalla mattina alla sera, è seguita da centinaia di persone, che assistono alla celebrazione della processione della statua del Santo, portato in spalla lungo i vicoli del borgo. La festa termina con un concerto e con i fuochi pirotecnici ed è diventato oramai un appuntamento fisso per i paesini della zona. Nei pressi dell’antico abitato, a qualche chilometro di distanza, si trova la discarica comunale del Vetrano, oggetto negli ultimi anni di feroci critiche dopo la scelta di un ampliamento della stessa. Per questo motivo la strada provinciale che attraversa l’antico borgo negli ultimi anni è piuttosto trafficata specie dai mezzi pesanti che l’attraversano per poter raggiungere la discarica. Questo ha comportato la progettazione dell’ampliamento della stessa strada provinciale. Carello visto le difficili condizioni orografiche sulle quali insisteva, ebbe un rapido processo di abbandono, nonostante sul suo territorio si stessero progettando alcune opere importanti, di recupero e riqualificazione. Di antica origine (probabilmente 1700, anche se non esistono dati certi), il borgo fino agli anni cinquanta, insieme alla frazione di Jannia contava quasi 100 abitanti. Per raggiungere il borgo si deve affrontare una ripidissima discesa, un tempo mulattiera, rifatta e migliorata dall’Opera Sila negli anni ’50, ma ancora insicura e pericolosa. Per risalire poi, o si procede nell’affrontare l’impervia risalita per San Giovanni o dall’altro versante, affrontare un’altrettanta ripida salita che poi porta al paese di Caccuri. Carello è posizionato nella parte terminale di una preziosissima vallata, da cui prende il nome la frazione, che ospita poche centinaia di piante di ulivo, e che grazie al microclima che la valle riproduce, secondo studi universitari fatti sulle olive prodotte, queste regalerebbero un olio dalle caratteristiche e proprietà che non ha eguali in tutt’Italia. La maggior parte degli abitanti di Carello, presa dimora nella vicina Acquafredda, continuano l’attività agricola e della pastorizia che già praticavano. Una curiosità del luogo è che negli anni ’60 l’ente Opera Sila, aveva in programma la realizzazione della linea elettrica che avrebbe dovuto raggiungere il borgo. Ciò nonostante in concomitanza della programmazione dei lavori, il borgo venne abbandonato dai suoi abitanti. La progettazione quindi, non fu portata poi a compimento. Il piccolo borgo, ancora abbastanza integro, si sviluppa in due file di case, esempi di architettura rurale calabrese, con materiali reperiti nelle zone circostanti. Oggi la maggior parte delle case sono “abitate” da alberi di ulivo, di fico e fichi d’india che sa da una parte li rende i custodi di questo borgo fantasma dall’altra recano gravi danni strutturali. Ancora camminando nel borgo si possono notare i recinti degli orti che hanno al loro interno molti alberi da frutto. Nella zona delle due frazioni sorge un monastero dedicato alla “Madre di Dio”, oggi chiesa di Santa Maria dei 3 fanciulli, chiamata così perché questa “Madonna” aveva salvato tre fanciulli che si erano persi nel bosco appiccando un incendio e dando così un punto di riferimento per tornare a casa, che oggi è localizzata nella zona denominata Patia (dal greco paios – paidea: fanciullo).

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PAPAGLIONTI

Papaglionti è un’antica località fantasma, situato a 460 m sul livello del mare, posta sul declivio che a nord delimita l’altopiano del monte Poro, nelle immediate vicinanze del comune di Zungri, in provincia di Vibo Valentia. Questo nome si suppone abbia origine greco – bizantina e deriverebbe da Paleontos, corruzione di Papas Leontios, persona ecclesiastica probabile proprietario di un casale dal quale ebbe origine il villaggio nato nel primo medioevo. Alcuni studi dimostrano che termini come Papaglionti, Papasidero, Papaleo sono tutti cognomi appartenuti a sacerdoti greci vissuti in Calabria e che si sposavano lasciando il loro nome agli eredi o, come nel caso di Papaglionti, alle loro proprietà.In seguito a una violenta alluvione avvenuta nel 1952, gli abitanti, già scossi dal terremoto del 1905, furono costretti a migrare in un territorio vicino, più adatto alla vita e alla sicurezza. Per questo motivo nacque Papaglionti nuova e morì Papaglionti vecchia. Oggi il borgo antico di Papaglionti è preda di rovi, erbacce e il degrado del tempo. Sebbene sia un borgo abbandonato quasi a se stesso rappresenta un patrimonio prezioso, di rilevanza storica e culturale che attira la curiosità e l’interesse dei turisti in vacanza in Calabria. Girando per il piccolo villaggio è possibile notare le strutture povere, semplici ma allo stesso tempo attente all’estetica architettonica. Tra le strutture che saltano all’occhio, le più importanti sono i resti della chiesa di San Pantaleone, i resti del Castello Francese, 2 Calvari, uno datato 1700 che delimitavano l’ingresso nel centro abitato. La chiesa di Papaglionti all’esterno si presenta strutturata in mattone rosso a due navate collegate tra di loro da due arcate. Sotto la navata si nota un vuoto destinato alla sepoltura. Il Palazzo della Famiglia di Francia è l’esempio di Casa Signorile di Papaglionti. La struttura risale al 1700, ha una forma rettangolare e molto grande, circa 13 metri in larghezza. Anche questo si presenta in muratura di pietra granitica con saette e scaglie di laterizio. Il pian terreno era adibito come deposito prodotti agricoli, il primo piano invece per la residenza dei proprietari. Il Calvario di Papaglionti è situato lungo la strada che conduce al vecchio borgo. Si tratta di un Calvario rettangolare, in muratura di pietra granitica locale, regolarizzata con scaglie di laterizio e mattoni. Questo Calvario è stato realizzato alla fine del 600 ed è una delle poche strutture rimaste in ottime condizioni. Al centro si nota una nicchia, all’interno della quale era ospitato un dipinto raffigurante la crocifissione. Una tappa da non perdere se siete in visita all’insediamento rupestre di Zungri o nella vicina Grotta Trisulina, siti molto famosi della zona.

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LAINO CASTELLO
Laino Castello (Castièddru in calabrese) è un comune situato nel Parco Nazionale del Pollino, nella provincia di Cosenza, e noto soprattutto per il suo centro storico abbandonato. Sorge su un’altura rocciosa a 270 metri slm, denominata colle San Teodoro, ed è circondata dal fiume Lao. Non è facile stabilire l’esatta origine di Laino Castello ma ciò che è certo è che nel 1811 Laino Castello era scissa da Laino Borgo. Una separazione che era durata fino al 1928 quando i due comuni si erano riuniti sotto il nome di ‘Laino Bruzio’. Un’annessione che si conclude nell’anno 1947 con una divisione definitiva.  Nel 1958 un muro venne giù, seppellendo la Fiat 600 del medico condotto, e i maggiorenti del paese enfatizzarono l’episodio della “frana” fino ad assumerlo quale sintomo dell’instabilità dell’intero centro abitato. Negli anni a seguire l’idea di ricostruire l’intero abitato altrove, in un luogo in piano e più al sicuro da frane e terremoti, si fece sempre più strada, via via mobilitando esperti, tecnici e progettisti, anche senza l’approvazione di tutti i cittadini (che rimasero volontariamente ad abitare nella Laino “vecchia”) e, realizzando a singhiozzo ora una casa, ora una strada, ora un edificio pubblico, si arrivò al 1982, quando, grazie ai finanziamenti del post-sisma lucano ottenuti per la ricostruzione delle due Laino, andò definitivamente in porto il progetto della nuova Laino Borgo secondo un impianto urbanistico moderno ed arioso. E, allora, quando fu interrotta d’autorità l’erogazione di luce e acqua, dovettero arrendersi anche gli irriducibili, che si consolarono solo tornando sporadicamente alle loro vecchie case per rassettarle, per zappettare l’orto, adacquare le “graste” del basilico e dei garofani sui davanzali. Non si è ancora certi se fu colonia della Magna Grecia, fondata dai superstiti della distruzione di Sybaris, o invece  come molti studiosi pensano, sia stata fondata da alcuni sopravvissuti di Lavinium, una città romana dell’area di Orsomarso, i cui abitanti erano scampati alla malaria, e da alcune persone provenienti dalla bassa e media valle del Lao che erano riuscite a sfuggire alle incursioni dei Barbari. Grazie alla sua posizione strategica e all’aumento degli scambi commerciali con altre popolazioni la città aveva incrementato talmente tanto la sua potenza che, come dimostrano alcuni reperti archeologici custoditi in alcuni musei italiani ed europei, la città aveva iniziato a coniare monete chiamate ‘Lainos’ (i cui simboli erano il vitello, la colomba e l’aquila). Nel 1812, in località Umari, si rinvennero numerosi sepolcri disposti in ordine, all’interno dei quali si trovarono 53 vasi figurati molto grandi. La costruzione con grossi blocchi di tufo intonacati all’esterno e pitturati per lo più di rosso fa pensare fossero sepolcri tipicamente greci. Sempre nella stessa zona vennero alla luce negli anni successivi resti di sepolcri e edifici di vario tipo e numerosi oggetti quali monete, statuette, busti, vasi e utensili vari, non solo di epoca greca ma anche romana. Dopo un periodo di splendore durato circa due secoli, dalla fine del IV secolo a.C., iniziò una lenta e inesorabile decadenza segnata anche dall’incedere dei Lucani e dei Bruzi animati da pressanti mire espansionistiche. La città si riduce ad un villaggio e resta tale per tutto il periodo aureo romano. Laino inizia a risollevarsi con l’arrivo dei Bizantini. Proprio i monaci basiliani iniziarono a impiantare nel territorio una serie di laure, cappelle, chiese e monasteri che fecero accrescere l’importanza religiosa e culturale di Laino e di tutta l’area circostante. Segni evidenti della presenza dei monaci basiliani si trovano nella chiesa madre di San Teodoro e nell’uso della liturgia greca durata fino al 1562, nonché nella toponomastica di varie località. Nella guerra per il predominio tra Bizantini e Longobardi, questi ultimi costruirono sul colle San Teodoro un castello (Castrum Layni). La posizione strategica del castello, con tre lati a picco e una ampia vista sulla valle sottostante, hanno consentito che il potere e l’importanza di Laino crescessero fino a farlo diventare uno dei sette gastaldati più importanti dell’Italia meridionale.Dal 851 in poi il gastaldato di Laino fu capoluogo di un vasto territorio compreso nel Principato di Salerno. L’arrivo dei Normanni segnò per il centro l’inizio di una successione di feudatari che ne riducono e smembrano il territorio. La conquista della rocca di Laino fu oggetto di varie battaglie tra Angioini e Aragonesi. Tra il XVIII e il XIX secolo si diffonde anche a Laino il fenomeno del brigantaggio. Nel 1812 sorsero a Laino delle società segrete che parteciparono alla cospirazione carbonara con le vendite “Filantropi di Tebe” a Laino Borgo e “S. Teobaldo” a Laino Castello. Il 21 ottobre 1860 viene accettata con un plebiscito l’annessione al Regno di Sardegna. Con decreto del Ministro dei LL.PP. emesso in data 3 giugno 1960, a seguito a dei problemi di natura idrogeologica, l’abitato di Laino Castello venne dichiarato da trasferire in altro luogo per problemi di natura idrogeologica e fenomeni sismici. Viene così scelto il sito dove edificare il nuovo centro abitato ed inizia la costruzione delle prime infrastrutture. Solo nel 1981, poi, a seguito di un ennesimo sisma ed in virtù delle stesse motivazioni di circa vent’anni prima, la popolazione ha dovuto abbandonare le proprie case e l’abitato fu definitivamente abbandonato.  Della fortezza e della relativa cinta muraria resta ben poco, ma il nucleo abitativo, abbandonato all’inizio degli anni ’80 è ancora in piedi. Il borgo presenta ancora stradine ripide, resti di porte, torri e fortificazioni tipiche dell’impianto medievale. Oltre ai ruderi restano, sul fianco del colle, a riprova dell’antichità del borgo, tutta una serie di grotte naturali utilizzate nel periodo bizantino dai monaci e più tardi adibite ad abitazioni civili (il dato emerge dal catasto onciario del 1755). Il nucleo di questo splendido e storico comune è caratterizzato da vicoli, gradinate, edifici e palazzi nobiliari. Uno scenario arricchito da portali in pietra scolpiti a mano e che espongono il blasone delle famiglie originarie. La Chiesa madre di San Teodoro di origine bizantina sfoggia una meravigliosa torre medievale ed è sicuramente un monumento che gode di un alta valenza architettonica e custodisce al suo interno pregiate opere artistiche come le pale dell’altare maggiore, il fonte battesimale del 1500 e il trittico in legno che raffigura la Madonna col Bambino restaurato e conservato nel Museo diocesano di Cassano allo Jonio. Come narra un’antica leggenda questo luogo di culto è stato dedicato a San Teodoro, un soldato romano che mentre era intento a difendere il territorio, dove oggi sorge il nuovo centro di Laino, e non essendo in grado di rispondere agli attacchi del nemico, aveva rivolto suppliche e preghiere a Dio che trasformò gli alberi che gremivano il territorio in soldati e in questo modo riuscì a sconfiggere l’avversario. Anche la Chiesa delle Vergini è del 1500 e la Cappella di Santa Maria degli Scolari custodisce un affresco rinascimentale della Madonna seduta sul trono. I ruderi del Castello giacciono su uno sperone di roccia, precisamente sul punto più alto del colle e un tempo il luogo ha ospitato il cimitero comunale. Ogni anno Laino Castello ripropone il ‘Presepe Vivente’ che viene allestito nel centro storico abbandonato. Un ambiente dove la natura ricrea quei luoghi che ricordano la Natività e le grotte naturali scavate nella roccia sono la base più appropriata per tale rappresentazione. Un evento e un ambiente che ogni anno attrae un folto pubblico. Dopo anni di completo abbandono, l’amministrazione comunale ha avviato un progetto per il recupero e il riutilizzo del vecchio borgo come “Borgo–Albergo”. A tale scopo, sono stati eseguiti e sono tuttora in corso diversi lavori di recupero e restauro.

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PANDURI

Panduri è una cittadina collinare nel comune di Careri (Reggio Calabria). Per la sua posizione dominava tutta la valle del torrente Bonamico, da Capo Bruzzano fino a Roccella, e da lì si potevano vedere vari paesi incastonati alle pareti dell’Aspromonte: da Platì a Ciminà, da Gerace a San Luca, da Natile a Casignana e poi in alto il monte Varraro con le sue balze, i suoi querceti fittissimi e le rare spianate messe lì come sentinelle per il paese sottostante. Questa zona con i suoi boschi inestricabili aveva un legame simbiotico con la natura, con una fatica di vivere quotidiana ed era abitata da essere umani che, anche se sofferenti, non erano ancora corrotti dalla povertà e dai mali che attanagliavano i grandi centri urbani. C’era un connubio tra i monaci e la popolazione locale che approfittarono della loro esperienza per imparare nuove tecniche di coltivazione della terra e di allevamento del bestiame. Nel 1507 venne distrutta da un tremendo terremoto, a cui sopravvisse solo un terzo della popolazione. Il sisma risparmiò praticamente solo le antiche mura di un convento. I morti non vennero seppelliti. Dalla sua distruzione, su una collina vicina, sorse il nuovo paese, Careri. Anche oggi, ogni estate, nel paese ci si riunisce a pregare per le vittime del terremoto avvenuto nel XVI secolo: si porta in processione la Madonna di Panduri, il cui quadro sembra fosse stato ritrovato nell’antico monastero grazie ad un bue che non voleva più spostarsi da quel luogo, spingendo gli abitanti a scavare, trovando appunto il dipinto. Si trattava di un’opera raffigurante una madonna, La Madonna delle Grazie di Panduri.  Dopo il terremoto, esso venne conservato fino agli Anni Ottanta del Novecento nella parrocchia di Careri e poi trafugato: l’immagine usata nel corteo, è una sua copia. Molto probabilmente rivenduto presso collezionisti. Si narra che nelle viscere della collina di Panduri si trovi una caverna alla quale si accede attraverso una piccola fessura nascosta chi sa dove, ma conosciuta dagli abitanti del posto. Questa caverna presenta, secondo il racconto di molti abitanti, misteriosi fenomeni di magnetismo.

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CAVALLERIZZO DI CERZETO

Cavallerizzo di Cerzeto (Kajverici in arbëresh) è una frazione del comune di Cerzeto nella provincia di Cosenza che ha una chiarissima origine albanese. È situata alle falde di un monte degli Appennini chiamata Colle S. Elia (Rahji i Shën Lliut), o semplicemente Rahji, che si erge a circa 1000 metri di altezza dall’abitato. Circondato da castagni, e da numerosa fauna, l’abitato antico è diviso in tre borghi. Fu fondata, come anche le altre città della medesima origine, dai profughi albanesi in fuga verso il sud Italia intorno al XV, cioè quando l’Albania subì l’invasione Ottomana. Fu chiamata inizialmente San Giorgio in San Marco che poi si trasformò prima in Cavalcato e infine in Cavallerizzo; la sua appartenenza al comune di Cerzeto gli fece poi guadagnare quell’ultimo epiteto “di Cerzeto. Nel “Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli” di Lorenzo Giustiniani per Vincenzo Manfredi, Napoli 1797, alla voce Cavallerizzo si legge: “Questa terra è abitata da albanesi. Le sole donne però vestono alla “greca”. […] Si vuole che il suo nome fosse derivato da un cavallerizzo del Principe di Bisignano, che cedette quel luogo agli albanesi, quando i medesimi trasmigrarono dall’Albania epirica. È sempre detto Sangiorgio di Sanmarco”. In realtà la popolazione albanese rifondò una città già esistente e in declino e la trasformò portando la cultura arbëresh in questa zona costruendo anche una cappella e poi una chiesa in onore di San Giorgio Martire. Nel XIX secolo una delegazione di questo paese si recò presso la piana dei Greci, oggi piana degli Albanesi (Palermo) per acquistare proprio una statua di San Giorgio, patrono anche di quel luogo, statua ancora presente nel paese. A Cavallerizzo, come in tutti i paesi albanesi in Italia, era praticata la liturgia secondo il rito bizantino, sostituita nel XVIII secolo dal rito latino. Nel “Dizionario dei luoghi della Calabria” di Gustavo Valente del 1973, riporta le seguenti notizie su Cavallerizzo: La Parrocchiale, di rito greco, è intitolata a San Giorgio. Vi era una Confraternita laicale dedicata al nome del Rosario. Il Valente riporta così che a Cavallerizzo ancora nel 1973 persiste il rito greco-bizantino, estirpato già da circa due secoli. I santi più conosciuti a Cavallerizzo sono orientali: San Giorgio Megalomartire e Sant’Antonio il Grande. La Chiesa di San Giorgio Martire in Cavallerizzo risale al 1729, molto venerata è l’icona, stranamente dai canoni latini, del santo. Nel periodo della festa di San Giorgio, il 23 aprile, molti erano i giochi e le manifestazioni culturali per bambini e per adulti. Per esempio un gioco, che è particolarmente crudele, era gjelli në shkak (il gallo come bersaglio): si interrava un gallo dentro una fossa, lasciandoli fuori solo la testa, e i giocatori bendati dovevano cercare di colpirlo, chi riusciva ad ucciderlo riceveva in premio lo stesso sfortunato animale. Questa tradizione fu abbandonata negli anni settanta del secolo scorso, ma è rimasta molto conosciuta l’espressione të bëshin si gjelli në shakë. Gli abitanti di Cavallerizzo parlano in lingua albanese, l’arbëresh. Molti sono i proverbi e i modi di dire in albanese. Numerose i Vjersh, canti popolari tipici albanesi, e i canti nuziali (kënga e martesës). Latrunera o Kusar sono l’epiteto usato correntemente, in contrapposizione ai cerzitani che sono tradhitur ed i sangiacomesi çotara. Il borgo nel corso dei secoli ha sempre dovuto fare i conti con le frane infatti già nel XVII secolo ci sono documenti che attestano di movimenti franosi avvenuti nel tempo e di danni, seppur di lieve entità, occorsi alle strutture. La tipologia di frana che colpisce questi territori è di tipo molto lento, tanto da non aver mai provocato morti, poiché il loro scorrere lento dà molteplici avvisaglie tali da permettere di mettersi in salvo con larghissimo anticipo. Questa lentezza non ha mai convinto gli abitanti di Cavallerizzo a spostare il centro abitato, piuttosto li ha spinti a ricostruire le strutture danneggiate e cercare interventi sul movimento franoso stesso, sempre in maniera sterile. Nel 1952 fu proposta dal sindaco di allora la delocalizzazione del comune proprio a causa di questi eventi franosi, ma la proposta fu mal vista dalla popolazione e quindi fu immediatamente accantonata. Ma il 7 marzo del 2005 una forte frana colpì di nuovo il borgo e poiché i danni iniziarono a farsi seri e iniziarono ad esserci anche pericoli seri per la popolazione, ci fu la delocalizzazione forzata effettuata dalla Protezione Civile, la quale impose l’evacuazione del centro abitato e la costruzione di un nuovo centro più a valle chiamato “Nuova Cavallerizzo” al quale gli abitanti si sono opposti anche con la forza. La città entra a pieno regime nell’elenco delle città fantasma. Purtroppo il nuovo paese, oltre a trovarsi a valle del terreno in movimento, è stato costruito con criteri gelidi e distaccati, con casermoni di cemento suddivisi in cinque quartieri. In molti, a distanza di anni, aspettano ancora di poter rientrare nelle proprie case e nel proprio paese antico, ma non sono stati fatti i lavori di assestamento dell’area franosa. Dal 2007, con la nascita dell’Associazione “Cavallerizzo Vive / Kajverici Rron”, è partito un progetto per ottenere dagli enti preposti un piano di recupero ambientale, edilizio, culturale e religioso di tutto il centro storico di Cavallerizzo.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Triora la Salem Italiana

Avete mai sentito parlare di “Inquisizione”?
Credo tutti, almeno una volta nella vita. Il termine racchiude in sé dolore, sopruso, ingiustizia, rabbia. Molte sono state le sue vittime, la maggior parte innocenti, con metodi poco ortodossi e senza rispetto per la vita umana. Un termine che non conosce confini.
E in Italia? Parlando del nostro Paese, particolarmente eclatante il caso della città di Triora, che nel 1587 circa era strategica dal punto di vista commerciale, essendo podesteria di Genova. Ricopriva un ruolo fondamentale negli scambi commerciali tra Italia, Francia e Mediterraneo tutto. In quegli anni fu al centro di una grave carestia, che stava mettendo a dura prova tutta la popolazione. La popolazione viveva nella costante paura della morte, e si ricercava una causa a tutto ciò; in quel periodo era decisamente frequente che venisse usata la medicina naturale, quindi erbe aromatiche e medicinali, ma quello che accadde a Triora lascia ancora oggi molti senza fiato. Si scatenò infatti una psicosi verso tutte quelle persone che erano in grado di guarire tramite le erbe, vennero accusate di stregoneria, di avere sottoscritto un patto con il Demonio che si serviva dunque di loro per ottenere i suoi scopi malvagi.


Complice l’ignoranza, mista alla paura e la religione che fomentava ogni genere di fobia, si diffuse questa convinzione. Intervenne l’Inquisizione e a quel punto non c’era più niente da fare. Venti persone incarcerate ingiustamente, case adibite a prigioni, torture e sevizie di ogni genere pur di ottenere una confessione di qualcosa mai commesso. Molte sono state le vite che vennero stroncate.
Fu inviato a Triora un Commissario di giustizia. In effetti, tra le altre enormità giuridiche rammentiamo che tutte le donne che fossero “nominate” da quelle già inquisite e torturate erano, a loro volta, inquisite e torturate immediatamente, senza che fossero giudicate giustamente e processate, e ciò accadeva con tale continuità, che praticamente quasi tutte le donne del circondario erano diventate “streghe”, a iniziare dalle plebee per finire con quelle di più alto livello socio-economico. Ma il peggio doveva venire: caso volle che il nuovo Commissario, Giulio Scribani, sul quale si nutriva grande fiducia per competenza e rettitudine, fosse misogino e totalmente imbevuto del pregiudizio fondante la caccia alle streghe. Ciò che accadde successivamente è facilmente immaginabile in quanto la psicosi unita all’ignoranza, portarono alla morte di venti donne ed un uomo.
Triora passò dunque alla storia come la Salem italiana, anche se il suo rapporto con il mistero parte dalle origini: lo stemma di Triora contiene l’immagine di Cerbero, cane a tre teste che sta a guardia degli inferi. Non è difficile rimanere affascinati da un borgo talmente colmo di mistero e storia, ma bisogna anche ammettere che molto probabilmente tutta questa situazione è stata creata “ad hoc” per una questione meramente economica. Creare una carestia lì a Triora, ritenuta il granaio d’Italia, per alzare i prezzi del grano, e spostare automaticamente l’attenzione da processi ben più gravi ed importanti che sono così passati in secondo piano. Questa dunque la vera motivazione di tanta cattiveria, incrementare la produzione di grano e alzare i prezzi improvvisando una carestia di cui vennero accusate le streghe. Tutta questa sofferenza ha avvolto Triora in un’atmosfera misteriosa e oscura che ancora oggi è percepita vividamente.


Nel maggio del 2000, il congresso della stregoneria si è riunito proprio a Triora e dopo giorni di convegni, ha deciso di organizzare un’escursione notturna per il borgo e visitare così i luoghi protagonisti del processo. Alcuni dei partecipanti all’escursione hanno avvertito dei malori, ai quali però non si è dato peso in quell’istante, solo successivamente, analizzando le foto e i video fatti quella sera, i protagonisti della vicenda si sono resi conto di alcune luci che si muovevano velocemente, probabilmente “orbs”, agglomerati di materia primordiale dunque, intorno a loro e di alcune forme umanoidi in una nube bianca. Gli stessi partecipanti al congresso hanno aspettato qualche giorno prima di rendere pubblico l’accaduto poiché credevano fossero foto fuori fuoco o difetti delle apparecchiature; controllando e verificando poi però si sono resi conto della veridicità di quello che stavano vedendo. Episodio probabilmente isolato, ma che non ha fatto altro che aumentare il mistero intorno a quello che è considerato uno dei borghi più spaventosi al mondo. Gli stessi abitanti successivamente hanno ammesso di aver visto spesso delle presenze aggirarsi per il borgo, soprattutto nella zona di Cabotina, quartiere periferico malfamato dove si narrava che le streghe si incontrassero per svolgere i loro Sabba e per preparare gli unguenti e gli incantesimi che avrebbero poi causato la carestia. La presenza più “famosa” sarebbe quella di Isotta Stella, nobil donna di Triora tra le prime ad essere accusata di stregoneria. Naturalmente la leggenda sguscia nei meandri del tempo, ma tra gli abitanti resiste la convinzione che effettivamente quel posto incantato e misterioso non sia mai stato abbandonato da coloro che lì hanno vissuto i loro ultimi giorni di vita.
Naturalmente cavalcando l’onda dell’entusiasmo e del turismo, il comune di Triora ha non solo aperto un museo sulla storia della città e sui suoi usi e costumi, ma sulla stregoneria in genere e sull’episodio che ha riguardato il borgo. All’interno dello stesso vi sono sia sezioni storiche dunque, sia una sezione, ubicata nelle cantine dello stabile, dove in origine furono imprigionate le donne; sono state ricostruite alcune scene come gli interrogatori e la prigionia e all’interno di tutto il museo sono state dislocate statue che riproducono l’immagine classica e stereotipata della strega, a cavallo di una scopa ad esempio. Sono contenuti anche dei documenti del processo, ma gli atti originali del processo sono andati persi quasi totalmente.


Tutto questo e molto altro è Triora, luogo magico, circondato dalla natura, avvolto nel mistero e sospeso nel tempo, in un tempo in cui magia e scienza erano un’anima sola.

Annachiara Mele – Team Mistery Hunters

GHOST STORIES – IL MISTERO DELLA SUORA FANTASMA DI PALERMO

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Ci troviamo di fronte ad una bufala o ad un caso clamoroso di presenza di uno spettro? Negli ultimi mesi sul web si è discusso moltissimo del controverso caso del fantasma della suora di Palermo, e negli ultimi giorni sembra che in un video su youtube venga dimostrato come il tutto sia riconducibile ad un gioco di luci che mettono in risalto le mura rovinate del campanile che sembrano assumere forme alquanto bizzarre. Quindi caso risolto? Nemmeno per sogno, visto che ci sono ancora moltissime persone che giurano di aver visto bene la sagoma di una suora che sembrava stesse pregando.
Gli strani avvistamenti del fantasma della suora sono iniziati in primavera: le foto scattate dai molti curiosi che sono giunti sul posto riescono a provocare un brivido profondo in ognuno di noi, dalle immagini sembrano esserci in effetti pochi dubbi ma sappiamo bene che nella casistica delle apparizioni spettrali purtroppo ci si imbatte molto spesso in falsi clamorosi.

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Non vogliamo sostenere con occhi ciechi e stolti l’assoluta veridicità delle testimonianze e della effettiva presenza di un fantasma nella Chiesa di Santa Maria delle Mercede, non sarebbe un giusto atteggiamento da parte di un team che vuol osservare certi fenomeni con occhio critico per ricercare la verità. Fino ad ora, nonostante le smentite decisamente plausibili ed il video menzionato che tenta di smontare l’intero caso, il mistero della suora fantasma sembra aver riacceso un forte sentimento religioso nei palermitani che si recano numerosi sotto la Chiesa in questione per raccogliersi in preghiera, nella speranza di poter vedere qualcosa che gelerebbe il sangue dalla paura, ma che potrebbe rappresentare una prova inconfutabile sull’esistenza di una dimensione esistente oltre la morte del corpo, l’esistenza dell’anima.
Il fascino di questo mistero non accenna a diminuire nonostante le prove degli scettici, ed anzi iniziano a circolare anche le varie teorie sulla possibile identità della suora in questione: si dice infatti che nella zona interessata sorgerebbero le Catacombe dimenticate delle suore Cappuccine, costruite sopra un antico cimitero che le suore dell’epoca riutilizzarono per le proprie sepolture. Stiamo parlando di eventi avvenuti intorno al XVIII° secolo, quindi possiamo arrivare ad ipotizzare che la suora che si intravede nelle foto potrebbe essere lo spettro di una di queste monache sepolte nelle Catacombe un paio di secoli or sono.

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Suggestione? Probabile, ma non possiamo e non dobbiamo mai dare nulla per scontato. Il nostro pianeta può ancora riservarci tante sorprese che noi nemmeno possiamo immaginare, dobbiamo sempre considerare che viviamo all’interno di un cosmo infinito di cui conosciamo pochissimo, in proporzione quasi nulla, perciò non poniamoci in maniera scettica verso quelle notizie che possano apparire bizzarre, cercando però di mantenere sempre l’occhio della logica e della ragione ben vigile.
Il mistero della suora fantasma di Palermo è ufficialmente risolto, ma in realtà esso rimarrà per molti anni un interessante caso da analizzare ancora più a fondo per cercare di scoprire la verità che si cela dietro l’inquietante sagome avvistata sul campanile della Chiesa.

Vincenzo Abate

GHOST STORIES – LA LEGGENDA DI AZZURRINA

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Ciò che maggiormente provoca il terrore nel cuore degli esseri umani sono le storie che ci vengono raccontate sulle apparizione degli spiriti; niente riesce ad insinuare il panico in ognuno di noi come i fantasmi, veri e propri incubi della nostra vita. Per quanto l’esistenza dei fantasmi possa essere intesa come positiva visto che sarebbe la definitiva conferma di una dimensione al di là della morte, in realtà il timore verso questa figura fa apparire il tutto come non positivo, addirittura pericoloso.
Questo accade perché con ogni probabilità noi vediamo i fantasmi come anime né beate né tanto meno dannate, ma semplicemente “bloccate” nella nostra dimensione materiale in una sorta di non-vita che però non è nemmeno morte assoluta… una specie di non-esistenza, un lasso di tempo da trascorrere sulla Terra vagando nel buio. Una vera e propria tortura per lo spirito umano, tormentato cosi dalla vicinanza dei propri cari alla quale però non si può rivolgere perché essi non lo percepiscono e non lo vedono.
La nuova categoria del blog Mistery Hunters (chiamata appunto Ghost Stories) riporterà avvenimenti e casi famosi di apparizioni di fantasmi, oltre alla discussione critica sull’argomento che può sviluppare un dialogo affascinante e continuo sul mistero della vita e della morte, sull’esistenza di un qualcosa di immateriale chiamato anima e di una sorta di esistenza spirituale dopo la morte del corpo. Tutti temi e domande che smuoveranno l’interesse di molte persone, ognuna di esse sarà trattata nei vari articoli della categoria in questione.

Azzurrina

Il primo caso che ho deciso di trattare come apertura di questo nuovo ed oscuro punto di vista sul mondo del Mistero è quello che riguarda il Castello di Montebello in provincia di Rimini. Ho deciso di iniziare da qui per il semplice motivo che il caso è stato ampiamente discusso anche in televisione negli ultimi anni, quindi molti di voi avranno delle rimembranze sulla storia di Azzurrina. Un inizio in un “territorio comune” in modo tale da porre una forte intesa tra me e voi che seguirete i racconti che analizzerò di volta in volta. Da questo inizio seguiremo poi un itinerario che vi porterà a conoscere avvenimenti sempre più strani ed inquietanti.
La storia del Castello di Montebello non deve essere preso sottogamba. Coloro che si ricordano di questa storia non possono non ricordare il brivido che percorse la loro schiena nel momento in cui in televisione vennero fatte ascoltare le famose registrazioni della voce di Azzurrina… veramente spaventose, ma andiamo con ordine.

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Secondo la leggenda, Azzurrina sarebbe stata la figlia del signore di Montebello. Guendalina (questo il nome della piccola) era una splendida bambina albina vissuta intorno al trecento. All’epoca l’albinismo veniva collegato con eventi di natura magica o addirittura diabolica, e probabilmente per questo la madre decise di tingere i capelli della bimba con pigmenti di natura vegetale. I capelli di Guendalina però non riuscivano a trattenere per bene la tintura, diventando cosi di un colore strano con riflessi azzurri, da qui il soprannome Azzurrina.
La leggenda narra che il 21 giugno 1375 la bambina scomparve nei sotterranei del castello mentre inseguiva una palla di stracci con la quale stava giocando. I servitori sentirono solo un urlo, ma non trovarono nessuna traccia di Azzurrina che praticamente svanì senza una reale spiegazione.
Questa storia è sopravvissuta fino ai nostri giorni, tramandata oralmente per secoli e secoli fino a noi. Si dice che ancora oggi il giorno del solstizio d’estate il fantasma di Azzurrina si mostri o si faccia sentire nei meandri bui del castello Una storia che fa rabbrividire, cosi come spaventose sono le registrazioni fatte sul posto da molte persone ed anche troupe televisive che hanno tentato di catturare dei suoni che attestassero la presenza del fantasma della bambina. A sentire le registrazioni c’è da dire che ci sono riusciti in pieno… in alcune si sente la vocina di una bambina che piange sommessamente… atroce è quella in cui si percepisce una voce che dice “mamma”, una voce di bambina, tenera e dolce, che però nel contesto in cui è stata registrata si carica di un terrore cieco e profondo che a stento riusciamo a sopportare.

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C’è quindi qualcosa di vero in questa storia che viene narrata oralmente da secoli in Emilia Romagna? A sentire le registrazioni, la presenza di Azzurrina nel castello è assolutamente accertata. Come sempre per certe cose bisogna mantenere un sano atteggiamento critico e il più lucido possibile per non incappare in bufale o cantonate, ma il caso della bambina dai capelli coi riflessi azzurri è certamente uno dei misteri più conosciuti in Italia.
A questo punto diamo appuntamento al prossimo articolo con un’altro caso di fantasmi, ma non dimenticate che nel castello di cui abbiamo parlato, ancora oggi forse il fantasma di una povera piccola creatura vaga disperata tra le mura del castello, alla ricerca di una via d’uscita da una dimensione eterea a metà strada tra la morte fisica e l’ascensione nel regno dell’aldilà.

Vincenzo Abate