I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

Come promesso continuiamo la carrellata di personaggi importanti della nostra Calabria. Nelle puntate precedenti (da leggere con voce baritona), abbiamo parlato di Telesio, Barlaam, D’amico. Viste le reazioni dei lettori, è evidente che l’obiettivo è stato raggiunto, incuriosire e far conoscere nomi noti e meno noti. In questa seconda parte incontreremo personaggi di epoche diverse, che per molti sono fonte di ispirazione grazie al loro pensiero.

TOMMASO CAMPANELLA

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Tommaso Campanella, al secolo Giovan Domenico Campanella, nasce a Stilo in Calabria, il 5 settembre 1568, da povera famiglia. Entra in un convento domenicano a tredici anni prendendo il nome di fra Tommaso. La sua formazione è fortemente influenzata dal filosofo calabrese Bernardino Telesio (1509-1588), da cui riprende le posizioni antiaristoteliche e naturalistiche. Sulla sua scorta scrive un’opera in latino, Philosophia sensibus demonstrata [La filosofia dimostrata attraverso i sensi], che gli attira le persecuzioni della Chiesa. Arrestato a Napoli, dove frequentava Giambattista Della Porta, esperto in magia naturale e in arti occulte, Tommaso Campanella subisce un primo processo nel 1592. Fugge viaggiando da una città all’altra, ma a Padova, dove conosce Galileo Galilei, è nuovamente arrestato; portato a Roma, dove resta in prigione per alcuni mesi, viene costretto all’abiura e poi condannato a ritornare in un convento calabrese. Nel 1599, in Calabria, dove le masse contadine erano costrette a subire, in terribile miseria, l’oppressione della Spagna e della Chiesa, Tommaso Campanella organizza una rivolta popolare che avrebbe dovuto instaurare una società teocratica secondo il modello poi esposto nella Città del sole. La congiura viene scoperta. Tommaso Campanella, arrestato nel novembre 1599, può salvarsi solo fingendo di essere pazzo: i folli, infatti, non potevano essere condannati a morte. Nonostante venga torturato più volte, riesce a resistere alle sofferenze e a restare fedele alla propria finzione. Così viene condannato all’ergastolo, a Napoli, nel 1602.

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In carcere resta per 27 anni, dal 1599 al 1626. Qui scrive La Città del sole, le poesie e molte delle sue opere filosofiche, fra difficoltà incredibili di ordine materiale e intellettuale che lo costringono a venire a patti con le autorità: cosicché non è facile capire quanto, in questo periodo, risponda al suo effettivo pensiero e quanto, invece, alle esigenze di un compromesso con la Chiesa. Per l’intervento del papa Urbano VIII, Tommaso Campanella riottiene la libertà, dapprima condizionata e limitata, poi definitiva, vivendo a Roma, nella cerchia di intellettuali e di prelati che assistevano il pontefice. Ma nel 1633 la scoperta di una congiura antispagnola in cui è coinvolto un suo discepolo, lo pone di nuovo in una posizione di pericolo, cosicché l’anno successivo si rifugia in Francia, alla corte di Luigi XIII. Qui prepara un piano di pubblicazione delle sue opere in dieci volumi, ma riesce a pubblicarne solo tre, perché muore il 21 maggio 1639.

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Nella cultura di Tommaso Campanella confluiscono tendenze diverse: da quelle dei movimenti ereticali del Medioevo (si pensi a una figura come quella del monaco calabrese Gioacchino da Fiore, 1130-1202, la cui concezione religiosa era fondata sull’attesa della fine del mondo, profetizzata per l’anno 1260, e dell’avvento successivo di un nuovo “millennio”, in cui Dio e il Bene avrebbero governato la vita umana) a quelle del naturalismo, del magismo e dell’ermetismo che avevano caratterizzato la cultura platonica rinascimentale; dalla cultura popolare calabrese, con la sua concezione magica e animistica della natura, alla teologia della Controriforma, che mirava a unire potere politico e potere religioso (programma ripreso infatti da Tommaso Campanella). Della cultura rinascimentale egli riprende la tendenza alla magia, non il metodo scientifico e razionalistico; la spregiudicatezza intellettuale, non l’individualismo né la fiducia nell’azione del singolo; egli privilegia invece l’aspetto comunitario, sociale, collettivo spingendosi fino a ipotizzare una società comunistica nella Città del sole.

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Tommaso Campanella scrisse le sue poesie perlopiù in carcere. Un gruppo di 89 venne pubblicato nel 1622 in Germania, per interessamento dell’amico Tobia Adami, con il titolo Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla (pseudonimo di Tommaso Campanella), accompagnate dal commento dell’autore. Sono sonetti, madrigali, odi e tre elegie «fatte con misura latina» (è uno dei primi tentativi di rendere nella metrica italiana quella latina), tutti componimenti scritti fra l’inizio del secolo e il 1613.
Le poesie di Tommaso Campanella partono spesso da temi autobiografici (anzitutto quello del carcere) per innalzarsi sino all’esaltazione della superiore missione del poeta, alla condanna dei vizi e delle ipocrisie dominanti, alla riproposizione dei motivi politici che parallelamente confluiscono nella Città del sole.
Accanto alle opere in latino (come la Philosophia realis [Filosofia reale], la Theologia e la Metaphysica) spicca il trattato in volgare, scritto nel 1604, Del senso delle cose e della magia. Il mondo vi è immaginato come un animale, come un organismo vivente i cui vari aspetti sono tutti dotati di sensibilità. Tutta la natura dunque è pervasa da un’unica vita, da un’anima comune: la morte è solo un momento necessario alla continuazione di questa vita perpetua. La magia permette di intervenirvi così come l’astrologia concede di prevederne gli sviluppi. Dio si identifica con il processo naturale guidandolo verso una complessiva conciliazione di tutte le cose, verso un’armonia universale che si realizza progressivamente nel flusso stesso dell’esistenza. Il progetto politico si inserisce appunto in questa fiducia. Si tratta di portare a compimento quanto è già previsto dal piano di Dio. Il teorico della politica è dunque anche un profeta.

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Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all’esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea (materia).
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Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all’azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l’America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l’uomo e pertanto afferma l’esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di autocoscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus’, che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus’ che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d’Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus’ sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito’: io penso quindi esisto (cogito ergo sum).
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In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l’ordine universale dell’universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il cristianesimo è l’unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma al contempo coincide con l’ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.
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Campanella fu autore anche di un’importante opera di carattere utopico, ovvero La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all’Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell’utopismo campanelliano è da annoverare anche La nuova Atlantide di Ruggero Bacone. L’utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere. L’incertezza è già evidente nell’interpretazione della critica idealistica, che nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell’opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale.

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Per Silvio Spaventa, Campanella è il “filosofo della restaurazione cattolica”, in quanto, la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: “Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo”. È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi “sono vani se non hanno per base l’istruzione e la felicità delle classi più numerose”. Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo.

PASQUALE GALLUPPI

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Pasquale Galluppi nacque a Tropea il 2 aprile del 1770 da un’antica casata nobiliare e possidente terriera. Formato al cattolicesimo, dopo i primi studi incentrati soprattutto sulla filosofia e sulla matematica, nel 1788 fu mandato a Napoli a studiare giurisprudenza. Egli tuttavia disattese il volere paterno: apprese il greco con Pasquale Baffi, seguì le lezioni di teologia (passione nata già ai tempi di Tropea grazie alla Teodicea di Gottfried Wilhelm von Leibniz e alle opere di Christian Wolff) di Francesco Conforti e si dedicò a una lettura attenta dei testi biblici e dei Padri della Chiesa, dalla quale fin da subito emerse un interesse peculiare per gli scritti e la figura di sant’Agostino. Dopo il suo ritorno nella città natale, nel 1794, egli proseguì gli studi filosofici, approfondendo in particolare testi appartenenti alla scuola cartesiana. Al 1795 risale il deferimento da parte del Sant’Uffizio di Roma a causa di una dissertazione di teologia tenuta presso la Regia accademia degli Affaticati di Tropea circa l’idea che le «supposte virtù dei pagani […] mancanti della vera carità debbono dirsi vizi» (L. Meligrana, prefazione a P. Galluppi, Memoria apologetica, a cura di L. Meligrana, 2004, p. XXIX). Per difendersi dall’accusa di eresia egli compose una Memoria apologetica ispirata a sant’Agostino, il cui pensiero ritenne essere la difesa più efficace della propria innocenza. L’introduzione a tale scritto fu redatta da monsignor Carlo Santacolomba, le cui teorie gianseniste, cariche di ferrea intransigenza morale e caratterizzate da salde «tendenze anticurialiste e antitemporaliste»  sono ben riconoscibili.

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Al 1799 è datato invece il coinvolgimento nei fatti della Repubblica partenopea. Alcuni anni più tardi ricoprì la carica di Controllore delle contribuzioni dirette per diciassette anni, dunque sia sotto i Napoleonidi che sotto il governo dei Borboni. Intorno al 1800 scoprì Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), un autore che egli non solo ritenne importante, ma addirittura un punto di svolta di tutto il suo percorso di studio e di pensiero. Il sensismo dell’abate francese, insieme all’empirismo dell’Essay concerning human understanding di John Locke (1632-1704), fu infatti il viatico per uno scandaglio filosofico di tipo analitico-fondativo precedente ogni ricerca metafisica su Dio e sull’universo. Pur essendo per indole lontano da ogni estremismo, dunque, tra i due schieramenti – dei giacobini e dei sanfedisti – il pensatore tropeano non solo fu vicino per formazione intellettuale alla causa giacobina, ma si adoperò anche, tramite la traduzione di fogli propagandistici in favore delle truppe del generale francese Championnet, perché questa potesse diffondersi. L’episodio fu causa del suo imprigionamento nella fortezza di Pizzo quando la città di Tropea si assoggettò alle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, contro il quale il nostro si scagliò duramente nel primo scritto politico intitolato Pensieri filosofici sulla libertà individuale compatibile con qualunque forma di governo, risalente al 1805, che tuttavia, forse per prudenza, non diede alle stampe e che rimase inedito fino alla pubblicazione nel 1865. Tale scelta di comodo non deve tuttavia far dimenticare il valore delle parole, queste sì non ambigue, rivolte contro un clero che svilisce «il vero spirito del Cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo» e che ha permesso a «un Cardinale di comandare delle masse di ribaldi e di fanatici» e di «innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e di ogni sorta d’iniquità» (Tulelli 1865, pp. 111-12).

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Il 1820 è l’anno dei moti carbonari in Piemonte e nel Regno di Napoli: questo nuovo fervore gli ispirò, tra l’altro, la composizione degli Opuscoli politico-filosofici sulla libertà. In questi libelli troviamo interventi a favore “della eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni e della propria industria”, oltre che della libertà di stampa e di culto, interventi stimolati tra l’altro da avvenimenti come la promulgazione della legge sulla libertà di stampa nel Regno di Napoli, risalente al 26 luglio 1820, e dalle discussioni sui principi costituzionali e sulle libertà civili che avevano luogo all’interno del Parlamento del Regno. La difesa di un liberalismo monarchico-costituzionale può spiegare anche la presa di posizione a favore del re Ferdinando I, contenuta nello scritto intitolato Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli, che appare a tutti gli effetti non solo una valutazione storica errata, ma anche una triste contraddizione rispetto alla memoria dei martiri del 1799, considerato che il re aveva fatto massacrare buona parte dell’avanzata intellighenzia illuminista napoletana, tra cui anche i maestri del filosofo Conforti e Baffi. Essa, infatti, potrebbe rientrare in un orizzonte più ampio, finalizzato a salvaguardare in ogni modo l’identità di uno Stato, che egli chiama già «nazione» (Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, cit., p. 85), delineando una posizione netta contro l’ingerenza straniera nel territorio italiano.  Il cambiamento di prospettiva sarebbe dovuto quindi proprio alla necessità di perseguire con la maggiore efficacia possibile un progetto nazionale di autonomia per gli Stati italiani. È per questo che «nel nome del filosofo di Tropea» si è inteso evocare la rinascita speculativa della Nazione Italiana, quale simbolo e auspicio di quello che sarebbe stato, più tardi, l’agognato risorgimento politico della nostra terra.

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Con i suoi scritti egli pone al centro una questione politico-civile fondamentale: quale è quella libertà civile, di cui deve godere il cittadino, in rapporto al potere politico in generale, prescindendo da qualunque forma di governo? In primo luogo vi è per Galluppi la libertà di pensare, che nessun errore o eccesso può limitare, e di seguito la libertà di stampa, di cui tuttavia sono ammessi alcuni vincoli rispetto alla religione. Egli sostiene la possibilità per ciascuno di non uniformarsi alla religione di Stato e l’illegittimità di azioni da parte dello Stato stesso che forzino in qualche modo scelte e libertà dell’individuo in questo campo: si tratta però appunto di libertà di coscienza, e non di libertà di culto, rispetto alla quale la decisione è invece rimessa allo Stato. Questa limitazione è connaturata a un concetto stesso di libertà di ispirazione essenzialmente giusnaturalistica, intesa come un diritto naturale precedente ogni ordinamento positivo.

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Lungimirante e all’avanguardia per i tempi resta tuttavia la sua posizione a favore del matrimonio civile, il cui significato di principio in termini legislativi e sociali è evidente quanto innegabile: in forza della libertà di coscienza già riconosciuta, la legislazione non può più riguardare il matrimonio se non come un contratto civile; altrimenti il cittadino non avrebbe la libertà di essere non conformista. «La libertà di essere non conformista»: in questa espressione si racchiude l’essenza del Galluppi teorico e filosofo della libertà. Le sue istanze e spinte liberali, pur se mediate sovente da una distanza di comodo, indicano tuttavia un elemento centrale della sua dimensione politico-civile destinato a riversarsi in maniera coerente e sentita nell’opera filosofica, ovvero il primato della coscienza. La “filosofia dell’esperienza” galluppiana è a tutti gli effetti un tentativo di riscrittura e di oltrepassamento del criticismo gnoseologico kantiano. Una gnoseologia elaborata per superare sia gli eccessi dogmatico-soggettivi del razionalismo sia quelli scettico-oggettivi dell’empirismo in una conciliazione teorica che neanche nelle tre Critiche sarebbe stata raggiunta. Secondo Galluppi, il discorso kantiano è messo in crisi in maniera decisiva proprio dalla constatazione che un fenomeno suppone necessariamente due realtà; quella del soggetto, a cui qualche cosa apparisce; quella della cosa che al soggetto si mostra. L’accesso al fenomeno dunque non è solo mera espressione o proiezione di un soggetto, ma è sempre interazione di soggetto e oggetto; ciò induce a individuare una dimensione che garantisca proprio tale interazione: la coscienza: «io percepisco il me, il quale percepisce un fuor di me». Giungiamo così al cuore della filosofia morale del filosofo tropeano: i precetti morali non sono né massime né imperativi, ma verità primitive che si fondano sull’esperienza, pur se prescritti dalla ragione: «l’esistenza de’ doveri, e perciò del bene e del male morale è una verità primitiva, che la Coscienza ci manifesta».

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Nel 1831 si insediò con successo presso la cattedra di logica e metafisica dell’Università di Napoli. Intanto la sua fama di studioso si diffondeva non solo in Italia (dove fu insignito di molte onorificenze), ma anche all’estero. Una testimonianza di siffatta considerazione proviene dal privilegiato rapporto con l’ambiente culturale francese, che fu suggellato nel 1838 con la nomina a socio corrispondente estero dell’Académie des sciences de l’Institut de France e nel 1841 con il conferimento della Legion d’onore. Galluppi morì a Napoli, al suo tavolo di lavoro, il 13 dicembre 1846.

 

LUIGI GIGLIO (LILIO)

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Luigi Giglio, in latino Aloysius Lilius, nacque intorno al 1510 a Cirò, presso Crotone, in Calabria, da una famiglia di modeste condizioni. Delle vicende della sua vita ben poco si sa, tanto che in passato ne è stata persino messa in dubbio l’origine calabrese e il nome di battesimo è stato indicato nella forma di Alvise Baldassarre. Luigi Lilio, medico e astronomo, ideò la riforma del calendario, promulgata da Papa Gregorio XIII (da cui prese il nome) nel 1582. Fu una delle piu’ importanti riforme del Rinascimento italiano, ideata da Lilio e portata avanti a Roma, nella seconda meta’ del XVI secolo, da un gruppo di calabresi guidati dal Cardinale Guglielmo Sirleto.  Insieme al fratello Antonio, frequento’ l’Universita’ di Napoli dove si laureo’ in medicina, non tralasciando pero’ di coltivare la passione per la matematica e l’astronomia. Nella città partenopea era agli stipendi della famiglia Carafa, feudatari di Cirò, non essendo sufficienti le magre sostanze paterne per potere attendere agli studi. Dopo una permanenza presso l’Universita’ di Perugia, quale docenti di medicina nel 1552, i fratelli Lilio frequentarono un influente gruppo di intellettuali che facevano capo all’Accademia delle Notti Vaticane, fondata a Roma dal Cardinale Sirleto e dal Cardinale Carlo Borromeo.  A quanto sembra Giglio dedicò l’ultimo decennio della vita a perfezionare la sua proposta di riforma del calendario, ma morì prima che questa fosse presentata al papa.

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Il grande problema astronomico-confessionale che Lilio si trovo’ ad affrontare era stato posto quando il Concilio di Nicea stabili’ che la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima domenica dopo il plenilunio di primavera. In epoca successiva pero’ era stato evidenziato che l’anno solare risultava piu’ lungo di 11 minuti e 14 secondi, per cui ogni 128 anni si sommava un giorno in piu’ (13 giorni nel 1500). Nel tentativo di risolvere il rompicapo, tutti i piu’ grandi astronomi e matematici di varie epoche si erano cimentati inutilmente. Fu Lilio a proporre di calcolare l’anno solare in base alle Tavole Alfonsine: in questo modo la durata dell’anno solare risulto’ essere di 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 12 secondi. La proposta di ricondurre l’equinozio di primavera al 21 marzo, eliminando dieci giorni e sopprimendo il bisesto a tutti gli anni centenari non multipli di 400 (gli anni centenari venivano cosi’ calcolati normalmente ad eccezione di quelli le cui prime cifre erano divisibili per quattro – 1700, 1800, 1900 – mentre il 2000 era considerato a cadenza normale), alla fine risulto’ vincente. L’anno di 366 giorni fu detto bisestile, perché quel giorno complementare doveva cadere sei giorni prima delle calende di marzo (facendo raddoppiare il 23 febbraio), e chiamarsi così bis sexto die ante Kalendas Martias (nel doppio sesto giorno prima delle calende di marzo). Inoltre, al fine di una più corretta misurazione delle lunazioni, essenziale per indicare il termine pasquale, il Giglio propose di sostituire al sistema del ciclo metonico (che prevedeva l’intercalazione, in un periodo di 19 anni composti ciascuno di 12 mesi, di altri sette mesi) un nuovo metodo basato sul calcolo delle epatte, di cui redasse delle tabulae.

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Sfortunatamente Lilio non pote’ seguirne il destino perche’ mori’, nel 1576, dopo una grave malattia. Nel 1577 Antonio Lilio presento’ pero’ il lavoro del fratello a Papa Gregorio XIII che lo accolse con molta gratitudine. Nello stesso anno venne stampato un volumetto che riportava le osservazioni di Luigi Lilio con i passaggi piu’ significativi, i calcoli e le tavole del nuovo calendario. La stampa venne eseguita a cura del Cardinale Sirleto, sorta di ‘deus ex machina’ dell’impresa, e curata da Pietro Ciaconio, esperto in Storia della Chiesa per le implicazioni civili ed ecclesiastiche, e Cristoforo Clavio, gesuita di Bamberga, astronomo e matematico, direttore dell’Osservatorio Vaticano. Nell’ultima pagina era possibile leggere la proibizione, da parte di Sirleto, pena la scomunica, di vendere o ristampare il volume.Dopo innumerevoli polemiche e veleni, il 14 settembre 1580, la Congregazione voluta da Gregorio XIII presento’ la relazione conclusiva dal titolo “Ratio corrigendi festes confirmata et nomine omnium qui ad calendarii correctionem delecti sunt oblata SS.mo D.N. Gregori XIII”. Di questo testo esistono due copie: l’una conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’altra presso la Biblioteca Casanatense di Roma. Il 24 febbraio 1582 il documento venne poi firmato e promulgato dal pontefice che, in data 5 marzo 1582, lo fece pubblicare, per affissione, sulla porta della Basilica di San Pietro.

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Un’intuizione che, in breve tempo, divento’ oggetto di discussione tra esperti di matematica ed astronomia. Astronomi e matematici, come Giuseppe Giusto Scaligero, Georgius Germanus e François Viète non approvarono la riforma liliana e cercarono in tutti i modi di creare calendari alternativi senza però riuscirci. James Heerbrand, professore di teologia a Tubinga, presentò le sue obiezioni nel Disputatio de adiaphoris et calendario gregoriano, tanto che accusò il papa, da lui definito “Il Calendarista”, di essere “l’Anticristo” che aveva creduto di poter mutare il tempo, ingannando i veri cristiani a celebrare le festività religiose in giorni volutamente sbagliati. In un altro scritto polemico, i cui principali autori furono Maestlin e il teologo Osiander, si argomentava che il papa avesse rubato dieci giorni dalla vita di ciascuno, i contadini non sapevano più quando arare o seminare i campi e gli uccelli smarriti non sapevano più quando cantare o emigrare. La prima difesa del calendario fu pubblicata nel 1585 ad opera del gesuita Johannes Busaeus, le cui argomentazioni, dirette principalmente contro le posizioni del teologo Heerbrand, vertono sulla correttezza scientifica e soprattutto interpretativa della riforma rispetto alle direttive del Concilio di Nicea. Tycho Brahe e Giovanni Keplero, gli astronomi più autorevoli del tempo, nonostante fossero protestanti, fattore che indubbiamente limitava le loro pubbliche dichiarazioni, considerarono la riforma elaborata da Lilio perfetta da un punto di vista scientifico. Keplero lasciò un articolo, pubblicato dopo la sua morte, nel quale presenta le sue argomentazioni in forma di dialogo tra un cancelliere protestante, un predicatore cattolico e un esperto matematico. La frase finale di questo dialogo è illuminante: ”La Pasqua è una festa e non un pianeta. Tu non puoi determinarla con giorni, ore, minuti e secondi.” L’opinione di Brahe è nota grazie a due lettere nelle quali l’autore afferma che le critiche mosse dagli astronomi contrari alla riforma erano dettate non da rigore scientifico ma da avversione verso il pontefice.

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Egidio Mezzi, storico di Lilio, afferma: ‘Matematici ed astronomi italiani e stranieri non danno il giusto rilievo a questa straordinaria figura  che riusci’ ad elaborare un calendario che ancora oggi, nonostante i ritmi vertiginosi raggiunti dalla scienza, non e’ stato superato”. Il fisico Antonio Zichichi in un’intervisse disse del Giglio: “Il mio interesse per Luigi Lilio nasce dal fatto che se fosse stato un inglese, un tedesco o una persona non italiana a scoprire il calendario perfetto lo saprebbero tutti, invece nessuno sa che e’ stato un italiano. Nessuno sa che e’ stato Aloysius Lilius, nato a Ciro’ in Calabria, a elaborare questo calendario passato alla storia con la benedizione di Papa Gregorio XIII, un bolognese. Bologna e’ la mia citta’ universitaria. Penso sia corretto rendere omaggio a questi due grandi personaggi della storia d’Italia e del mondo”. Il Calendario Gregoriano elaborato da Aloysius Lilius, ha detto Papa Giovanni Paolo II agli scienziati della World Federation of Scientists è: «… un contributo tra i più significativi e duraturi offerto dalla Cultura Cattolica sin dal lontano 1582 a tutti i popoli del mondo».

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Il Calendario Gregoriano venne man mano adottato nei diversi Paesi del mondo: in Italia, Portogallo e Spagna nell’ottobre del 1582; nel dicembre dello stesso anno in Francia e nei Paesi Bassi di Fede Cattolica. Diciotto anni dopo, nel 1600, venne adottato in Scozia. Bisogna attendere il 1700 per vederlo in uso nei Paesi di Fede Protestante: Danimarca e Norvegia. E addirittura il 1752 per vederlo in uso nel Regno Unito d’Inghilterra. Nei paesi di Fede Ortodossa andò in vigore tra il 1916 e il 1923. In Russia fu introdotto nel 1917. In Cina il governo repubblicano adottò il Calendario Gregoriano il 20 novembre 1911. Negli usi comuni però rimase in vigore il vecchio Calendario finché il governo di Nanking stabilì che col 1º gennaio 1930 il solo Calendario valido a tutti gli effetti giuridici dovesse essere quello Gregoriano di Aloysius Lilius. È attraverso queste diverse fasi che oggi, per la prima volta nella storia del mondo, tutte le Nazioni si trovano ad avere lo stesso Calendario.

Nel 2012 la Regione Calabria ha istituito la Giornata del Calendario in memoria di Luigi Lilio fissandola per il 21 marzo di ogni anno.

Il cratere Lilius sulla Luna prende il suo nome.

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Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria, adnkronos, eccellenzecalabresi, treccani.

 

 

 

 

 

 

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (1° Parte)

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Iniziamo quest’altra rubrica sulla Calabria, dopo aver evidenziato bellissimi castelli, aree archeologiche, miti e leggende, o Città fantasma. Questa volta vogliamo parlarvi di personaggi noti e meno noti, da Filosofi a Scienziati o Letterati, di cui tutti conoscono il nome, ma non hanno la benché minima idea della loro influenza nel mondo. Parliamo di personaggi storici di diverse epoche, i quali con la loro saggezza e genialità hanno ispirato personaggi più noti, ma non per questo superiori. Siamo sempre più consapevoli che per portare il nome della nostra Regione oltre i confini locali è necessario prendere coscienza, noi per primi, dei nostri tesori e della nostra storia. Ma altrettanto importante è conoscere le opere e le attività, e non solo i nomi, dei nostri figli più illustri. Quanti di voi hanno parcheggiato la loro auto in una via che per molti è un nome, hanno trascorso del tempo in una piazza, senza sapere a chi fosse dedicata? Alcune hanno nomi altisonanti Kennedy, Mazzini che difficilmente possono non essere conosciute, ma altre hanno nomi di uguale se non addirittura maggiore importanza, ma spesso ignoriamo di chi stiamo parlando. L’idea di questo articolo in realtà nasce qualche anno fa quando per trovare un negozio nella mia città (Cosenza) ho dovuto usare il tom tom, che ovviamente mi indicava tutte le vie e piazze che avrei dovuto attraversare. Proprio lì mi sono reso conto di quanti nomi trascuravo l’origine. E’ nata da lì una curiosità e quindi una ricerca e uno studio su questi personaggi. Oggi spero di fare cosa gradita iniziando con questi primi nomi, in realtà sono tantissimi, concentrandomi principalmente su personaggi Calabresi.
Avendo citato la mia “diletta” città non posso che iniziare dal grande Filosofo Bernardino Telesio. Vi indicherò quindi per lui come per gli altri alcuni cenni principali sperando di accendere la curiosità e la voglia di bramare altro. Sono tutti dati facilmente reperibili sul web, ma la speranza è che leggendo delle loro vite e dei loro pensieri,in questa carrellata, si possa generare la volontà di riscoprire i loro studi.

BERNARDINO TELESIO

Nato a Cosenza nel 1509 da famiglia nobile, riceve una buona formazione classica sotto la guida dello zio Antonio, umanista e poeta, che il giovane Bernardino seguirà, a partire dal 1517, anche nei suoi spostamenti verso Milano, Roma (dove avrà modo di stabilire contatti e legami con esponenti del mondo ecclesiastico e della stessa curia papale) e Venezia. Dopo un probabile passaggio nell’ambiente universitario padovano e un periodo di meditazione solitaria in un convento benedettino sulla Sila, sposa Diana Sersale. Nel 1563 è a Brescia, per incontrare un autorevole aristotelico, Vincenzo Maggi, professore a Padova e a Ferrara, e sottoporre al suo giudizio le tesi filosofiche che ha ormai intenzione di divulgare. Incoraggiato dal parere positivo di Maggi, nel 1565 pubblica a Roma, presso Antonio Blado, il De natura iuxta propria principia, in due libri. Dopo un prolungato soggiorno romano, Telesio torna stabilmente a vivere a Cosenza, pur mantenendo legami molto forti con la città di Napoli, e in modo particolare con la casa di Ferrante Carafa, dove troverà costante ospitalità e protezione. E proprio a Napoli, nel 1570, vede la luce la seconda versione del De natura, ancora in due libri, ma ampiamente corretta e rielaborata e con un titolo lievemente modificato: De rerum natura iuxta propria principia. Contestualmente, presso il medesimo stampatore napoletano Giuseppe Cacchi, Telesio fa uscire anche tre opuscoli: il De colorum generatione, il De mari e il De his quae in aëre fiunt et de terraemotibus. Nel 1586, ancora a Napoli, viene pubblicata l’ultima (e definitiva) rielaborazione del De rerum natura, in nove libri. In questo giro di anni Telesio compone o riordina pure diversi opuscoli di argomento fisico e medico-fisiologico, spesso polemici nei confronti dell’Aristotele dei Meteorologica e di Galeno. Dopo la sua morte, avvenuta a Cosenza nel 1588, nove di essi saranno pubblicati dall’allievo Antonio Persio sotto il titolo di Varii de rebus naturalibus libelli(Venezia 1590). Nel 1596 il De rerum natura e gli opuscoli Quod animal universum ab unica animae substantia gubernatur e De somno (entrambi inclusi nella silloge del 1590) saranno inseriti, sia pure con la clausola attenuante donec expurgentur, nell’Indice dei libri proibiti promulgato da Clemente VIII. Ma l’expurgatio sarà presto liquidata dagli organismi censori come impossibilis, trasformando la condanna condizionata in un divieto integrale, destinato a soffocare bruscamente, come nel caso delle tante proibizioni di quegli anni, un dibattito culturale tutt’altro che periferico o irrilevante.


Principi e forze del mondo naturale
Il laboratorio degli scritti telesiani è particolarmente complesso e intricato. Perennemente insoddisfatto delle soluzioni via via individuate e fermate nelle edizioni a stampa e, insieme, preoccupato per le reazioni degli avversari e delle autorità ecclesiastiche, il filosofo sottopone i suoi scritti a una revisione continua, instancabile. E questo è vero soprattutto nel caso dell’opera maggiore, con le sue tre stesure a stampa, le redazioni intermedie, il costante movimento di varianti. Riarticolata senza posa, la posizione telesiana resta tuttavia sostanzialmente immutata nei suoi tratti distintivi e nelle linee di fondo.L’obiettivo principale del filosofo è quello di superare l’immagine aristotelica del mondo. L’esercizio della sensibilità rivela che quel che agisce in natura non sono le forme sostanziali, le cause o le qualità aristoteliche, ma piuttosto due principi attivi o forze fondamentali, creati da Dio all’inizio del mondo. Questi principi sono il calore e il freddo. Il calore ha la sua sede nel Sole, il freddo nella Terra.Il Sole e i cieli, in quanto corpi ignei e caldi, si muovono per virtù propria, per un moto naturale che non necessita, per essere spiegato, del ricorso al primo motore o alle intelligenze motrici della tradizione aristotelica. Mentre la Terra, principio del freddo, rimane necessariamente immobile e inerte al centro dell’universo (di conseguenza, nessuna apertura, nella filosofia telesiana, a suggestioni copernicane).Le due forze universali, incorporee, necessitano di un sostrato fisico su cui esercitare la propria attività. Telesio identifica questo supporto o principio passivo nella materia o mole corporea, la quale, di per sé inerte, subisce innumerevoli trasformazioni indotte dal calore e dal freddo, nel loro contrasto perenne per il predominio e la reciproca assimilazione, in cui gioca un ruolo fondamentale il principio di autoconservazione. Il caldo è forza che illumina, riscalda, alleggerisce, dilata la materia e la mette in movimento; mentre il freddo la condensa, ispessisce, appesantisce e immobilizza.E proprio da questo rapporto, ed equilibrio, fra contrari la natura trae la spinta al divenire e la possibilità stessa della vita: il calore celeste si diffonde sulla Terra e dalla tensione, dalla polarità fra i due principi si originano tutti i fenomeni e i processi, compresa la generazione degli esseri viventi, la cui diversità, complessione e grado di vitalità è correlata alla quantità di calore e movimento da essi recepita.In natura si dà quindi una sostanziale unità e continuità: fra cielo e terra, dato che i corpi celesti sono ignei, e dunque né eterei, né impassibili, né inalterabili; e fra i diversi enti, dato che la differenza tra esseri inorganici, animali e uomo appare legata a una differenza di grado e non di natura.
L’uomo fra spiritus e anima
Anche l’uomo, che Telesio colloca al vertice degli enti mondani superiori, è immerso in questa dimensione squisitamente naturale. La sua complessione fisica, ma anche i meccanismi della conoscenza e della vita morale sono il prodotto e l’espressione di un processo cosmico più generale: come per ogni altro ente, anche nell’uomo il calore celeste si concentra e si caratterizza in una porzione di materia terrena, pervadendola e in certo modo strutturandola come organismo vivente. A partire da questo presupposto, Telesio individua il criterio ultimo di spiegazione dei processi conoscitivi umani nel concetto di spiritus. Lo spiritus è il luogo in cui, nei corpi animati, si specifica e si manifesta al suo livello più alto e acuto la sensibilità (cioè la capacità di percepire modificazioni o alterazioni) di cui ogni ente, nella natura telesiana, è dotato. “Simile e parente del cielo”, vale a dire espressione della vita universale del cosmo, lo spiritus è una sostanza materiale estremamente sottile e rarefatta, generata dal principio del calore, capace di movimento, coestensiva ai corpi e quindi mortale. Nella psicologia e nella gnoseologia telesiana lo spiritus presiede alle funzioni vitali dell’uomo e, in quanto organo e strumento non solo della sensazione, ma di ogni possibile attività conoscitiva (dall’immaginazione alla memoria, allo stesso esercizio dell’intelligere), assorbe e riassume in sé le funzioni tradizionalmente proprie dell’anima.

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Preoccupato di annullare in questo modo ogni tratto di specificità umana, Telesio accosterà successivamente al concetto di anima/spiritus, “generata dal seme” e quindi materiale e mortale, l’immagine di una mens superaddita, vale a dire un’anima superiore e immortale, infusa direttamente da Dio (substantia a Deo immissa). Questa seconda anima, tuttavia, non sembra esercitare alcuna funzione conoscitiva specifica; il suo ruolo, e il suo senso, attengono piuttosto alla dimensione pratico-morale: essa si pone all’origine dell’aspirazione dell’uomo a valori soprasensibili ed eterni, trascendenti la semplice dimensione della vita naturale. E proprio in base a questo ordine di considerazioni, è motivo di discussione fra gli interpreti se questa duplicazione di anime sia frutto di una effettiva evoluzione della riflessione telesiana oppure una misura meramente prudenziale, una concessione all’ortodossia metafisica e teologica.

Dalla conoscenza alla morale
Nonostante le cautele (o i compromessi), anche sul terreno delicato e scivoloso dell’etica Telesio non rinuncia al suo deciso naturalismo. Nell’ultimo libro del De rerum natura (1586) egli declina e sviluppa i presupposti della sua gnoseologia sul piano della morale, delineando una fenomenologia dei vizi e delle virtù dominata dall’azione dello spiritus, e ancora una volta ispirata al concetto chiave di autoconservazione. Nel contatto con le cose, lo spiritus prova sensazioni piacevoli oppure dolorose. Ciascun ente percepisce con piacere (e tende quindi a ricercare) eventi e fenomeni volti a perfezionare e tutelare il proprio essere, mentre percepisce con dolore (e tende a rifuggire) quanto può danneggiarlo o distruggerlo. Questa disposizione dello spirito a perpetuarsi e dispiegarsi liberamente, in quanto capace di orientare le azioni e le scelte degli uomini, si identifica con la virtù: al fondo, un calcolo o una previsione corretta dell’utile e del vantaggioso che Telesio interpreta di conseguenza come realtà naturale, non culturale. Polemizzando con le soluzioni dell’Etica Nicomachea, egli sottolinea che la virtù non si costruisce né si esplica attraverso l’educazione, l’esperienza, la ricerca e la costruzione di una misura. È piuttosto la maggiore o minore perfezione e purezza dello spirito di ciascun individuo a determinare il suo temperamento, la qualità della sua azione morale, e, per estensione, perfino i costumi e gli ordinamenti dei diversi popoli.
Se gli ideali dell’etica telesiana sono improntati alla moderazione, alla temperanza, alla costruzione di mutui legami fra uomini, il bene che lo spiritus è in grado di conseguire, “secondo natura e secondo le proprie forze”, necessariamente “momentaneo” e talora “incerto”, appare peraltro in armonia con il “vero bene” dell’uomo, garantito dalla promessa divina di salvezza e di immortalità.
Del resto, in tutta la filosofia telesiana il finalismo del mondo naturale e gli stessi meccanismi di conservazione sembrano trovare la loro ultima ragione di essere nel perfetto, e ordinatissimo, atto creatore di Dio. Una sapienza creatrice e ordinatrice che l’uomo può celebrare e contemplare, ma mai penetrare. All’interno di questa filosofia non è di fatto possibile, né sul piano epistemologico, né su quello etico, forzare i confini della conoscenza sensibile per cogliere il disegno nascosto dell’artefice del mondo.

Ricezione e influenza delle dottrine telesiane
L’eversivo naturalismo telesiano suscita negli ambienti filosofici italiani immediato interesse, dibattiti spesso vivaci e non poche polemiche (la più nota e significativa è quella con Francesco Patrizi da Cherso). Ma non mancano pure avversari più insidiosi e pericolosi: nel mondo delle università, nei circoli romani e nella stessa città di Cosenza, come rivela la lettera inviata da Telesio nell’aprile 1570 al cardinale Flavio Orsini, arcivescovo della città, ove si registrano con preoccupazione le “proposizioni contra la religione” individuate nei suoi scritti da alcuni concittadini: “ch’io metto l’anima mortale, et che negho ‘l Cielo sia mosso dall’intelligentie” (Girolamo De Miranda, Una lettera inedita di Telesio al cardinale Flavio Orsini, “Giornale critico della filosofia italiana”, 72, 1993, fasc. 3, p. 374).
E nonostante il gran lavoro di riscrittura e la costante volontà di negoziato con avversari e autorità ecclesiastiche, negli anni Novanta anche la sua opera sarà investita dal severo intento di normalizzazione e dalle rigidissime chiusure filoaristoteliche e filotomiste che caratterizzano il papato di Clemente VIII. Ormai consolidati e sempre più consapevoli e selettivi, gli organismi inquisitoriali ampliano il proprio perimetro di azione e di controllo, puntando a colpire non soltanto l’eresia religiosa e dottrinale, ma ogni forma di dissenso culturale. Si apre così una fase di verifica minuziosa dell’ortodossia di filosofi, naturalisti e scienziati, al fine di attenuare o ridurre a formulazioni consone al dettato scritturale, alla norma teologica o al precetto scolastico anche il pensiero dei novatores e le formulazioni della nuova fisica. In questa prospettiva, l’iscrizione all’Indice dei testi telesiani appare ascrivibile non solo a un generico antiaristotelismo, ma anche e soprattutto al carattere materialistico e immanentistico della sua filosofia (certo non incrinato dal dispositivo un po’ forzato dell’anima a Deo immissa), unito a una cosmologia che insiste sull’unità e omogeneità di mondo celeste e mondo sublunare.
Ma, al di là delle resistenze e dei divieti, il richiamo alla concretezza dei processi naturali e il rifiuto del principio di autorità sono elementi destinati a esercitare una suggestione indiscutibile e potente sui contemporanei. Già i primi lettori del De rerum natura percepiscono e interpretano le dottrine telesiane, costruite con lessico e immagini volutamente arcaizzanti, come un palese recupero della filosofia naturale presocratica. Così, il nesso – istituito in modo particolare da Patrizi – fra Telesio e Parmenide innesca una riflessione sui caratteri della materia e della corporeità i cui echi arriveranno fino a Francis Bacon (sua è la definizione di Telesio come “riformatore di non poche opinioni e primo degli uomini nuovi”) e Pierre Gassendi.
E anche Bruno e Campanella si confronteranno con le sue dottrine e non mancheranno di attribuirgli una funzione di rilievo nella sovversione dell’auctoritas aristotelica, premessa ineludibile per la costruzione di una filosofia della natura davvero nuova e libera da ipoteche secolari. La lettura del De rerum natura, con la sua dottrina della sensibilità universale, avrà per Campanella i caratteri di una vera e propria rivelazione, celebrata sia nella Philosophia sensibus demonstrata che nel celebre sonetto dedicato al “gran Telesio”. Mentre Bruno, pensatore mai particolarmente prodigo di elogi, nel De la causa, principio et uno ricorderà con dichiarato rispetto l’“ingegno” del “giudiciosissimo Telesio” e la sua “onorata guerra” contro Aristotele, giustamente combattuta alla luce di una concezione positiva e vitale della natura e delle forze che operano in essa. Ma non basta: perché l’immagine, tracciata in primo luogo da Campanella, di Telesio come capostipite della genealogia dei novatores sarà destinata a una lunga fortuna, soprattutto nell’Italia meridionale. Qui, infatti, fino alle soglie dell’Illuminismo, il filosofo cosentino, pur letto in misura sempre minore, sarà regolarmente evocato come maestro esemplare di un processo di rinnovamento culturale ancora in atto, e simbolo di una declinazione squisitamente italiana della libertas philosophandi.

 

GIOVAN BATTISTA D’AMICO

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Nome tornato agli onori della cronaca proprio in questi ultimi giorni, per le vicende inerenti il nuovo planetario che si appresta ad aprire i battenti a Cosenza, ma a differenza del precedente noto davvero solo a pochi.
Astronomo, Filosofo, matematico è nato a Cosenza nel 1511 ed è morto a Padova nel 1538, autore dell’operetta De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis, pubblicata a Venezia nel 1536 e nel 1537 e a Parigi nel 1549.Le sue osservazioni furono una delle fonti per il lavoro di Niccolò Copernico. Da (wikipedia) Contemporaneo di Bernardino Telesio, frequentò lo Studium dei Domenicani, università aperta a tutti e non solo all’ordine dei Padri Predicatori. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non quanto trapela dalla sua maggiore opera, il De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis et epicyclis, pubblicato nel 1536 a Venezia per i tipi di Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli. Dalla sua opera si traggono le uniche scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato nell’opera, che Amico fosse cosentino di nascita e che all’epoca della pubblicazione avesse la giovane età di 24 anni. Questo farebbe collocare la nascita dell’Amico a Cosenza forse nell’anno 1512, seppure alcuni studiosi propendano per il 1511. Tuttavia la nascita dell’astronomo risulta di difficile datazione non essendo noto in quale mese del 1536 il De motibus fu pubblicato e in quale periodo esso venne compilato dall’autore.Sempre all’interno del De motibus, nel proemio, l’Amico riferisce di essere stato allievo di Vincenzo Maggi (1498-1564), Marco Antonio Passeri detto il Gènua (1491-1563) e di Federico Delfino (1477-1547), professori all’Ateneo di Padova negli anni precedenti la pubblicazione del De motibus e anche professori del Telesio; queste informazioni porrebbero l’Amico nel filone di pensiero dell’aristotelismo padovano rinascimentale e dimostra che l’astronomo cosentino avesse frequentato l’Università di Padova, una delle più prestigiose dell’epoca, dalla quale tuttavia non si ha certezza se si fosse licenziato con una laurea, dato che il suo nome non risulta in nessuna lista di laureati di quell’ateneo. Dopo la frequentazione dei corsi di Padova parrebbe, ma anche qui non vi è certezza alcuna, che l’Amico fosse stato ammesso all’Accademia Cosentina forse nell’anno 1537, ovvero un anno dopo la prima pubblicazione a stampa del De motibus e un anno prima della morte del giovane astronomo che avrebbe avuto fra i 26 e i 27 anni. Va detto che il De motibus fu la prima operetta a mettere in discussione il modello tolemaico e che l’opera si concludeva anticipando per sommi capi alcuni dati oggetto di una futura pubblicazione e che promettevano di essere assolutamente rivoluzionari. L’Amico considerò due ordini di obbiezioni che erano state mosse al sistema esposto da Aristotele: da una parte le combinazioni di movimenti circolari che egli aveva supposto non spiegavano tutte le particolarità del percorso degli astri, dall’altra la variazione dei diametri apparenti della Luna e del Sole escludeva che essi si trovassero sempre ad ugual distanza dalla Terra. L’Amico aumentò quindi considerevolmente il numero delle sfere deferenti (e delle relative reagenti) attribuite a ciascun pianeta. La variazione, poi, dei diametri apparenti del Sole e della Luna, se pur la sua rilevazione non fosse dovuta a difetto degli strumenti, era spiegata dall’Amico, con cause geometriche. Da questa considerazione gli studiosi tendono a pensare che la prematura morte per assassinio di Amico fosse stata provocata dall’invidia della sua dottrina, così come suggerito da un anonimo che compose l’epitaffio del giovane astronomo nel quale si leggeva:
« IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut putatur, virtutisque, invidia, interfectus est MDXXXVIII. »
(Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11)
ovvero “ammazzato da ignoto sicario si pensa per invidia della sua scienza e delle sue virtù”.

Nel 1538 Amici venne assalito, derubato e ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che seguì accertò che era scomparsa una borsa contenente alcuni documenti, che forse erano proprio le carte con quelle rivoluzionarie osservazioni che aveva promesso l’autore, o almeno così sembrava credere l’Inquisizione nel processo postumo per eresia che subito dopo istituì contro lo studioso defunto. Dell’Amico fa menzione nella sua orazione in morte di Telesio, Giovanni Paolo d’Aquino, filosofo e oratore calabrese nato a Cosenza e morto intorno al 1612, che definisce l’Amico “così grande astrologo e filosofo” e nulla aggiunge alla sua biografia rispetto a quanto già noto. Un mistero impossibile da risolvere, visti i secoli trascorsi. Quel che resta certo è che, pochi anni dopo, le intuizioni del cosentino si rivelarono meritevoli di considerazione. Sembra che fossero note  anche al grande Niccolò Copernico, che pubblicò la sua teoria, nel De revolutionibus orbium coelestium appena cinque anni dopo la morte di Amico. E secondo alcuni non fu solo un caso.

 

BARLAAM

Così il Petrarca:
La morte mi ha privato del mio Barlaam. Ma, a dir vero, io stesso me ne ero privato. Non mi accorsi che l’onore si sarebbe risolto in un mio grave danno. Difatti, aiutandolo a diventare vescovo, persi il maestro con il quale avevo cominciato a studiare con fiduciosa speranza (Familiares, XII, 2.7).
Barlaam Calabro, al secolo Bernardo Massari, conosciuto anche come Barlaam di Seminara o Barlaam di Calabria (Seminara, 1290 ca.; † Avignone giugno[1], 1348), è stato un monaco, vescovo, matematico, filosofo, teologo e studioso della musica bizantino. Uomo di vasta cultura, fu maestro di lingua e di letteratura greca di Francesco Petrarca e di Giovanni Boccaccio, rivoluzionò l’aritmetica, scrisse di musica; ma fu anche profondo teologo, che si oppose alla dottrina dell’esicasmo dei monaci della Chiesa d’Oriente.
Nacque a Seminara, nei pressi di Reggio di Calabria, verso la fine del XIII secolo, e tradizionalmente si riporta l’opinione di Ferdinando Ughelli[2], non documentalmente provata, che il nome di battesimo fosse Bernardo.Le notizie certe sulla sua formazione si ricavano dalla bolla con cui papa Clemente VI lo nominò vescovo di Gerace: il documento informa che Barlaam fece il percorso monastico e sacerdotale in Calabria, nel monastero basiliano di Sant’Elia di Capasino (diocesi di Mileto).Dagli scritti di Barlaam stesso apprendiamo anche che egli fu formato nella fede nell’ambito della Chiesa Ortodossa, che in quegli anni era ancora molto diffusa nell’Italia meridionale[3]. Al contrario, non abbiamo evidenze sulla formazione culturale: tuttavia, emerge dai suoi scritti una profonda conoscenza dei filosofi greci, specialmente di Platone e Aristotele, ma anche di San Tommaso d’Aquino e della Scolastica, per cui si devono presupporre contatti con le maggiori scuole di filosofia e teologia dell’Italia meridionale e centrale.
Nella seconda metà degli anni Venti del XIV secolo si mise in viaggio, verso l’Etolia e Tessalonica, per poi giungere a Costantinopoli (approssimativamente nel 1326 o 1327) dove regnava Andronico III Paleologo, e dove il dotto Barlaam guadagnò i favori dell’imperatrice Anna di Savoia. Divenne igumeno dell’importante convento di San Salvatore; nel frattempo scrisse con successo trattati di logica e di astronomia (ne è sopravvissuto sino a noi uno sull’etica stoica) che lo resero famoso; ottenne una cattedra nell’università. Il suo successo come filosofo lo portò però anche allo scontro con l’intellighenzia della capitale e scatenò la gelosia dell’umanista bizantino Gregorio Niceforo, un professore nel monastero di Chora che in un suo libello narrò della sfida accademica tenutasi fra i due eruditi nel 1331 su tutti gli argomenti dello scibile umano di quei tempi. Dopo la sfida, Barlaam divenne stimato professore nel secondo centro culturale dell’impero, Tessalonica, dove ebbe fra i suoi allievi alcuni dei migliori futuri teologi e dotti bizantini: Gregorio Acindino, Nilo Cavasila, Demetrio Cidone.

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Nel 1333-1334, nell’ambito delle trattative per la riunificazione tra le due Chiese di Oriente e di Occidente, giunsero a Costantinopoli i domenicani Francesco da Camerino, arcivescovo di Vosprum, e Riccardo, vescovo di Cherson, incaricati dal papa Giovanni XXII.Grazie al suo prestigio e alla stima di cui continuava a godere presso gli ambienti di corte, Barlaam fu scelto dal patriarca Giovanni Caleca come portavoce della Chiesa ortodossa.Il punto di divisione, come noto, era principalmente il dogma della processione dello Spirito Santo: in tale occasione Barlaam sviluppò le sue argomentazioni teologiche e filosofiche, sulla base delle posizioni del volontarismo di Duns Scoto e Guglielmo di Occam, in opposizione alle tesi domenicane basate sul realismo di San Tommaso d’Aquino.
Le posizioni delle due parti rimasero inconciliabili e le trattative non ebbero alcun risultato; ma Barlaam, nelle sue dissertazioni, sviluppò anche critiche verso l’esicasmo e sottolineò la differenza di valore tra la teologia scolastica e la contemplazione mistica; con ciò divenne inevitabilmente protagonista di una violenta polemica contro le concezioni ascetiche e mistiche dei monaci del Monte Athos nella persona soprattutto di Gregorio Palamas.Nei confronti del monaci athoniti Barlaam ebbe parole dure, accusandoli di eresia gnostica e deridendoli col nomignolo di umbilicamini (omphalopsychoi). Il dibattito divenne uno scontro, che sfociò in una denuncia di eresia mossa da Barlaam contro Palamas davanti al patriarca Giovanni Caleca con lo scritto “Contro i Massaliani.La controversia, non vista di buon occhio dalle autorità che desideravano mantenere la pace religiosa, fu risolta nel Concilio di Costantinopoli (1341). Il discorso finale tenuto da Andronico, che celebrò una generale riconciliazione, non rispecchiò la realtà dei fatti: Barlaam, perdente, vide la condanna delle proprie dottrine e fu costretto a scusarsi formalmente con gli esicasti e a sospendere ogni futuro attacco verso di loro.Addirittura Giovanni Caleca, con un’enciclica, condannò le tesi di Barlaam e impose la distruzione dei suoi scritti.
Nel frattempo, nel 1339 era stato inviato da Andronico III ad Avignone come delegato in missione diplomatica in Europa, alla quale l’imperatore intendeva sollecitare un intervento per una crociata contro l’avanzata dei Turchi ottomani.
Barlaam si era recato a Napoli, insieme a Stefano Dandolo, presso Roberto d’Angiò e poi a Parigi da Filippo VI di Valois per chiedere aiuti militari; infine i due erano andati presso la Curia di Avignone di papa Benedetto XII per ottenere la sua approvazione alla crociata (in cambio Barlaam aveva prospettato un concilio ecumenico per la riunione delle due grandi Chiese).La missione non aveva avuto buon esito, a causa della situazione politica europea, ma nell’occasione Barlaam aveva costruito delle importanti relazioni personali.
Nel 1341, dopo il fallimento del concilio di Costantinopoli e la morte di Andronico III (15 giugno), Barlaam nel mese di luglio tornò in Calabria e da lì raggiunse a Napoli l’umanista Paolo da Perugia con cui collaborò nella compilazione delle Collectiones e nel riordinamento della libreria angioina.Tra l’agosto di quell’anno e il novembre del successivo fu ad Avignone da papa Clemente VI.Questo soggiorno fu particolarmente importante, perché Barlaam conobbe Francesco Petrarca, al quale insegnò il greco e dal quale fu avviato alla conoscenza del latino, con cui aveva poca dimestichezza; ma ancor più importante fu il definitivo passaggio di Barlaam alla fede cattolica.

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Grazie alla nuova obbedienza al papa, alle sue qualità personali e all’intercessione dei buoni uffici di Petrarca, gli fu assegnata la diocesi di Gerace, di cui Barlaam fu nominato vescovo il 2 ottobre dello stesso 1342, consacrato dal cardinale Bertrando del Poggetto.A Gerace non ebbe vita facile, a causa dei contrasti con la curia di Reggio.
L’ultima missione diplomatica
Nel 1346 fu nuovamente inviato in missione diplomatica dal papa a Costantinopoli in un rinnovato tentativo ecumenico.Tuttavia la situazione nella capitale bizantina era sempre molto tesa: sul trono sedeva Anna di Savoia reggente in nome del figlio Giovanni V; nel 1343 Palamas era stato arrestato e scomunicato.Giovanni Caleca, diventato nemico degli esicasti, fu deposto il 2 febbraio 1347 e il giorno stesso Giovanni Cantacuzeno, favorevole agli esicasti e appoggiato da Palamas tornato in auge, si autonominò coimperatore accanto a Giovanni V.Barlaam, già compromesso dalle sue precedenti posizioni, non poté far altro che tornare in Occidente.
In primavera fece ritorno ad Avignone, dove rimase fino alla morte avvenuta probabilmente agli inizi di giugno 1348.In effetti, non conosciamo la data certa della morte, ma la bolla di nomina di Simone Atumano, suo successore a Gerace, datata 23 giugno 1348, descrive l’evento come recente.
La copiosa produzione di Barlaam è andata in parte perduta e di quella sopravvissuta la maggior parte è ancora inedita. Ce ne è giunto un elenco con gli incipit nella Biblioteca graeca di Johann Albert Fabricius. Si contano opere teologiche, fra cui:
opuscoli contro la processione dello Spirito Santo Filioque;
scritti sul primato del papa;
il progetto di unione delle Chiese elaborato per la prima missione ad Avignone (in greco);
un discorso per il sinodo di Costantinopoli (in greco);
due discorsi in latino tenuti al cospetto di papa Benedetto XII;
varie lettere e scritti in latino successivi alla conversione;
otto lettere relative allo scontro con gli esicasti;
l’opera Contro i Messaliani è perduta in quanto fu distrutta a seguito della sconfitta di Barlaam nella disputa; ci restano solo alcune citazioni in altre fonti.
Opere filosofiche:
Ethica secundum Stoicos ex pluribus voluminibus eorumdem Stoicorum sub compendio composita, che espone l’etica stoica (mostra un’ottima conoscenza di Platone);
Le soluzioni dei dubbi proposti da Giorgio Lapita:
opere scientifiche:
Arithmetica demonstratio eorum quae in secundo libro elementorum sunt in lineis et figuris planis demonstrata, che è un corfimentario al secondo libro di Euclide;
un’opera in sei libri di algebra e aritmetica;
Logistica nunc primum latine reddita et scholiis illustrata, che è un trattato di calcolo con frazioni ordinarie e sessagesimali con applicazioni all’astronomia. L’opera fu pubblicata a Strasburgo nel 1592 e a Parigi nel 1600, insieme ad una sua traduzione in latino;
un commentario alla teoria dell’eclissi solare dell’Ahnagesto di Tolomeo;
una regola per la datazione della Pasqua;
commentari su tre capitoli degli Armonici di Tolomeo; questi capitoli trattano la relazione fra i numeri primi del Sistema Perfetto greco e le sfere celesti, come le consonanze musicali e il movimento dei pianeti si debbano trovare attraverso i numeri, e come le qualità delle sfere si accordino con quelle dei suoni musicali.
Sino ai tempi più recenti le opere teologiche e legate all’attività diplomatica sono state più studiate, mentre ultimamente si è rivalutata l’opera di Barlaam anche come acutissimo e brillante scienziato, versatile e innovativo, oltre che come significativo contributore nella reintroduzione del greco in Occidente, attraverso l’insegnamento della lingua a personalità come Paolo da Perugia e Petrarca e anche Boccaccio.

La novella di Barlaam
L’ENIGMATICO ZOO DELL’ANTELAMI SCOLPITO SUL BATTISTERO DI PARMA

Il complesso ha tre portali. Uno si apre sul lato settentrionale ed è chiamato della Vergine. Il secondo, che guarda a occidente, è detto del Giudizio e, per le regole liturgiche, costituisce l’ingresso principale. Il terzo, definito della Vita, è senza dubbio il più semplice. Evocano rispettivamente la nascita di Cristo, il suo ritorno per giudicare gli uomini e la possibilità di salvezza dalle tentazioni demoniache. L’ultimo, tuttavia, si differenzia dagli altri per la straordinarietà del contenuto. Nella lunetta c’è un bassorilievo che contiene una rappresentazione allegorica dell’esistenza umana. Al centro, tra i rami di un albero, siede un giovinetto con i piedi appoggiati al tronco.

La mano mancina estrae del miele da un alveare e l’altra lo porta alla bocca. Intanto, però, due roditori non facilmente definibili cercano di recidere le radici della pianta, mentre in basso un drago che sputa fiamme attende minaccioso che il ragazzo precipiti giù. Ai lati della pianta si vedono 4 tondi. L’inferiore a sinistra mostra il carro del sole trainato da due cavalli. Apollo impugna una frusta e punta verso la notte, quasi a voler fugare le ultime tenebre. Il superiore ritrae un profilo maschile che rappresenta il giorno. Nel medaglione in basso a destra si nota il cocchio della luna mosso da due tori, che Diana stimola con un pungolo. Intorno sono disposti due fanciulli nudi che suonano delle trombe e due bimbetti vestiti che cercano con dei bastoni di frenare la veloce corsa della biga. In quello più in alto si scorge la notte con una fiaccola e dietro la testa di un toro.


Il tessuto simbolico sembra quasi scontato e ricorda che l’esilio terreno è incessantemente consunto dall’implacabile incalzare del tempo, mentre le fauci dell’inferno attendono chi ha preferito la dolcezza dei piaceri effimeri al vero bene. In ogni modo i protagonisti del quadro non sono un’invenzione dell’artista. Prescindendo dai miti pescati tra i tesori della civiltà classica, lo scorcio ricalca fedelmente il succo d’un romanzo conosciuto nell’Europa occidentale a partire almeno dal X secolo. Si tratta dell’adattamento ellenico d’una leggenda popolare che parla di Josafat, figlio del re indiano Abenner. Costui decide di tenere il figlio nella bambagia, o meglio in un luogo di delizie, per evitare che subisca le sofferenze del mondo. Ma, nonostante tutte le precauzioni del padre, a un certo punto il principe incontra le cruciali testimonianze dell’infermità, della vecchiaia e della morte. E, incalzato dagli interrogativi che sorgono spontanei di fronte alle prove del dolore, sotto la guida dell’eremita Barlaam scopre la vita non edulcorata abbracciando la verità evangelica.


Un brano del libro, narrato dal maestro spirituale al nobile, racconta d’un uomo che, alla vista d’un unicorno imbizzarrito, fugge via a gambe levate ma finisce sul ciglio d’un burrone. Si aggrappa a un fuscello e pensa che da quel momento in poi può stare tranquillo. Ma, guardando bene, vede due sorci che stanno rosicchiando le radici dell’arbusto al quale è sospeso. Anzi, sono proprio sul punto di troncarle di netto. Allora scruta in fondo al burrone e scorge un mostro orribile, che spira fuoco dalle narici. Ha un aspetto torvo e minaccioso, spalanca ferocemente le fauci e non vede l’ora di divorarlo. A quel punto aguzza lo sguardo per esaminare la base d’appoggio su cui tiene puntellati i piedi. Nota quattro teste d’aspidi che si protendono fuori dalla parete rocciosa cui si tiene avvinghiato. Levando però gli occhi in alto, scopre che dai ramoscelli della pianta stilla qualche goccia di nettare. Allora cessa di preoccuparsi dei pericoli che lo circondano e si gusta in santa pace la zuccherata ghiottoneria. Orbene, l’aristocratico al quale la vicenda viene riportata non è altri che Siddharta. In sostanza, si è al cospetto della trasposizione in chiave cristiana della religione buddista.

Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria

Tra Grotte e Misteri: La Civiltà Rupestre in Calabria

cxy17soxuaaqjww-e1517352942785.jpgAncor prima della fondazione delle numerose città Magno-Greche in Calabria, risalenti al periodo che va dall’VIII al V secolo A.C., vi sono vestigia di agglomerati urbani che fanno pensare a più antichi centri abitati, ma non con tracce di città in muratura, bensì si fa riferimento a siti, ancora integri, di insediamenti rupestri. Sulle loro origini, che per tanti versi sembrano misteriose, è in corso da alcuni decenni una ricerca che dà ormai luogo ad interessanti scoperte. Il popolo che ha scavato tali grotte ha fondato la “Civiltà rupestre”. Ma in che epoca? Deduzioni logiche ci dicono che bisogna risalire ad una civiltà pre-ellenica: non bruzia, o latina, o greca non use ad abitare in siti rupestri, e nemmeno Enotra e Iapigia di cui è nota la tipologia degli insediamenti. Nè vi sono testimonianze letterarie che parlano di un popolo scavatore di insediamenti rupestri che già da sempre sono descritti come esistenti (Senofonte nell’Anabasi). Inoltre queste costruzioni se edificate in “periodo storico”, avrebbero dovuto lasciare memoria in numerosi riferimenti da commentari e da storici (il fenomeno non sarebbe sfuggito a Plinio, a Strabone, a Stefano Bizantino) mentre nulla permane. Ed allora bisogna risalire ad epoche precedenti, e, per deduzione, a popoli decisamente preistorici, anzi ad un unico popolo scavatore di grotte: questo popolo operò e visse sia da noi che nel Nord-Africa ed in Asia Minore e soprattutto nei paesi dell’Europa orientale. Una attenta ricerca archeologica, del resto mai operata, potrebbe indicarne il periodo originario con maggiore precisione. Fu primo il prof. Cosimo Damiano Fonseca ad aver detto che le grotte di tutto l’arco ionico ed altre d’oltremare sembrano edificate dalla mano di uno stesso popolo. Anzi ha precisato: “Quello che v’é da dire per un insediamento, vale per tutti gli altri!” L’asserzione convalida adeguatamente le ipotesi formulate su una unica civiltà preistorica che per libera scelta abitativa adottava insediamenti ipogei ed in tutto il bacino del Mediterraneo. Infatti si sono potute osservare delle caratteristiche architettoniche comuni in tutti gli insediamenti. Le analogie sono fondate su così sottili particolari che non vi é ombra di dubbio sulla loro unica matrice. Ne enumeriamo alcuni:

1) grotta di civile abitazione, alta in media m. 2,50, ad uso della famiglia troglodita, molto spesso divisa in due antri interni da colonna divisoria (Casabona, Matera, Massafra, Cappadocia);

2) piccole nicchie absidali alla base delle pareti e triangolari nella parete alta per riporvi orcioli di acqua, vino, miele, ecc. (Casabona, Matera Massafra);

3) fori alti per inserirvi la struttura di ripiani lignei, fori bassi per lettiere. (Matera, Casabona, Massafra, Petilia, Zungri)

4) criptoportico: intorno all’atrio spesso insistono una serie di grotte a raggera (Bari, Massafra, Casabona, Petilia);

4) sistemi di grotte caratterizzati talvolta da corridoio di ingresso (dromos), con distribuzione degli ambienti sui due lati (Bari, Matera, Casabona);

7) vasto camerone quale ” laboratorio ” che in periodo medievale ospitò, poi, trappeti o palmenti (a Casabona ancora oggi, Zungri).

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Sulle colline digradanti dalle pendici orientali della Sila, verso il mar Ionio, si concentra un gruppo consistente di aggrottamenti distribuiti in vari comuni della provincia di Cosenza e di Crotone. Questi centri più che mai si configurano come preistorici, e, siccome dalle caratteristiche appaiono coeve alle grotte materane, anch’esse sono da classificare d’origine del Paleolitico superiore con prosecuzione nel Neolitico. Le tipologie dell’habitat rupestre calabrese includono una vasta gamma di modelli di villaggi: si va dai grandi casali rupestri, quali Casabona, Verzino, Caccuri e Sbariati di Zungri ai piccoli nuclei insediativi composti da poche unità come Melissa e Rocca di Neto, fino alle dimore rupestri isolate, assimilabili all’insediamento sparso, come l’abitazione di Belvedere Spinelli. Un’analoga complessità si riscontra anche nella strutturazione urbanistica dei maggiori villaggi rupestri calabresi, riconducibili sostanzialmente a due categorie: la prima include unità disposte su più livelli ricavate nella roccia sfruttando gravine con pareti verticali ad andamento sinuoso o a gradoni lungo piste parallele, con accesso sia dalla sommità dell’altura che dal fondovalle, come ad esempio nei casi di Verzino, Casabona, Caccuri, Pietrapaola o, in parte Zungri, dove tuttavia la disposizione appare meno regolare; in altri casi le unità abitative si dispongono lungo un unico livello, come nel villaggio di Colle della Chiesa a Petilia Policastro o negli aggrottamenti di Rocca di Neto e Melissa. La sussistenza nei maggiori tra i casali rupestri considerati di un efficace impianto di viabilità interna, di raccordi tra i diversi livelli dell’insediamento realizzati con gradini ricavati nella roccia, di sistemi per la canalizzazione e la raccolta delle acque pluviali, costituisce l’indice di un embrionale ma efficace modello di ‘urbanesimo rupestre’, peraltro ancora sfuggente sotto molti aspetti. Così la stessa, diremmo, qualità della vita in relazione al materiale delle dimore rupestri risulta comparabile se non, per alcuni versi, superiore, rispetto a quanto si coglie dallo studio dei coevi villaggi epigei o di alcuni settori delle città medievali, dove abitazioni in materiale deperibile, di certo per tanti aspetti più precarie e meno salùbri delle dimore ricavate nella roccia, costituivano una costante del paesaggio. All’interno di alcuni villaggi si colgono altresì indizi di una seppur minima gerarchizzazione sociale, quali la maggiore raffinatezza di alcuni manufatti all’interno di uno stesso villaggio, come nel caso della cosidetta Grotta del Principe a Pietrapaola, o alcune abitazioni rupestri di Zungri che si distinguono per una ricercatezza estetica e per una certa complessità spaziale. La non infrequente attestazione, accanto a stalle, di strutture di lavorazione e trasformazione dei prodotti della terra quali i palmenti, l’individuazione di silos per la conservazione dei cerali, di vasche di lavorazione, e di forni, consente di scorgere, seppur in maniera ancora confusa, il rapporto tra i centri rupestri e il territorio circostante. Allo stesso modo la presenza di artigiani-intagliatori della pietra indica la capacità dei rupestri di disporre di saperi empirici non irrilevanti che potevano tornare utili in attività artigianali, come attestato a Petilia Policastro. Infine il collegamento, nella gran parte dei casi ad arterie viarie che connettevano tali nuclei demici (si pensi solo ai centri posti lungo le vie della valle del Neto, o Melissa e Verzino lungo l’itinerario della via Silara ricordata in una carta dell’imperatrice Costanza del 1196), fornisce la possibilità di postularne un rapporto con i fulcri economici principali dei rispettivi territori. Si tratta di elementi che concorrono nel delineare una situazione che inserire nella categoria socioeconomica della marginalità apparirebbe quantomeno azzardato.  Non usa mezzi termini Marilena De Sanctis, professoressa e autrice di un importante studio sull’urbanistica rupestre: “I monaci basiliani non scavarono nulla, semplicemente riutilizzarono qualcosa di preesistente”.

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Nella zona dello Ionio Cosentino sono presenti queste caratteristiche “città fatte di grotte” permeate da un alone di mistero riguardante le loro origini e dove poi successivamente furono trasformate, riadattate e modellate ad usi congrui per ogni epoca come per esempio Rossano con i monaci basiliani. Proseguendo verso mezzogiorno, nella provincia di Crotone, lungo la valle del Neto, un’importante arteria di penetrazione verso la Sila e il versante tirrenico (la Silara) agganciata alla via litoranea jonica traianea, la medievale via de Apulia, si snoda una serie di insediamenti che presentano le caratteristiche peculiari dei casali rupestri. E se Casabona era il centro propulsore di una civiltà, la città capoluogo, molti villaggi rupestri le ruotavano intorno: Caccuri e Cerenzia con oltre un centinaio di grotte, Petilia Policastro con un congruo villaggio rupestre, Cotronei con ben tredici siti ipogei, Mesoraca con la sua località “Grutti”, e poi a Nord i caratteristici Melissa e Verzino e a Sud Santa Severina, Rocca di Neto e Belvedere Spinelli; e tutti i siti sono disposti in piccole valli, ma a ridosso di percorsi transumanti per indicare la vocazione pastorale seminomade di quella antica popolazione. L’utilizzazione delle grotte a scopo abitativo sarà stata poi praticata, ma in tono del tutto trascurabile, durante l’Evo Antico, il Tardo Antico ed il periodo bizantino. Il Monachesimo italo-greco in alcuni di tali siti fu solo un fenomeno transitorio, come a Colle della Chiesa, a Santa Lucia, a Timpa dei Santi, da riferire ad epoca tra il VII e il XII secolo d.C. e più che aver scavato ha rimodellato alcune grotte. Presso il sito di Colle della Chiesa è stata rinvenuta un’ascia in pietra ed oggetti di selce e presso Timpa dei Santi delle asce dell’età del bronzo testimonianza che la zona era già abitata in epoche molto precedenti; non sembra affatto, infine, una coincidenza che le grotte di Casabona furono costruite in terreni del “Cenozoico” formati da calcareniti e da arenarie molto atte ad essere incise e soprattutto in strati geologici ricchi di selce che potrebbe essere stata la motivazione primaria della ubicazione, ma sicuramente lo è stata dello sviluppo della città rupestre preistorica. Scendendo poi più a Sud nel reggino abbiamo i casi isolati di Gerace e Sant’Ilario allo Jonio e Brancaleone e Vinco. Ancora più raro è invece il villaggio situato nel comune di Zungri che può considerarsi un unicum nel panorama dei villaggi rupestri in Calabria perché si affaccia sul mar Tirreno.

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ROSSANO

Gli insediamenti rupestri di Rossano risultano tra i più rilevanti e meglio studiati; qui, ad un consistente complesso all’interno del perimetro urbano con unità pluricellulari a pianta tendenzialmente rettangolare concentrate in tre nuclei principali, si affianca un secondo complesso in rupe nelle campagne circostanti. Un’identita scavata nel tufo da una comunità che viveva di pastorizia e agricoltura che ha dato vita ad un insediamento trogloditico. Le strutture sono scavate nell’arenaria e dislocate in quasi tutto il territorio; alcune sono inglobate in abitazioni e sono diventate magazzini. NeI rione “Pente” vi sono ventuno unità rupestri, di cui sette rilevate, oltre a quelle non più visibili perché andate distrutte. Un secondo nucleo omogeneo di undici unità, di cui sette rilevate, è situato nell’area Nord-Est del centro urbano, nella zona detta Conceríe, nella quale, come suggerisce il toponimo, era fiorente l’industria conciaria: ciò permette di ipotizzare che esse fossero opifici o magazzini. Sette, tre rilevate, sono ubicate nell’area denominata “Spuntone”, sei grotte al “Ciglio della Torre”. In Contrada Calamo si riscontrano quattro unità rupestri scavate in unico sperone roccioso e intercalate da una serie di gradini che consentono un facile accesso alla sovrastante spianata. Marilena De Sanctis commenta così i suoi studi su Rossano: ”Rossano presenta un centinaio tra grotte ed insediamenti rupestri. Di questi ne sono stati documentati trenta, con un accurato rilievo e documentazione, in sezioni e piante. Tanto da poter parlare di Rossano come città in rupe. Da qualsiasi parte si voglia raggiungere il centro storico, è facile vedere delle feritoie nella montagna, alternando ad abitazioni private del centro storico con un piano terra scavato. Una sorta di grotta palazzo sul modello pugliese. Rossano come Matera, come Casalrotto, come le Gravine di Puglia, come Massafra. Tutte zone in cui l’insediamento e la documentazione di una civiltà rupestre è parte integrata di un contesto, che fino agli anni ’50 non raccoglieva alcun interesse e che invece oggi, ha permesso a Matera di diventare capitale della cultura 2019. A Rossano si potrebbe fare altrettanto. Ogni casa di proprietà ha centinaia e centinaia di metri quadri di grotte, monocellulari e pluricellulari, scavati da pastori e contadini.”

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PIETRAPAOLA

Di grande interesse risultano gli aggrottamenti di Pietrapaola costituiti da un nucleo rupestre principale dispiegato lungo il costone della Timpa del castello, un massiccio bastione arenitico ospitante numerose unità rupestri, ricavate su livelli grossomodo paralleli, e da un secondo nucleo ricavato lungo un imponente costone prospiciente, della stessa natura geologica, la Roccia del Salvatore, dove spicca, sul punto più alto dell’insediamento, la cosiddeta Grotta del Principe, un esempio estremamente raffinato di architettura rupestre, individuato negli anni ’70 da Domenico Minuto: si tratta di un invaso tricellulare cui si accede attraverso una serie di gradini ricavati in roccia, al cui interno si rinviene un arco a tutto sesto e una serie di colonnine con capitelli a motivi floreali riprodotti nell’arenaria. Oggi molte delle grotte sono state chiuse da privati e adibite a stalle o cantine. Una dimensione rupestre che del resto trova riferimento già nel nome stesso del paese derivante, secondo alcuni studiosi, dalla combinazione fra il termine pietra e il nome proprio Paula (dal lat. Paulus) oppure da un termine osco arcaico “petrapa” col significato di ‘luogo della rupe’ riferibile alla grande rupe che lo sovrasta.

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CAMPANA

Altra comune interessato al fenomeno rupestre è senza dubbio Campana. Molto interessanti sono le centinaia di grotte in tutto il circondario del territorio di questo paese silano( ricordiamo anche quelle del comune vicino di Scala Coeli) e tra queste quelle più conosciute sono le “Grotte di Guardia”, un complesso di grotte scavate con grandissima cura nell’arenaria che hanno una larghezza e una profondità davvero notevole. Gli studiosi e gli storici parlano di abitanti del Neolitico, di guerrieri-pastori enotri e bruzi, di profughi fuggiti dalle invasioni arabe, di monaci bizantini, di eremiti che praticavano l’ascetismo e di contadini e briganti. Una lunga serie di gente che ha vissuto qui. Oggi le loro uniche tracce sono i segni di scalfittura, la patina di fuliggine sulle pareti e due grotte sono state murate con pietre e mattoni e usate come granai, magazzini e stalle. Ma forse quelle più importanti si trovano in località Incavallicata sotto le maestose e gigantesche “statue di pietra”, a tre metri l’una dall’altra, dell’Elefante e del Ciclope.  La prima figura è un elefante, precisamente un “elephans antiquus” antenato dei mammut, alto circa 5 metri, splendidamente scolpito, con le zampe posteriori in una flessione ponderale che lo fa sembrare in movimento e con gli occhi, la proboscide e le zanne ben marcati (i fossili di un intero elefante di questo esemplare sono stati ritrovati a pochi chilometri di distanza nel 2017 sul lago Cecita. Le misure del fossile coincidono con quello della statua). Dietro la zanna c’è un’altra protuberanza cilindrica mutilata che si protende verso il basso, e dà l’impressione della gamba di un uomo in groppa all’animale, ma la statua nella sua parte alta è incompleta. La seconda è alta sei metri ed è di interpretazione più difficile, ma forse rappresenta due gambe umane fino alle ginocchia, (poi la statua si interrompe poiché mutilata della sua parte superiore). Sarebbe stata nel complesso una figura davvero gigantesca. La posizione ricorda molto le statue di Memmone a Tebe e quelle di Ramses II nella facciata del Tempio di Abu Simbel in Egitto. I blocchi mancanti sono in parte andati perduti, in parte giacciono sul terreno circostante a qualche decina di metri di distanza.  Come dice lo scopritore del sito, l’architetto Domenico Canino: ”Se tali giganti fossero opera umana, saremmo di fronte alle sculture preistoriche più grandi d’Europa” e quindi ad una civiltà molto evoluta. Sotto le due figure nel blocco di roccia sottostante sono state scavate due piccole grotte, testimonianza di una civiltà cavernicola. La zona e’ particolarmente ricca di testimonianze preistoriche: il territorio di Campana, in base ai reperti rinvenuti negli anni e conservati all’ interno dei musei di Reggio Calabria e Crotone, risulta essere abitato sin dall’età del Ferro. Sono una testimonianza millenaria di una straordinaria civiltà preistorica della Calabria.

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CASABONA

Il complesso rupestre calabrese più esteso è costituito senza dubbio dall’insediamento di Casabona . Oggi piccolo centro di appena 3000 abitanti, si configura come il villaggio preistorico più popoloso dell’antica Calabria. Se si escludono le grotte scavate di recente, le altre presentano le caratteristiche tipiche delle grotte neolitiche, mentre numerose sono state inghiottire dalla moderna urbanizzazione, altre ritoccate, ingrandite. Dal numero di quelle arcaiche doveva contenere, approssimativamente, almeno 200 fuochi (una enormità per il Neolitico) e gli abitanti dediti soprattutto ad una economia piuttosto pastorale che agricola, quindi seminomade, come è considerata per esempio dai Materani la civiltà neolitica dei Sassi.  Il villaggio si distribuisce sui due versanti della forra di Vallecupa. Lungo il versante sinistro della valle, al di sotto dell’attuale abitato, il Casu Bonum delle fonti medievali, si distende il nucleo maggiore, distribuito a scacchiera su ben sette terrazze parallele degradanti a spirale, ad andamento sinuoso confluenti verso l’unico asse viario di fondovalle, come ancora appare, su ognuna delle quali si dispongono, lungo piste naturali decine di grotte scavate nell’arenaria.  Molte delle unità rupestri presentano le caratteristiche tipiche dell’abitazione e l’utilizzo di elementi in muratura, articolate in uno o più vani. In quest’ultimo caso la parte più interna risulta divisa in due ambienti da un setto ricavato nella stessa roccia. Alla base dei vani spesso si aprono piccole nicchie per la conservazione dei prodotti. Gli ambienti si caratterizzano per la presenza di numerosi fori funzionali all’alloggiamento di pali lignei: pertugi sulla parte bassa indicano la presenza di lettiere sulle quali si posizionava il materasso, altri fori, posti più in alto, costituiscono innesto per ripiani e mensole. Alcune abitazioni sono fornite anche di focolare, né mancano locali adibiti ad attività di trasformazione dei prodotti della terra, quali vasche di palmenti per la realizzazione del vino: quest’ultimo ambiente è parte di un’unità tricellulare organizzata intorno ad un atrio centrale. All’interno di alcune grotte si rinvengono nicchie archiacute, elemento che sembra poter indicare una cronologia tardo medievale. La dimora rupestre spazialmente più complessa di Casabona si articola in un corridoio lungo il quale si accede da un lato e dall’altro a 4 vani scavati nella roccia. Il complesso conserva le tracce di un efficace sistema di canalizzazioni esterne ricavate nella roccia funzionale al deflusso delle acque. La lunga durata di attività dell’insediamento antropico a Vallecupa è testimoniata dalla circostanza che ancora negli anni 40 quasi tutte le unità rupestri, circa 450, erano utilizzate dagli abitanti del luogo che le detenevano in fitto dall’ente comunale. Che sia stata in epoca successiva al Neolitico l’antica Cone o l’antica Pandosia, o abbia avuto altro nome non cambia l’importanza della sua presenza nella preistoria calabra.

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MELISSA e VERZINO

Nel territorio di Melissa si individua un gruppo di nuclei rupestri, alcuni fagocitati dalla conurbazione del borgo, almeno altri due ancora ben visibili nelle campagne; qui l’aggrottamento si sviluppa lungo una pista di fondovalle ai piedi del colle sulle cui pendici sono ricavate le unità rupestri, tutte monocellulari a pianta quadrangolare, di diversa estensione. Talvolta gli ingressi risultano tompagnati da pietre legate da malta mentre i soffitti sono piatti o a capanna. Non distante, nel territorio di Crucoli si individuano altre unità rupestri. Il villaggio rupestre di Verzino fu ricavato lungo i fianchi arenitici della collina Spiruni su cui sorge l’attuale borgo a circa 500 m s.l. m., pochi chilometri ad est di Melissa. L’insediamento si compone di oltre 70 unità rupestri disposte su 4 livelli di terrazze ad andamento spiraliforme, attualmente per lo più adibite a deposito per attrezzi agricoli. Le unità rupestri di Verzino presentano planimetrie differenti con articolazioni interne che vanno dal semplice vano, probabilmente depositi, alle più complesse strutturazioni tricellulari tra loro comunicanti, con tracce di sedili risparmiati e nicchie sulle pareti con funzioni di credenze e per l’appoggio di lucerne. All’interno delle unità si notano spesso buchi di palo che dovevano reggere sistemi di scaffalature per la conservazione dei prodotti. I diversi livelli sui quali si dispone il villaggio, risultano raccordati da piste che costeggiano le unità rupestri.

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CERENZIA e CACCURI

Non lontano da Casabona, nel comune di Cerenzia, nei pressi dell’antico centro è ancora visibile un piccolo nucleo abitativo rupestre composto da 9 unità ricavate lungo un costone di arenaria, al cui interno sono nicchie, incisioni cruciformi, forni in muratura e pilastri divisori ancora in muratura. Appena a sud di Casabona e Cerenzia, nel territorio di Caccuri, si individuano almeno 4 distinti centri demici rupestri. L’insediamento più consistente è posto lungo la parete meridionale dello spalto di arenaria sulla cui cima fu edificato il castello di Caccuri. Le unità rupestri attualmente rilevabili sono circa 50, disposte lungo terrazzamenti paralleli. Di particolare interesse un’abitazione con due ambienti comunicanti parzialmente divisi da un setto risparmiato nella roccia e un livello superiore. Il livello inferiore presenta una pianta rettangolare con soffitto a capanna; nella parete di sinistra si notano due nicchie e un’apertura per accedere alla quale furono realizzati gradini ricavati nella roccia; sulla destra è un foro praticato in corrispondenza dell’imposta della falda del soffitto. La porta conduce ad un secondo ambiente di pianta rettangolare irregolare, con soffitto a volta a botte irregolare e chiusa da un muro a secco sul lato meridionale. Attraverso una “botola” si accede ad un ambiente soprastante a pianta elissoidale. Si tratta di un tipo di abitazione rupestre che non trova confronti in Calabria. In genere le abitazioni rupestri di Caccuri risultano strutturate in ambienti monocellulari e dicellulari, con nicchie scavate lungo le pareti e, talvolta, con chiusure in muratura. Poco distante, in contrada Patia, nei pressi del monastero dei tre fanciulli, è presente un piccolo aggregato rupestre formato da almeno sette unità all’interno delle quali si scorgono nicchie e fori per travi, con ingressi in muratura. Sempre in territorio di Caccuri un nucleo di 5 grotte si rinviene nella località Vurdoi in prossimità dei ruderi di un’anonima chiesetta. Ancora lungo la valle del Neto, è l’insediamento rupestre di Timpa dei Santi: si tratta di un nucleo insediativo di cui oggi sussistono almeno 4 unità rupestri monocellulari gravitanti intorno ad una chiesa rupestre ricavata nella calcarenite con tre nicchie sul fondo affrescate.

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COTRONEI

Nel territorio di Cotronei si individua una costellazione di aggrottamenti, disposti lungo le vie di crinale che costituivano itinerari di risalita dallo Jonio in direzione della Sila sin dall’epoca preistorica. Tra questi i più consistenti e meglio conservati si rinvengono nelle contrade Rivioto, Santa Lucia e Favata. Quest’ultimo è costituito da almeno 20 unità rupestri visibili lungo un costone arenitico, mentre altre sono state inglobate in recenti edifici in muratura. Si tratta di unità per lo più monocellulari, di dimensioni variabili tra i 20 e i 30 mq, frequentemente tompagnate parzialmente da pareti in muratura. A poche centinania di metri si rinviene il piccolo nucleo rupestre di Santa Lucia, dove sussistono alcune unità, anche di notevoli dimensioni (fino a 100 mq), articolate in più vani, alcune comunicanti tra loro con solai a volta e a capanna, mentre altre sono state cancellate dalla conurbazione della zona. La vicinanza dei due complessi all’abitato medievale di Cotronei ne indica la natura di piccoli villaggi rupestri. Infine sei unità rupestri costituiscono il piccolo nucleo di località Rivioto, disposto su un unico livello: qui le grotte presentano una tipologia standardizzata, con intradossi voltati, nicchie interne e fori per mensole; in una delle unità si riscontra un raro caso, per la Calabria, di lettiera ricavata nella roccia di una foggia riconducibile alla tipologia ad arcosolio.

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PETILIA POLICASTRO

Il villaggio rupestre di Colle della Chiesa si articola in circa 30 unità, distribuite sui due livelli digradanti che caratterizzano il colle, 7 sulla terrazza superiore, almeno 23 sul costone inferiore. La tipologia degli ambienti rupestri di Colle della Chiesa risulta alquanto varia: le unità differiscono per dimensioni ( ve ne sono di monocellulari e bicellulari divise da setti risparmiati nella roccia, oltre a due esempi di ipogei con tre ambienti che si aprono lungo un portico esterno), per icnografia (tendenzialmente circolare o trapezoidale), per la forma dei tetti (a capanna e a volta), ma anche per i modi di realizzare i giacigli, che potevano essere ricavati nella roccia o con il già ricordato sistema delle lettiere lignee. Gli ingressi non presentano segni di chiusure in muratura. Singolare nel panorama rupestre policastrese risulta essere una grotta il cui ingresso è posizionato ad oltre tre metri dal piano di calpestio. Fori nella parete rocciosa testimoniano come l’accesso avvenisse attraverso una scala con pioli lignei. Alcune grotte presentano numerosi fori parietali su di una medesima parete, tracce in negativo di una complessa struttura di scaffalature, probabilmente per l’essiccazione dei formaggi o per la conservazione di altri prodotti. L’individuazione in uno di questi ambienti di una croce incisa nella roccia, con evidente funzione apotropaica, testimonia l’importanza che, nel contesto della loro economia, gli abitanti di quei casali attribuivano ai prodotti lì conservati.

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MESORACA

A Mesoraca, nel cui territorio ricadeva la celebre abbazia cistercense di Sant’Angelo de Frigillo, in località “Grutti”, nelle vicinanze dei ruderi di una chiesa medievale, si conserva un insediamento costituito da circa 20 unità rupestri disposte su un unico livello. All’interno delle grotte si scorgono nicchie ricavate nella roccia con funzioni di ripostigli, nicchiette laterali basse e triangolari, fori laterali alti per ripiani, e fori posti in basso per lettiere. Non mancano, in qualche caso, forni con volte realizzate in muratura utilizzando calcarenite e argille. In alcune unità rupestri, almeno in 5, si nota la presenza di intonaci dipinti e in un’altra si scorge un efficace sistema di raccolta interna delle acque. L’elemento icnografico e spaziale più notevole del complesso rupestre mesorachese si rinviene nella parte centrale dell’insediamento: qui, attorno ad un atrio, si distribuiscono a raggiera tre ambienti; partendo di qui altre tre unità risultano collegate da un cunicolo interno che si estende per una lunghezza totale di ben 40 metri.

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SANTA SEVERINA, ROCCA DI NETO, BELVEDERE SPINELLI

Anche il centro di Santa Severina conserva tracce di un insediamento rupestre lungo i fianchi rocciosi del colle, nel quartiere Grecìa qui alcune unità rupestri, già notate da Paolo Orsi, sembrano indicare l’esistenza di un nucleo demico consistente in rapporto con il borgo soprastante. Poco distante da questi casali, ancora nel territorio Marchesato lungo la riva destra del Neto, si rinvengono altri nuclei rupestri con caratteristiche analoghe. Nei pressi della confluenza del torrente Vitravo nel fiume Neto, a pochi km dalla costa jonica, il territorio di Rocca di Neto custodisce un casale rupestre composto da oltre 40 unità ricavate nell’arenaria, lungo le pareti di tre colli nelle vicinanze dell’antica Rocca di Neto. Le unità, monocellulari e bicellulari, si dispongono su di un unico livello e presentano schemi planimetrici quadrangolari, con soffitti piani e nicchie scavate lungo le pareti. Scendendo lungo la valle del Neto, in territorio di Belvedere Spinello, si conservano i ruderi di un piccolo oratorio rurale nelle cui immediate vicinanze si rinvengono tre unità rupestri scavate in una calcarenite molto compatta. La tipologia potrebbe far pensare ad un piccolo insediamento lavritico ma non è da escludere si tratti un minuscolo nucleo di casale rupestre.

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BRANCALEONE e VINCO

Il piccolo borgo di Brancaleone superiore, oggi abbandonato, sorge su di una collinetta a circa 300 m s.l.m. nei pressi della costa jonica. Il complesso ipogeo, individuato da Francesca Martorano, si posiziona nei pressi dell’abitato subdiale ed è costituito da una ventina di unità rupestri disposte in tre nuclei principali di aggrottamenti, in parte inglobati in abitazioni in muratura. I nuclei rupestri erano collegati alla viabilità maggiore attraverso un sistema di sentieri che conducevano al fondovalle da dove si accedeva agevolmente alla via litoranea jonica. Le unità abitative di Brancaleone si caratterizzano per le dimensioni ridotte con presenza di nicchie per lucerne e sedili ricavati nella roccia, una articolazione interna elementare (solo di rado si riscontrano suddivisioni interne) e per una planimetria tendente alla circolarità. In un caso si osserva la presenza di vasche per la lavorazione la cui funzione specifica non è possibile precisare. La strutturazione dei piccoli nuclei demici rupestri di Brancaleone si completava con la presenza di una chiesa rupestre a pianta elissoidale, la Madonna del Riposo, dove sono conservati affreschi databili al XVI secolo. La più famosa è sicuramente la “Grotta dell’Albero della vita”, famosa in tutta Europa perché unica nel suo genere per tipologia (si pensi che delle grotte simili si trovano soltanto in Cappadocia); essa attira ogni anno studiosi ed appassionati che si immergono in un atmosfera suggestiva che solo questo luogo riesce a trasmettere. Sono ancora visibili dei graffiti davvero incredibili, posti dove un tempo vi era l’altare, orientato secondo la tradizione verso levante, un pavone stilizzato ed una croce astile. Sebastiano Stranges (noto archeologo e ricercatore, attivo collaboratore nella gestione del Parco Archeologico Urbano di Brancaleone a cura della Pro-Loco di Brancaleone), dopo aver scoperto molte grotte nel 2016 nel comune di Brancaleone, ha dato notizia che, agli inizi del 2018, nella zona detta “Calvario”, sono state individuate delle grotte interrate da detriti di frana che non sono state mai censite dagli studiosi perché praticamente nascosti dalla vegetazione affermando che è un altro passo per la riscoperta dell’antica Sperlinga, dal Greco Spelingx che vuol dire caverna-spelonca-grotta, che secondo i suoi studi corrisponde proprio con Brancaleone. Alla punta estrema della Calabria, poco a nord della città di Reggio, è stata individuata una serie di insediamenti rupestri alla falde meridionali dell’Aspromonte nei pressi del centro di Vinco a pochi km da Reggio, 13 nuclei per un totale di circa 50 unità rupestri, che, a differenza di Brancaleone, appaiono totalmente isolati, privi di qualsiasi collegamento con la non lontana città sullo Stretto e con la viabilità maggiore della zona. Alcune delle unità rupestri identificate, tuttavia, presentano una organizzazione planimetrica relativamente complessa, articolandosi in diversi ambienti e, in un caso, strutturandosi intorno ad un piccolo vestibolo centrale avente la funzione di raccordo tra diversi ambienti, fornito di camino con fori d’areazione in alto.

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GERACE e SANT’ILARIO DELLO IONIO

Nei pressi del borgo, in contrada Stefanelli, è stato individuato un piccolo nucleo di villaggio, già attivo in età preistorica, dalla quale provengono ricche testimonianze archeologiche conservate nel Museo Civico della Città sito in Piazza Tribuna. Si pensa che la zona sia abitata da lungo tempo perché sono stati rinvenuti resti del periodo neolitico anche sull’acrocoro di Prestarona (dal greco”colombaia”) e nella grotta di Kau (dal greco baratro/voragine”) tra cui un’ascia bipenne in bronzo, dei coltellini in ossidiana e una testa di mazza a forma di virgola. Anche nella vicina grotta del Ponte sono stati rinvenuti ben 14 asce di bronzo che secondo il compianto scrittore Salvatore Gemelli appartenevano ad una popolazione preistorica che aveva contatti con la cultura egeo micenea. A Sant’Ilario ha fatto scalpore ultimamente il ritrovamento, fatto dell’Ingegnere Giuseppe Fausto Macrì insieme ad un gruppo di suoi amici, di un complesso rupestre di sensazionale bellezza composto da due ambienti. Il primo, a sezione pressoché quadrata, misurava approssimativamente 2.70 metri in larghezza e poco meno di 3 metri in altezza, per una profondità di circa 15 metri. La presenza di piccole stalattiti sul soffitto e di notevoli concrezioni calcaree sulle pareti concorre a far supporre un lunghissimo periodo di inutilizzazione della grotta se non come sorgente: il muro, ora crollato, all’imbocco della grotta serviva appunto a raccogliere l’acqua, che, poi, raggiunta l’altezza di un foro, fuoriusciva all’aperto. Per questo motivo, tra l’altro, il sito era conosciuto come sorgente (è anche così riportato in mappa catastale). Sul fondo di questo primo ambiente, parallelamente alla sezione di imbocco, persiste una parete perfettamente liscia, al centro della quale c’è un varco, della profondità di quasi 2 metri, che conduce ad un secondo ambiente: la particolarità di questo varco è data dalla forma ad arco a “sesto acuto” del traverso superiore, che denota ulteriormente la fattura antropica dell’intero complesso.  Questo secondo ambiente ha pianta circolare, con le pareti perimetrali che si innalzavano verticalmente per circa 2 metri, per poi assumere una conformazione a cupola, con un’altezza interna massima di circa 4.00-4.50 metri. In posizione fondale, perfettamente in linea con l’asse longitudinale dell’intero complesso e con il varco di collegamento, una piccola nicchia, anch’essa apparentemente sormontata da un arco a sesto acuto, delle dimensioni di circa 60 x 100 cm ed una profondità di circa 40. All’interno di questo, un altro incavo, di dimensioni molto ridotte (10 x 20 cm, per una profondità di un’altra decina di cm), che appariva essere la vera e propria bocca della sorgente, essendo in tal punto lo stillicidio un po’ più copioso e continuo. Alla base della “nicchia”, consistenti concrezioni minerali, bianchissimi, stratificati e declinanti verso il centro dell’ambiente. Parzialmente inglobati in questo ammasso di concrezioni, si intravedevano alcuni elementi litici (uno a forma concava, per metà emergente dalle concrezioni, apparentemente sbozzato a mano), e alcuni blocchi squadrati di circa 60 cm di lunghezza. Sulle pareti erano ancora a fatica visibili dei piccoli fori, di qualche cm di diametro e profondità, forse effettuati per l’alloggiamento di fiaccole. La presenza di due sorgenti, di cui la prima, in posizione defilata nella prima sala e caratterizzata dalla presenza di zolfo, mentre la seconda, pura e cristallina, in posizione più solenne, nella sala circolare, suggeriscono l’ipotesi che il complesso fosse destinato alla celebrazione di riti orfici in cui il divieto di bere alla prima fonte e l’importanza di bere alla seconda, la fonte della dea Memoria, risulta atto indispensabile per avviarsi alla via sacra.

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ZUNGRI

Nel panorama dei rarissimi villaggi rupestri individuati lungo il versante tirrenico calabrese, l’esempio più ragguardevole è costituito dal casale degli Sbariati di Zungri, località ricordata per la prima volta nelle Rationes decimarum del 1310. Il villaggio sorge sull’altopiano del monte Poro dominante il promontorio di Tropea, intorno ai 600 m.s.l. Posizionato nei pressi del tratto della via Popilia che collega le pianure di Sant’Eufemia e di Gioia Tauro, non lontano da Mileto, l’insediamento rupestre degli Sbariati si compone di circa 80 unità rupestri, disposte in maniera abbastanza caotica lungo una serie di terrazzamenti e piccole gole. L’impressione iniziale di casualità nella disposizione delle abitazioni rupestri di Zungri è fugata dalla presenza di un efficace sistema di raccordo dei vari nuclei del villaggio disposti su livelli diversi, costituito da una serie di scale scavate nella roccia, funzionali alle piste che percorrono il villaggio, così come notevole risulta la raccolta delle acque attraverso un sistema di canalette ricavate nella roccia. Le unità abitative, di pianta circolare e quadrangolare, risultano frequentemente articolate in più vani, talvolta su due livelli e il buono stato di conservazione permette di rilevarne le caratteristiche peculiari. Alcune abitazioni presentano accessi elaborati con archi sagomati e stipiti in rilievo o varchi di ingresso a prospetto rettangolare, con porte di legno i cui controtelai erano poggiati in apposite riseghe. Le finestre delle abitazioni hanno fogge circolari e rettangolari, con alto dente interno ricavato nella roccia come parapetto. I soffitti delle abitazioni possono essere piatti, voltati e, in un caso, cupolati con foro d’areazione. Le pareti delle abitazioni rupestri di Zungri presentano numerose incavi ricavati nella parete rocciosa con funzione di ripostiglio e nicchiette per lucerne; in alcuni casi le nicchie sono poste a livelli più elevati al di sotto di soppalchi per raggiungere i quali vi erano scale interne talvolta ricavate nella roccia. Nelle abitazioni si rinvengono letti ricavati nella roccia mentre serie di fori a circa 40 cm da terra costituiscono l’alloggiamento per le traverse lignee sulle quali veniva posto il materasso del giaciglio. Attività agricole condotte dagli abitanti del villaggio sono suggerite dalla presenza di un grande silos per la conservazione dei cereali, di un palmento costituito da una doppia vasca sovrapposta per la pigiatura e la raccolta del mosto, e di un forno in muratura, oltre alla presenza di un certo numero di vasche di lavorazione all’interno degli ipogei.

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Un’ultima considerazione scaturisce dalla distribuzione geografica dell’insediamento rupestre in Calabria, dalla quale risulta evidente come il versante jonico della regione si caratterizzi per una consistente presenza di villaggi rupestri, a fronte di una quasi totale assenza lungo il Tirreno, se si esclude il singolare episodio di Zungri, versante dove, come hanno mostrato numerosi studi, si rinvengono per lo più antri naturali trasformati in santuari. Anche in questo caso bisognerebbe capire se una tale circostanza sia riconducibile a fattori di carattere eminentemente pratico, quali la migliore lavorabilità della roccia nell’area jonica o a motivazioni di ordine più propriamente culturale, come sembrerebbe potersi dedurre dalla pletora di villaggi rupestri, spesso analoghi nella strutturazione agli episodi calabresi, che punteggiano la medesima costa tra il Salento e la Sicilia orientale. Rimane la questione del silenzio finora riscontrato nelle fonti su questi villaggi, circostanza che, peraltro, rende oltremodo rischioso avanzare cronologie assolute che solo indagini globali potranno fornire con una certa accuratezza.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: Alessandro di Muro:Il popolamento rupestre in Calabria, famedisud.it, radicicalabre.it, Nadia Lucisano ph., Andrea Martini ph.

La Madre Geometrica : Vesica Piscis.

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La geometria sacra è un insieme di rapporti e formule che permettono all’uomo di rimanere in contatto con tutte le emanazioni energetiche che giungono costantemente dal cosmo. La geometria sacra è la struttura morfogenica che sta dietro la realtà stessa, è l’immagine della struttura del cosmo e può essere utilizzata come lettura simbolica rappresentativa dell’universo. E’ presente in ogni cosa e nell’armonia geometrica di ogni struttura si ritrova la proporzione evolutiva di ogni elemento dell’universo, di cui rappresenta la verità trascendentale. Con la geometria, l’architettura sacra esprime i concetti più complessi per trasmetterli. Molti scienziati sono convinti che la matematica sia il mezzo con cui spiegare la realtà, ma il vero salto sarà fatto quando sposteranno la loro attenzione sulla forma, unica generatrice delle leggi fisiche.

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La geometria sacra a volte viene chiamata linguaggio della luce o linguaggio del silenzio, questo è molto significativo, in quanto è a tutti gli effetti un linguaggio, è l’idioma attraverso il quale viene creata ogni cosa. E’ recente la scoperta scientifica, che ha dimostrato che il nostro cervello trasforma tutte le informazioni in entrata in immagini, prima di trasformarle in pensieri, parole e concetti e lo stesso avviene in uscita. E’ pertanto dimostrato che il cervello umano funziona per archetipi. Gli archetipi e le icone della geometria sono realtà assolutamente perfette, immutabili, senza tempo e scaturite direttamente dalla “Mente di Dio”. Un’immagine, quasi sempre geometrica, nasconde un significato a volte anche molto complesso.

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Nel simbolo sono spesso racchiusi diversi concetti contemporaneamente, può considerarsi praticamente un codice contenente una mola enorme di informazioni che si trasferiscono nel cervello in maniera subliminale. L’universo è vibrazione, e i principi della Geometria Sacra sono direttamente corrispondenti a tutti i fenomeni di forma d’onda. Tutte le vibrazioni. La Scienza è d’accordo, l’Universo è vibrazione, e la geometria è vibrazione manifesta a livello visivo sul piano del tempo e dello spazio. La Geometria Sacra è l’architettura dell’universo.

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Dall’ archetipo più semplice rappresentato dal punto, l’idea più semplice possibile, l’unità, la prima dimensione, l’onnipresente-onnipotente centro, la radice di tutto il pensiero olistico “IL TUTTO È UNO”,

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si passa all’universo bi-dimensionale con la divisione del punto singolo in due punti, la dualità, formando la prima relazione architettonica dell’Universo e allo stesso tempo creando la prima unità di misura astratta: lo spazio. Improvvisamente, il punto A è qui e il punto B è lì.

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Le potentissima energia contenuta nella prima relazione bi-dimensionale dell’universo (I Due Punti) si manifesta come un moto duale: il moto diritto (dal punto A al punto B) e il moto circolare (il punto B intorno al punto A). Questo movimento duale è chiamato Il Raggio/Arco. E’ il moto radice, il Big Bang concettuale. Tutte le varie energie dell’universo sono ricondotte al gioco tra il Raggio e l’Arco. Il Raggio/Arco è lo Yin e Yang, Luce e Ombra,Sinistra e Destra, Su e Giu, Madre e Padre… e così via. Tutte le manifestazioni di dualità vengono ricondotte al Raggio/Arco.

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Il rapporto senza tempo, sempre tenuto all’interno del Raggio/Arco, espresso scientificamente come Pi-greco (è un numero trascendente o cosiddetto irrazionale avente un valore di 3.14159265. Ai fini pratici, il valore è approssimato a 3,1416), è la formula matematica principale e si sviluppa visivamente per diventare la prima forma chiusa della Geometria Sacra, il Cerchio. Il Cerchio è l’unione e unità, è la manifestazione bi-dimensionale del Singolo Punto. Esso è anche l’essenza del Mandala, poichè contiene TUTTO in sé.

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La prima forma (Il Cerchio) viene creata ruotando il punto B attorno al punto A. Ma I Due Punti sono gemelli perfetti con eguale potenziale, e il punto A può anch’esso ruotare attorno al punto B usando il medesimo raggio. Questa naturale polarità, questo scambio di ruoli, produce un altro cerchio che interseca quello precedente creando la prima forma sovrapposta della Geometria Sacra, chiamata “I Due Cerchi Di Raggio Comune”.
Questi due cerchi sovrapposti con un raggio comune, creano la seconda forma chiusa della Geometria Sacra. Gli antichi chiamavano questo archetipo la Vesica Piscis. Il nome latino, che letteralmente significa “vescica di pesce”, deriva dall’osservazione che la forma di questa figura ricorda quella della vescica natatoria dei pesci. OGNI forma dimensionale di questo cosmo evolve da questa struttura. Questa figura può essere considerata “il grembo materno dell’universo”, infatti da essa, a ingrandimento continuo, si formano le altre strutture.

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Come prima figura si forma il petalo, creato ruotando i primi due punti (A & B) intorno ai nuovi punti di intersezione C & D (i primi figli dell’universo, i gemelli), formato da quattro cerchi di raggio comune e cinque Vesica Piscis, e che rappresenta l’essenza della famiglia rivelata nella Geometria Sacra: i genitori (cerchi 1 e 2) e i figli (cerchi 3 e 4), il cuore della famiglia. Chiamato la “forma-seme” dato che tutte le forme necessarie sono ora presenti.

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Le altre figure sono create tracciando nuovi cerchi attorno ai nuovi punti E,F,G,H e poi così via, dando vita ad un’infinità di Punti, Cerchi, Vesica Piscis e Petali per formare quella che viene chiamato “Il Primo Motivo della Natura” o “Motivo della Creazione” di cui fanno parte il “Germe della vita”, il “Seme della vita”, il “Fiore della Vita” e inscritte in esso altre figure come l’”Albero della Vita” o il “Cubo di Metatron”. Esso è il motivo bi-dimensionale perennemente in espansione che, a livello concettuale, percorre l’intero universo. In altre parole la Matrix, la Griglia Sacra attraverso la quale la Vita si manifesta. Per comprendere ancora meglio il Primo Motivo della Natura è però necessario capire che nella realtà, questa griglia si sviluppa in tre dimensioni, e dove vediamo dei cerchi dovremmo invece immaginare delle sfere che si intersecano, non su un piano, ma in una rete infinita che si espande in tutte le direzioni.

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Da uno dei suoi centri infiniti, il Primo Modello della Natura si divide naturalmente in dodici parti uguali. Questi 12 fette uguali sono di 30 gradi ciascuna e sono alla base dell’antico Sistema delle 12 Case Astrologiche. Questa divisione naturale è anche la responsabile per il nostro orologio di 12 ore e quindi del nostro metodo di divisione del tempo.

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Ritornando alla “Struttura Madre”, cioè la Vesica Piscis o Mandorla Mistica, di per sé è un simbolo arcaico semplice ma dalla grande forza evocativa e simbolica che accompagna la spiritualità umana da millenni.

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Questa figura ha differenti proprietà geometriche che l’hanno resa oggetto di numerose speculazioni filosofiche ed esoteriche nel corso dei secoli. Si può innanzitutto osservare che tracciando il tratto orizzontale mediano e unendo i suoi estremi con i due vertici, si vengono a formare al suo interno due triangoli equilateri uguali e contrapposti. In pratica, essi simbolicamente rappresentano il “Doppio Ternario”, attivo e passivo, maschile e femminile, che portati l’uno sull’altro formano un altro ben noto simbolo della Tradizione: l’Esagramma, o Stella di Davide.

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La particolare costruzione della Vesica Piscis fa sì che il rapporto tra la sua altezza e la sua larghezza sia pari alla radice quadrata di 3, ovvero 1.7320508…, un numero irrazionale, illimitato ed aperiodico, un numero sacro ai pitagorici chiamato “la misura del pesce”. Già Archimede di Siracusa dimostrò, quando si occupò della misurazione del cerchio, che questo rapporto era compreso tra due ben determinati valori razionali. La divisione tra 265 e 153 è quella più bassa per arrivare a questo risultato.

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Si può dimostrare che non esistono altre frazioni ottenibili con numeri minori di questi che diano un’approssimazione migliore per questo valore. Ebbene, il più piccolo di questi numeri, il 153, viene citato da Giovanni nel suo Vangelo (21:11) come numero di pesci miracolosamente catturati nella rete a seguito di un miracolo operato da Gesù dopo la sua resurrezione.

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Molti studi e speculazioni sono stati fatti su questo numero e sui suoi significati esoterici, e sul perché sia stato citato nel passo del Vangelo. Tutti sono concordi, infatti, che nel contesto del racconto del miracolo citare il numero esatto di pesci catturati non ha senso (coincidenza o riferimento esoterico al credo pitagorico?). Giovanni, tuttavia, non sta redigendo un libro contabile, ma sta scrivendo un Vangelo, ossia un libro di fede e di insegnamenti mistici.

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Sant’Agostino spiega che Dio aveva fatto all’umanità due grandi doni: il Decalogo, ossia un gruppo di 10 comandamenti, e i doni dello Spirito Santo, che sono 7. Questi due valori combinati insieme danno il numero 17. Ora, è noto che 153 è un multiplo di 17 tramite il fattore 9 (153 = 9 x 17), ma è anche la somma dei primi 17 numeri, ossia:

153 = 1 + 2 + 3 + 4 + … + 16 + 17

Questo numero è uno di quelli che in matematica vengono definiti “numeri triangolari”. Ma il numero 153 ha molte altre proprietà matematiche. Ad esempio è la somma dei primi cinque fattoriali:

153 = 1! + 2! + 3! + 4! + 5! = 1 + 2 + 6 + 24 + 120

Il 153 è anche un numero “narcisistico”, cioè uno di quegli strani numeri che si possono ottenere da particolari combinazioni delle loro cifre componenti. In particolare, il numero 153 può essere ottenuto sommando i cubi delle sue cifre componenti:

153 = 1³ + 5³ + 3³ = 1 + 125 + 27

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Secondo l’esoterista indiano Drunvalo Melkisedek (nel suo libro “The Ancient Secret of The Flower of Life”) la proporzione della Vesica Piscis indicherebbe la frequenza dello spettro elettromagnetico della luce. La stessa Luce del primo verso della Bibbia, quella stessa di cui Iside si fa portatrice in alcune opere dell’antichità, come il Faro di Alessandria (luce della conoscenza e della consapevolezza). Si tratta di un concetto comune anche ai pitagorici e raffigurato in diverse opere, come la statua della Legge Nuova sul Duomo di Milano e la Statua della Libertà di New York.

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Inoltre considerandone l’impiego misterico e l’utilizzo dei suoi rapporti geometrici nei progetti di alcune notissime opere architettoniche, si giunge ad intuire l’importanza del tutto particolare del soggetto che stiamo trattando. Tutte le costruzioni, qualunque esse fossero, tenevano conto della geometria sacra diventando casse di risonanza delle vibrazioni della terra. Dall’anno Mille in poi, sull’onda dei grandi pellegrinaggi, si cominciarono a costruire chiese studiate e calcolate in funzione di parametri sacri della geometria che condussero gli uomini, dal periodo oscurantista che aveva appena attraversato, a un momento di grande spiritualità.

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Le armonie che derivavano dalla musica erano ritenute l’espressione terrena dell’Armonia divina che Dio aveva emesso nell’atto della creazione e, secondo le leggi di questa armonia, il tempio veniva interpretato simbolicamente come corpo dell’uomo e corpo dell’universo. Per questo la musica usata nelle cattedrali risuonava a tal punto (come quella Gregoriana) che tutta la costruzione portava l’uomo a elevare il proprio stato di coscienza. Unendo la perfezione delle forme geometriche con la scelta oculata del posizionamento sul terreno, con l’orientamento in funzione delle stelle o dei momenti cosmici, con l’attuazione delle regole della geometria sacra, con le proporzioni e con il simbolismo, i costruttori di tutti i tempi tentarono di riunire l’uomo a dio. In architettura, ed in particolare in quella gotica, la forma della “vesica piscis” viene usata come sistema geometrico per il proporzionamento. Questo sistema è stato descritto nel “Vitruvius” di Cesare Cesariano (1521), con il nome di “regola degli architetti germanici”.

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Questo simbolo si rinviene in moltissimi contesti: su megaliti e grotte preistoriche, fu conosciuto nelle prime civilizzazioni della Mesopotamia, in Egitto, in Cina, in India, tra i popoli celti ed in Africa; per gli Ebrei era il simbolo della Creazione dell’Universo, per i Cristiani era il simbolo del pesce, l’Ichthys, acronimo di Iesus Christos Theus Soter, cioè Gesù Cristo figlio di Dio e nella successiva elaborazione dell’iconografia cristiana, la Vesica Piscis viene associata alla figura del Cristo o della Madonna in Maestà e rappresentata in molti codici miniati, sculture e affreschi del Medioevo. Nel Talmud il Messia viene chiamato Dag che vuol dire appunto pesce.

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Questo simbolo, legato alla Dea Madre, secondo René Guénon nel suo libro “Simboli della scienza sacra”, ha una radice Iperborea infatti lui afferma che: “la presenza della Vesica Piscis è stata segnalata nella Germania settentrionale e in Scandinavia e in tali regioni essa è verosimilmente più vicina al suo punto di partenza che non nell’Asia centrale, ove fu senza dubbio portata dalla grande corrente che, derivata direttamente dalla Tradizione primordiale, doveva poi dar origine alle dottrine dell’India e della Persia”.

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Si tratta della vulva della Madre Terra: la mandorla infatti è un chiarissimo richiamo al Femminino Sacro e alle proporzioni della Geometria Sacra di unione degli opposti, analogamente al concetto di Yin e Yang. Le polarità intersecantisi generano il divino figlio della Madre Terra, ossia l’Uomo: un essere superiore in grado di sviluppare dentro di sé l’illuminazione spirituale.

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Ora, essendo essa una figura geometrica formata da sole due linee curve, e dunque un disegno di massima semplicità ed essenzialità, ha fornito nel corso degli anni la base e la struttura di moltissime creazioni artistiche per le civiltà del mondo intero, e non solo: costituisce uno di quei tracciati di base su cui si fondano le complesse architetture realizzate dall’uomo, ma anche dell’universo e l’anatomia degli esseri viventi. Nel corpo umano, gli occhi, la bocca, e quasi tutti gli orifizi attraverso i quali l’interno dell’organismo comunica con l’esterno, sono strutturati geometricamente sulla base della Vescica Piscis.

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Ma perché questa apparentemente semplice figura geometrica ha avuto una così grande importanza nella raffigurazione dell’intelaiatura dell’Universo e dell’iconografia religiosa ed esoterica? La risposta è insita proprio nella sua origine geometrica: essa segna e rappresenta visivamente l’incontro e la compenetrazione di due mondi o dimensioni dell’essere. Essa è il nucleo unitario preesistente alla separazione degli opposti, o la loro riunificazione. Rappresenta perciò una sintesi, e l’abbandono o il superamento di ogni dualismo. Così se abbinata al Cristo o ad altre figure messianiche dei culti religiosi fondati sul mistero, la Mandorla Mistica ne svela la duplice natura (divina e umana) riunita.

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Se associata alla vulva ne rappresenta la funzione di ponte fra il celato e il manifesto, fra ciò che ancora deve nascere e quel che è già venuto alla luce. La Mandorla Mistica è anche simbolo delle fasi dinamiche che intercorrono fra l’inizio e la conclusione di un’eclissi solare, matrimonio per eccellenza delle sfere celesti, nel quale l’unificazione degli opposti risulta esemplificata, almeno visivamente, al suo massimo grado. È quindi metafora dell’opera, cosmica ma anche umana ed interiore, di creazione del paradosso costituito dall’unione di ciò che sembra inconciliabile: luce ed ombra, bene e male, maschile e femminile, alto e basso, spirito e materia, movimento e quiete.

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Ma importantissimo è anche il significato della Vesica Piscis legato al culto della fertilità. Infatti l’ovale è un simbolo universale del Femminino Sacro, e la forma della vescica richiama anche quella della vulva femminile, il ‘passaggio della nascita’ e l’origine della vita. In Irlanda e in Inghilterra alcune figure di Sheela-Na-Gig, che possono essere viste in alcune chiese di origini molto antiche e che sono chiari simboli di fertilità, vengono rappresentate nude e con le gambe allargate, apertamente mostrando i loro genitali simbolicamente molto sproporzionati rispetto alla figura, come si nota ad esempio nella scultura trovata sulla chiesa di St. Mary e St. David a Kilpeck, nello Herefordshire, Regno Unito.

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Non sfugge a questa simbologia nemmeno Maria Maddalena, vista come origine della Stirpe Reale, portando in grembo la discendenza avuta da Gesù, la stirpe merovingia e il santo Graal: se il Cristo-Pesce è simboleggiato dalla ‘vesica piscis’ in posizione orizzontale, la mandorla-grembo-vulva-coppa-Graal è la stessa ‘vesica’ in posizione verticale. Maddalena è iconograficamente identificabile da un vaso che reca in mano: il vaso, o coppa, o Santo Graal, è una metafora del grembo materno, ricettacolo della vita. Nella tradizione provenzale è Maria Maddalena che, fuggendo da Gerusalemme su di una barca dopo la crocifissione di Gesù, approda in Francia portando con sé il Santo Graal. La dinastia dei Merovingi, re e taumaturghi dotati di poteri di guarigione, è il frutto di questa discendenza divina: Meroveo, il capostipite, si dice sia nato metà uomo e metà pesce (il nome stesso significa, letteralmente, “uomo del mare”), come l’Oannes, figura mitologica dal torso umano e la coda di pesce.

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Un notevole esemplare di vesica piscis è stato posto sul coperchio decorativo del pozzo del Graal a Glastonbury, all’interno del Giardino del Calice. Secondo la leggenda, Giuseppe di Arimatea, prozio di Gesù, avrebbe portato ad Avalon il Calice dell’Ultima Cena (il famoso Santo Graal), e lo avrebbe depositato sotto la collina sacra, da dove è scaturita la sorgente sanguinante, detta così per il colore rosso dato dalla presenza massiccia di ferro nell’acqua. Quindi, secondo la tradizione, il Calice è il recipiente che contiene l’essenza consacrata e Chalice Well e i suoi giardini sono essi stessi un recipiente per l’elisir vivificante della terra madre, Gaia, sotto forma delle acque che sgorgano qui. . Il coperchio è quindi il simbolo del passaggio nell’Altromondo, di protezione, di guarigione sacra, di conoscenza dei misteri della salute.

 

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Numerose teorie sulla storicità di Gesù affermano che la cristianità ha adottato certe credenze e pratiche come sincretismo di religioni misteriche come il Mitraismo, dalle quali avrebbe ereditato l’Ichthys. A sostegno di queste teorie è il fatto che sia il simbolo che la denominazione non sono una invenzione cristiana. Ichthys era, infatti il figlio della antica dea babilonese del mare, Atargatis ed era noto in vari sistemi mitici come Tirgata, Aphrodite, Pelagia o Delfina. La parola significava anche ventre e delfino in alcune lingue, e rappresentazioni di questo apparivano nella raffigurazione delle sirene. Il pesce si ritrorva poi in altre storie, fra le quali quella della dea di Efeso (che porta un amuleto a forma di pesce nella regione dei genitali), la Dea Madre cinese Kwan-Yin è una dea-pesce, e così anche la dea Afrodite che, dice la leggenda, nacque dalla spuma del mare. La dea indiana Kali, dopo aver inghiottito il pene di Shiva, diventa Minaksi, la “dea dagli occhi di pesce”, in analogia alla dea egizia Iside, che dopo aver divorato il pene di Osiride diventa Abtu, il Grande Pesce degli Abissi.

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La mandorla, come frutto o come seme, è da sempre un simbolo di fertilità, e come tale è stato associato, per esempio, alla dea frigia Cibele. Anche la ninfa greca Phyllis è stata trasformata dagli dei in un albero di mandorle. A Delfi, dove c’era l’oracolo di Apollo, la Pitonessa (o Pizia) profetizzava vaticini a chi lo consultava, ed il luogo era marcato da un omphalos di forma ovoidale. Inoltre nell’antica Grecia, “pesce” e “grembo materno” si esprimeva con la stessa parola: delphos.

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Troviamo la Vesica Piscis nei pressi dell’Antro della Sibilla di Cuma dove è chiaramente connessa con la Luna e la fertilità. Le ventotto tacche nelle pareti tufacee lo collegano al calendario mensile lunare, associato al ciclo femminile e alle mestruazioni, simbolo a loro volta della fertilità femminile. La Dea Lunare è qui colei che genera la vita sulla Terra, nel pieno rispetto del concetto della Triplice Dea.

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Caratteristiche sono anche molte sepolture nel cimitero vichingo di Lindholm Høje in Danimarca.

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Molti sigilli di ordini religiosi, come ad es. quello dei Cavalieri Gaudenti, e sigilli di Gran Maestri sono stati racchiusi all’interno di forme a mandorla invece di forme rotonde, più usuali. Modernamente, la troviamo parimenti rappresentata nella forma dei collari indossati dagli officianti dei rituali massonici, ma è anche considerata la forma più appropriata per inserirvi le figure dei sigilli delle logge, esempio lampante è il simbolo dell’ Ordo Templi Orientis di cui fece parte anche l’esoterista e scrittore Aleister Crowley.

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Nei tarocchi la ventunesima carta chiamata “Il Mondo” raffigura proprio una donna in una Vesica Piscis. La carta numero XXI dei tarocchi è l’ultima della serie che, iniziata con il Matto, la carta non numerata, via via si sviluppa fino ad arrivare a compimento della ricerca della propria identità. Dal Mondo, il compimento, si può sempre iniziare un’altra fase della vita vestendo di nuovo le vesti del mendicante, di quello che abbandona tutto e inizia da capo mettendosi in strada, in discussione, ed affrontando le difficoltà che ne conseguono. Una corona d’alloro, segno del vincitore nell’antichità, che circonda una fanciulla ignuda, dal viso estremamente rilassato. Intorno quattro Icone, l’angelo, il bue, l’aquila e il leone. Queste rappresentazioni circondano la donna nella ghirlanda, come se fossero quattro diversi tipi di energia base, in sinergia tra loro. Sono per l’ennesima volta riferimento a simboli che vengono dall’antichità. Per la tradizione cristiana rappresentano i quattro evangelisti. Per gli astrologi erano i quattro segni cardinali dello Zodiaco, rispettivamente Acquario, Toro, Scorpione, Leone. Ma sono anche a memoria dei quattro elementi, Acqua, Terra, Aria e Fuoco.

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La Dea Madre di ogni umanità ha partorito i suoi templi consacrando, con la sua presenza silenziosa, diversi luoghi sulla faccia del pianeta. Colei che non possiede altro Genere che il Principio si è adattata a far da cornice al Cristo di Chartre, si è infusa nella globalità dell’impianto del grande santuario di Karnak e nella sostanza progettuale del tempio di Tell el-Amarna.

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In merito a queste osservazioni indichiamo due tra le opere architettoniche più note del passato: Castel del Monte e la piramide di Cheope. Entrambe le costruzioni sono state realizzate attraverso l’applicazione e lo sviluppo dei rapporti geometrici della vescica e questa cosa sott’intende un legame tra i due edifici che si pone oltre il semplice confronto formale.

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Nel tempio di Osiride ad Abydos è intagliato nella pietra,o meglio, è scavato talmente in profondità che anche raschiando per diversi centimetri la pietra, rimane sempre visibile, un fiore della vita. E’ stata usata una tecnica ancora oggi sconosciuta, che nessuno è stato ancora in grado di spiegare e replicare.

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Particolare è la sfera che si trova sotto la zampa dei “Leoni di Fu” nella città proibita a Pechino dove sulla sua superficie troviamo proprio una seria di Vesica Piscis formanti una rete.

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Molto famosi sono anche i Crop Circles o cerchi nel grano che compaiono in tutto il mondo e solitamente sono costruiti basandosi appunto sulla geometria sacra e soprattutto sulla figura della Vesica Piscis. La teoria più diffusa è che queste formazioni siano fatte da popoli extreterrestri che usano proprio questo codice universale per comunicare con noi lasciandoci dei messaggi impressi nei campi.

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Questo simbolo a causa della sua chiara associazione con la sessualità è utilizzato nella società moderna in diversi loghi di marchi famosi come Gucci, Chanel, DC Shoes, Mastercard e sigarette Kool solo per citare alcuni esempi.

Una nota curiosa.

In una visita della nostra Associazione presso l’Insediamento rupestre di Zungri, in provincia di Vibo Valentia, abbiamo notato sul muro interno di uno dei silos presenti nello splendido villaggio, una grande Vesica Piscis, scolpita in maniera diligente e rispettando le proporzioni, un motivo in più per visitare questo magico sito sul Monte Poro fatto di grotte scavate nell’arenaria e di sorgenti naturali che sgorgano dal nulla.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: amoredivino.it, simbolisignificato.it, ginocacinodiangelo.blogspot.it, orizzontemagazine.it, angolohermes.com

Le Aree Archeologiche più famose della Calabria

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Continua il viaggio dell’Associazione Culturale Mistery Hunters, attraverso le bellezze della Calabria.
Una serie di ricerche nate dalla volontà di far conoscere posti meravigliosi, con storie affascinanti che aspettano solo di essere scoperte.
Per farvi ripercorrere il percorso fin qui svolto facciamo un piccolo sunto: siamo partiti dai 20 Castelli più belli della Calabria, abbiamo scoperto le 10 città fantasma Calabresi più famose e abbiamo visitato virtualmente le Grotte del Romito , il Codex Purpureus Rossanensis e la mitologica Kaulon.

Oggi invece vi parleremo del patrimonio archeologico della Calabria che ricopre nel sistema dei Beni Culturali una posizione privilegiata, dovuta alla grande rilevanza storica dei siti messi in luce nell’ultimo secolo. I Siti Archeologici in Calabria purtroppo non sono molti rispetto a quella che fu la potenza del territorio nel periodo greco-romano. Ciò è dovuto al fatto che la città odierna sorge spesso sullo stesso posto in cui sorgeva la colonia antica originaria o più semplicemente molti siti sono ancora da portare alla luce o sono stati scavati solo in parte.  I siti archeologici presenti in Calabria sono la testimonianza delle varie dominazioni e culture che hanno interessato il passato di questa regione. L’influenza della dominazione delle popolazioni italiche prima, e di quella greca e romana dopo, rimane evidente ancora oggi nella tradizione e nella cultura calabrese. All’evento TourismA 2017, il più importante evento in Italia di esposizione, divulgazione e confronto di tutte le iniziative legate al mondo antico, svoltosi nel Palacongressi a Firenze, la Calabria archeologica è stata una delle protagoniste con il suo Polo museale presente con uno stand e promotore dell’incontro “Parliamo di Calabria” curato da Angela Acordon, direttore del Polo museale Regionale, con gli interventi di Rossella Agostino, direttore dei musei Archeologici Nazionali di Locri e di Kaulon, Gregorio Aversa, direttore dei musei Archeologici Nazionali di Crotone, Capo Colonna, e Scolacium e Adele Bonofiglio, direttore dei musei Archeologici Nazionali della Sibaritide e di Vibo Valentia. Il dibattito ha fatto conoscere a livello nazionale il rilevante patrimonio storico, artistico, monumentale e archeologico calabrese con un’attenta disamina delle peculiarità delle strutture ricadenti nel Polo Regionale con una attenzione particolare data anche ai musei Archeologici più piccoli, ma altrettanto ricchi di manufatti e di storia. Di seguito sono elencati solo una parte dei siti archeologici valorizzati e non della regione, forse i più importanti e conosciuti.

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Area archeologica di Sibari

L’antica città di Sibari (in greco antico: Σύβαρις, Sybaris) fu la prima colonia fondata dai greci sulla costa ionica della Calabria intorno all’VIII secolo a.C. La città si affacciava sul mar Ionio e si trovava in mezzo a i fiumi Crati e Coscile, a sud del golfo di Taranto. La zona della Sibaritide fu il centro della civiltà degli Enotri, che ebbe la massima fioritura nell’Età del ferro, prima di essere spazzati via dai coloni greci giunti dall’Acaia nel 730-720 a.C. circa. I Greci sconfissero e ridussero i locali alla schiavitù, quindi fondarono Sibari (Sybaris), il centro della zona dove transitavano le merci provenienti dall’Anatolia, in particolare da Mileto. Nell’Antichità la ricchezza di Sibari era proverbiale, ma la sua sorte fu segnata, dopo la sconfitta contro Siris (alleata a Crotone e Metaponto). Il conflitto nacque probabilmente per ragioni di contese commerciali e culminò con la battaglia del Traente (510 a.C.), che vide la vittoria dei crotoniati, l’assedio di Sibari e, settanta giorni dopo, la sua distruzione, per la quale venne anche deviato il fiume Crati affinché passasse sopra le rovine della città sconfitta. I sopravvissuti di Sibari partirono per la madrepatria, dove ottennero l’aiuto di Atene per tornare in Calabria e fondare, nel 444 a.C. con altri nuovi coloni ateniesi, una nuova colonia sullo stesso sito, chiamata poi Thurii. Il nuovo impianto della città fu progettato dal famoso architetto e urbanista Ippodamo. I conflitti però tra sibariti e ateniesi portò a un conflitto interno, che culminò con la cacciata dei sibariti. Nel 194 a.C. la città fu fondata nuovamente come colonia romana con il nome di Copiae, che fu presto cambiato nuovamente in Thurii. Continuò ad essere in un certo qual modo un luogo importante, posta in una posizione favorevole e in una regione fruttifera, e sembrerebbe che non sia stata completamente abbandonata fino al Medioevo. Dimenticata in seguito, i suoi resti vennero individuati scavati a partire dal 1932 e con particolare intensità dal 1969. Tutt’oggi sono aperti vari cantieri, per cui lo scavo è ancora lontano da essere esaurito. Il parco archeologico, sorto in prossimità dei resti della città, riguarda una vasta area che si estende per 168 ettari di terreno. I ritrovamenti archeologici, frutto degli scavi fin ora effettuati, hanno fatto emergere reperti di età romana, risalenti alla colonia di Copia sorta sui resti della città greca di Thurii (in greco antico: Θούριοι, Thoúrioi). Una delle zone di rilevante importanza storica è quella del Parco del Cavallo, nel quale i lavori sono cominciati nel 1932. Il cantiere del Parco del Cavallo è ricco di reperti che riguardano la città di Copia. In quest’area sono stati rinvenuti i resti del più importante edificio pubblico dell’antica città: il teatro-emiciclo. La fase più antica dell’edifico risale al I secolo a.C e si trattava di una struttura a pianta semicircolare che doveva avere la funzione di mercato o di luogo per le riunioni. Dopo un secolo, intorno al I secolo d.C., l’edificio subì profonde trasformazioni e venne riadattato a teatro. Le decorazione dell’edifico, recuperate negli scavi consistevano principalmente in fregi e statue. Di fronte il teatro si trovava il foro, che fu risistemato su un’area risalente al periodo ellenistico che, probabilmente, aveva la funzione de agorà. Nell’area del Parco del Cavallo sono situati i resti dell’edificio termale la cui costruzione risale al I secolo d.C. Le terme si trovavano vicino al teatro ed al foro. All’edificio si accedeva tramite una serie di ambienti comunicanti decorati a mosaico con tessere bianche e nere che formavano motivi geometrici, dai quali si passava per arrivare agli ambienti termali. Delle terme sono riconoscibili il calidarium ed il tepidarium. L’ultima fase dell’edificio risale al VII secolo quando perse la funzione termale e venne riutilizzato come luogo di culto cristiano. Nello stesso cantiere si trovano i resti di alcune abitazioni, tutte con la tipica planimetria delle case romane di età augustea, con cotile quadrangolare. Dietro il teatro sono stati trovati i resti di una domus romana decorata da pavimenti in mosaico. Sempre in quest’area, è stato trovato un bronzo risalente al V secolo a.C. denominato Toro Cozzante. Nella zona del Parco del Cavallo sono emersi, inoltre, i resti di una grande strada lungo 350 m e larga 13 m con direzione nord-sud che incrocia un’altra strada in direzione est-ovest larga 7 metri. Un’altra zona di scavi si estende dal Parco del Cavallo verso il mare e prende il nome di Casa Bianca. Qui è conservato un ambiente costruito nel IV secolo a.C. in cui è presente una torre circolare che aveva una funzione di riparo per le imbarcazioni fino al I secolo a.C., periodo in cui venne edificato un grande ingresso. Successivamente, intorno al III secolo, l’area venne convertita in necropoli, a causa dell’allontanamento della linea costiera. Un’altra area, detta Stombi, infine mostra una zona urbana a insediamento misto, solo in parte riedificata dopo il 510 a.C., con alcune fondazioni di età arcaica, tra le quali un edificio modesto, pozzi e fornaci. A partire dalla fine degli anni Novanta e fino ad oggi, una missione composta da archeologi di diverse Università italiane e straniere, della Scuola Archeologica Italiana di Atene e da archeologi greci ha intrapreso un progetto di scavi regolari a Sibari, grazie al quale la conoscenza archeologica del sito si è enormemente ampliata. Notevole importanza hanno avuto, inoltre, le ricerche archeologiche nelle località poste ai limiti della piana di Sibari: siti come Francavilla Marittima erano noti archeologicamente molti decenni prima di Sibari stessa. Infatti ricerche condotte nel 1879 e ancora nel 1887 avevano portato alla scoperta di una vasta necropoli dell’età del ferro, formata da circa 200 sepolture ,con ricchi materiali anche precedenti l’età della colonizzazione greca, ai piedi della collina. I reperti archeologici dell’antica città sono oggi custoditi nel Museo archeologico nazionale della Sibaritide. Il museo ospita al suo interno reperti che risalgono dall’era protostorica della Magna Grecia fino alla civiltà romana relative alle città di Sybaris, Thurii e Copia, e ai vari stanziamenti presenti nella zona. Le testimonianze di maggiore interesse sono dei frammenti architettonici, i corredi tombali risalenti all’età del ferro, gli ornamenti religiosi del santuario di Atena del VI-IV secolo a.C. Di notevole importanza la tabella in bronzo con dedica appartenenti a Kleombrotos figlio di Dexilaos, cittadino sibarita vincitore di una gara ad Olimpia, risalente agli inizi del VI secolo a.C. Il 18 gennaio 2013 una forte alluvione ha provocato un allagamento dell’area archeologica di Sibari, a causa anche dell’incuria dell’uomo. 20 mila metri cubi d’acqua hanno coperto interamente il parco archeologico. Dopo 1500 giorni, l’11 febbraio 2017, con l’ausilio di pompe idrovore e impianti di sollevamento per il prosciugamento delle aree interessate, il sito è stato riaperto al pubblico e ora fruibile da tutti.

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Area archeologica di Monasterace

L’antica colonia della Magna Grecia identificata con il nome Kaulon o Kaulonia si trova nei pressi di Punta Stilo nel comune di Monasterace in provincia di Reggio Calabria. L’area intorno al sito su cui insisteva la polis viene chiamata dagli archeologi Kauloniatide. La leggenda più affascinante sulle origini di Caulonia risale a fonti del IV sec. a.C. che narrano della remota presenza sul posto dell’amazzone Clete, la nutrice di Pentesilea, regina delle Amazzoni. La donna-guerriero sarebbe qui approdata dopo la guerra di Troia quando, morta in battaglia la sua regina e deciso il rientro in patria, finì con la sua nave alla deriva sulle coste dell’Italia Meridionale a causa di una tempesta. Qui Clete sarebbe vissuta tranquillamente allorché il mito vuole che gli Achei guidati da Tifone di Aegium sbarcarono sulle coste della Calabria e, con l’aiuto dei Crotoniati, distrussero il suo regno. Solo suo figlio Claulon si sarebbe salvato e avrebbe ricostruito la città che la chiamò con il proprio nome, Caulonia, diventandone così l’eroe eponimo. Secondo Strabone, invece, il nome della città deriverebbe da aulonia, vallonia, cioè valle profonda. La città era limitata a sud dal fiume Sagra, sulle cui rive nel VI secolo a.C. si svolse la famosa Battaglia del Sagra, in cui Caulonia alleata con Crotone fu sconfitta da Locri Epizefiri e Rhegion (Reggio), grazie al miracoloso intervento dei Dioscuri, i due gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus e di Leda, conosciuti sia per essere due degli Argonauti, gli eroi che parteciparono alla ricerca del Vello d’oro, sia perché secondo la mitologia, visto il loro profondo legame, Zeus gli concesse di vivere per sempre nel cielo, sotto forma della Costellazione dei Gemelli. Nel IV secolo a.C. Kaulon fu poi sconfitta dalle forze congiunte dei Lucani e di Dionisio I di Siracusa, sconfitta che costò nel 389 a.C. la deportazione dei suoi abitanti a Siracusa e a Pietraperzia e la cessione del territorio a Locri, alleata del tiranno. Ricostruita da Dionisio il Giovane, Kaulon fu in seguito preda di Annibale durante la seconda guerra punica, finendo poi definitivamente nell’orbita di Roma per opera di Quinto Fabio Massimo nel 205 a.C. Nonostante la città sorgesse in un’area fornita di numerose risorse naturali quali il legname e i giacimenti minerari di rame, argento e piombo, nonché di un buon punto di approdo e di locali cave di pietra da costruzione, il suo rapporto con Crotone l’avrebbe resa col tempo una sua appendice. Caulonia fu tuttavia fra le prime città della Magna Grecia a coniare monete d’argento: sono infatti numerose quelle ritrovate che risultano realizzate con il metallo estratto nella vallata dello Stilaro. Le più antiche (del VI° sec. a.C.) sono gli “stateri incusi”, con figure e iscrizione incavate sul rovescio e rilevate sul diritto, con una figura maschile nuda e dai lunghi capelli ed un’altra più piccola, con accanto un cervo dalla testa rivolta all’indietro e la scritta in greco Kaul. I primi scavi sono attribuibili a Paolo Orsi (1911-1913), che in quel periodo era Soprintendente ai Beni Archeologici della Calabria e cofondatore del Museo della Magna Grecia. Paolo Orsi ritrovò sulla spiaggia i resti di un tempio dorico del quale sono rimaste le fondamenta costituite da blocchi di pietra arenaria. L’edificio è lungo 41 metri per 18,20 metri di larghezza ed è eretto su una terrazza artificiale e sopraelevato su un crepidoma (piattaforma a gradini rialzata in pietra) di 3 o 4 gradini, dove la cella vera e propria, preceduta dal pronao (spazio davanti alla cella), e conclusa da un vano retrostante, era circondata da un colonnato, di 6 colonne sui lati brevi e 14 o 13 sui lunghi che dovevano essere alte oltre 5 metri. L’area archeologica di Monasterace comprende, oltre al tempio, alcune zone situate immediatamente dopo le mura dello stesso. A 200 metri a sud-ovest delle mura sorgeva infatti il santuario della Passoliera del quale sono state rivenute solo alcune terrecotte risalenti a diverse fasi comprese fra il VI e il V secolo a.C. In quest’area archeologica sono presenti, oltre al tempio, i resti del centro urbano di Kaulon, cinto di mura e posto al livello del mare, alcune abitazioni tra cui le più famose sono quelle denominate “La casa del Personaggio Grottesco”, “Casamatta” e “La casa del Drago”, quest’ultima famosa per il ritrovamento di un mosaico di eccezionale fattura raffigurante un drago, diventato poi simbolo del parco.  Nell’edificio denominato “Terme di Nannon”, uno dei pochi edifici termali ellenistici del sud Italia, è stato ritrovato un mosaico raffigurante draghi e delfini che copre un’area di 30 m² ed è quindi considerato il più ampio mosaico della Magna Grecia. In questo sito è stata anche ritrovata una tabella in bronzo che contiene il testo più lungo in alfabeto acheo della Magna Grecia composto da 18 linee, con le lettere ordinate regolarmente secondo il sistema di scrittura detto stoichedon. Si tratta di una lunga dedica votiva, in gran parte metrica, che menziona tra l’altro l’agorà (la piazza pubblica di ogni citta’ greca, cuore della vita politica e commerciale), una statua e un elenco di divinità di grande interesse per la conoscenza dei culti. Importante anche il patrimonio sommerso e restituito dal mare tra cui gli imponenti resti di un tempio Ionico esposti al Museo di Monasterace, ricchezza che ha giustificato il vincolo apposto anche allo specchio di mare antistante il parco. Da quest’area sono emersi anche due contenitori in terracotta ancora pieni di pece, uno dei prodotti che resero famosa la Calabria nell’antichità. Tecnicamente definiti kadoi, sono esemplari molto rari paragonabili solo ad alcuni altri rinvenuti in Puglia. Oggi si sta cercando di salvare il parco archeologico, sia dall’incuria dell’uomo e sia dagli agenti atmosferici che la minano continuamente, con fondi europei che purtroppo vengono sfruttati male o non erogati a causa della burocrazia che attanaglia la nostra regione.

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Area archeologica di Scolacium

Il Parco Archeologico di Scolacium si trova in località Roccelletta di Borgia, località a 10 km di distanza dall’ attuale Squillace, a sud di Catanzaro Lido. L’identificazione del sito archeologico è da attribuire ad Ermanno Arslan. Il ritrovamento di un’epigrafe con il nome della colonia romana di Minerva Scolacium un’antica città costiera del Bruzio, ma che ebbe una storia millenaria attraverso greci, brettii, romani, bizantini, saraceni e normanni, gli permise di attestare la validità storica dell’area. Minervia Scolacium è il nome della colonia romana che fu fondata nel 123-122 a.C. nel sito dove precedentemente si trovava la città greca di Skylletion, a nord di Kaulon. Il centro greco è nominato da Strabone ed ha un mito di fondazione collegato alle vicende della guerra di Troia: sarebbe stata fondata da Ulisse, naufragato in quella terra o dall’ateniese Menesteo durante il ritorno da Troia. Storicamente la fondazione di Skylletion si deve con ogni probabilità a Crotone, che si contendeva con Locri Epizefiri il controllo sull’attuale istmo di Catanzaro e dei traffici marittimi presenti in quel settore; il centro ebbe all’origine specificamente il carattere di presidio militare, presente dalla prima metà del VI secolo a.C. Sembra sia passata sotto il controllo dell’ethnos italico dei Brettii nel corso del IV secolo a.C. e che abbia conosciuto un periodo di decadenza dal III secolo a.C., fino alla fondazione della colonia romana ad opera di Gaio Sempronio Gracco. La Scolacium romana ebbe vita prospera nei secoli seguenti e conobbe una fase di notevole sviluppo economico, urbanistico e architettonico in età Giulio-Claudia. Vi fu fondata una nuova colonia sotto Nerva, nel 96-98, col nome appunto di Colonia Minerva Nervia Augusta Scolacium. In età bizantina diede i natali a Cassiodoro (487-583), uno dei più grandi autori della tarda romanità a cui si deve una messe di opere di carattere teologico ed enciclopedico. Il declino cominciò con la guerra greco-gotica del VI secolo e le incursioni dei Saraceni dal 902 d.C., concludendosi con l’abbandono della città nell’VIII secolo. Gli abitanti, ripetendo una pratica comune in quell’epoca sul suolo italico, trasferirono il loro insediamento sulle alture circostanti, fondando altri insediamenti tra i quali quello sulla collina prospiciente l’attuale quartiere Santa Maria di Catanzaro. Successivamente questi centri provvisori furono riorganizzati in posizioni più difendibili e le popolazioni insediate intorno allo Zarapotamo come quelle della collina prospiciente l’attuale quartiere S. Maria di CZ contribuirono alla fondazione della nuova città di Catanzaro. Gli scavi, iniziati nel 1965, hanno portato alla luce non solo i resti dell’antica colonia, ma hanno posto l’attenzione anche sull’ abitato greco di Skylletion. La struttura dell’insediamento greco è ignota e dagli scavi sono emerse solo ceramiche e monete databili intorno al VI secolo a.C. Nuove campagne di scavo condotte dalla Soprintendenza archeologica della Calabria hanno fatto emergere strutture murarie di età ellenistica, cosa che farebbe pensare alla sovrapposizione topografica delle città. Il punto più importante dell’area si trova in prossimità del foro, che presenta una pianta rettangolare ricoperta da mattoni quadrati e circondato da portici, nel quale si svolgevano le principali attività della vita quotidiana della colonia romana. Sono ancora visibili i resti del Capitolium, il più importante edificio di culto della città romana che si affacciava sulla piazza. I resti dell’edificio son molto scarsi e l’unico reperto visibile è una parte del podio. La Curia, sede del senato locale, ed il Caesareum, ovvero il luogo in cui veniva celebrato l’imperatore, sono due edifici sorti al posto delle tabernae. Non molto distanti dal foro, adagiati sul pendio di una collina, si trovano i resti del teatro che mostrano tre diverse fasi edilizie: la prima risalente all’età tarda repubblicana, la seconda corrispondente all’età giulio-claudia e la terza databile intorno al II secolo. La capienza del teatro era di circa 3.500 persone; l’edifico aveva anche varie funzioni pubbliche nella Scolacium romana. Della struttura si sono conservati parte della cavea e dell’orchestra e sono ancora visibili i posti riservati alle personalità illustri. Dalla zona del teatro provengono numerosi reperti scultorei ed architettonici; inoltre sono visibili i resti dell’anfiteatro il quale ad oggi resta l’unico conosciuto in Calabria risalente al II secolo d.C. Dalla scena del teatro sono state rinvenute tre teste ritratto delle quali due di età giulio-claudia e una di età flavia. Sono state ritrovate anche due grandi statue di marmo bianco conservate nell’Antiquarium di Roccelletta annesso al Parco Archeologico. La piazza della città era attraversata inizialmente dal decumanus maximus, la principale via della città, successivamente spostata nel il lato corto della piazza e a ridosso di quest’ultima si trovava una grande fontana monumentale. Altri reperti sono stati trovati ai margini della città quali le terme e le necropoli romane con molti mausolei ad oggi ben conservati. All’ingresso del Parco archeologico di Scolacium si trovano i resti di un’imponente Basilica Normanna del XI secolo dedicata a Santa Maria della Roccella che ha subito varie trasformazioni legate allo stile occidentale Romanico,all’età bizantina e araba. L’edificio era costituito da un’unica grande navata illuminata da cinque finestre; il transetto sopraelevato era coperto da volte a crociera; attraverso il transetto si accedeva a tre absidi, abbellite con decorazioni arabo-bizantine, ugualmente sopraelevate. Nel Parco Archeologico ogni anno, durante il periodo estivo, la provincia di Catanzaro organizza la manifestazione culturale “Intersezioni”, curata dal direttore artistico del museo MARCA di Catanzaro Alberto Fiz, esponendo opere di artisti internazionali tra i quali Stephan Balkenhol, Tony Cragg, Wim Delvoye, Jan Fabre, Antony Gormley, Dennis Oppenheim, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto e Marc Quinn.

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Area archeologica di Locri Epizefiri

Locri Epizefiri fu una città della Magna Grecia, che si affacciava sul mar Ionio, fondata nel VII secolo a.C. dai greci provenienti dalla Locride. Locri Epizefiri fu l’ultima delle colonie greche fondate sul territorio dell’attuale Calabria. Nel Timeo Platone disse:” Locri, città d’Italia ordinata a leggi bellissime, dove per copia di sostanze e gentilezza di sangue non istà dopo a niuno“.  Il primo insediamento venne fondato nel luogo indicato dall’oracolo di Delfi, presso capo Zefirio (l’attuale capo Bruzzano), ma dopo alcuni anni i coloni – insoddisfatti della località occupata pur corrispondente all’indicazione dell’oracolo – si spostarono verso nord di circa venti chilometri, dove fondarono una nuova città alla quale diedero lo stesso nome del primo insediamento, probabilmente per sentirsi sempre sotto la protezione del dio Apollo, conservando però l’appellativo di Epizephyrioi, che significa appunto “attorno a Zephyrio”. I coloni si trasferirono sul colle Epopis, dove però trovarono insediate popolazioni indigene di Siculi, che sarebbero state scacciate dai locresi con uno stratagemma molto astuto: i coloni giurarono che fin quando avrebbero calcato la stessa terra e portato la testa sulle spalle sarebbero stati fedeli, ma a giuramento fatto essi si liberarono della terra messa in precedenza nei calzari e delle teste d’aglio, scacciando i Siculi dalla zona. Nel corso di un secolo la polis di Locri Epizefiri estese la propria presenza dalla costa ionica al versante tirrenico dell’attuale Calabria, probabilmente per tenere lontana la minaccia di un’espansione della nemica Kroton (Crotone). Verso il 560 a.C.-550 a.C. Locri Epizefiri ebbe alleata Reggio nella vittoriosa battaglia avvenuta al fiume Sagra che fermò la volontà espansionistica verso sud di Crotone. In seguito a tale vittoria nelle due poleis italiote di Reggio e Locri Epizefiri iniziò ad essere praticato il culto dei Dioscuri; in particolare presso gli scavi del tempio ionico di “Marasà” a Locri Epizefiri sono state rinvenute due statue, gli acroteri in marmo, che potrebbero raffigurare i gemelli figli di Zeus (oggi custodite a Reggio presso il Museo nazionale della Magna Grecia). L’esito della battaglia della Sagra confermò Locri Epizefiri come una nuova potenza della Magna Grecia. Dal V secolo a.C. Locri Epizefiri stabilì alleanze con la Siracusa di Dionisio I e del figlio Dionisio II, entrando nell’orbita dei tiranni della polis siceliota. L’alleanza tra Locri e Siracusa venne consacrata dal matrimonio tra Dionigi e la locrese Doride. Quando nel 389 a.C. il tiranno siracusano sconfisse la Lega Italiota, donò a Locri Epizefiri le terre di Kaulonia (presso Monasterace marina) e di Scolacium (nei pressi di Squillace), che delimitavano il confine nord con Crotone, mentre a sud il confine con Reggio era delimitato dal fiume Halex (presso Palizzi). Il IV secolo a.C. fu per Locri Epizefiri un periodo di grande splendore artistico, economico e, soprattutto, culturale. In particolare, di questo periodo storico, vanno ricordate le figure della poetessa Nosside e dei filosofi EchecrateTimeo ed Arione, fondatori di una fiorente scuola pitagorica (introdotto a Locri all’epoca di Dionisio I): lo stesso Platone, secondo quanto attesta Cicerone, si sarebbe recato di persona a Locri per apprenderne i fondamenti. Dopo la morte di Dionigi I, Locri Epizefiri ospitò fra le proprie mura Dionigi II il quale, esiliato da Siracusa, instaurò tra il 357 e il 347 a.C. la tirannide nella polis italiota. Ma la sua politica contro gli aristocratici locali mirava solo al ritorno in patria e dunque, una volta che ebbe svuotate le casse della cittadina calabra, il popolo insorse uccidendo tutta la sua famiglia e cacciandolo ancora. Venne dunque instaurata la democrazia. Nel 280 a.C. Locri Epizefiri si alleò con Pirro, re dell’Epiro, nella guerra tra Romani e Sanniti, sia per esigenza militare che per far fede a un’alleanza stabilita da tempo con Taranto. Dopo qualche anno però i locresi passarono dalla parte dei Romani e Pirro nel 266 a.C. devastò la città e saccheggiò il tempio di Persefone.,Nella seconda guerra punica Locri si schierò con Annibale e fu conquistata dai Romani nel 205 a.C..In seguito la città declinò e nell’VIII secolo fu abbandonata dagli abitanti che si ritirarono nell’entroterra. L’area archeologica si trova nel comune di Portigliola, circa 3 km a sud dall’attuale comune di Locri e si estende nel territorio pianeggiante compreso tra la fiumara Portigliola, la fiumara Gerace, le basse colline di Castellace, Abbadessa e Manella, e il mare. Il fatto che tale area si trovi a distanza dagli odierni centri abitati ha preservato quasi integralmente la città antica: tuttavia, nel corso dei secoli, sono state usate pietre prelevate nell’area per edificare nuove case nei dintorni. Il sito archeologico dell’antica città è oggi diviso in varie parti. La città antica, che era difesa da una cinta muraria di 7 km, in molti tratti ancora visibile. All’esterno delle mura si estendono le necropoli, mentre la maggior parte delle aree sacre sono disposte in prossimità della cinta. I santuari all’interno delle mura sono dotati di edifici templari monumentali e risalgono al periodo arcaico, mentre quelli situati immediatamente all’esterno presentano un aspetto meno monumentale, pur essendovi state rinvenute abbondanti offerte votive. Nella località Marasà, situata alle spalle del Museo Archeologico, si trova il santuario del quale oggi si sono conservate le parti principali. Il primo studio dell’area venne portato avanti da Paolo Orsi; in seguito l’area venne ulteriormente studiata ed il sito di scavo ampliato. La storia del santuario attraversa varie fasi e trasformazioni: secondo gli studi venne edificato intorno alla metà VII secolo a.C. poco dopo la fondazione della polis, fu ampliato verso la metà del VI secolo a.C. e ricostruito nel V secolo. Del tempio ionico che caratterizzava il santuario ci sono pervenute pochissime testimonianze, come la base occidentale del basamento. La scarsa quantità di reperti archeologici è dovuta ad una ricorrente asportazione dei blocchi di calcare avvenuta nel XIX secolo che servirono a costruire i moderni edifici. Gli archeologi sono tuttavia riusciti a dedurre che il tempio ionico, composto da blocchi di pietra arenaria, era costituito da un cella allungata con pronao che in tutto misurava 22 metri di lunghezza per 8 metri di larghezza. Sulla facciata del tempio era posta una decorazione che raffigurava i due Dioscuri a cavallo di un Tritone. Il santuario venne probabilmente costruito in onore della dea Afrodite vista l’importanza della sua venerazione per gli abitanti di Locri; un’altra ipotesi che fa pensare alla dea Afrodite è il ritrovamento di alcuni reperti votivi ma nonostante tutti gli studi dedicati all’area sacra ed al tempio non si può affermare questa ipotesi con certezza. Un’altra località ricca di storia è quella di Centocamere dove si trovano i resti di numerose case e fornaci grazie ai quali si può dedurre che questa zona era il quartiere ceramico della città. I resti del teatro cittadino hanno un’importanza rilevante per quanto riguarda la particolarità della struttura, l’unica presente in Calabria. L’edificio conteneva fino a 4.500 spettatori. Della struttura sono visibili ancora tutte le componenti: dalla cavea semicircolare, da dove si godeva un notevole panorama della città e del mare, con i gradini per gli spettatori divisi da scalette in sette settori, alla scena di forma rettangolare dietro alla quale si trovano due pozzi nei quali sono stati ritrovati molti oggetti di carattere sacro. Il teatro venne costruito intorno al IV secolo a.C. ma sono state apportate varie modifiche in epoca romana. Nell’ area archeologica di Locri sono stati trovati i resti del santuario di Persefone il quale sorge ai piedi del colle della Mannella a ridosso della cinta muraria della polis. Il santuario è databile tra il VII ed il III secolo a.C. La sua scoperta è da attribuire a Paolo Orsi che terminò gli scavi tra il 1908 ed il 1911; il suo lavoro portò alla luce preziosi reperti tra i quali i Pinakes (in greco antico πίνακες) , quadretti in terracotta, legno, marmo o bronzo di carattere sacro tipici dell’antica Grecia; le imponenti mura di pietra arenaria che delimitavano i confini dell’area sacra. Oltre al tempio di Persefone sono presente i resti di altre tre aree sacre: il tempio di Zeus Olimpio, il santuario di Grotta Caruso o Grotta delle Ninfe ed il santuario di Zeus Saettante. Il tempio di Zeus Olimpio non è stato ancora localizzato tranne che per la teca cilindrica, in pietra calcarea, che fungeva da archivio per il santuario. Questa venne riportata alla luce clandestinamente e derubata del suo contenuto il quale venne in parte recuperato ed è costituito da 39 tabelle di bronzo. Il santuario di Grotta delle Ninfe si trova in una grotta al di fuori delle mura della città e risale al VI secolo a.C. e venne scoperto da Enrico Arias nel 1940. Oggi la visita del luogo non è praticabile in quanto una parte della grotta crollò dopo gli scavi ma i suoi reperti sono esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Locri. Il santuario di Zeus Saettante si trova alle spalle del Museo e, grazie a reperti di carattere votivo ritrovati, si può stimare il periodo storico del tempio che va del V al III secolo a.C. Molti tra i resti trovati in quest’area raffigurano Zeus pronto a scagliare uno dei suoi fulmini; da qui l’ipotesi che il tempio sia stato costruito in suo onore. La necropoli locrese più nota è quella di Lucifero, dove sono state rinvenute circa 1.700 tombe databili tra il VII e il II secolo a.C. e spesso segnalate da vasi di grandi dimensioni, di buona fattura e pregio, opera di ceramografi ateniesi di fama, oppure da “arule”, piccoli altari in terracotta decorati con immagini del mondo dell’oltretomba.

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Area archeologica di Capo Colonna

L’area archeologica di Capo Colonna è un sito archeologico statale situato in località Capo Colonna, vicino Crotone, raggiungibile tramite una strada costiera dal capoluogo. Il parco fu realizzato dalla Soprintendenza per i beni archeologici della Calabria e raccoglie 30.000 metri quadri di terreno adibito agli scavi e 20 ettari di bosco e macchia mediterranea. In quest’ area si trova il Museo Archeologico, costituito da tre padiglioni incassati nel terreno per ridurre l’impatto ambientale. Esso è strutturato da un percorso all’ inizio del quale c’è un viale immerso nella macchia mediterranea. Successivamente si trova la cinta muraria del VI secolo a.C. rafforzata più tardi dai romani. Dopo le mura si trova l’inizio della via sacra, larga 8,5 metri e di fronte l’ingresso della via, sul alto est del promontorio di Capo Colonna, si accede al maestoso tempio dorico. Se ne erano accorti i greci della sua bellezza già nel VI secolo, quando giunsero nella vicina Kroton e vedendo dal mare il capo lo scelsero come luogo sacro. Il santuario di Hera Lacinia di Capo Colonna, dipendente dalla città di Crotone antica, fu uno dei santuari più importanti della Magna Grecia dall’età arcaica fino al IV secolo a.C., finché cioè fu sede della lega Italiota prima che si trasferisse a Taranto. Il sito del santuario era in una posizione strategica lungo le rotte costiere che univano Taranto allo stretto di Messina, su un promontorio chiamato anticamente Lacinion, che diede anche l’epiteto alla dea venerata, Hera Lacinia. Il nome odierno invece ricorda le rovine del tempio (con l’ultima “colonna” in piedi), mentre il nome usato fino all’epoca moderna, “Capo Nao”, altro non è che una contrazione del greco naos, che significa appunto tempio. Il santuario era stato edificato alla fine del VI secolo a.C. ed era anche chiamato di Hera Eleytheria, come resta testimoniato da un’iscrizione sul cippo del Lacinion, al Museo archeologico nazionale di Crotone. Nel XVI secolo fu quasi completamente saccheggiato per riutilizzare i materiali da costruzione. Il tempio era costituito da una pianta rettangolare e 48 colonne, alte circa 8 metri. La costruzione rispettava i canoni edilizi dei greci e risale intorno al VI secolo a.C. . Il tetto era di lastre di marmo e tegole in marmo pario come testimoniano i resti ora conservati nel museo di Crotone. Nulla si sa delle decorazioni che, però, erano certo presenti, come si può dedurre dal ritrovamento di una testa femminile in marmo della Grecia e pochi altri frammenti. Di tutto l’edificio sacro, oggi, si è conservata una sola colonna alta 8,5 metri, con capitello dorico e un fusto che ha 20 scanalature piatte composto da 8 rocchi sovrapposti. La colonna fino al 1638 era affiancata da un’altra caduta per un terremoto e poggia sui pochi resti del possente stilobate. Nelle adiacenze è tracciata una “Via Sacra” di una sessantina di metri e larga oltre 8 metri. Al complesso del tempio appartengono anche almeno tre altri edifici chiamati “Edificio B”, “Edificio H”, “Edificio K”:

  • L’Edificio B presenta una pianta rettangolare di quasi 200 m² e dagli archeologi è ritenuto il tempio originario; aveva la funzione di raccoglimento e di culto ipotesi sostenuta dal ritrovamento di alcuni reperti, come una navicella di bronzo, che risalgono alla prima metà del VIII secolo a.C.
  • Nel lato nord del Parco si trova il Katagogion, chiamato Edificio K, avente un portico dorico e risale al IV secolo a.C.. La pianta della struttura si sviluppa ad “elle” e ne rimangono solo i basamenti. All’ interno sono presenti ambienti decorati con quadrati e rettangoli. Probabilmente era la foresteria dove potevano trovare alloggio importanti visitatori, mentre i loro accompagnatori si dovevano accontentare di costruzioni molto meno raffinate e resistenti.
  • l’Edificio H, di pianta quadrata, chiamato anche Hestiatorion, è suddiviso in vari locali. Il ritrovamento di suppellettili tipiche dei locali dedicati ai pasti può far dedurre che si trattasse dell’edificio-mensa e ristoro dei viaggiatori oltre che dei sacerdoti. In ogni caso la datazione viene posta al IV secolo a.C. quando il tempio già aveva assunto grande celebrità.

Il vasto numero di ritrovamenti e di reliquie è diviso nei vari musei della città di Crotone: nel Museo di Capo Colonna sono conservati gli ultimi reperti rinvenuti, nell’Antiquarium di Torre Nao c’è qualche reperto di età precoloniale e nel Museo Archeologico Nazionale di Crotone sono custoditi i primi ritrovamenti di età arcaica e soprattutto il tesoro di Hera. Della maestosità del luogo in epoche remoto ci è data testimonianza da tanti elementi rinvenuti sul luogo, tanti gioielli in oro, vasi in terracotta e tanti altri doni portati dai pellegrini devoti, tra cui il famoso Diadema Aureo e la misteriosa Bacchetta Nuragica, che oggi sono custoditi proprio nel museo di Crotone. La località non ha perso l’importanza sacra che ha sempre avuto, infatti sulle rovine del tempio pagano è situato il Santuario di Santa Maria di Capo Colonna, distrutto, ristrutturato e ampliato nel corso dei secoli, ma presente già nel 1519 come risulta da storici manoscritti che descrivono che sul luogo esisteva una piccola chiesa dove si venerava l’immagine della Madonna e dove è narrato di come il dipinto si sia salvato miracolosamente dalle mani dei turchi che ne depredarono l’area. La terza domenica di maggio, in occasione dei festeggiamenti della Madonna di Capo Colonna, il dipinto, custodito nella cattedrale di Crotone, è portato in processione nel santuario alle prime luci dell’alba. Proprio davanti alla chiesa si trova un importante elemento di difesa, la torre del Capo Nao, a pianta quadrata, conosciuta come Torre Nao, costruita dagli spagnoli nel XVI secolo come elemento di difesa dagli attacchi dei turchi, e ora sede del museo Antiquarium.

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Area archeologica di Vibo Valentia

L’antica Hipponion, che dal 1932 è stata ribattezzata con la denominazione latina di Vibo Valentia, è una delle città della Magna Grecia situate sul versante tirrenico della Calabria. Hipponion sorse poco dopo delle cittò del versante ionico, nel VII sec. a.C., quando Locri Epizefiri si assicurò il controllo di buona parte della Calabria meridionale fondando sul Tirreno le sub colonie che mantennero a lungo con la stessa Locri legami politici e una forte impronta culturale, evidente nei culti religiosi e in molti prodotti artistici realizzati sotto l’influsso locrese. Gli scavi effettuati hanno ritrovato anche reperti riguardanti la città sorta dopo la colonia greca, Vibonia e resti dell’antico centro di Veipo. Hipponion attraversò complesse vicende politiche tra il IV e il II secolo a.C., con una fase di dominio della popolazione italica dei Brettii, che dalle aree interne della Calabria settentrionale si estesero anche assai più a Sud, lasciando a Hipponion importanti testimonianze, come ricchi depositi di monete argentee coniate dalla confederazione dei Brettii. Alle fasi del III sec. a.C. risalgono anche i resti imponenti della cinta muraria in blocchi squadrati di arenaria, il monumento più importante rimasto fino a noi della Hipponion greca e poi brettia. Sotto la dominazione romana la città (che per breve tempo assunse la denominazione beneaugurale di Valentia, anche più a lungo si affermò il nome di Vibo, trasformazione latina dell’antico nome greco) si sviluppò ulteriormente, favorita dalla posizione sulla via consolare Annia-Popilia e dalla vicinanza con il porto (l’attuale Vibo Marina), base navale fondamentale nelle guerre civili che portarono all’impero di Augusto, grazie alla vittoriosa attività di Agrippa collaboratore e poi genero di Ottaviano. Agrippa fu onorato a Vibo con un bellissimo ritratto marmoreo, rinvenuto nel 1972, uno dei pezzi più prestigiosi del locale Museo Archeologico, che dell’età romana ospita anche altre statue in marmo, un mosaico pavimentale con scene di pesca recuperato da una villa romana nei dintorni, mentre altri mosaici pavimentali figurati sono conservati negli edifici di età imperiale messi in luce nel quartiere urbano di S. Aloe, dove è in corso la creazione di un parco archeologico urbano. Il sito dell’antica Hipponion si trova a quattro chilometri dalla costa tirrenica, sull’ altopiano della penisola di Tropea, particolarmente favorevole allo sviluppo perché situata nelle vicinanze del mare e della costa e protetta da imponenti mura. Le mura che circondavano la colonia greca di Hipponion erano lunghe circa 7 km ed alte 10 m e sono state rinvenute da Paolo Orsi nel 1916 nella zona di Trappeto Vecchio. I resti si estendono per un tratto di 350 m; nel 1969 Ermanno Arslan trovò altri tratti di mura. Erano state costruite con blocchi regolari di pietra arenaria e calcarenite ed erano rafforzate ogni 40 metri da torri circolari. Sono state studiate quattro fasi costruttive di cui la più antica appartiene alla costruzione fatta con mattoni crudi (impasto di fango e paglia). Nella zona del Parco delle Rimembranza Paolo Orsi ritrovò i resti di un tempio dorico del 500 a.C. dedicato con molta probabilità alla dea Proserpina molto venerata degli Ipponiati, ma del tempio è rimasto molto poco poiché i marmi e le colonne vennero utilizzati per costruire la cattedrale normanna di Mileto. Oltre al tempio dorico vennero indagati altri due templi: uno ionico situato in zona Cofino, l’altro dorico posto nei pressi della Cava Cardopati. Sono stati rinvenuti inoltre i resti dell’abitato romano di Vibonia del II secolo in via XXV Aprile, mentre nella Località Stanislao Aloe sono stati trovati i reperti di un impianto termale arricchito di mosaici policromi dai quali si può individuare un ritratto di Vespasiano. Nella medesima area sono emerse due domus con pavimenti a mosaico e nell’ area dell’aeroporto militare sono stati rinvenuti i resti di una villa romana con volte a crociera che si sono ben conservate nel tempo. Nella frazione di Vena Superiore è stato scoperto un ambiente ipogeo di grandi dimensioni che riguarda una grotta di circa 1.000 metri quadri che dopo vari studi è da considerarsi una chiesa-grotta costituita da un’unica navata. Il Museo Archeologico Nazionale di Vibo Valentia è intitolato alla memoria di Vito Capialbi, importante studioso ottocentesco e collezionista delle antichità locali, di cui esposta nel museo la ricchissima raccolta numismatica, recentemente acquistata dallo Stato. Il Museo, base operativa e di ricerca per gli scavi condotti in città dalla Soprintendenza fin dalla fine degli anni ’60, ha sede prestigiosa dal 1995 nel monumentale Castello, che conserva imponenti torri e cortine del Duecento e del Trecento e fu poi sede dei principi Pignatelli; è stato restaurato e rifunzionalizzato con impegnative opere dalla Soprintendenza ai Monumenti di Cosenza. Ampi scavi nelle necropoli greche hanno messo in luce corredi funerari dal VI sec. a.C., con molti vasi importati da Corinto, al III sec. a.C., ma il reperto più significativo, che ha dato eccezionale rinomanza internazionale ad Hipponion e al suo Museo è una sottile laminetta in oro, lunga pochi centimetri, rinvenuta ripiegata più volte e deposta sul petto di una defunta nella prima metà del IV sec. a.C.. L’eccezionalità del reperto, di cui esistono solo una decina di esemplari analoghi in tutto il mondo greco, è data dalla lunga iscrizione incisa in minutissime lettere greche, su sedici fitte righe; il testo contiene la formula magico-religiosa, e per questo tracciata su un materiale prezioso e incorruttibile come l’oro, che l’anima della defunta doveva imparare a pronunciare nel suo percorso attraverso il mondo oscuro degli Inferi per superare varie prove e raggiungere un eterna, luminosa serenità nei Campi Elisi riservati ai fedeli iniziati ai rituali attribuiti al mitico cantore Orfeo. Questo tipo di religiosità detta appunto Orfica si diffuse in tutto il mondo greco, e soprattutto in Magna Grecia, a partire dal V sec. a.C., e la lamina aurea di Hipponion ce ne conserva una delle versioni più complete e più antiche. Altri aspetti del culto delle tradizionali divinità elleniche, come Demetra protettrice della fecondità della natura e della coltivazione del grano, è la figlia Persefone, che rapita da Hades signore dell’Oltretomba ne divenne sposa e regina degli Inferi, sono attestati a Hipponion dai rinvenimenti nei santuari del VI e V sec. a.C. ricchissimi depositi di offerte votive. Un caso di particolare interesse è quello del deposito votivo in località Scrimbia, il cui scavo ha fornito materiali di notevole bellezza, e molti elementi del tutto peculiari per la ricostruzione del culto. Si trattò di uno dei santuari più importanti e più frequentati dai fedeli nell’Hipponion del VI e V sec. a.C., come indica l’abbondanza delle offerte, comprese moltissime di tenue valore economico (come vasetti miniaturistici) ma non meno significative come documento del legame dei fedeli con le varie divinità che qui erano oggetto di culto. Le statuette in terracotta, numerosissime, recano immagini di divinità femminili o figure di fanciulle offerenti; i tipi sono per lo più affini a quelli rinvenuti a Locri nel santuario di Persefone: una tavoletta a rilievo reca l’immagine di una dea in trono che regge una lunga spiga stilizzata, che sembra identificabile con Demetra, mentre un’altra rappresenta sicuramente Artemide, con i tipici attributi dell’arco e del cerbiatto. La peculiarità di maggior risalto del santuario di Scrimbia è data dall’eccezionale frequenza di offerte di manufatti in bronzo, materiale di alto pregio che denota offerenti di alte capacità economiche, presumibilmente di rango sociale elevato. Alcuni dei vasi in bronzo furono importati da aree lontane, come i grandi bacili ad orlo perlato, di probabile produzione etrusca, e una brocca decorata prodotta in Laconia. Le offerte di specchi in bronzo e qualche esemplare di orecchini in argento ci riportano ad ambiti di culti femminili, che già sono sembrati dominanti nel santuario. In rapporto a ciò, appaiono quindi quasi sorprendenti le numerose offerte di armi difensive in bronzo, dedicate ad Hades, spesso impreziosite da raffinate decorazioni, evidentemente dedicate da uomini che intendono affermare nel loro rapporto con il divino un rango sociale eminente nella propria comunità. Si tratta di grandi scudi, dai bordi decorati a sbalzo con motivi a treccia multipla, schinieri, elmi di vari tipi, da quello corinzio a quelli detti calcidesi, a quelli con paraguance a testa di ariete, uno dei quali rivestito da lamine in oro e in argento. Altri elmi hanno finissime figure incise, come tritoni, lotte tra animali (un cervo sbranato da due pantere), parti di cavalli rampanti, altri animali. Si tratta evidentemente di armi da parata, che attribuivano a chi le possedeva, e qui le esibiva come offerta nel santuario, un ruolo aristocratico o quasi eroico allusivo ai mitici “guerrieri vestiti di bronzo” protagonisti dei poemi omerici. A Scrimbia la coppia Persefone e Hades forse svolgeva funzioni parallele di tutela per la componente femminile e per quella maschile della società ipponiate, soprattutto a livello dell’aristocrazia dominante tra VI e V sec. A. C.. Per concludere, le immagini di una delle offerte ceramiche più significative a Scrimbia, una “hydria” (un vaso per raccogliere e trasportare acqua, di uso specificatamente femminile) qui decorata con una scena mitica che esalta le virtù militari degli eroi antichi, la partenza di Anfiarao per la guerra dei “Sette contro Tebe”, tema adatto a un’aristocrazia sensibile ai valori eroici dell’arte della guerra. E un vaso prodotto nelle officine ceramiche calcidesi, della seconda metà del VI sec. a.C..

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Area archeologica di Bova

Il Parco Archeologico ArcheoDeri della vallata del San Pasquale, inaugurato nel giugno 2010, sorge a Bova Marina, intorno all’area sinagogale rinvenuta negli anni Ottanta, presso la contrada da cui trae il nome “Deri”, richiamando la tradizione dell’Antica Delia o Scýle, secondo gli antichi Romani. Ci troviamo in un sito archeologico tra i più importanti del Mediterraneo, infatti, la sinagoga, risalente al IV secolo d. C., è la più antica in Occidente, dopo quella di Ostia Antica, ed il suo ritrovamento ha aperto nuovi scenari storici sulla presenza degli ebrei nella Calabria meridionale. Era venuta alla luce, come accaduto in tanti altri casi, durante i lavori di realizzazione di una strada, per la precisione un tratto della statale 106 e in un primo tempo si pensò ad una villa romana, ma successivamente ne è stata poi accertata l’esatta natura grazie al rinvenimento di un mosaico raffigurante i più importanti simboli giudaici. Dopo il ritrovamento il sito fu visitato dall’allora rabbino capo di Roma Elio Toaff, il quale confermò la piena compatibilità dei ritrovamenti con una struttura sinagogale. Il mosaico è attualmente ospitato all’interno dell’Antiquarium che conserva, inoltre, importanti reperti provenienti dal territorio di Bova, risalenti al neolitico, all’età del bronzo, all’epoca greca romana e bizantina. Del Parco fa parte anche un Centro di Documentazione per il Patrimonio Culturale e l’Ebraismo nell’Area Grecanica, al cui interno si trovano una sala espositiva sulla storia del territorio, una sala dedicata all’ebraismo, una biblioteca con testi riguardanti la grecità calabrese e la storia degli ebrei in Calabria, un archivio multimediale ed una sala conferenze. Campagne di scavi archeologici hanno evidenziato come fin dall’età Neolitica fossero presenti culti legati alla dea Madre, mentre per l’età magno greca sono documentate ritualità in onore di Demetra e di Kore. Queste testimonianze del passato sono riscontrabili attraverso una piccola figura antropomorfa in ceramica, con forte enfatizzazione dei caratteri femminili, della seconda metà del VI millennio a.C., ritrovata in località Penitenzeria e di un balsamario, raffigurante una Kore (VI sec. a.C.), rinvenuto nelle fondamenta di un edificio, alle spalle di Bova, facente parte di una fortezza magno greca, distrutta durante un conflitto tra le polis di Reggio e Locri, nel corso del V sec. a.C. La restante parte dei reperti esposti, concerne invece i ritrovamenti in loco: un insediamento romano del I-II secolo d.C., nel quale pare fosse istallata la statio di Scyle. La radice onomastica di Skyle, simile a Scilla e Squillace, anch’essi posti in prossimità di promontori rocciosi, pare derivi dal latrare che le onde producono infrangendosi sugli scogli, motivando così la traduzione greca del termine “Scyle” in cagna.  L’area del parco archeologico, sita nel fondovalle ai margini della fiumara del San Pasquale, era già indicata nel Settecento come sede dell’antica Delia, una città fondata da greci provenienti dall’isola di Delo. I suoi abitanti, scampati a una incursione barbarica, generarono nel Medioevo i centri di Bova, Paracorio e Pedavoli, questi ultimi più tardi unitisi in un solo comune chiamato Delianuova, in ricordo delle origini. Le medesime fonti affermavano inoltre che queste terre erano in origine abitate “dalla gente Aramea”, giunte qui sotto la guida di Aschenez, pronipote di Noè. Ebrei dunque, poiché con il termine di aramei, erano indicati nel XVIII secolo i giudei ancora presenti nell’Italia Meridionale e nelle Isole. La presenza di una comunità ebraica nel sito di Bova Marina non integra solo il quadro degli insediamenti israeliti della costa ionica, documentati nel Tardo Antico anche a Reggio e nella vicina Lazzaro, ma accerta, grazie al rinvenimento di un timbro con un candelabro a sette bracci, impresso su un’ansa di fabbricazione locale (IV-V sec. d.C.), l’esistenza di una attiva produzione e commercializzazione di cibi kosher, cioè preparati secondo le norme alimentari ebraiche. Che queste realtà sociali fossero integrate nel territorio già da tempo, trova conferma nei Talmud (interpretazioni bibliche tardo antiche), in cui si sosteneva la tesi che la Magna Grecia era stata assegnata da Isacco a Esaù, a consolazione della primogenitura carpitagli da Giacobbe. A documentare la prosperità dell’abitato ebraico di Bova Marina è proprio il mosaico policromo che decorava il pavimento della sinagoga: trenta metri quadrati di tessere, poste in opera alla metà del IV sec. d.C.. Purtroppo le arature del terreno hanno compromesso la sua leggibilità, lasciandoci ampi dubbi circa il simbolismo figurato all’interno di riquadri, delimitati da una ghirlanda floreale e incorniciati da una treccia a più capi. Nei 16 pannelli, decorati con corone di alloro, è certa la presenza del motivo della rosetta, del nodo di Salomone e di una Menorah, (candelabro a sette bracci) affiancata a sinistra dallo shofar (corno d’ariete) e a destra da una palma (lulab) e un cedro (etrog). Questi simboli erano probabilmente disposti sul pavimento musivo nel rispetto di una specifica liturgia che prevedeva l’esistenza di un àron, cioè l’armadio, orientato ad Est, contenente i rotoli delle sacre scrittura (sifré Torà), di una bima, ovvero il pulpito da cui il cantore dirigeva la preghiera, e ancora di una suddivisione tra uomini e donne durante le funzioni religiose (matronei), ed infine di banchi, riservati ai dirigenti della comunità, e che sappiamo disposti ai lati della Torà, lungo la parete di fondo. In età Ostrogota (480-553 d.C.), la sinagoga fu munita di un’abside, di fronte al quale si ricavò nel pavimento uno spazio, mosaicato con il simbolo del Nodo di Salomone tra motivi romboidali, stilisticamente vicini alle novità artistiche importate in Occidente dal Mediterraneo orientale sul finire del V sec. d.C.. La campagna di restauri che interessò la sinagoga in questo periodo, comportò inoltre la creazione di nuovi ambienti di servizio, magazzini e la costruzione di uno ospitalia, destinato ai pellegrini e ai rabbini di passaggio. L’insediamento subì una distruzione violenta alla fine del VI sec. d.C., simultaneamente a quanto documento nel 590 d.C. anche a Taureana e a Locri, forse per mano dei Longobardi, giunti sullo Stretto di Messina al seguito di Autari. Oggi è il Museo Archeoderi che ne detiene l’eredità. In esso sono custoditi le vestigia di grandi civiltà, i fasti della loro gloria e soprattutto la memoria di tutte quelle genti, autoctone e non, che si sono insediate sul nostro territorio e delle quali abbiamo ancora oggi testimonianze nella nostra cultura tra usi, costumi, tradizioni e lingua. Risalendo il corso della fiumara del San Pasquale, la strada taglia in due un sito di età romana, già noto agli studiosi. Effettivamente in località Panaghia esisteva una struttura semicircolare da sempre ritenuta una chiesa di origine bizantina, dal momento che la toponomastica rendeva chiara la presenza di un luogo di culto intitolato alla Madonna tutta Santa. Di recente campagne di scavo effettuate sul versante nord dell’asse stradale hanno permesso di stabilire che si tratta di un complesso residenziale particolarmente vasto, databile dal III al IV sec. d. C.. Lungo il fianco della strada sono infatti emersi magazzini con dolia e diversi ambienti, alcuni dei quali absidati e probabilmente in origine mosaicati, visto l’abbondante rinvenimento di tessere musive. Interessante scoperte sono state effettuate anche nel sito della chiesa della Panaghia, i cui muri perimetrali risultano essere pertinenti una nicchia di una grande aula absidata tardo antica. Tra i reperti spiccano, oltre alle anfore da vino, soprattutto, frammenti di vetri con decorazioni a gocce e di ceramica di Navigius dalla tipica decorazione plastica a stampo. Questa tipologia di ceramica, assieme a quella di altre officine associate, veniva prodotta nella Tunisia centrale, probabilmente nella regione di Henchir e Srira, tra il 290 e il 320 d. C. La lavorazione a matrice di questa singolare ceramica si caratterizza per via di produzioni con raffigurazioni di tipi umani, di cacce, di spettacoli, di scene mitologiche; si tratta di manufatti prodotti per un mercato regionale; solo eccezionalmente si trovano tracce in Italia ed in Cirenaica. Il loro repertorio decorativo è prevalentemente antropomorfo e prevede per lo più figure caricaturali della fisionomia nord africana; le teste femminili, giovani o anziane hanno espressioni grottesche; analogamente le teste virili, con i medesimi caratteri, barbate e non, sono arricchite anche da espressioni lascive e satiresche, con folta capigliatura riccioluta, bocca e naso a volte esageratamente grandi. Le fisionomie satiresche presentano, invece, una corta barbetta, sopracciglia folte, capelli lisci, cadenti, spesso fermati da un nastro, la bocca atteggiata in un sorriso beffardo con i denti parzialmente in vista. Le forme dei vasi somigliano invece alla Lagoena, alla fiaschetta cilindrica, alla brocchetta. A circa 4 km nell’entroterra, in prossimità dell’antico confine tra i comuni di Bova Marina e Bova si trova il sito archeologico di Umbro. Alla base del dirupo roccioso sono stati rinvenuti molti reperti da cui è possibile stabilire che l’area fu intensamente occupata durante il Neolitico, precisamente dalla metà del VI millennio d.C. alla metà del V millennio d.C. (Stentinello). E’ inoltre attestata l’occupazione durante la facies di Diana e, probabilmente in maniera sporadica, durante l’età del Rame. Diversamente la sommità dell’altura risulta abitata nell’età del Bronzo. Nel complesso, l’insediamento di Umbro sembra presentare almeno tre periodi di occupazione. Durante il Neolitico Antico e Medio (VI-V millennio a.C., Strati IV-V della Trincea 1), un’occupazione risalente alla facies di Stentinello potrebbero aver avuto luogo ai piedi del dirupo. Altre aree circostanti possono essere state occupate in questa fase, tuttavia eventuali tracce sono state distrutte dall’erosione che ha interessato la zona. La stessa area occupata durante la facies di Stentinello potrebbe essere stata riutilizzata durante il Neolitico Tardo/Finale in corrispondenza della facies di Diana. I manufatti Neolitici raccolti comprendono ceramica tipica degli stili di Stentinello e Diana, alcuni esempi di ceramica Neolitica di altro tipo, quali ceramica a pittura rossa, ed alcuni probabili frammenti di epoca Eneolitica. Molti i ritrovamenti di ossidiana, una preziosa ascia in anfibolite, una piccola riproduzione di ascia in fillite, alcune macine e alcuni frammenti di concotto e di ocra rossa. I resti faunistici accertano la preponderanza degli ovini e dei caprini, con presenza di maiale; scarsi i resti dei bovini mentre del tutto assente è l’ittiofauna. Non mancano i resti di ossa di cane. Campioni di flottazione provenienti da ogni strato confermano la coltura della veccia, del Triticum e dell’orzo.

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Aree archeologiche di Tauriana e di Medma

Tauriana e Medma erano due città dell’antichità posizionate sulla “Costa Viola”, la parte meridionale della costa tirrenica della Calabria, rispettivamente nei comuni attuali di Palmi e Rosarno. Tauriana  è un’antica città brettia, il cui nome deriva da quello del populus italico che la fondò, i tauriani. La città, che sorgeva sulla riva sud del fiume Metauros (probabilmente il Petrace), segnava il confine del territorio di Rhegion (Reggio Calabria) sul versante tirrenico nord-occidentale, oltre cui iniziava quello di Locri Epizefiri. Successivamente romana e poi bizantina, Tauriana venne distrutta dai saraceni nella metà del X secolo. Gran parte dei rinvenimenti archeologici costituiscono il Parco Archeologico dei Tauriani. Sulla fondazione della città, alcune leggende narrano di una possibile colonizzazione achea dell’area in cui sorse Tauriana. Altre ipotesi ricollegano la nascita della città alla seconda metà del IV secolo a.C., quando dei gruppi brettii, che si erano resi autonomi dai lucani, raggiunsero la Calabria meridionale conquistando diverse città. La città è segnalata in atti ufficiali di età successiva, quando Tito Livio asserisce che nel 212 a.C., in occasione della guerra annibalica, nel Bruttium vi fu il passaggio dei Taureani, unitamente ai Cosentini, «sotto la protezione di Roma». Il passaggio è il seguente: ”Allo stesso tempo di dodici stati in Bruzio, che l’anno precedente per i Cartaginesi si era ribellata, Consentia e Tauriana sono state restituite alla protezione del popolo romano“.Con la romanizzazione della zona, successiva alla guerra sociale, la presenza brettia sul territorio sparì ed i tauriani, grazie ad un buon rapporto con i romani, conquistarono un’autonomia politica e amministrativa che permise loro di avere un proprio territorio, abbandonando la condizione di subordine nei confronti della città di Reghion. Di una «città dei Tauriani» scrivono anche Pomponio MelaPlinio il Vecchio nel I secolo d.C.. Quest’ultimo la definisce come “Tauroentum oppidum” nel seguente passaggio: “Dopo Vibo Valentia, che ora chiamano il Porto di Ercole, il fiume Metauro; la città di Tauriana, il Porto di Oreste e Medma”. Con il passaggio del territorio sotto il controllo dell’Impero romano d’Oriente, all’interno del Thema di Calabria, Tauriana ricadeva nell’area della “Turma delle Saline“. Nei secoli ebbe varie incursioni e scorrerie da parte soprattutto dei saraceni che costrinse la popolazione ad abbandonare la città e trasferirsi in zone più interne fino al completo abbandono. Nel 1086, Ruggiero I conte di Calabria, che aveva istituito nel 1081 il vescovado di Mileto, aggiunse a quest’ultima i territorio della distrutta ed abbandonata diocesi di Tauriana, essendo rimasta vuota la sede. Il porto della città visse fino al secolo XVIII. Difatti si presume che, sempre nell’XI secolo, vi approdò Ruggiero I per sbarcare in Calabria dalla Normandia. Il primo strumento storico sulle ricerche dell’antica Tauriana è il libro “Metauria e Tauriana”, scritto dallo studioso Antonio De Salvo sul finire del XIX secolo, nel quale l’autore indica una pianta dei ruderi ancora visibili. Sono appunto della fine del XIX secolo i primi rinvenimenti fortuiti. Essi si concentrano prevalentemente sul litorale di Scinà e sul pianoro dell’odierna Taureana di Palmi e riguardano l’area in età greco-italica, imperiale e bizantino-medievale. Negli anni novanta dello scorso secolo, alcune ricerche hanno portato all’individuazione di resti di assi stradali, strutture abitative, piani pavimentali, canalette di scolo, dolia per derrate alimentari, tutti riconducibili ad un’età compresa tra la seconda metà del IV secolo a.C. ed il I secolo a. C.. Il parco, con i suoi attuali tre ettari di estensione, occupa la parte centrale di un pianoro dominante la costa Viola. È stato realizzato con fondi APQ Beni culturali Calabria e con un finanziamento dell’Amministrazione provinciale di Reggio Calabria ed inaugurato il 17 settembre 2011. In particolare le strutture rinvenute, ed evidenziate all’interno del parco, sono:

  • Una grande strada urbana passante per l’antica Tauriana, dove si conserva la pavimentazione in basoli di dura pietra Da essa si accedeva alle gradinate dell’edificio per spettacoli. La sua prosecuzione, fuori città, conduceva alla via Popilia, importante asse viario di collegamento tra Reggio Calabria e CapuaRoma.
  • Un edificio per spettacoli. Si tratta di un’architettura singolare nel panorama italiano, che presenta la forma di un teatro ma nasce come anfiteatro per manifestazioni ludiche, come i combattimenti tra gladiatori. Occasionalmente la struttura poteva destinata a rappresentazioni teatrali. La sua capienza sarà stata di circa 3.000 spettatori.
  • Nella parte sud del pianoro è visibile un settore del quartiere abitativo brettio-romano nel quale, ai lati della strada, è possibile leggere la sovrapposizione delle strutture romane su quelle brettie.
  • Della Tauriana “brettia” (I secolo a.C.) è possibile ammirare la «casa del mosaico», così chiamata per il rinvenimento di un mosaico figurato che, insieme a un letto di bronzo decorato in argento e pietre preziose, abbelliva un ambiente identificato come sala da banchetto. Il letto è attualmente esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Al centro della sala, era collocato il mosaico realizzato con minute tessere policrome. Vi è rappresentata una scena di caccia con due cavalieri ed un portatore di lance che si dispongono ai lati di un orso, ferito. Completano la scena, dominata da un grande albero, un cane, un felino e un cinghiale.
  • Dell’area sacra, dedicata a una divinità ancora sconosciuta, sono oggi visibili i resti di un alto podio (m. 10×20 ca) e di un triportico. Originariamente il complesso presentava decorazioni e rivestimenti in pietra locale, marmo e stucchi, la cui tipologia è un “unicum” nel contesto architettonico e religioso della Calabria La scelta di erigerlo nel punto più visibile del pianoro dalle pareti a strapiombo sulla costa, non fu casuale: il tempio, chiamato “Palazzo di Donna Canfora”, a ridosso del ciglio nord, quasi isolato o comunque emergente dal resto del contesto abitativo, sarebbe stato immediatamente visibile a chiunque navigasse da settentrione.
  • Al di sotto della fase brettia e romana, non ancora visibili, vi sono i resti di capanne di un villaggio dell’età del bronzo, attivo per circa mille anni, a partire da 4.000 anni fa. Le capanne sono realizzate con alti muri in pietra e tetto in materiale deperibile.
  • Alcuni storici ipotizzano che il Porto di Oreste, fondato secondo la leggenda proprio da Oreste,  figlio del re Agamennonee di Clitennestra e fratello di IfigeniaElettra e Crisotemi, possa corrispondere al porto dell’antica città di Tauriana. La struttura si doveva trovare probabilmente più a nord di Rovaglioso, nella zona “La Scala”, tra Pietrenere e Scinà. Questo approdo naturale, in età romana, fu forse trasformato con adeguate opere murarie, in un bacino portuale attrezzato con moli.

Il parco archeologico dell’antica Medma racchiude quel che resta della città magno greca venuta alla luce dopo numerosi scavi tra il XIX e il XX secolo. Gli scavi servirono anche a dimostrare in maniera conclusiva la reale posizione di Medma o Mesma che fino ad allora era oggetto di discussione tra l’ipotesi rosarnese e quella nicoterese. Vasto fu il materiale riportato alla luce, che è oggi conservato nel museo alle spalle del parco. Colonia fondata da Locri nel VI secolo a.C. ne distava meno di un giorno di cammino e sembra che tragga il suo nome da una fonte sita nelle vicinanze; un’altra ipotesi è che il toponimo provenga dalla lingua delle popolazioni autoctone e che abbia il significato di “città di confine”. È possibile che entrambe le ipotesi siano fondate, poiché la fonte in questione dà origine all’attuale fiume Mésima, che deriverebbe appunto il suo nome antico dal termine indigeno per “confine”. Comunque, sebbene spesso riportata tra le città greche di questa parte d’Italia non sembra aver raggiunto una particolare importanza o potere ma in ogni caso sono presenti delle monete coniate nel IV secolo a.C. con l’incisione “Mesma”. Alla fine del VI secolo a.C. ebbe luogo una battaglia in cui Medma e Locri, supportarono Hipponion in una guerra contro Crotone. La notizia è riportata dall’epigrafe incisa su uno scudo di Olimpia. In seguito, nel 422 a.C. Hipponion e Medma combatterono contro la fondatrice riuscendo a sconfiggerla. La cittadina, che dalle sue dimensioni poteva ospitare una popolazione superiore ai quattromila abitanti, si trovava su quello che è attualmente il terrazzo di Pian delle Vigne (sito nel comune di Rosarno). Nel perimetro compreso tra il Bellavista del Rione Ospizio, l’attuale cimitero, la contrada Pomaro e la zona “Ospedale” sorgevano le case, i laboratori artigianali, i negozi e i templi. È probabile che la popolazione medmea si sia trasferita a Nicotera, il cui nome è presente nell’Itinerario antonino, e che fu probabilmente fondata dai medmei dopo il declino di Medma. Il parco archeologico dell’antica Medma è costituito da una grande distesa di ulivi ubicata alle spalle del Museo. L’area, espropriata intorno agli anni ottanta del secolo scorso dalla Soprintendenza per i Beni archeologici della Calabria, non senza polemiche e ostilità da parte di alcuni cittadini che hanno vanamente tentato attività speculative, corrisponde alle aree sacre di Calderazzo e S. Anna, note attraverso gli scavi dell’Orsi; ma non mancano settori che illustrano l’abitato medmeo e le zone artigianali con presenza di pozzi e fornaci. Strettamente connesso al parco archeologico è il Museo di Medma che espone una gran parte degli oggetti rinvenuti nei lunghi anni di ricerche che la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria ha effettuato a Rosarno già a partire da Paolo Orsi e fino ai nostri giorni. L’esposizione inizia con la ricostruzione della necropoli: tombe alla cappuccina, a cassa di embrici, a vasca, ricche di oggetti. Splendidi esemplari della coroplastica medmea, tra cui statuette di varie dimensioni e fogge, busti, grandi maschere, criofori (portatori di ariete), e ancora vasi ed armi in ferro rinvenuti nell’area sacra di Calderazzo, sono presentati ai lati di una virtuale via sacra che si arresta davanti ad un altare in terracotta (arula) di grandi dimensioni, con in rilievo i personaggi della tragedia di Sofocle che rappresenta la vicenda di Tyrò, giovane donna, figlia del re Salmoneo ritratta con i figli Pelia e Neleo che per vendicare la madre hanno appena ucciso la matrigna Sidero che giace esamine ai piedi di un altare, mentre il vecchio re Salmoneo fugge disperato davanti a tanto orrore. L’esposizione si conclude con i materiali provenienti dall’abitato tra i quali si segnala un modello di fontana rituale in terracotta. Sono presentati anche oggetti provenienti dalla collezione privata Giovanni Gangemi, donata allo Stato, che è costituita da pregevoli vasi sia a figure nere che a figure rosse tra cui un’anfora con scene della lotta per la conquista delle armi di Achille.

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Area archeologica di Casignana

Casignana ospita, all’interno del proprio territorio, una pluralità di siti di interesse culturale e paesaggistico. Tra questi spicca il Parco Archeologico della Villa romana di contrada Palazzi lungo la Strada Statale Jonica 106. Venne scoperta nel 1963 grazie ai lavori di costruzione di un acquedotto che riportarono in luce i resti di una domus romana privata con terme annesse che probabilmente sorgeva in prossimità dell’antica strada di collegamento tra Locri Epizefiri e Rhegion. Purtroppo parte delle strutture e de pavimenti a mosaico, in quella occasione, andarono distrutti. La villa sorse in un’area già frequentata in periodo greco, si sviluppò tra il I e il IV secolo d.C. e venne abbandonata nel corso del V sec. d.C. e gli archeologi hanno individuato quattro fasi costruttive. Quella attualmente visibile, l’ultima, risale al IV secolo. L’impianto originario della casa risale al I secolo ma gli scavi portati avanti fino ad oggi hanno indagato 1.300 metri quadri della grande villa. Il sito costituisce uno dei complessi più importanti di epoca romana dell’Italia Meridionale e conserva il più vasto nucleo di mosaici finora ritrovato in Calabria. Sala delle Nereidi, Sala di Bacco, Sala con il volto di donna, Sala delle Quattro Stagioni; fra le opere in situ, un mosaico ancora da restaurare che ha una lunghezza di oltre 25 metri del quale fa parte un “tondo” raffigurante Bacco, Marsia e una biga tirata da due tigri. Nelle terme esistono due nuclei contigui, ciascuno dei quali consente il passaggio da ambienti freddi ad ambienti caldi, secondo la successione canonica frigidarium – tepidarium – caldarium. Alcuni ambienti hanno piante complesse, come il frigidarium ottagono pavimentato a mosaico con motivo geometrico a cubi prospettici. Anche altri vani sono notevoli per qualità e varietà dei mosaici: policromi, geometrici o figurati, come il noto mosaico raffigurante un thiasos marino con quattro Nereidi in groppa a mostri con fattezze di leone, tigre, cavallo e toro. La sala della domus ha una complessa disposizione architettonica con una pianta ottagonale con quattro lati absidati e un pavimento mosaicato da piccole tessere. Il nucleo residenziale è composto da una sequenza di vani, delimitata verso il mare da un ampio e lungo corridoio terminante alle estremità con due avancorpi semicircolari. Si trattava forse di due torrioni che conferivano un aspetto fortificato all’insieme. Si può riconoscere il calidarium che doveva essere ricoperto da una volta. La presenza del calidarium è testimoniata dall’ipocausto e dei tubuli fittili nelle pareti. I reperti rinvenuti suggeriscono una decorazione sfarzosa degli interni, per la presenza di marmi pregiati, intonaci dipinti e mosaici in pasta vitrea multicolore. Arredi e statue facevano da complemento all’architettura. Del complesso della villa fanno anche parte un salone a pianta rettangolare e due ambienti riscaldati tutti decorati con l’opus sectile, una tecnica per pavimentare con lastre in marmo colorato. Nella domus è anche presente un ninfeo monumentale con vasca absidata e cisterne. Faceva sicuramente parte di un gruppo di Villae o di un centro abitato, infatti nelle vicinanze sono stati ritrovati una necropoli con sepolcri a lastroni di terracotta dove veniva praticata l’incenerazione e la sepoltura e testimonianze di costruzioni coeve. Il restauro di questo mosaico, insieme a quello di altri 5 ambienti fra cui quello più grande della villa di oltre 80 mq, è oggetto di un finanziamento già concesso dalla Regione Calabra di 2,5 milioni di euro, attraverso un progetto europeo. L’intervento più imponente, indispensabile per la conservazione e la fruizione della villa, è stata la copertura definitiva dell’intero nucleo di ambienti a monte della S.S. 106. Grazie alla copertura è stato possibile realizzare una serie di percorsi sopraelevati che si snodano all’interno degli ambienti termali, consentendo l’apprezzamento dei mosaici e dei pavimenti a intarsi marmorei. Per consentire una miglior salvaguardia di questi rivestimenti pregiati è stata installata una stazione per il monitoraggio delle condizione microclimatiche e sono stati effettuati tutti gli interventi di restauro necessari alla conservazione delle parti dell’edificio rimaste fuori della copertura. E’ stato inoltre completato lo scavo archeologico del nucleo centrale del complesso, che ha portato alla luce, tra l’altro, nuove stanze con pavimenti a mosaico, ancora non visibili perché in attesa di restauro, e una grande vasca ad ornamento del giardino. Si sono poi estese le indagini geo-archeologiche nelle aree acquisite al patrimonio pubblico, che hanno dato interessanti risultati, confermando l’estensione dell’area archeologica ben oltre il nucleo centrale già conosciuto.

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Area archeologica di Castiglione di Paludi

L’area archeologica di Castiglione di Paludi riguarda un insediamento riferito quasi sicuramente ad una città brettia del IV secolo a.C. ed una necropoli dell’età del ferro. Questo sito costituisce una delle più importanti e meglio conservate testimonianze di architettura militare della Magna Grecia. Il sito è situato nel comune di Paludi, in provincia di Cosenza, su un colle delimitato dai torrenti Coseria e Scarmaci a circa 8 km dal mar Ionio. La città, posizionata in quest’area archeologica, in seguito alla presenza di bolli con tegole in osco, potrebbe essere potrebbe essere identificata come l’antica città brettia di Cossa, la quale venne anche citata in un frammento di Ecateo di Mileto e nel De bello civili di Cesare che la pone nel territorio di Thurii. Il nome dell’attuale torrente Coseria, nei pressi di Castiglione di Paludi, sembra costituire un ulteriore indizio per l’identificazione proprio dell’antica città di Cossa. In alternativa in base al ritrovamento nel sito anche di iscrizioni in greco, il centro è stato ipotizzato di fondazione ellenica e passato in seguito sotto il controllo brettio, e ipoteticamente identificato con una città fortificata voluta da Alessandro il Molosso nel territorio di Thurii, sul fiume Acalandros, di cui ci informa Strabone. Il centro sarebbe stato costruito come sede della lega italiota per sostituire la tarantina Eraclea. Il sito archeologico di Castiglione di Paludi occupa un’altura articolata in due aree, in buona parte pianeggianti, per un totale di circa 40 ettari, collegate da una sella centrale. Il Pianoro Nord (quota massima 296 metri s.l.m) si affaccia sulla costa, il Pianoro Sud (334 m s.l.m.) si protende in direzione del paese di Paludi e dell’entroterra montuoso. L’altura, per effetto dell’erosione dei corsi d’acqua, ha assunto nel tempo una posizione isolata rispetto alle vicine colline, quindi naturalmente difesa su molti versanti da alti dirupi. Se l’area archeologica di Castiglione di Paludi conserva poche testimonianze dell’antica città di Cossa, della città brettia rimangono invece notevoli resti, primi tra tutti quelli delle mura, costruite in blocchi squadrati di arenaria disposti a secco, alcune scalette interne conducevano sugli spalti. Sul lato orientale era la porta fortificata, a corte rettangolare, difesa da due torri a pianta circolare alte due piani. All’interno, una strada collegava la porta principale al cosiddetto teatro, edificio a pianta semicircolare addossato a un pendio naturale, nel quale erano presenti sedili scavati nella roccia o fatti di pietra arenaria, che poteva accogliere 200 persone circa. Più verosimilmente si tratta di un luogo per le riunioni dell’assemblea pubblica databile intorno al IV secolo a.C. Sempre all’interno della cinta muraria, oltre a una cisterna sono stati rinvenuti i resti di alcune abitazioni, distinguibili in due fasi per la tecnica costruttiva. Il ritrovamento all’esterno della porta di un deposito di terrecotte votive di tipo femminile, testimonia l’esistenza di un piccolo luogo di culto, forense, attivo già con la città di Cossa. Tra i materiali rinvenuti tra gli scavi dell’area archeologica di Castiglione di Paludi, si segnalano per importanza un volto maschile in arenaria locale e alcuni modellini fittili di templi, e delle tegole “vereia” che attestano l’attività di una istituzione pubblica deputata alla produzione in scala di laterizi. Sul pianoro antistante l’abitato, erano già state scavate 50 sepolture del IX a.C. corredate da armi, lance in ferro e bronzo, fibule, lamine decorate ed altri oggetti. L’antico sito di Castiglione rappresentò probabilmente una tappa per la transumanza del bestiame, per l’approvvigionamento di legname e forse anche della famosa pece brettia, raccolta proprio nei vicini boschi della Sila. Per certo, l’abitato di Castiglione fu abbandonato intorno alla fine del III sec. a.C., dopo l’epilogo della Seconda Guerra Punica e la conseguente conquista romana della regione. Nonostante già nel XVIII secolo documenti d’archivio segnalassero la presenza di un antico insediamento sul pianoro di Castiglione di Paludi, solo nel 1949 ci furono regolari indagini sistematiche, seguite dall’Ispettore Giuseppe Procopio. Sul Pianoro Sud fu intercettata una grotta “lunghissima, nessuno ne ha veduto ancora il fondo. Si chiama la Grotta di Castiglione. Vi han trovato un corpo umano di bronzo ed un braccio. In quei pressi son 2 ruscelli, S. Martino e S. Elia. Sopra la grotta son le rovine di Castiglione”, già nota dalla segnalazione di Vincenzo Padula (1870-1880).  Nel 2016 è stato finalmente inaugurato il Parco Archeologico di Castiglione di Paludi, i cui lavori di completamento sono stati eseguiti grazie a finanziamenti regionali.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Le 10 città fantasma più famose della Calabria

 

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Città fantasma è un termine derivato dalla locuzione in lingua inglese “Ghost Town” che definisce una città abbandonata. Le cause possono essere sociali, come il fallimento dell’economia locale e/o l’esodo della popolazione verso zone economicamente più favorevoli, o conseguenti a guerre o calamità naturali. Le città fantasma possono essere turistiche, con notevoli entrate economiche grazie al turismo, come Oatman, in Arizona, o numerosi siti in Egitto, ma che non possono sopravvivere senza il turismo stesso; oppure una vera città fantasma totalmente abbandonata, come Bodie, in California, e Craco, in Basilicata, spesso meta di turisti o, nel caso di Craco, set cinematografici; una città fantasma può essere inoltre un sito archeologico dove rimane poco o niente sopra la superficie, come Babilonia. Alcune città fantasma rinascono sotto forma di città viventi, come Alessandria d’Egitto. Spesso una città fantasma ha un importante valore artistico e architettonico, come Vijayanagara in India o Changan in Cina. Le città fantasma sono posti allo stesso tempo un po’ tristi e macabri, dato l’abbandono, ma che ancora attirano, oltre che per le bellezze rudimentali, soprattutto per le storie affascinanti nascoste tra le macerie. Provate a camminare per le stradine di quella che un tempo era una comunità viva, con i suoi riti, e i suoi abitanti, proverete un senso di straniamento misto a nostalgia. Esistono città fantasma pressoché in tutti gli stati e le regioni importanti. In Italia sono molti i paesi fantasma. Molti si trovano nelle zone più sperdute lungo l’arco dell’Appennino. E ciascuno di questi paesi fantasma ha una propria storia. Le città fantasma costituiscono anche una parte consistente del tesoro contenuto in quello scrigno chiamato Calabria. Qui ne conosciamo alcune, le più famose e meglio documentate.

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PENTEDATTILO

Considerato  il paese fantasma più suggestivo e famoso della Calabria, il borgo di Pentedattilo fu abbandonato dai suoi abitanti per effetto di fenomeni migratori oltre che per le continue minacce naturali, terremoti e alluvioni. Pentedattilo (Pentadattilo in greco-calabro) è una frazione del Comune di Melito Porto Salvo, in Provincia di Reggio Calabria. Fino al 1811 fu comune autonomo. Posto a 250 metri s.l.m. Pentedattilo sorge arroccato sulla rupe del Monte Calvario, dalla caratteristica forma che ricorda quella di una ciclopica mano con cinque dita, e da cui deriva il nome: penta + daktylos = cinque dita. Sfortunatamente alcune parti della montagna sono crollate ed essa non presenta più tutte e cinque le “dita”, ma rimane comunque un posto affascinante e pieno di mistero, uno dei centri più caratteristici dell’Area Grecanica. Quello che era l’antico paese è risultato, fino a pochi anni or sono, quasi del tutto abbandonato: la popolazione era infatti migrata leggermente più a valle formando un nuovo piccolo centro dal quale si poteva ammirare il vecchio paese fantasma. Il suo fascino è raccontato direttamente dalle parole scritte dall’inglese Edward Learche, nel 1847, viaggiò per la provincia reggina. Scriveva nel suo ‘Diario di un viaggio a piedi’: “ La visione è così magica che compensa di ogni fatica sopportata per raggiungerla: selvagge e aride guglie di pietra lanciate nell’aria, nettamente delineate in forma di una gigantesca mano contro il cielo, mentre l’oscurità e il terrore gravano su tutto l’abisso circostante”. Ma oggi, le casette in pietra autocostruite e adornate dai fichi d’india bruciati dal sole sono diventati alloggi di ospitalità diffusa, il tutto grazie a una rete messa insieme per salvare questo splendido gioiello dell’area grecanica, dal definitivo abbandono. È così che grazie all’Associazione Pro Pentedattilo, all’Agenzia dei Borghi solidali con il sostegno di Fondazione con il Sud, alla Comunità europea e a centinaia di ragazzi che arrivano ogni anno attraverso i Campi della legalità Arci e Libera, il borgo è stato riportato in vita. Ogni estate Pentedattilo è tappa fissa del festival itinerante Paleariza, importante evento della cultura grecanica nel panorama internazionale. Inoltre ospita tra agosto e settembre il Pentedattilo Film Festival, festival internazionale di cortometraggi. Colonia calcidese nel 640 a.C., fu per tutto il periodo greco-romano un fiorente centro economico della zona; durante il dominio romano divenne inoltre un importante centro militare per la sua strategica posizione di controllo sulla fiumara Sant’Elia, via privilegiata per raggiungere l’Aspromonte. Con la dominazione bizantina iniziò un lungo periodo di declino, causato dai continui saccheggi che il paese subì prima da parte dei Saraceni ed in seguito anche da parte del Duca di Calabria. Nel XII secolo Pentedattilo fu conquistato da Normanni e fu trasformato in una baronia affidata alla famiglia Abenavoli Del Franco dal re Ruggero d’Altavilla. Nel 1589, a causa di debiti e questioni di illegittimità, il feudo fu confiscato e venduto all’asta dal Sacro Regio Consiglio per 15.180 ducati alla famiglia degli Alberti insieme al titolo di marchesi. E qui la storia si fa leggenda. La leggenda di Pentedattilo ruota tutta intorno al castello, oggi quasi completamente distrutto da terremoti, alluvioni ma anche, dalla mano dell’uomo (in tempi di carestia gli abitanti utilizzarono alcune parti per autocostruirsi le case) e alla strage degli Alberti. Protagonisti due nobili famiglie: gli Alberti appunto, marchesi del borgo e gli Abenavoli, baroni di Montebello Ionico, altro paesino vicino.
Si narra che la notte di Pasqua del 1686 le due famiglie furono protagoniste di una strage sanguinaria. Il barone Bernardino Abenavoli voleva prendere in moglie Antonietta Alberti. La donna però fu chiesta in sposa e concessa da Lorenzo Alberti a Don Petrillo Cortes, figlio del viceré di Napoli. Questa notizia indusse l’ira passionale del barone che la notte di Pasqua, grazie al tradimento di Giuseppe Scrufari, servo infedele degli Alberti, si introdusse all’interno del castello di Pentedattilo con un gruppo di uomini armati. Giunto nella camera da letto di Lorenzo, lo sorprese durante il sonno sparandogli due colpi di archibugio e finendolo con 14 pugnalate e costrinse Antonietta a sposarlo. Ma il vicerè Cortez, inviò una sua spedizione per vendicarsi e fece uccidere tutti gli uomini di Bernardino. Il barone però riuscì a fuggire portando con sé Antonietta, a Vienna. In seguito l’uomo entrò nell’esercito e la donna in convento di clausura. La strage porta con sé altre leggende come quella che, nelle notti di vento, tra le gole della mano del Diavolo si possono udire le urla di dolore di Lorenzo Alberti. Nel 2007 Robert Englund, famoso attore statunitense, noto al grande pubblico per aver interpretato il ruolo del mostruoso serial killer Freddy Krueger della saga horror Nightmare,  ha visitato (per le location del film The Vij) Pentedattilo dichiarando: “Personalmente ho tratto grandissima ispirazione da due paesini della provincia di Reggio Calabria: Pentedattilo e Bova. Quando li ho scoperti ho pensato che fossero set da milioni di dollari preparati per noi da Peter Jackson!”.

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ROGHUDI VECCHIO

Altra famosa città fantasma calabrese, Roghudi (Richùdi o Rigùdi in greco-calabro) è un comune di 1.137 abitanti della città metropolitana di Reggio Calabria. La caratteristica principale del comune di Roghudi è quella di essere suddiviso in due differenti porzioni non confinanti poste a grande distanza l’una dall’altra (circa 40 km). La prima di esse è posta nelle vicinanze di Melito di Porto Salvo, del cui territorio comunale costituisce un’enclave, contenente l’attuale sede comunale e l’abitato di Roghudi Nuovo; la seconda è posta all’interno, sulle pendici meridionali dell’Aspromonte, nella quale si trova l’abitato, ora abbandonato, di Roghudi Vecchio. La parte di Roghudi Vecchio, abitata sin dal 1050 e facente parte di un’area grecanica, ha le abitazioni posizionate sull’orlo di un precipizio e fu dichiarata totalmente inagibile a seguito delle due fortissime alluvioni avvenute nell’ottobre 1971 e nel gennaio 1973. La popolazione di Roghudi fu distribuita nei paesi limitrofi. Le leggende di Roghudi sono davvero tante e a tramandarle sono gli anziani che vi hanno trascorso la loro infanzia. Secondo una leggenda a Roghudi esistevano le Naràde, o Anaràde, che erano delle donne dalle sembianze metà umane con zoccoli di asina che vivevano nella contrada di Ghalipò, prospiciente Roghudi. Di giorno, rimanevano nascoste tra le rupi; di notte, cercavano di attirare con ogni stratagemma, come la trasformazione della voce, le donne del luogo con l’intento di ucciderle, al fine di sedurre gli uomini del paese. Per proteggersi dalle loro irruzioni vennero costruiti tre cancelli, collocati in tre differenti entrate del paese: uno a “Plachi”, uno a “Pizzipiruni” e uno ad “Agriddhea”. Non molto distante da Roghudi, sorge la frazione di Ghorio di Roghudi, anche questa completamente abbandonata. La caratteristica di questa frazione è rappresentata da un particolare masso da una forma particolare , nota come a Rocca tu Dracu, il cui significato risale al termine ellenistico Draku che vuol dire occhio. Secondo le leggende di Roghudi, infatti, si tratterebbe della testa di un drago che sul colle custodiva un tesoro inestimabile. Vicino la pietra della testa del drago è presente un’altra roccia particolare a forma di groppe. Secondo le credenze popolari si trattava delle sette caldaie o caddareddhi che permettevano al drago di nutrirsi. Il tesoro custodito dal drago, secondo le leggende, veniva assegnato soltanto a un combattente coraggioso, capace di superare una prova. Il cavaliere per poter ottenere il tesoro del drago doveva sacrificare tre esseri viventi maschio: un neonato, un capretto e un gatto nero. Nessuno ebbe mai il coraggio di sfidare il furioso drago fin quando un giorno venne alla luce un bambino con delle malformazioni, che venne affidato a due uomini affinché se ne sbarazzassero. Cosi i due uomini, pensando alla vecchia leggenda, decisero di prepararsi alla prova di coraggio per il sacrificio e ottenere il tesoro del drago. L’altare era pronto e il gatto e il capretto erano già stati sacrificati. Nel momento in cui stavano per uccidere il bambino, una violenta e improvvisa tormenta di vento scaraventò i due uomini contro le caldaie del drago, uccidendo uno dei due. In seguito nessuno osò sfidare il drago mentre l’uomo sopravvissuto visse in tormenta del diavolo fino alla fine dei suoi giorni. Stando a quanto dichiarato dallo studioso Tommaso Besozzi, intorno alla metà del Novecento nel borgo di Roghudi erano presenti dei grossi chiodi conficcati nei muri delle abitazioni, dove venivano fissate delle corde legate alle gambe o alle caviglie dei bambini. Si trattava di sistemi di sicurezza, per impedire ai bambini distratti di precipitare nel burrone che circonda il borgo fantasma.

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ACHERENTIA (Cerenzia Vecchia)

Acerenthia (più correttamente Akerentia o Acheronthia, chiamata ora Cerenzia vecchia) è un borgo abbandonato posto sul territorio di Cerenzia (KR). La città sorgeva, circondata da mura alte, sulla vallata del fiume Lese che un tempo era noto come Acheronte (da qui il nome del borgo). Il borgo venne abbandonato definitivamente nel 1844 a causa delle difficili condizioni igieniche che il paese stava vivendo. Per via delle epidemie la popolazione si ridusse con il passare del tempo, fino a raggiungere il numero di poche centinaia di persone tra il 500 e la prima metà del 600. Dopo il terremoto del 1738 che distrusse diverse zone della Calabria tra cui lo stesso borgo di Acerenthia, gli abitanti decisero di trasferirsi e costruire un nuovo borgo, su un colle posto sopra l’ormai vecchio comune. Venne realizzato il nuovo centro urbano di Cerenzia e il vecchio borgo di Acerenthia venne ufficialmente abbandonato. Il borgo è stato abbandonato per diversi decenni con zone spesso utilizzate per il pascolo. Solo nel corso degli ultimi anni sono stati lanciati dei programmi di valorizzazione e recupero del territorio, con la realizzazione di un Parco Archeologico, grazie all’intervento dell’Amministrazione Comunale. Il borgo fantasma di Acerenthia dista appena 10 chilometri a est rispetto a San Giovanni in Fiore. Sede di un importante vescovato per ben 9 secoli, tanto da essere considerata la diocesi suffraganea nel meridione, Cerenzia Vecchia si mostra ora come una vasta città diruta e abbandonata dove è possibile percorrere le antiche strade e visitare le antiche abitazioni e palazzotti, tra cui i resti dell’antico palazzo del Vescovado, simbolo e monumento di Acerenthia. Altra struttura importante del borgo era la chiesa, dedicata a San Leone e al martire San Teodoro di Amasea. Nonostante la chiesa sia in rovina, è visibile l’architettura originaria a 3 navate. Sono presenti anche le Grotte Basiliane, nella zona Giancola a 2 chilometri di distanza. Era proprio in queste grotte che si tenevano i riti della tradizione greco bizantina.

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CIRELLA VECCHIA

Cirella è l’unica frazione di Diamante, in provincia di Cosenza. Il promotorio che la sovrasta e che propende verso il mare, naturalmente difeso, ospita sulla sua sommità i resti dell’antica “Cerillae”. È un antico borgo medievale, con struttura arroccata tipica dei centri bizantino-normanni dell’alto Tirreno calabrese. Il luogo risulta abitato da tempi antichissimi infatti ci sono evidenze della presenza di tribù primitive e gli stessi luoghi erano fiorenti in età Romana. Nel 649 al Sinodo di Papa Martino I prese parte un Romanus Episcopus Cerellitanus, e ciò consente di affermare che Cirella costituiva un importante punto di riferimento nell’organizzazione della Calabria in quanto sede diocesana. Ceriallae fu una fiorente colonia della Magna Grecia. L’abitato sul monte ebbe origini in epoca successiva, intorno al IX secolo, quando le incursioni saracene sulla costa spinsero gli abitanti a stabilirsi in una posizione più sicura e facilmente difendibile come il promontorio del monte Carpinoso. Un’incursione saracena del 950 d.C., guidata dall’emiro Al Hasan avrebbe addirittura raso al suolo l’abitato costiero. Nel 1556 la famiglia Stocchi di Scigliano cedette la proprietà alla famiglia Scaglione. Nel 1576 venne saccheggiata da sette galee barbaresche, capitanate da Kair ‘el Din, detto Barbarossa. Secondo la leggenda, i pirati sarebbero arrivati a saccheggiare il paese su indicazione di un mercante romano, che aveva ricevuto dei torti dai cirellesi. La memoria di un’incursione turca avvenuta nel 1576 comunque è confermata dalle fonti sopravvissute all’abbandono del paese antico. Fu oggetto di altre scorribande da parte dei pirati ottomani Sinam Cicala Pascià, Dragut Rays e Uccialì. Successivamente con la pestilenza del 1656 e i terremoti del 1638 e 1738 che colpirono la Calabria, il feudo cadde in rovina e la sua proprietà passò dalla famiglia Sanseverino ai Catalano Gonzaga. Nel 1806-1807 un contingente di truppe napoleoniche assediò e occupò il borgo medievale, stabilendosi nella residenza dei duchi Catalano-Gonzaga. Dall’evento nacque la leggenda che il borgo venisse assalito da formiche giganti, le quali divorarono gli abitanti del paese. Nel 1808, la marina britannica, dal mare, effettuò un pesante bombardamento dell’avamposto francese, compresa la torre presente sull’isola di Cirella. L’ultimo uomo a lasciare l’abitato fu il parroco Francesco de Patto che decise di lasciare il borgo alla sua sorte portando con se gli arredi sacri della chiesa. L’abitato sul monte venne cancellato definitivamente e gli abitanti superstiti quindi decisero di ricostruire il centro sulla costa. Le strutture rimanenti vennero poi usate come cava di pietre e vandalicamente spogliate dei manufatti presenti. Attualmente la vegetazione spontanea ha invaso i vicoli e le costruzioni, rendendo, in alcuni punti, difficile il passaggio. Da visitare tra i ruderi ci sono sicuramente il castello, costruito e ampliato nei secoli con vari stili dalle famiglie che lo hanno abitato, la chiesa di San Nicola Magno che conteneva affreschi bellissimi di cui oggi rimangono poche tracce, la chiesa dell’Annunziata dove oggi rimangono solo un altare, i muri perimetrali e dei banchi per i fedeli. Tra il monastero dei minimi di San Francesco da Paola del XVI secolo (lato monti) e i ruderi della Cirella medievale (lato mare) sorge il teatro dei ruderi. La struttura, in stile greco, venne costruita tra il 1994 e il 1997, ed è attualmente utilizzata per spettacoli e concerti. Il panorama rende il teatro un posto molto suggestivo.

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AFRICO VECCHIO

Fondato nel IX° secolo col nome latino di “aprìcus” che significa “soleggiato”, Africo Vecchio è ciò che rimane di un tranquillo paese, tutto costruito in pietra, che nel 1951 si spopolò a causa di una di terribile alluvione che provocò morti ed ingenti danni materiali. Stessa sorte è toccata alla frazione Casalnuovo, ormai anch’essa fantasma. La realtà di Africo è quella di una vita dura e aspra quasi ai confini della realtà. Una storia di uomini, donne, anziani e bambini, casolari e ricoveri per le bestie, vette innevate e dirupi profondissimi. È stata avanzata l’ipotesi che nel luogo siano esistiti insediamenti in epoca precedente o contemporanea alla colonizzazione magnogreca; esistono comunque reperti archeologici di epoca bizantina. Probabilmente già nel decimo secolo vi erano presenti dei monaci basiliani. In epoca normanna, fra i secoli XI e XII, visse San Leo, il patrono del paese; secondo la tradizione, egli nacque a Bova e prima di diventare monaco studiò nel convento basiliano della SS. Annunziata di Africo. Nel 1571 Gabriele Barrio scrive che ad Africo i riti sacri sono celebrati in greco e che la popolazione adopera il greco anche nei rapporti familiari, assieme al latino. In epoca napoleonica si ebbe ad Africo uno scontro tra francesi e borbonici, in cui gli abitanti parteggiarono per questi ultimi. Nell’Ottocento fu attivo nel territorio di Africo il brigante Antonio Zemma. Le condizioni sociali ed igieniche di Africo nel periodo interbellico erano disastrose. Il meridionalista Umberto Zanotti Bianco, coadiuvato dal giovane Manlio Rossi Doria, eseguì un’inchiesta su Africo nella quale riferiva come il paese fosse annidato su case dirute per il pregresso terremoto, isolato geograficamente, afflitto da tasse indiscriminate e da malattie, fosse privo di medico, di aule scolastiche (le lezioni si svolgevano nelle stanza da letto della maestra); gli abitanti si nutrivano di un immangiabile pane fatto con lenticchie e cicerchie considerandolo il paese « più povero,  più triste, e più infelice della Calabria». Il 20 gennaio 1945 la popolazione di Africo assaltò con armi da fuoco e distrusse con bombe a mano la locale caserma dei carabinieri, costringendo i tre o quattro militi presenti a rifugiarsi negli scantinati e liberandoli solo dopo averli disarmati. In questo periodo si costituirono nel paese la sezione del Partito socialista, quella del Partito comunista e la Camera del lavoro. Nel marzo 1948 il settimanale “L’Europeo” pubblicò un reportage da Africo a firma del giornalista Tommaso Besozzi, corredato da alcune fotografie di Tino Petrelli; tale reportage (che faceva parte di un’ampia inchiesta sulle condizioni del Mezzogiono promossa da Arrigo Benedetti) mostrava come le condizioni del paese non fossero sostanzialmente migliorate rispetto a quelle descritte vent’anni prima da Zanotti Bianco. Fra il 14 e il 18 ottobre del 1951 una violenta alluvione devastò Africo e Casalnuovo, causando tre vittime ad Africo e sei a Casalnuovo nonché ingenti danni materiali. Su ordine delle autorità i due paesi semidistrutti furono evacuati e la popolazione dopo essere stata costretta a lungo a vivere in campi profughi, scese dai monti per fondare, con il nome di Africo, un nuovo paese situato a breve distanza sul mar Jonio tra i comuni di Bianco e Brancaleone, nel malcontento più totale da parte della politica locale e nazionale tanto che nel 1958 Antonio Marando poté scrivere che con la fondazione di Africo Nuovo era sorto «il primo paese italiano senza territorio». Di fatto, il comune di Africo Nuovo rimase fino al 1980 privo di delimitazione territoriale, mentre i suoi abitanti avevano perso la loro antica condizione sociale (di contadini poveri) senza però averne acquistata una migliore dovuta per lo più ai sussidi dati durante quegli anni prima come profughi e poi come disoccupati. Quello che porta dal borgo di Africo Vecchio a Casalnuovo (meglio conservato rispetto al primo) è un itinerario affascinante non solo per gli amanti del trekking e della natura ma anche per chi volesse comprendere l’intimo legame che ancora oggi lega la gente di Africo a questa terra.

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FANTINO E CARELLO (San Giovanni In Fiore)

Fantino e Carello sono due frazioni del comune di San Giovanni in Fiore, in Provincia di Cosenza, oramai abbandonate dai propri abitanti. Fantino è stata la più grande frazione della cittadina silana, ed è sita nelle vicinanze di Caccuri. Il borgo di Fantino sovrasta la vallata di Carello e l’omonimo borgo. L’origine di Fantino, o anche Infantino in forma dialettale, ha origini ancora poco chiare: molti pensano che sia riferito al fatto che i monaci basiliani, che hanno vissuto in questo paesino, abbiano portato in loco una statua di San Giovanni proveniente da una chiesa dedicata a San Fantino. La statua fu riposta dapprima nella vecchia chiesa, una chiesetta di piccole dimensioni (6 × 4 m), e in seguito al decadimento e al successivo diroccamento della stessa negli anni avvenire dopo l’abbandono, fu sistemata nella nuova chiesetta fatta erigere dal parroco dell’abitato negli anni ’70, una chiesetta dalle dimensioni simili e di forma ottagonale. Il borgo medievale di Fantino, è la frazione più antica di San Giovanni in Fiore. Un tempo è stata certamente la frazione più popolosa e grande. Il borgo nonostante la buona accessibilità, garantita dalla Sp 180, nel dopoguerra non è riuscito a garantirsi uno sviluppo economico che sostentasse la popolazione.Negli anni ’60 contava oltre 800 abitanti che costituivano così, un vero e proprio paesino. Il borgo risale al 1600 e si è sviluppato alle pendici del monte Gimmella (Jimmella in dialetto). Si narra che il primo fondatore del villaggio fu un pastorello di Pedace.  Il borgo si è poi sviluppato in una zona fortemente scoscesa e ripida, dalla quale si può ammirare la vallata di Iannia. Dopo il periodo di maggiore crescita, culminato negli anni ’60, il paese cominciò a subire un lento ed inesorabile declino, che lo portò al completo abbandono nella seconda metà del 2000. Il villaggio si è sviluppato in un luogo certamente ameno ma ricco di vegetazione e dal clima mite e favorevole a molte coltivazioni quali la vite e l’ulivo, e nel quale era molto diffusa la pratica della pastorizia ovina. Posto fra il paese di San Giovanni in Fiore e di Caccuri, lungo la vecchia strada interpoderale che collega i due paesi, sino al 2001 vi abitavano 29 persone e tutte anziane, mentre oggi (conta 4 abitanti) il vecchio borgo si anima solo per un giorno all’anno, in occasione della festa patronale di San Giuvanniellu, ovvero San Giovanni Battista Infante, quando i vecchi proprietari, e soprattutto i nipoti dei vecchi proprietari, riaprono le case facendo rivivere il paese. La festa che dura dalla mattina alla sera, è seguita da centinaia di persone, che assistono alla celebrazione della processione della statua del Santo, portato in spalla lungo i vicoli del borgo. La festa termina con un concerto e con i fuochi pirotecnici ed è diventato oramai un appuntamento fisso per i paesini della zona. Nei pressi dell’antico abitato, a qualche chilometro di distanza, si trova la discarica comunale del Vetrano, oggetto negli ultimi anni di feroci critiche dopo la scelta di un ampliamento della stessa. Per questo motivo la strada provinciale che attraversa l’antico borgo negli ultimi anni è piuttosto trafficata specie dai mezzi pesanti che l’attraversano per poter raggiungere la discarica. Questo ha comportato la progettazione dell’ampliamento della stessa strada provinciale. Carello visto le difficili condizioni orografiche sulle quali insisteva, ebbe un rapido processo di abbandono, nonostante sul suo territorio si stessero progettando alcune opere importanti, di recupero e riqualificazione. Di antica origine (probabilmente 1700, anche se non esistono dati certi), il borgo fino agli anni cinquanta, insieme alla frazione di Jannia contava quasi 100 abitanti. Per raggiungere il borgo si deve affrontare una ripidissima discesa, un tempo mulattiera, rifatta e migliorata dall’Opera Sila negli anni ’50, ma ancora insicura e pericolosa. Per risalire poi, o si procede nell’affrontare l’impervia risalita per San Giovanni o dall’altro versante, affrontare un’altrettanta ripida salita che poi porta al paese di Caccuri. Carello è posizionato nella parte terminale di una preziosissima vallata, da cui prende il nome la frazione, che ospita poche centinaia di piante di ulivo, e che grazie al microclima che la valle riproduce, secondo studi universitari fatti sulle olive prodotte, queste regalerebbero un olio dalle caratteristiche e proprietà che non ha eguali in tutt’Italia. La maggior parte degli abitanti di Carello, presa dimora nella vicina Acquafredda, continuano l’attività agricola e della pastorizia che già praticavano. Una curiosità del luogo è che negli anni ’60 l’ente Opera Sila, aveva in programma la realizzazione della linea elettrica che avrebbe dovuto raggiungere il borgo. Ciò nonostante in concomitanza della programmazione dei lavori, il borgo venne abbandonato dai suoi abitanti. La progettazione quindi, non fu portata poi a compimento. Il piccolo borgo, ancora abbastanza integro, si sviluppa in due file di case, esempi di architettura rurale calabrese, con materiali reperiti nelle zone circostanti. Oggi la maggior parte delle case sono “abitate” da alberi di ulivo, di fico e fichi d’india che sa da una parte li rende i custodi di questo borgo fantasma dall’altra recano gravi danni strutturali. Ancora camminando nel borgo si possono notare i recinti degli orti che hanno al loro interno molti alberi da frutto. Nella zona delle due frazioni sorge un monastero dedicato alla “Madre di Dio”, oggi chiesa di Santa Maria dei 3 fanciulli, chiamata così perché questa “Madonna” aveva salvato tre fanciulli che si erano persi nel bosco appiccando un incendio e dando così un punto di riferimento per tornare a casa, che oggi è localizzata nella zona denominata Patia (dal greco paios – paidea: fanciullo).

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PAPAGLIONTI

Papaglionti è un’antica località fantasma, situato a 460 m sul livello del mare, posta sul declivio che a nord delimita l’altopiano del monte Poro, nelle immediate vicinanze del comune di Zungri, in provincia di Vibo Valentia. Questo nome si suppone abbia origine greco – bizantina e deriverebbe da Paleontos, corruzione di Papas Leontios, persona ecclesiastica probabile proprietario di un casale dal quale ebbe origine il villaggio nato nel primo medioevo. Alcuni studi dimostrano che termini come Papaglionti, Papasidero, Papaleo sono tutti cognomi appartenuti a sacerdoti greci vissuti in Calabria e che si sposavano lasciando il loro nome agli eredi o, come nel caso di Papaglionti, alle loro proprietà.In seguito a una violenta alluvione avvenuta nel 1952, gli abitanti, già scossi dal terremoto del 1905, furono costretti a migrare in un territorio vicino, più adatto alla vita e alla sicurezza. Per questo motivo nacque Papaglionti nuova e morì Papaglionti vecchia. Oggi il borgo antico di Papaglionti è preda di rovi, erbacce e il degrado del tempo. Sebbene sia un borgo abbandonato quasi a se stesso rappresenta un patrimonio prezioso, di rilevanza storica e culturale che attira la curiosità e l’interesse dei turisti in vacanza in Calabria. Girando per il piccolo villaggio è possibile notare le strutture povere, semplici ma allo stesso tempo attente all’estetica architettonica. Tra le strutture che saltano all’occhio, le più importanti sono i resti della chiesa di San Pantaleone, i resti del Castello Francese, 2 Calvari, uno datato 1700 che delimitavano l’ingresso nel centro abitato. La chiesa di Papaglionti all’esterno si presenta strutturata in mattone rosso a due navate collegate tra di loro da due arcate. Sotto la navata si nota un vuoto destinato alla sepoltura. Il Palazzo della Famiglia di Francia è l’esempio di Casa Signorile di Papaglionti. La struttura risale al 1700, ha una forma rettangolare e molto grande, circa 13 metri in larghezza. Anche questo si presenta in muratura di pietra granitica con saette e scaglie di laterizio. Il pian terreno era adibito come deposito prodotti agricoli, il primo piano invece per la residenza dei proprietari. Il Calvario di Papaglionti è situato lungo la strada che conduce al vecchio borgo. Si tratta di un Calvario rettangolare, in muratura di pietra granitica locale, regolarizzata con scaglie di laterizio e mattoni. Questo Calvario è stato realizzato alla fine del 600 ed è una delle poche strutture rimaste in ottime condizioni. Al centro si nota una nicchia, all’interno della quale era ospitato un dipinto raffigurante la crocifissione. Una tappa da non perdere se siete in visita all’insediamento rupestre di Zungri o nella vicina Grotta Trisulina, siti molto famosi della zona.

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LAINO CASTELLO
Laino Castello (Castièddru in calabrese) è un comune situato nel Parco Nazionale del Pollino, nella provincia di Cosenza, e noto soprattutto per il suo centro storico abbandonato. Sorge su un’altura rocciosa a 270 metri slm, denominata colle San Teodoro, ed è circondata dal fiume Lao. Non è facile stabilire l’esatta origine di Laino Castello ma ciò che è certo è che nel 1811 Laino Castello era scissa da Laino Borgo. Una separazione che era durata fino al 1928 quando i due comuni si erano riuniti sotto il nome di ‘Laino Bruzio’. Un’annessione che si conclude nell’anno 1947 con una divisione definitiva.  Nel 1958 un muro venne giù, seppellendo la Fiat 600 del medico condotto, e i maggiorenti del paese enfatizzarono l’episodio della “frana” fino ad assumerlo quale sintomo dell’instabilità dell’intero centro abitato. Negli anni a seguire l’idea di ricostruire l’intero abitato altrove, in un luogo in piano e più al sicuro da frane e terremoti, si fece sempre più strada, via via mobilitando esperti, tecnici e progettisti, anche senza l’approvazione di tutti i cittadini (che rimasero volontariamente ad abitare nella Laino “vecchia”) e, realizzando a singhiozzo ora una casa, ora una strada, ora un edificio pubblico, si arrivò al 1982, quando, grazie ai finanziamenti del post-sisma lucano ottenuti per la ricostruzione delle due Laino, andò definitivamente in porto il progetto della nuova Laino Borgo secondo un impianto urbanistico moderno ed arioso. E, allora, quando fu interrotta d’autorità l’erogazione di luce e acqua, dovettero arrendersi anche gli irriducibili, che si consolarono solo tornando sporadicamente alle loro vecchie case per rassettarle, per zappettare l’orto, adacquare le “graste” del basilico e dei garofani sui davanzali. Non si è ancora certi se fu colonia della Magna Grecia, fondata dai superstiti della distruzione di Sybaris, o invece  come molti studiosi pensano, sia stata fondata da alcuni sopravvissuti di Lavinium, una città romana dell’area di Orsomarso, i cui abitanti erano scampati alla malaria, e da alcune persone provenienti dalla bassa e media valle del Lao che erano riuscite a sfuggire alle incursioni dei Barbari. Grazie alla sua posizione strategica e all’aumento degli scambi commerciali con altre popolazioni la città aveva incrementato talmente tanto la sua potenza che, come dimostrano alcuni reperti archeologici custoditi in alcuni musei italiani ed europei, la città aveva iniziato a coniare monete chiamate ‘Lainos’ (i cui simboli erano il vitello, la colomba e l’aquila). Nel 1812, in località Umari, si rinvennero numerosi sepolcri disposti in ordine, all’interno dei quali si trovarono 53 vasi figurati molto grandi. La costruzione con grossi blocchi di tufo intonacati all’esterno e pitturati per lo più di rosso fa pensare fossero sepolcri tipicamente greci. Sempre nella stessa zona vennero alla luce negli anni successivi resti di sepolcri e edifici di vario tipo e numerosi oggetti quali monete, statuette, busti, vasi e utensili vari, non solo di epoca greca ma anche romana. Dopo un periodo di splendore durato circa due secoli, dalla fine del IV secolo a.C., iniziò una lenta e inesorabile decadenza segnata anche dall’incedere dei Lucani e dei Bruzi animati da pressanti mire espansionistiche. La città si riduce ad un villaggio e resta tale per tutto il periodo aureo romano. Laino inizia a risollevarsi con l’arrivo dei Bizantini. Proprio i monaci basiliani iniziarono a impiantare nel territorio una serie di laure, cappelle, chiese e monasteri che fecero accrescere l’importanza religiosa e culturale di Laino e di tutta l’area circostante. Segni evidenti della presenza dei monaci basiliani si trovano nella chiesa madre di San Teodoro e nell’uso della liturgia greca durata fino al 1562, nonché nella toponomastica di varie località. Nella guerra per il predominio tra Bizantini e Longobardi, questi ultimi costruirono sul colle San Teodoro un castello (Castrum Layni). La posizione strategica del castello, con tre lati a picco e una ampia vista sulla valle sottostante, hanno consentito che il potere e l’importanza di Laino crescessero fino a farlo diventare uno dei sette gastaldati più importanti dell’Italia meridionale.Dal 851 in poi il gastaldato di Laino fu capoluogo di un vasto territorio compreso nel Principato di Salerno. L’arrivo dei Normanni segnò per il centro l’inizio di una successione di feudatari che ne riducono e smembrano il territorio. La conquista della rocca di Laino fu oggetto di varie battaglie tra Angioini e Aragonesi. Tra il XVIII e il XIX secolo si diffonde anche a Laino il fenomeno del brigantaggio. Nel 1812 sorsero a Laino delle società segrete che parteciparono alla cospirazione carbonara con le vendite “Filantropi di Tebe” a Laino Borgo e “S. Teobaldo” a Laino Castello. Il 21 ottobre 1860 viene accettata con un plebiscito l’annessione al Regno di Sardegna. Con decreto del Ministro dei LL.PP. emesso in data 3 giugno 1960, a seguito a dei problemi di natura idrogeologica, l’abitato di Laino Castello venne dichiarato da trasferire in altro luogo per problemi di natura idrogeologica e fenomeni sismici. Viene così scelto il sito dove edificare il nuovo centro abitato ed inizia la costruzione delle prime infrastrutture. Solo nel 1981, poi, a seguito di un ennesimo sisma ed in virtù delle stesse motivazioni di circa vent’anni prima, la popolazione ha dovuto abbandonare le proprie case e l’abitato fu definitivamente abbandonato.  Della fortezza e della relativa cinta muraria resta ben poco, ma il nucleo abitativo, abbandonato all’inizio degli anni ’80 è ancora in piedi. Il borgo presenta ancora stradine ripide, resti di porte, torri e fortificazioni tipiche dell’impianto medievale. Oltre ai ruderi restano, sul fianco del colle, a riprova dell’antichità del borgo, tutta una serie di grotte naturali utilizzate nel periodo bizantino dai monaci e più tardi adibite ad abitazioni civili (il dato emerge dal catasto onciario del 1755). Il nucleo di questo splendido e storico comune è caratterizzato da vicoli, gradinate, edifici e palazzi nobiliari. Uno scenario arricchito da portali in pietra scolpiti a mano e che espongono il blasone delle famiglie originarie. La Chiesa madre di San Teodoro di origine bizantina sfoggia una meravigliosa torre medievale ed è sicuramente un monumento che gode di un alta valenza architettonica e custodisce al suo interno pregiate opere artistiche come le pale dell’altare maggiore, il fonte battesimale del 1500 e il trittico in legno che raffigura la Madonna col Bambino restaurato e conservato nel Museo diocesano di Cassano allo Jonio. Come narra un’antica leggenda questo luogo di culto è stato dedicato a San Teodoro, un soldato romano che mentre era intento a difendere il territorio, dove oggi sorge il nuovo centro di Laino, e non essendo in grado di rispondere agli attacchi del nemico, aveva rivolto suppliche e preghiere a Dio che trasformò gli alberi che gremivano il territorio in soldati e in questo modo riuscì a sconfiggere l’avversario. Anche la Chiesa delle Vergini è del 1500 e la Cappella di Santa Maria degli Scolari custodisce un affresco rinascimentale della Madonna seduta sul trono. I ruderi del Castello giacciono su uno sperone di roccia, precisamente sul punto più alto del colle e un tempo il luogo ha ospitato il cimitero comunale. Ogni anno Laino Castello ripropone il ‘Presepe Vivente’ che viene allestito nel centro storico abbandonato. Un ambiente dove la natura ricrea quei luoghi che ricordano la Natività e le grotte naturali scavate nella roccia sono la base più appropriata per tale rappresentazione. Un evento e un ambiente che ogni anno attrae un folto pubblico. Dopo anni di completo abbandono, l’amministrazione comunale ha avviato un progetto per il recupero e il riutilizzo del vecchio borgo come “Borgo–Albergo”. A tale scopo, sono stati eseguiti e sono tuttora in corso diversi lavori di recupero e restauro.

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PANDURI

Panduri è una cittadina collinare nel comune di Careri (Reggio Calabria). Per la sua posizione dominava tutta la valle del torrente Bonamico, da Capo Bruzzano fino a Roccella, e da lì si potevano vedere vari paesi incastonati alle pareti dell’Aspromonte: da Platì a Ciminà, da Gerace a San Luca, da Natile a Casignana e poi in alto il monte Varraro con le sue balze, i suoi querceti fittissimi e le rare spianate messe lì come sentinelle per il paese sottostante. Questa zona con i suoi boschi inestricabili aveva un legame simbiotico con la natura, con una fatica di vivere quotidiana ed era abitata da essere umani che, anche se sofferenti, non erano ancora corrotti dalla povertà e dai mali che attanagliavano i grandi centri urbani. C’era un connubio tra i monaci e la popolazione locale che approfittarono della loro esperienza per imparare nuove tecniche di coltivazione della terra e di allevamento del bestiame. Nel 1507 venne distrutta da un tremendo terremoto, a cui sopravvisse solo un terzo della popolazione. Il sisma risparmiò praticamente solo le antiche mura di un convento. I morti non vennero seppelliti. Dalla sua distruzione, su una collina vicina, sorse il nuovo paese, Careri. Anche oggi, ogni estate, nel paese ci si riunisce a pregare per le vittime del terremoto avvenuto nel XVI secolo: si porta in processione la Madonna di Panduri, il cui quadro sembra fosse stato ritrovato nell’antico monastero grazie ad un bue che non voleva più spostarsi da quel luogo, spingendo gli abitanti a scavare, trovando appunto il dipinto. Si trattava di un’opera raffigurante una madonna, La Madonna delle Grazie di Panduri.  Dopo il terremoto, esso venne conservato fino agli Anni Ottanta del Novecento nella parrocchia di Careri e poi trafugato: l’immagine usata nel corteo, è una sua copia. Molto probabilmente rivenduto presso collezionisti. Si narra che nelle viscere della collina di Panduri si trovi una caverna alla quale si accede attraverso una piccola fessura nascosta chi sa dove, ma conosciuta dagli abitanti del posto. Questa caverna presenta, secondo il racconto di molti abitanti, misteriosi fenomeni di magnetismo.

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CAVALLERIZZO DI CERZETO

Cavallerizzo di Cerzeto (Kajverici in arbëresh) è una frazione del comune di Cerzeto nella provincia di Cosenza che ha una chiarissima origine albanese. È situata alle falde di un monte degli Appennini chiamata Colle S. Elia (Rahji i Shën Lliut), o semplicemente Rahji, che si erge a circa 1000 metri di altezza dall’abitato. Circondato da castagni, e da numerosa fauna, l’abitato antico è diviso in tre borghi. Fu fondata, come anche le altre città della medesima origine, dai profughi albanesi in fuga verso il sud Italia intorno al XV, cioè quando l’Albania subì l’invasione Ottomana. Fu chiamata inizialmente San Giorgio in San Marco che poi si trasformò prima in Cavalcato e infine in Cavallerizzo; la sua appartenenza al comune di Cerzeto gli fece poi guadagnare quell’ultimo epiteto “di Cerzeto. Nel “Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli” di Lorenzo Giustiniani per Vincenzo Manfredi, Napoli 1797, alla voce Cavallerizzo si legge: “Questa terra è abitata da albanesi. Le sole donne però vestono alla “greca”. […] Si vuole che il suo nome fosse derivato da un cavallerizzo del Principe di Bisignano, che cedette quel luogo agli albanesi, quando i medesimi trasmigrarono dall’Albania epirica. È sempre detto Sangiorgio di Sanmarco”. In realtà la popolazione albanese rifondò una città già esistente e in declino e la trasformò portando la cultura arbëresh in questa zona costruendo anche una cappella e poi una chiesa in onore di San Giorgio Martire. Nel XIX secolo una delegazione di questo paese si recò presso la piana dei Greci, oggi piana degli Albanesi (Palermo) per acquistare proprio una statua di San Giorgio, patrono anche di quel luogo, statua ancora presente nel paese. A Cavallerizzo, come in tutti i paesi albanesi in Italia, era praticata la liturgia secondo il rito bizantino, sostituita nel XVIII secolo dal rito latino. Nel “Dizionario dei luoghi della Calabria” di Gustavo Valente del 1973, riporta le seguenti notizie su Cavallerizzo: La Parrocchiale, di rito greco, è intitolata a San Giorgio. Vi era una Confraternita laicale dedicata al nome del Rosario. Il Valente riporta così che a Cavallerizzo ancora nel 1973 persiste il rito greco-bizantino, estirpato già da circa due secoli. I santi più conosciuti a Cavallerizzo sono orientali: San Giorgio Megalomartire e Sant’Antonio il Grande. La Chiesa di San Giorgio Martire in Cavallerizzo risale al 1729, molto venerata è l’icona, stranamente dai canoni latini, del santo. Nel periodo della festa di San Giorgio, il 23 aprile, molti erano i giochi e le manifestazioni culturali per bambini e per adulti. Per esempio un gioco, che è particolarmente crudele, era gjelli në shkak (il gallo come bersaglio): si interrava un gallo dentro una fossa, lasciandoli fuori solo la testa, e i giocatori bendati dovevano cercare di colpirlo, chi riusciva ad ucciderlo riceveva in premio lo stesso sfortunato animale. Questa tradizione fu abbandonata negli anni settanta del secolo scorso, ma è rimasta molto conosciuta l’espressione të bëshin si gjelli në shakë. Gli abitanti di Cavallerizzo parlano in lingua albanese, l’arbëresh. Molti sono i proverbi e i modi di dire in albanese. Numerose i Vjersh, canti popolari tipici albanesi, e i canti nuziali (kënga e martesës). Latrunera o Kusar sono l’epiteto usato correntemente, in contrapposizione ai cerzitani che sono tradhitur ed i sangiacomesi çotara. Il borgo nel corso dei secoli ha sempre dovuto fare i conti con le frane infatti già nel XVII secolo ci sono documenti che attestano di movimenti franosi avvenuti nel tempo e di danni, seppur di lieve entità, occorsi alle strutture. La tipologia di frana che colpisce questi territori è di tipo molto lento, tanto da non aver mai provocato morti, poiché il loro scorrere lento dà molteplici avvisaglie tali da permettere di mettersi in salvo con larghissimo anticipo. Questa lentezza non ha mai convinto gli abitanti di Cavallerizzo a spostare il centro abitato, piuttosto li ha spinti a ricostruire le strutture danneggiate e cercare interventi sul movimento franoso stesso, sempre in maniera sterile. Nel 1952 fu proposta dal sindaco di allora la delocalizzazione del comune proprio a causa di questi eventi franosi, ma la proposta fu mal vista dalla popolazione e quindi fu immediatamente accantonata. Ma il 7 marzo del 2005 una forte frana colpì di nuovo il borgo e poiché i danni iniziarono a farsi seri e iniziarono ad esserci anche pericoli seri per la popolazione, ci fu la delocalizzazione forzata effettuata dalla Protezione Civile, la quale impose l’evacuazione del centro abitato e la costruzione di un nuovo centro più a valle chiamato “Nuova Cavallerizzo” al quale gli abitanti si sono opposti anche con la forza. La città entra a pieno regime nell’elenco delle città fantasma. Purtroppo il nuovo paese, oltre a trovarsi a valle del terreno in movimento, è stato costruito con criteri gelidi e distaccati, con casermoni di cemento suddivisi in cinque quartieri. In molti, a distanza di anni, aspettano ancora di poter rientrare nelle proprie case e nel proprio paese antico, ma non sono stati fatti i lavori di assestamento dell’area franosa. Dal 2007, con la nascita dell’Associazione “Cavallerizzo Vive / Kajverici Rron”, è partito un progetto per ottenere dagli enti preposti un piano di recupero ambientale, edilizio, culturale e religioso di tutto il centro storico di Cavallerizzo.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

La Grotta del Romito: Usi e Costumi del Calabrese Preistorico.

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La Grotta del Romito è una delle testimonianze di arte preistorica più importante non solo d’Italia ma di tutta Europa. Si trova a 296 metri s.l.m., ubicata ai piedi del monte Ciagola o Ciavola, parte di un ambiente naturalistico di grande fascino e pregio, con le caratteristiche geologicamente tipiche del paesaggio carsico come grotte ripari e inghiottitoi, in località Nuppolara nel comune di Papasidero, nella Valle del fiume Lao, in provincia di Cosenza e deve il suo nome alla frequentazione dei monaci del vicino monastero di Sant’Elia che la utilizzarono come eremo. L’attuale toponimo dell’abitato di Papasidero deriverebbe da un Papas Isídoros, capo di una comunità basiliana del Mercurion, uno dei maggiori luoghi del misticismo dell’Italia meridionale in cui fiorì a partire dal VI° secolo il monachesimo greco-orientale, in corrispondenza di un territorio che si estendeva lungo il confine occidentale delle attuali Calabria e Basilicata. A quota m. 210 s.l.m, con i suoi 854 abitanti attuali, il piccolo paese medievale di Papasidero si sviluppa a partire da una rocca longobarda ampliata a Castello nei secoli successivi, sotto le denominazioni Normanno-Sveva, Angioina e Aragonese.

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La Grotta consta di due parti: la Grotta vera e propria lunga circa 20 metri e un tempo senz’altro ben illuminata dalla luce del giorno, ed il Riparo che si estende per circa 34 metri. I depositi della grotta e del riparo costituiscono una sola grande formazione sedimentaria dove si possono ammirare suggestive formazioni di stalagmiti e stalattiti a frange e a cuspidi di colore prevalentemente bianco. All’interno della grotta esiste anche una galleria ancora inesplorata. Sito di fondamentale importanza per la preistoria calabrese insieme alla Grotta della Madonna nella vicina località costiera di Praia a Mare, esso costituisce uno dei più importanti giacimenti italiani del Paleolitico superiore (30.000-10.000 anni fa) e attesta frequentazioni più recenti risalenti al Neolitico europeo (7.000 – 4.000 anni fa). Ed è proprio in questa cavità che visse “l’uomo del Romito”, probabilmente un uomo di Cro-Magnon, il quale non sapeva allevare gli animali e non conosceva l’agricoltura e la lavorazione della ceramica. In seguito fu l’Homo Sapiens ad abitare intensamente la grotta lasciando innumerevoli testimonianze del suo passaggio con i suoi strumenti litici e ossei, con lo stupendo graffito e con i resti dei propri scheletri.

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La Grotta viene scoperta nella proprietà di Agostino Cersosimo, nella primavera del 1961, dall’allora direttore del Museo Comunale di Castrovillari Agostino Miglio su segnalazione di due Papasideresi, Gianni Grisolia e Rocco Oliva durante un censimento agrario. In realtà, già nel 1954 un appassionato di archeologia di Laino Borgo, Luigi Attademo, aveva segnalato al Miglio l’esistenza del Riparo con una non meglio precisata figura di toro. La grande scoperta fu quindi affidata ad un archeologo di fama internazionale, Paolo Graziosi, dell’Università di Firenze, che diresse i lavori fino al 1968. Nell’ultimo decennio, a partire dal 2000, la cura del sito è stata affidata ad un suo discepolo, Fabio Martini, che insegna nella stessa Università.

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Le molteplici evidenze archeologiche restituite dal sito offrono agli studiosi numerosi elementi utili alla ricostruzione storica delle attività delle comunità di cacciatori-raccoglitori che abitarono il sito, le condizioni di vita dei gruppi umani preistorici, la loro interazione con l’ambiente e il paesaggio circostanti. Indicazioni sulla microfauna, la macrofauna e sui condizionamenti subiti dalle comunità dalle dinamiche climatiche avvenute dalla fine del Paleolitoco al Neolitico: la presenza nella grotta di un torrente, antecedente a 24.000 anni fa e avente fasi di ingrossamento alterne nei secoli , ha consentito la frequentazione umana in seguito ai prosciugamenti ed interventi di bonifica.

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Inoltre, dalla setacciatura del terreno di scavo nello strato risalente a 11.000 anni anni fa sono emersi, come per altri siti del Paleolitico superiore, dodici semi di “vitaceae” che per le loro dimensioni sono riferibili alla “Vitis silvestris”; importante anche il ritrovamento di palchi di Cervo palmato, Cervus elaphus palmidactyloides, rinvenuti sepolti in una piccola fossa e riferibili a significati simbolico-rituali e di gasteropodi bivalvi e scafopodi ovvero conchiglie marine della specie Columbella rustica e Cyclope neritea, lavorate e usate come ornamento che testimoniano altresì i contatti con il litorale tirrenico.

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Riferibile al periodo Neolitico è invece il ritrovamento di ossidiana che lascia ipotizzare “l’area del Romito” come centro di scambio e transito, tra l’area tirrenica e quella jonica, del vetro vulcanico proveniente dalle Isole Eolie, utilizzato per produrre punte di frecce, raschiatoi e altro, confermando l’importanza delle popolazioni neolitiche della Calabria nel commercio e il controllo di questo materiale. Al Neolitico Recente risale invece il deposito ceramico dello stile della necropoli di Masseria Bellavista di Taranto. È probabile che la frequentazione della grotta sia continuata nell’Età dei Metalli, nonostante non vi sia traccia documentaria. Nel cunicolo della grotta è stato rinvenuto un bel punteruolo di osso lavorato portante inciso un motivo geometrico costituito da un rettangolo inscritto in un altro, da fasci di linee parallele, rette e zig-zag e da segni a dente di lupo ai margini dello strumento. Essi ricordano analoghi motivi geometrici dell’ “arte mobiliare”, forme artistiche relative agli oggetti “Mobili” cioè di oggetti di uso sia rituale sia quotidiano risalenti al periodo preistorico, della grotta Polesini presso Tivoli e di quella spagnola del Parpallò presso Valencia.

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Nei livelli più alti del terreno sono stati rinvenute tre sepolture datate a 9.200 anni fa, contenenti ciascuna una coppia di individui disposti secondo un procedimento ben definito e giacenti in strati epipaleolitici. Una di queste sepolture si trova nella Grotta e due nel Riparo, poco distanti dal masso con la figura taurina. Gli scheletri ed il loro posto della sepoltura all’interno della Grotta del Romito, sono differenti dagli altri resti trovati in Europa perché i ricercatori precedentemente avevano trovato resti scheletrici sepolti individualmente, mentre in questo insediamento hanno trovato per lo più coppie di scheletri. Le sepolture hanno suggerito agli studiosi che probabilmente la Grotta era un posto “sacro” dove veniva effettuato il cosiddetto “Matrimonio-Sati” (la sepoltura di una coppia), conferma della supremazia delle associazioni filiali fra gli uomini e le donne dagli inizi stessi della storia umana.

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Dapprima sono venuti alla luce i depositi del Riparo: un uomo e una donna sdraiati in una piccola fossa ovale l’uno sull’altro. La donna copriva in parte la spalla sinistra dell’uomo e la sua nuca poggiava sulla guancia del compagno. L’uomo le circondava le spalle col braccio sinistro, mentre il destro era disteso lungo il corpo. Il corredo funebre era costituito da un grosso frammento di corno di bos primigenius appoggiato sul femore sinistro dell’uomo, mentre un altro corno era appoggiato sulla spalla destra. Intorno agli scheletri erano deposte delle selci lavorate. I due individui, di 15/20 anni di età, sono ambedue di statura molto piccola: 1,40 metri il maschio, 85 centimetri la femmina, che presenta il femore e l’omero affetti da un forte dismorfismo e da osteoporosi.

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Due scheletri umani disposti l’uno sull’altro e di sesso diverso costituivano l’altra duplice sepoltura contenuta in una fossa ovale. Si tratta di individui di circa 30 anni, alti 1,46 e 1,55 metri, entrambi sepolti con le gambe flesse. Alcune ossa del secondo individuo non erano al loro giusto posto (l’uomo a destra figurava, infatti senza femore e con l’epifisi nella fossa del bacino), probabilmente perché dopo la morte del primo individuo, alla riapertura della fossa per seppellirvi il secondo, sarebbero state involontariamente mosse le ossa è asportato il femore del primo.

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La terza sepoltura si trovava nel deposito della grotta circa allo stesso livello di quelle del riparo. Erano due individui sdraiati sul dorso e affiancati. Con le braccia distese, l’una appoggiata sul bacino e la sinistra entro il bacino. Si tratta di due individui maschili, di età al di sotto dei venti anni, di statura di 1,59\1,60 metri circa. Dello scheletro di sinistra rimanevano solo il bacino, gli arti inferiore e le ossa di un braccio. Parte della scatola cranica e meta della faccia furono ritrovate in seguito, in quanto il deposito era stato sconvolto in epoca imprecisata da lavori di scavi forse per rendere pianeggiante il terreno. L’individuo di destra era, invece, completo.

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Escluso la donna patologica della prima sepoltura che ha un cranio corto, tutti gli altri sono mesocefali, con cranio allungato, volta cranica piuttosto bassa, faccia stretta, mascelle robuste, triangolari e prominenti. Le orbite sono basse e il naso non molto lungo e neanche largo. Di questi scheletri una coppia è esposta al Museo di Preistoria di Firenze, insieme alle schegge litiche ritrovate (circa 280); un’altra è esposta al Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria e una terza è ancora oggetto di studio da parte dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze nei loro laboratori.

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Durante gli scavi sono state rinvenute anche un paio di sepolture singole. Un anziano di 35 anni (corrispondenti agli odierni 100) che, dagli accertamenti del caso, è risultato essere stato reso handicappato da molte malattie, ferimenti da caccia e cadute. La domanda fu, come fece a raggiungere l’età avanzata, a procurarsi il cibo necessario alla sopravvivenza; dalla dentatura molto abrasa, si è concluso che, probabilmente, si rendeva utile alla comunità lavorando le pelli con l’uso dei denti, in cambio della sussistenza. L’altro ritrovamento umano di grande interesse, si è rivelato essere quello di un giovane cacciatore che, nonostante la giovane età, fu sepolto con un corredo di oggetti degni di un capo. Altra caratteristica interessante di quest’uomo paleolitico, è l’altezza notevole per l’epoca e per la zona meridionale infatti, lo scheletro ritrovato appartenevano ad un individuo alto 1,74 metri.

 

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Un team di ricerca composto da italiani e americani ha fatto rinascere in 3D il cervello di un altro degli scheletri, chiamato “Romito 9”, delle Grotte del Romito e proprio Martini spiega che:” è lo scheletro di un ragazzino morto tra le aspre colline di quella che oggi è la Calabria. La causa della sua morte non è nota. Ma la presenza di decorazioni con conchiglie e ocra rossa trovate attorno al suo corpo deposto delicatamente fa pensare che il piccolo fu amato e pianto. Le ossa del cranio a quell’età sono ancora plastiche, in sviluppo, tanto da lasciare, seppure in maniera invisibile all’occhio umano, l’impronta del cervello, rilevabile con le tecnologie sofisticate di oggi. Un ritrovamento dunque eccezionale. Oggi possiamo sapere e toccare con mano un cervello di un nostro antenato di 17mila anni fa, grazie alla ricostruzione in 3D che un team ha realizzato negli Usa partendo dalla scatola cranica di un ragazzo ritrovato nella grotta del Romito a Papasidero in Calabria. Naturalmente non possiamo dire come quel cervello “funzionava”, come pensava, come interagiva col mondo esterno, ma sicuramente questo risultato raggiunto è destinato a fornirci importanti informazioni nuove e finora impensabili.  È la prima volta che la tecnologia ci permette di toccare con mano un cervello antico. Possiamo vedere chiaramente che l’area del linguaggio, è quasi uguale, nella morfologia, ad oggi. È lo studio più completo su un individuo così antico. Insieme alla ricostruzione 3D del cervello si prevede anche la ricostruzione del Dna dell’antico preadolescente”.

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A “leggere” queste “tracce” invisibili ci ha pensato il fisico Claudio Tuniz del Centro Internazionale di Fisica Teorica Abdus Salam di Trieste, il quale ha realizzato il modello informatico, che poi ha permesso di stampare in 3D, negli Usa, il cervello di 17mila anni fa. Tuniz ha fatto la ricostruzione teorica, grazie alle tecnologie avanzate del suo laboratorio realizzando circa 4mila radiografie, più o meno 10 per ogni grado della rotazione completa. La mappa ha permesso la stampa del cervello in California, dove sono disponibili le strutture necessarie e dove opera un altro specialista italiano, Fabio Macciardi, studioso di neuroscienze dell’università della California e docente di genetica medica all’università di Milano. Per raggiugere l’altro grande obiettivo ambizioso, l’estrazione del Dna dallo scheletro “Romito 9” è intervenuta la professoressa Olga Rickards, ordinario di antropologia molecolare all’università di Tor Vergata di Roma, che è riuscita a sequenziarlo.

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“Oggi molti ricercatori lavorano per trovare i geni legati alle patologie del linguaggio. Ma si tratta di una competenza molto complessa e si rischia di perdersi in un mare di informazioni genetiche. Serve scegliere solo quelle importanti che sono, probabilmente, sia quelle conservate nei millenni, sia quelle sviluppate nell’evoluzione. Sui dati ottenuti abbiamo realizzato molti confronti con quelli contemporanei. E il nostro obiettivo è realizzare lo stesso lavoro su 70 scheletri molto più antichi. Potremmo così ottenere una vera e propria mappa dell’evoluzione del cervello e del linguaggio degli ultimi 200mila anni. Sapere con precisione quali sono i geni del linguaggio” interviene Macciardi. Ma anche ‘datarli’, e continua: “Alcuni antropologi pensano che il linguaggio sia nato insieme all’arte, al pensiero simbolico (50 – 60mila anni fa). Altri addirittura pensano a 500mila anni fa. Due estremi su cui potremmo essere più chiari incrociando i dati morfologici e genetici delle diverse fasi evolutive. Ma si tratta di studi costosi che hanno bisogno di finanziamenti che bisognerà trovare”.

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Ma, oltre agli importanti resti umani che vanno sicuramente ad incrementare gli studi riguardo quel periodo della preistoria europea, ciò che caratterizza questo sito archeologico sono le celebri incisioni rupestri, che interessano due grandi pietre di crollo alle estremità opposte del riparo, analizzate dal Graziosi. La prima è quella dei cosiddetti “Segni Lineari”, un masso di circa 3,50 metri , con semplici tratti rettilinei o leggermente curvilinei, più o meno profondamente incisi, disposti in tutte le direzioni e variamente intersecantisi, senza alcun significato apparente. La sovrapposizione del deposito epipaleolitico consente di datarli verso la fine della serie (11.000 a.C. circa).

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La seconda è quella del “Masso dei Tori” che si trova presso l’imboccatura della grotta e reca incisi su diversi livelli tre profili di Bos Primigenius, un bovide selvatico antenato dei bovini domestici. Rappresenta una delle più importanti raffigurazioni dell’arte rupestre del Paleolitico Superiore: è così perfetto nel disegno e nella prospettiva, quanto nella scelta della superficie rupestre che gli dona un senso di 3D, da far affermare al professor Graziosi, di essere di fronte a “la più maestosa e felice espressione del verismo paleolitico mediterraneo, dovuto ad un Michelangelo dell’epoca”. L’attenzione ai dettagli anatomici e le proporzioni realiste rendono l’incisione dell’uro paragonabile, per lo stile della figurazione, al linguaggio espressivo dell’arte parietale rupestre franco-cantabrica, elementi che per importanza proiettano il sito archeologico del Romito nel più ampio contesto europeo.

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La figura di toro, lunga circa 1,20 metri è incisa su un masso di circa 2,30 metri di lunghezza e inclinato di 45° nella zona antistante l’ingresso della grotta. Il disegno, di proporzioni perfette, è eseguita con tratto sicuro così come è caratteristico dell’arte paleolitica. Le corna, viste ambedue di lato, sono proiettate in avanti ed hanno il profilo chiuso. Sono rappresentati con cura alcuni particolari, come le narici, la bocca, l’occhio e, appena accennato, l’orecchio. In grande evidenza le pieghe cutanee del collo e assai accuratamente descritti i piedi fessurati. Un segmento attraversa la figura dell’animale in corrispondenza dei reni. Secondo Graziosi:” Si ha l’impressione che almeno parte di questi segni preesistessero alla esecuzione del toro e che qualcuno sia stato addirittura utilizzato per la realizzazione delle grandi pieghe”.

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Tra le zampe posteriori dell’uro vi è incisa, molto più sottilmente, un’altra immagine di bovino di cui è eseguita soltanto la testa, il petto e una parte della schiena. Anche esso presenta le corna proiettate in avanti, ma a profilo aperto e solo nella seconda metà divise in due, mentre nella prima parte appare un solo corno, ripetendo un modulo tipico dell’arte paleolitica mediterranea. Sull’estremità inferiore dello stesso masso è incisa una terza piccola testa di toro. A fianco del masso col toro si trova una stalagmite a forma di equide senza testa. Secondo Graziosi:” Il rinvenimento delle sepolture nell’area intorno e tra i due grandi massi incisi farebbe pensare a due stele o una stele (quella col toro) delimitanti un’area funebre”. Infatti La ricorrenza di resti di uro insieme agli scheletri rimanda a funzioni di offerte funerarie, elementi che forniscono informazioni sull’universo simbolico, le pratiche rituali e funerarie paleolitiche.

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La disposizione delle inumazioni in prossimità del graffito del Bos Primigenius, “assegnano a questa immagine una valenza totemica di grande suggestione e conferisce all’ambiente un indiscutibile legame con il sacro” afferma Martini. E continua:” La consistenza e la continuità della serie stratigrafica, la rilevanza dei reperti, la presenza di un alto numero di inumazioni e dei due massi con incisioni fanno di questo sito archeologico calabrese uno dei giacimenti guida per la conoscenza delle culture preistoriche dell’Italia meridionale nell’ultima parte del Paleolitico. Effettivamente l’importanza del sito di Papasidero, a livello europeo, è legata all’abbondanza di reperti paleolitici, che coprono un arco temporale compreso tra 23.000 e 10.000 anni fa, che hanno consentito la ricostruzione delle abitudini alimentari, della vita sociale e dell’ambiente dell’Homo Sapiens”. Una storia spettacolare che spinge a dire a Maria Lombardo, Consigliere Commissione Cultura “Comitati Due Sicilie”, che: “Conoscere le nostre ricchezze è di vitale importanza per proiettare la Calabria verso un sano sviluppo del settore Turistico in chiave responsabile e sostenibile”. “Le risorse di eccellenza di Papasidero meritano di essere promosse, riconfermate e proiettate fuori dal contesto nazionale” ha affermato invece Enrico Marchianò, presidente del Club per l’ Unesco di Cosenza.

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Il sito attualmente è visitabile grazie all’intervento dell’Istituto Italiano di Archeologia Sperimentale, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Calabria ed il Comune di Papasidero, grazie ai quali sono stati realizzati interventi atti a garantire l’accesso alla grotta (passerelle, impianti di illuminazione) e la fruizione integrata del sito archeologico (guide e materiali didattici). Le illustrazioni all’interno della caverna, così come le opere d’arte geomorfologiche, sono aperte agli ospiti insieme alle repliche delle figure scheletriche (come precedentemente detto quelle reali sono state spostate a Firenze e a Reggio Calabria).

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Il professor Martini conclude una sua intervista dicendo:” Sono state avviate diverse iniziative di valorizzazione miranti ad inserire il Romito nei circuiti culturali e turistici. La grotta è stata musealizzata ed è in funzione un percorso attrezzato con servizio di visite guidate. L’Amministrazione comunale di Papasidero prevede anche l’ampliamento del locale Antiquarium nei pressi dell’antro”. Infatti, parte degli altri numerosi reperti risalenti sino alle prime frequentazioni della Grotta, attestate a oltre 23000 anni fa, unitamente al calco di sepoltura di una coppia e alla ricostruzione facciale di uno degli individui seppelliti nella grotta, sono esposti nel piccolo Antiquarium annesso al complesso, un piccolo museo didattico dove è possibile reperire tutte le informazioni indispensabili per un tuffo nel passato, alla scoperta dei nostri antenati Calabresi.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Il Tesoro della Calabria: il “Codex Purpureus Rossanensis”

 

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Il “Codex Purpureus Rossanensis” è un Evangeliario greco miniato, del formato di 260 x 307 mm, su pergamena colore rosso-porpora (da qui il nome “Purpureus”), di straordinario interesse dal punto di vista sia biblico e religioso, sia artistico, paleografico e storico, sia documentario. I pregi del manoscritto sono numerosi, tali da renderlo il “capolavoro” della produzione libraria ed artistica bizantina e un “unícum” di valore inestimabile. La bellezza del manufatto (è probabilmente il più antico e meglio conservato documento librario e biblico della cristianità) fa di esso “la più fulgida gemma libraria della Calabria, che da solo fa Museo” (Ciro Santoro). Il testo evangelico, nonostante alcuni errori di trascrizione degli amanuensi, è radice e fonte della dottrina cristiana e della cultura europea. Ottimo è l’equilibrio tra fede e scienza, tra religiosità e tecnica raffinata, tra pazienza e abilità, quale si manifesta sia nella scrittura sia nelle illustrazioni. Oggi il Codex Purpureo si presenta mutilo dei vangeli di Giovanni e Luca; ma in origine raccoglieva i testi completi. Il frontespizio presenta, infatti, una rota riccamente decorata in cui si inseriscono entro clipei le effigi degli evangelisti, e dentro la quale ricorre la scritta in greco “prospetto della sinfonia degli evangelisti”.  Tale iscrizione rimanda alla lettera di Eusebio di Cesarea a Carpiano. In questa lettera egli informa che Ammonio di Alessandria (padre della chiesa vissuto tra il 265 e il 340 d.C.) aveva realizzato una esposizione sintetica dei quattro vangeli, affiancando il testo di Matteo agli altri vangeli canonici. All’inizio di ciascun libro vi erano i Kephalaia, cioè gli indici dei capitoli, e la tavola miniata con l’evangelista di cui rimane solo quella di Marco.

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Il codice è di elevatissima qualità e presenta una dimensione medio-grande; ha una forma più o meno quadrangolare come era consuetudine in età tardo antica per i grandi libri d’apparato. La sua qualità elevata era anche data dall’uso dell’oricello, un colorante di origine vegetale, il cui uso era abbastanza diffuso tra le classi più elevate per il suo notevole costo, in epoca tardo-imperiale. Il Codex presenta le prime tre righe dei Vangeli con lettere d’oro, mentre il resto del testo è in argento eseguita in una maiuscola biblica disposta su due colonne. Per il resto i titoli che accompagnano le miniature presentano la maiuscola ogivale diritta. Il testo è distribuito su due colonne di 20 righe ciascuna (un’impostazione grafica giornalistica ante litteram).  Le parole non recano accenti, né spiriti, né sono tra di loro separate, né compaiono segni di interpunzione, tranne il punto ortografico (“punctum”) che segna la fine dei periodi.  Quando, invece, inizia il periodo, la prima parola si apre con una vocale o consonante più grande. Per la preziosità del manoscritto, la raffinatezza dei materiali impiegati la loro alta qualità si può dedurre che dovette essere utilizzato in onore di Cristo, Rex regnantium e Megas basileus. Questo codice, noto anche come il “Rossanensis”, è uno dei sette codici miniati orientali esistenti nel mondo. Tre sono in siriaco e quattro in greco. Questi ultimi sono il “Manoscritto 5111 o Codex Cottonianus”, in possesso della British Library di Londra (di cui, però, a causa di un incendio nel XVII secolo, è rimasto qualche esiguo e decomposto frammento soltanto di una pagina), la”Wiener Genesis”, conservata presso la Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna (costituita da 26 fogli, 24 dei quali miniati), il “Frammento o Codex Sinopensis”, custodito presso la Bibliothèque National di Parigi (formato da 43 fogli e 5 miniature) e infine il “Codex Purpureus Rossanensis”, che, con i suoi 188 fogli, pari a 376 pagine, è il Codice più ampio, più prezioso, più importante di quelli sopra citati; pare che un quinto codice greco, il cosiddetto “Codice o frammento «N»” (contenente una miniatura sulla lavanda dei piedi), esista nella città russa di S. Pietroburgo ex Leningrado.

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Dal punto di vista estetico, è diffusa la convinzione tra gli storici dell’arte che le illustrazioni pittoriche delle miniature, il portamento e la severità dei protagonisti e dei personaggi, i motivi stilistici, il gusto della metafora e dell’allegoria, l’efficace tavolozza policromatica etc. rappresentino nel “Rossanensis” la continuità dell’arte classica e pagana, che nell’Oriente (specificamente in Palestina, in Asia Minore, in Siria, ad Alessandria) ha avuto i suoi qualificati centri di produzione e di irradiazione.  Il ”Codice” di Rossano, perciò, mentre raccoglie, in sintesi, l’eredità e le suggestioni della cultura artistica ellenistica e di quella religiosa cristiana, svolge l’originale ruolo di tramite e di anello di congiunzione tra la sensibilità creativa del mondo antico, avviata verso la decadenza, e quella del mondo medievale e bizantino, destinata alla nuova egemonia culturale europea. Il “Codex Purpureus Rossanensis” è, altresì, un documento ineguagliabile nella sua carica straordinaria di spiritualità, di contenuti, di messaggi, di forte tensione e, nel contempo, di sereno “pathos”, che trasudano le antiche ed espressive pagine di questo Evangeliario.

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La peculiarità del Codex Rossanese è data dalle 15 miniature, scene tratte dai Vangeli che si richiamano alle celebrazioni della settimana santa bizantina, fatto questo che sottolinea una destinazione anche liturgica del libro. In particolare le miniature riprendono:

  • la risurrezione di Lazzaro (tav. 1);
  • l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (tav. 2);
  • la cacciata dei venditori dal tempio (tav. 3);
  • la parabola delle io vergini (tav. 4);
  • l’ultima Cena e la lavanda dei piedi (tav. 5);
  • la comunione col Pane (tav. 6);
  • la comunione col Calice (tav. 7);
  • Gesù nell’orto del Getsemani (tav. 8);
  • la guarigione del cieco nato (tav. 11);
  • la parabola del Buon Samaritano (tav. 12);
  • Gesù davanti a Pilato e pentimento di Giuda (tav. 13);
  • il tribunale di Pilato ed il confronto Gesù – Barabba (tav. 14);
  • l’Evangelista Marco (tav. 15).
  • Fuori testo sono da considerare le Tavole 9 (Frontespizio delle tavole dei Canoni) e 10 (la lettera di Eusebio a Carpiano in cornice dorata e decorata con fiori ed uccelli).

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Di esse 10 illustrazioni presentano la medesima impostazione visiva e grafica: la parte superiore è occupata dalla scena evangelica ed è separata da una sottile linea blu dalla scena inferiore, che è riservata, nella parte centrale, a quattro Profeti, dipinti a mezzo busto, tutti con il braccio destro alzato, con l’aureola e soltanto Davide e Salomone anche con la corona regia; al di sotto dei Profeti, che con la mano destra indicano l’avverarsi delle loro profezie nella scena superiore, ci sono infine le loro citazioni in cartigli o rotoli. Il protagonista, il centro gravitazionale, di quasi tutte le miniature (tranne le nn.  IX, X e XV) è la figura, fiera, pensosa, ieratica, autorevole, regale, egemonica, di Gesù: il Cristo barbuto, con i capelli lunghi, riversi sul collo e sulle spalle (e non sulla fronte come privilegerà la successiva arte bizantina), con intense e sempre diverse espressioni del volto, con un grande aureo nimbo crucifero o aureola intorno alla testa, con il mantello greco o himation di colore oro, che lascia scoperto il braccio destro ed i sandali.  Sotto l’himation Gesù indossa una tunica lunga manicata o chitone, che è di colore marrone in alcune miniature (Tavv. I, II, III, VIII), mentre in altre è di colore blu-turchino (Tavv.  IV, V, VI, VII, XI, XII, XIII, XIV), perché è cambiato il miniaturista o per un significato simbolico oscuro.  Gesù, inoltre, viene rappresentato in movimento, con il braccio destro e la mano alzati (Tavv. I, III, IV, V/a, VIII/a): l’accorgimento del miniaturista mira a rendere visibile il momento in cui il Cristo sta per proferire le frasi evangeliche, molte delle quali riportate nella parte superiore o inferiore della scena evangelica della tavola (“ Titula historiarum”).

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Non si possono escludere, comunque, altre destinazioni anche in considerazione della solennità delle scene e della preziosità del materiale scrittorio, che non era certo di uso comune e quindi forse proveniente da ambiente nobile e aristocratico. E allora potrebbe trattarsi di un Codice da parato: un codice-oggetto, cioè, destinato all’ostentazione in una casa di rango sociale elevato. Una terza ipotesi, avanzata come la precedente dal Prof. Guglielmo Cavallo dell’Università La Sapienza di Roma, uno dei massimi studiosi italiani di paleografia e storia della scrittura, vede nel Codex un atto di pietà finalizzato alla salvazione dell’anima per conto di un aristocratico committente-donatore. In altri termini, nel mondo bizantino si poteva commissionare un libro sacro donandolo poi a qualche chiesa o monastero allo scopo di ottenere con quell’opera di beneficenza la salvezza dell’anima. Il Codex potrebbe aver avuto proprio questa funzione gratificante.

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Le tre ipotesi, comunque, non necessariamente si devono auto escludere, per cui la funzione inizialmente unica potrebbe aver assunto anche gli altri significati. Da oggetto di ostentazione (“status symbol”) e gesto di pietà volto ad ottenere la salvazione dell’anima, è diventato anche oggetto di culto liturgico. Il professor Cavallo afferma: ”L’Italia centro-meridionale era nella tarda antichità e tanto più continuò a essere più tardi crocevia e meta di greco-orientali per convergenti motivi geografici, etnici, politici. Dal VII secolo – spinte dall’eresia monotelita e ancor di più dalle invasioni o incursioni slave, persiane e arabe che travagliavano gravemente l’impero bizantino – ondate di greco-orientali, soprattutto monaci ma anche elementi del clero e laici, giungevano in Sicilia, e da questa in Calabria e a Roma dislocandosi in particolare da Egitto, Palestina, Siria. Si trattò, altresì, di migrazioni non solo d’individui ma pure di modelli, quali soluzioni artistiche, formule liturgiche, istituti giuridici, e di oggetti, tra cui icone, avori, libri. A emigrare da Bisanzio e dai territori a est di Bisanzio nell’Italia meridionale era anche gran parte della classe dirigente, laica ed ecclesiastica, tanto che alcuni tra i papi ‘greci’ dal 642 al 752 provenivano o dalla Sicilia o dalla Calabria: classe sociale ristretta, ma che deteneva e trasferiva in queste regioni modelli e oggetti. Il Rossanensis purpureus, dunque, può esser giunto in Calabria mediante una di queste ondate d’immigrazione, direttamente o passando prima attraverso la Sicilia o magari Roma. L’invasione araba della Sicilia da una parte e la destrutturazione dell’elemento greco a Roma dall’altra determinarono più tardi una varia dislocazione di materiali greci che trovò un ricettacolo privilegiato nella Calabria bizantina dei secoli IX e X. Sicuro in ogni caso è che la vicenda del Rossanensis purpureus venne a legarsi indissolubilmente a Rossano, e Rossano vuol dire la Calabria, la regione che per testimonianze archeologiche, tradizione di pietà, costumi, dialetti conserva, forse più di qualsiasi altrove, il segno e il ricordo dello stretto legame tra l’Italia e la Grecia antica e medievale.”

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Certo è che ci troviamo di fronte ad un documento di valore inestimabile, che, tra l’altro, conferma la storica funzione di ponte tra Oriente ed Occidente della Calabria. È da ritenere, pertanto, che il Codex fosse conservato nel tesoro della Cattedrale fin dall’antichità. Ciò giustifica anche come sia potuto sfuggire nel sec. XVI al Cardinale Sirleto, interessato ai manoscritti dei monasteri più che a quelli di conservazione ecclesiastica. In aggiunta c’è da riportare un Memoriale del 1705, conservato nell’Archivio Vaticano fatto pervenire al papa dal clero di Rossano in polemica con l’Arcivescovo Andrea Adeodati, in cui si dice:

“Beatissimo Padre. Il Clero e Publico della Città di Rossano prostrati a’ piedi della S.V. le fanno sapere, come nella Chiesa Metropolitana di detta Città, quale prima officiava sotto il rito greco, e poi da più secoli in qua fu introdotto il rito Latino; e perché si ritrovano quantità di libri greci con lettere e figure dorate e miniate, formate sopra fogli di corteccia d’alberi, quali libri si teneano in gran stima per l’antichità e singolarità”.

Cos’altro possono essere questi “libri greci con lettere e figure dorate e miniate” se non il Codex Purpureus? Inoltre, denunciano proprio l’Arcivescovo di essere “nemico dell’antichità” e di avere “fatto sotterrare i suddetti libri sotto il pavimento della sacristia e proprio sotto il lavabo dei sacerdoti, senza curarsi del danno, che faceva a detta chiesa e città, col privarli di cose così memorabili”. Ed, infine, “ricorrono” perché il Santo Padre possa apportare “opportuno rimedio” alla gravissima vicenda.  L’arcivescovo, con la nota dell’11 ottobre dello stesso anno al cardinale Paolucci, segretario di stato della Santa Sede, respinge tutti i gravi addebiti (il documento è conservato nell’Archivio Vaticano, è stato segnalato da P. Francesco Russo nel suo “Regesto Vaticano per la Calabria” vol.  IX, reg. n. 50547, pag. 443, ed è stato studiato e divulgato da Luigi Renzo sulla terza pagina de “La Gazzetta del Sud” e nel suo libro “Sprazzi di Calabria.  Società, storia e cultura” del 1994, pp. 25-32). S’ignora sia l’esito della controversia sia i risvolti tuttora oscuri della stessa.

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La seconda notizia sul Codice di Rossano la fornisce, nel 1831, Scipione Camporota, canonico della Cattedrale della città, che dà ai fogli una prima sistemazione e l’attuale numerazione delle pagine con inchiostro nero. Notizia abbastanza approssimativa la da Cesare Malpica, che nel suo Diario di viaggio nel 1845-46 annota:

“II Capitolo del Duomo (di Rossano, n.d.r.) possiede un tesoro in un libro antichissimo che contiene gli Evangeli scritti in Greco, con caratteri d’argento sovra carta azzurrina, con belle e curiose miniature in testa alle pagine. Par che sia opera fatta al cominciar del medio Evo, quando Odorisi da Gubbio, e Franco Bolognese introdussero in Italia l’arte del miniare. I signori Canonici tengano pur gelosamente questo monumento, che ricorda l’antichità della loro Cattedrale, e i tempi famosi d’Italia. Questo volume in bellezza non cede a quelli di simil natura che io vidi in S. Nicola di Bari, e in S. Pietro in Galatina”.

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È vero che non si nomina esplicitamente il Codex, ma il fatto non desta meraviglia perché l’etichetta Codex Purpureus Rossanensis si deve ai due studiosi tedeschi Gebhardt e Harnack, che nel 1879-80 pubblicizzarono l’esistenza del documento. Ancora nel 1878, del resto, un anno prima dell’arrivo dei due studiosi, il medico rossanese Pietro Romano in suo breve saggio storico ( “Frammento di storia patria sul duomo ed episcopio di Rossano”, pp. 41-42), ricorda l’esistenza a Rossano di un “libro misterioso ed arcano”, chiamato semplicemente “libro antichissimo degli Evangeli Greci”, che, avendolo cercato ma non avendolo trovato, viene paragonato all’ “araba fenice, che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa!”, anche se ammette che la notizia “viene confermata da persone degne di fede e dalla testimonianza come il Malpica”.

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Assodato allora che il Codex è stato di proprietà della Cattedrale da tempo immemorabile, restano ancora alcuni quesiti tra cui quando è stato portato a Rossano e da chi. Gli storici convengono che a portarlo in Occidente siano stati tra l’VIII-IX secolo i monaci melchiti in fuga dalla Siria, dalla Palestina, dall’Egitto e dalla Cappadocia, sia a causa dell’odio iconoclasta dei bizantini (i monaci erano perseguitati perché ritenuti i principali diffusori del culto delle immagini), sia a causa degli Arabi che avevano invaso tutto il Medio Oriente e quindi non restava loro nemmeno il deserto per vivere in pace. La Calabria per la vicinanza con l’Oriente e per la natura stessa del terreno offrì a questi monaci profughi un rifugio ideale per continuare la loro vita ascetica, anche se lontani dalla madre patria. Una di queste comunità, ipotesi molto possibile, si stabilisce in qualcuno dei tanti monasteri rupestri ipogei, costituiti da grotte di arenaria, del tipo eremitico o lauritico (il monaco vive da solo in una grotta, ma in altre grotte vicine vivono altri monaci), che formano allora la famosa “Montagna Santa” (“Aghion Oros”) della città jonica, dove portano quanto di più prezioso avevano prodotto nella loro patria di provenienza, che, proprio perché prezioso, continua a fare loro da tramite con la Divinità ed impreziosisce la nuova patria di adozione. Il territorio di Rossano proprio in questo periodo infatti si trasformò in una piccola Tebaide. Possiamo ritenere alla luce di tali fatti che questi monaci sopraggiunti si siano portato dietro il Codex, poi rimasto in dote alla Cattedrale greca di Rossano. Se poi accettiamo l’ipotesi precedentemente del Codex da parato e quindi commissionato per essere esposto all’ammirazione in una casa di nobile ceppo, potremmo anche supporre che a portarlo sia stato un nobile aristocratico della corte di Bisanzio trasferito a Rossano e che da questi poi sia stato donato, magari come gesto votivo atto ad ottenere la salvazione dell’anima, alla Cattedrale per uso liturgico.

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Non sembri ingiustificato quanto stiamo dicendo ove si pensi che tra i secoli IX-X Rossano si afferma sempre più come centro militare e di cultura fino a diventare, nella seconda metà del sec. X, sede dello Stratego, città-guida della Calabria bizantina e quindi luogo di richiamo e di riferimento per l’aristocrazia in cerca di spazio. In qualunque modo sia pervenuto a Rossano, si può supporre che il Codex sia rimasto in uso nella Cattedrale fino alla soppressione del rito greco, avvenuta intorno al 1462. I canonici greci, ormai in assoluta minoranza, dovettero loro malgrado lasciare forzatamente la Cattedrale per trasferirsi nella chiesa di S. Nicola al Vallone, dove, secondo alcune voci era ubicata l’antica cattedrale bizantina. Il Codex, non più usato dopo la rimozione del rito, col passare del tempo è stato del tutto dimenticato in qualche angolo della sagrestia in balia degli eventi. Sarebbe stato ripescato, sia pure mutilo, dopo l’incendio che l’ha in parte distrutto, conservandolo poi senza alcuna rilevanza tra gli oggetti del tesoro. In un certo senso il silenzio su questo oggetto ha consentito di salvare il Codex da furti e manovre speculative, operazioni normali in tempi non certo benevoli nei confronti delle opere d’arte locali e degli stessi beni della Chiesa. Pensiamo ai commerci di cose sacre degli ecclesiastici, ai sequestri della Cassa Sacra, ai saccheggi dei francesi tra 700 e 800.

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Delle fonti dicono che, quando il Codex è tornato alla ribalta delle cronache Europee, i Canonici stavano cercando di venderlo per trovare i fondi necessari da destinare alla ristrutturazione del Coro della Cattedrale e che solo l’intervento oculato e tempestivo dell’arcivescovo Pietro Cilento riuscì a bloccare in tempo l’operazione. Anche i due tedeschi hanno avuto un secco rifiuto alla richiesta di acquisto, malgrado avessero offerto una ingente somma di denaro, ma indubbiamente bisogna però riconoscergli il merito di aver richiamato sull’Evangeliario l’attenzione del mondo della cultura aprendo per il documento un orizzonte più vasto e qualificato. Da allora, infatti, gli studi specialistici si sono susseguiti con passione addentrandosi nel merito dei contenuti esegetici, storici e artistici del meraviglioso Codex Rossanensis.

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Gli spazi dedicati al Rossanensis sono inseriti all’interno del Museo Diocesano e del Codex, anch’esso interamente rinnovato al fine di proporre una visione privilegiata degli ulteriori antichi tesori di arte sacra che lo spazio museale conserva grazie anche a un moderno allestimento multimediale. A contenere l’opera sarà una bella scatola di seta per proteggere come un bozzolo la preziosa pelle marocchina della sua copertina e un climabox che come una culla perfettamente climatizzata e sicura, garantirà un fresco costante. Tanto che le preziose pagine, nel 2013 sfogliate sotto gli occhi di Papa Francesco e dell’allora presidente Napolitano, ora potranno essere girate solo una volta all’anno.

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Il Codex Purpureus Rossanensis, riconosciuto nel 2015 dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità, ed è stato collocato nel programma di conservazione del patrimonio documentale “Memoria del mondo” (“Memory of the world”), al fine di proteggere questo patrimonio da rischi connessi all’amnesia collettiva, alla negligenza, alle ingiurie del tempo e delle condizioni climatiche, dalla distruzione intenzionale e deliberata.

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Il restauro è stato affidato nel 2012 all’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario (ICRCPAL) del Ministero dei Beni Culturali, affinché venissero eseguite approfondite analisi biologiche, chimiche, fisiche, tecnologiche e tutte le necessarie cure per il suo restauro e la sua conservazione. Attraverso il coordinamento di un Comitato di ricerca appositamente costituito presso l’Istituto, è stata condotta un’indagine interdisciplinare al fine di chiarire gli aspetti conoscitivi ancora irrisolti insieme alla redazione di linee-guida per la migliore conservazione dell’antico manufatto dal punto di vista ambientale.

Restauro 'Codex Purpureus Rossanensis'

Il lavoro degli studiosi ha fornito, altresì, significative risposte sulla storia e sull’esecuzione del volume, oltre a dettare importanti indicazioni generali sulla fattura e lettura dei codici di analoga provenienza e periodo storico. Nei tre anni di studio e indagini sul Codex si è giunti ad una “rilettura” importante del codice stesso. Il restauro è stato effettuato in modo estremamente rispettoso del volume, per non alterarne ulteriormente le fragilità dovute all’invecchiamento naturale e a varie vicissitudini tra le quali il restauro, fra il 1917 e il 1919, di Nestore Leoni, al tempo famoso miniaturista, i cui interventi, sfortunatamente, hanno modificato in maniera irreversibile l’aspetto delle pagine miniate.

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Quasi tutti i ricercatori concordano nel datare il codice intorno alla metà del secolo VI. La legatura, in pelle scura, risale invece al secolo  XVII o XVIII. Le pergamene, contrariamente a quanto si credeva non sono state trattate con il murice, un mollusco gasteropode (conchiglia) da cui si ricavava la porpora reale (diffusa dai fenici), ma utilizzando l’oricello, un colorante di origine vegetale. Colorante, evidentemente a disposizione dell’antico laboratorio che trattò le pergamene. Tale importante esito si è ottenuto confrontando i risultati ottenuti su campioni appositamente preparati nel laboratorio di chimica con quelli forniti dagli originali, analizzati in spettroscopia di riflettanza con fibre ottiche (FORS). Le analisi di laboratorio, eseguite in micro-Raman, micro-Infrarosso in Trasformata di Fourier (FTIR) e in Fluorescenza da Raggi X (XRF), su alcuni pigmenti originali e altri appositamente preparati in laboratorio, hanno permesso di approfondire le conoscenze sui materiali pittorici impiegati nell’alto medioevo e forniscono la prima evidenza sperimentale dell’uso della lacca di sambuco in un manoscritto così antico.

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Inoltre, l’assenza nel manoscritto di ogni tipo di preparazione delle miniature conferma l’origine Bizantina del codice. Una tavolozza pittorica, composta da molti colori (bianco, nero, rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco, viola, rosa, malva, oro), è stata usata nel prezioso manoscritto. Inoltre, l’oro puro e l’argento sono stati utilizzati per la scrittura dei Vangeli, così come è stato utilizzato inchiostro nero per i titoli. Alcune parti sbiadite dei testi in argento, in epoca sconosciuta, sono state sovrascritte con inchiostro nero. Fortunatamente, per i tecnici incaricati a svolgere le analisi, il miniaturista (o miniaturisti) non ha macinato finemente i pigmenti utilizzati per le miniature. Così è stato possibile analizzare spettroscopicamente ogni singolo pigmento, anche quando applicati in miscela, favorendo così l’identificazione delle materie coloranti.

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Per il professor Cavallo: “La carica di spiritualità che vi è insita è restituita, innanzi tutto, dal colore della pergamena e dalle sue valenze simboliche. Il nesso tra porpora e sangue richiamava il sangue versato da Cristo sulla Croce, e da quanti per il trionfo della Croce avevano dato la vita. Purpurei sono dunque i martiri. Altresì la porpora non era solo correlata al simbolismo del sangue espiatorio versato sulla Croce, ma anche al colore della tunica fatta indossare a Cristo per irriderne la regalità che, insieme alla corona di spine, quel colore evocava. Con Costantino e in epoca successiva, la porpora, come simbolo congiunto del potere imperiale e della sacralità divina, una volta proiettata sul libro sacro, ne faceva oggetto di adoratio e di pompa liturgica in occasione di cerimonie sacre.”

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Il 2 luglio 2016 il Codex è stato riportato a Rossano da Roma, e per la città e la regione è stato un giorno di festa. Disse Umberto Broccoli, famoso archeologo: “L’arrivo del Codice a Rossano è paragonabile a quando si tolsero i ponteggi alla Cappella Sistina a Roma”. Il Monsignor Satriano invece commentò così:” Sta risorgendo una comunità di uomini e donne che sta producendo benessere non in termini economici ma inteso come crescita spirituale dunque bene dell’essere. Questo è il frutto maturo di un albero che è cresciuto bene”. Per Sgarbi il Codex “rappresenta, seppur nelle difficoltà di godimento di poche pagine, una testimonianza fondamentale del mondo cristiano e dell’Occidente bizantino che ha a Rossano un suo rifugio e la sua fortezza”.

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Sul futuro del Codex, la responsabile delle comunicazioni per il restauro del manoscritto, Rosi Fontana affermò: “Il Codice appartiene a Rossano e Rossano sicuramente è il suo Codice Purpureo: possiamo immaginargli ancora altri 1.500 anni di vita. Oggi è in una super teca, super climatizzata, monitorata 24 ore su 24. Quindi è tenuto nel migliore dei modi possibili e la sua musealizzazione continuerà per lunghissimo tempo ed è certamente il monumento più importante dell’Italia Bizantina del Sud.”

Un pezzo di storia che da solo vale il viaggio in Calabria.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

I 20 Castelli Più Belli Della Calabria

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Calabria, terra aspra e fertile, terra di mare e di montagna, terra di contraddizioni e complessità storiche, naturali, culturali. Le strutture difensive in Calabria sono state influenzate dalla continua minaccia delle invasioni. Un tratto di costa così grande ha costretto i regnanti delle varie epoche, a costruire molte di queste opere difensive. Il timore degli attacchi dal mare è stata la principale motivazione della costruzione di moltissime barriere difensive. Ogni opera aveva una precisa motivazione militare e strategica, collocandosi lungo le principali vie di comunicazioni o a presidio di città. Il nome odierno deriva dal volgare “castellum”, a sua volta dal latino “castrum”, insediamento militare. Furono infatti i Romani a sviluppare un accampamento organizzato con diverse strutture di difesa. L’antenato dei castelli fu proprio il “castrum” dei Romani, cioè l’accampamento militare formato da tende di pelle o da baraccamenti. I “castra” dei Romani erano costruiti su pendii, avevano forma quadrata o rettangolare ed erano circondati da un fossato.  L’arrivo dei Barbari comporta uno studio da parte degli ingegneri Romani di nuove fortificazioni, come le Mura Aureliane. Tuttavia è con la caduta dell’Impero e il conseguente annullamento del potere centrale che si comincia a sviluppare l’idea di un edificio fortificato adatto a difendere un territorio. Fu costruito il “castellum”, opera fortificata con materiale più solido, agli angoli e alle porte venivano innalzate delle torri di vigilanza, delineandosi così il castello medievale. Il castello comprendeva: le cinta, il mastio e il palazzo baronale. Con le prime due, si garantiva sicurezza e difesa al palazzo, dove dimorava il signore ed amministrava la giustizia. Fino al XIII sec. raramente le mura ebbero dei fossati, dal XV sec. ogni fortificazione ne aveva almeno uno, mentre nel XIII sec. venne introdotto l’uso dei merli sul “parapetto”.  Durante tutto il Medioevo ogni territorio, ogni comunità viene dotata di castelli e fortificazioni, grazie all’avvento del feudalesimo: ogni proprietario terriero, dal vassallo al valvassino si dota quindi di un castello, usato come abitazione della sua famiglia e come ricovero della guarnigione di soldati alle sue dipendenze. Sono i secoli cosiddetti dell’incastellamento. Molti castelli in principio erano solo delle torri di guardia isolate, solitamente di legno, adatte a proteggere appezzamenti di terreno e a controllare passaggi obbligati. Con il passare degli anni si assiste a un progressivo processo evolutivo dove il castello diventa un complesso di edifici fortificati, a volte comprendenti un intero borgo, abitato dal popolo che serve il Signore e i suoi bisogni e che, all’occorrenza, si rifugia all’interno del complesso fortificato sopportando assedi. Sede del signore, rimase per tutto il Medioevo, il centro amministrativo e giuridico. Nel tardo Medioevo si assiste all’edificazione di castelli nelle grandi città, allo scopo di controllarla e per far fronte alle insubordinazioni cittadine. Le torri erano abbastanza alte, ma con l’introduzione delle armi da fuoco furono abbassate al livello delle cinta ed i fossati diventavano più larghi e profondi e venne introdotto il “ponte levatoio“, formato da un tavolato girevole intorno a due perni fissi nei lati del portone. Il mastio era una grande torre con la funzione di sorvegliare il terreno circostante e baluardo di difesa contro gli assalitori e su di esso si innalzava il vessillo. Quasi tutti i castelli si dotarono di due porte. Il castello assolve le funzioni protettive fino al XVII secolo, quando la polvere da sparo e le nuove armi da fuoco rendono obsolete le protezioni medievale-rinascimentali. Nascono quindi le fortificazioni alla “moderna” e le cittadelle, mentre i castelli vengono ristrutturati come residenze signorili per le famiglie nobili oppure sono stati abbandonati e sono diventati dei giardini di pietre. I castelli di Calabria sono tanti e rappresentano un libro aperto di storia, miti, leggende e gesta eroiche che tramandano, attraverso il tempo, il protagonismo bellico, il valore, il coraggio e l’ansietà di libertà e di indipendenza di tutti i paesi calabresi, difronte all’infuriare di diversi invasori.  I castelli in Calabria sono davvero tantissimi e localizzati sia sulle coste che sull’entroterra. Qui ne conosciamo alcuni, quelli meglio conservati e più suggestivi.

Le Castella

Tra i castelli più suggestivi della Calabria, il castello aragonese di Le Castella è divenuto nel tempo il simbolo del turismo culturale nella regione. Ubicata su un piccolo lembo di terra prospiciente la splendida Costa dei Saraceni nella frazione Le Castella del comune di Isola Capo Rizzuto, la splendida fortezza di Le Castella è ciò che rimane di una vasta area che doveva costituire un vero e proprio villaggio dotato di cinta muraria. Di probabile origine magnogreca, ebbe varie modifiche architettoniche nel corso dei secoli, a seconda dei governanti e delle esigenze difensive. Importantissime sono le monumentali cave di blocchi e di rocchi di colonna di età greca (VI-III secolo a.C.) sulla Punta Cannone e nell’area del porto. Da esse sono stati presumibilmente estratti i rocchi delle colonne del Tempio di Hera Lacinia, posto sul promontorio di Capo Colonna. La fortezza non ospitò mai la nobiltà del luogo, ma servì sempre da ricovero per i soldati impegnati contro gli attacchi provenienti dal mare dagli invasori di turno. La torre cilindrica che svetta centralmente all’interno della fortezza è di chiara derivazione angioina risalente al XIV secolo, caratterizzata da una splendida scala a chiocciola in pietra che ne collega i tre piani. Verso la fine del XV secolo la fortezza di Le Castella passò in mano aragonese. Nel 1496 il re Federico d’Aragona la consegna al conte Andrea Carafa che tra il 1510 ed il 1526 fa edificare possenti bastioni quadrangolari speronati al fine di aumentare la capacità difensiva del castello. Quelle degli angioni ed aragonesi sono le modifiche più importanti del castello, oggi ben visibili grazie ad una paziente opera di restauro. Gli scavi archeologici effettuati all’interno della fortezza di Le Castella, hanno evidenziato differenti stratificazioni storiche e architettoniche con sovrapposizione di diverse fasi edilizie. Sul lato est della fortezza è emerso un muro lungo quaranta metri fatto a blocchi di calcare e piccoli riquadri in pietra disposti a scacchiera, simile per tecnica edilizia al muro ellenistico di Velia. Dal castello si gode una splendida visuale sul mar Ionio e sulle acque della Riserva Marina di Capo Rizzuto. La fortezza di Le Castella si colloca oggi in un contesto ambientale di elevato pregio naturalistico, circondato dalla Riserva Marina di Capo Rizzuto, istituita nel 1991. In una delle stanze della fortezza è possibile osservare i fondali dell’Area Marina Protetta in tempo reale grazie a delle telecamere subacquee posizionate a 10 metri di profondità. L’intera zona di Capo Rizzuto è interessata da una frequentazione turistica tra le più elevate della Calabria, sia per il valore paesaggistico ed ambientale delle coste, sia per la ricchezza di risorse culturali ed archeologiche.

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Castrum Petrae Roseti

Situato a Roseto Capo Spulico, a picco sul mare sul Promontorio di Cardone, il Castrum Petrae Roseti (Castello della Pietra di Roseto) è un castello fortificato a difesa della costa dell’Alto Ionio Cosentino, risalente ad epoca normanna, ricostruito nel Duecento per volontà dell’imperatore e re di Sicilia Federico II di Svevia, rimaneggiato più volte fino al secolo XVI. Nel XIII secolo fu requisito da Federico II ai Cavalieri Templari, per ritorsione verso il loro tradimento durante la VI crociata in Terra Santa, e divenne fortezza prettamente militare; dai registri angioini si conosce l’entità della guarnigione assegnata alla fortezza, che nel 1275 risulta composta dal castellano, uno scudiero e da dodici guardie. Già la sua pianta trapezoidale testimonia il riferimento al tempio di Gerusalemme e basti leggere nelle antiche mappe catastali, Foglio 34 del Comune di Roseto Capo Spulico, i nomi delle contrade che circondano il maniero per confermare detta ipotesi: a Nord del Tempio troviamo il fiume Giordano che poi scende verso Est; a Nord troviamo la terra Giordana con il primo paese di Montegiordano, confinante col maniero; a Sud leggiamo il nome di Piano d’Orlando, che richiama Re Artù ed i Cavalieri della Tavola Rotonda alla Ricerca del Sacro Graal; ad Ovest leggiamo il nome di Piano di Salomone, il re costruttore del Sacro Tempio di Gerusalemme; ad Est l’acqua dello Jonio, come a rappresentare l’acqua del Giordano che scende da Nord verso Est, rispetto alla Città Santa. A conferma rileviamo i seguenti segni esoterici inseriti su un imponente portale in stile gotico: la rosa crociata, i petali di giglio, il cerchio di Salomone e lo stemma con grifone, emblema del casato Svevo. Ed ancora: un onfale con sopra incisi i segni della Passione di Cristo con l’Agnus Dei, il tetragramma di Heavè, una croce cristiana all’ingresso del piano terra e, sul cornicione di detto ingresso, i numeri romani che richiamano i versetti di inno ad Allah del Corano. Segno che Federico credeva nella unione delle tre religioni monoteiste. Il castello è di forma trapezoidale ed ha tre torri di avvistamento possenti, una delle quali più alta, merlata e a pianta quadrangolare. All’nterno della rocca si apre un ampio cortile con cisterna centrale per l’approvvigionamento d’acqua e i resti delle scuderie, mentre gli interni hanno saloni di rappresentanza e grandi stanze ancora arredate secondo lo stile medioevale. Non è un caso, quindi, se il “Castrum Petrae Roseti” è stato classificato tra i 10 castelli più belli e romantici d’Europa dalla rivista “Style”.

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Castello Carafa

Spostiamoci un po’ più giù, in provincia di Crotone, precisamente a Santa Severina, dove troviamo un altro meraviglioso castello. La costruzione risale all’epoca normanna (XI secolo) che tanta importanza ha avuto nella storia della Calabria. Il castello Carafa, detto anche di Roberto il Guiscardo, il re normanno che ne ordinò la costruzione su una fortificazione preesistente di epoca bizantina, si estende su un’area di circa 10.000 metri quadri e, grazie ad un’abile restaurazione, avvenuta verso la fine degli anni Novanta, mette in mostra importanti reperti archeologici di origine greca, i resti di una chiesa (con pareti affrescate) e quelli di una necropoli bizantina. La costruzione bizantina è nota come oppidum ed è attestata da Erchemperto di Benevento testualmente come “oppidum beatae Severinae”.  Inoltre nell’edificio trova ospitalità il museo dove sono esposti tutti i reperti archeologici del territorio e periodicamente nel Centro Documentazione Studi Castelli e Fortificazioni Calabresi, trovano spazio mostre d’arte, di pittura, scultura, esposizioni e altre importanti rassegne artistico–culturali. E’ una delle antiche fortezze militari meglio conservate d’Italia: è composto da un mastio quadrato con quattro torri cilindriche poste agli angoli fiancheggiate da quattro bastioni sporgenti da dove si gode di una magnifica veduta sull’ampia valle del fiume Neto e sulle colline del Marchesato di Crotone. Nel periodo svevo, il castellano di Santa Severina si chiamava Johannes de Ladda. Tale notizia è rilevabile in un documento edito da Walter Holtzmann apparso in “Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven ud Bibliotheken”. Nel corso dei secoli e dei passaggi dalle varie famiglie regnanti, ha subito varie modifiche. Bellissimi i saloni interni del castello, decorati a stucchi e affreschi barocchi, alcuni dei quali appartenenti al pittore Francesco Giordano. All’interno del castello di Santa Severina sono presenti delle sezioni museali di primario interesse, tra le quali spicca il museo archeologico, dedicato a tutte le presenze storiche rinvenute in città. L’impianto museale di tutto il castello è fornito di pannelli illustrativi che consentono una maggiore comprensione delle diverse aree del maniero di Santa Severina.

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Castello della Valle

Castello della Valle è il castello di Fiumefreddo Bruzio, paese in provincia di Cosenza annoverato tra i Borghi più belli d’Italia. Nel 1054 Fiumefreddo fu espugnata da Roberto il Guiscardo, che provvide a fortificarla. Con la cinta muraria sorgeva anche il fortilizio (torre normanna).  Nel 1098 l’autorità feudale passò a Simone de Mamistra, autore di un primo ampliamento. A picco su di uno sperone roccioso impervio e quasi inespugnabile a Sud-Est del centro storico, nel 1531 il feudo di Fiumefreddo venne donato da Carlo V d’Asburgo al marchese Ferdinando De Alarçon-Mendoza. Questi fece rimodernare il castello per uso residenziale secondo il gusto tardorinascimentale dell’epoca: a questa fase di interventi risale il portale d’ingresso michelangiolesco. Un recinto di pietra lo divideva dall’abitato e un ponte levatoio fungeva da accesso settentrionale. Una scala a chiocciola conduceva ai piani alti, dove sorgeva l’abitazione del feudatario. Tuttora si osservano i resti delle due torri circolari che nel ‘500 sostituirono quelle quadrate di fattura sveva. Poche sale conservano il pavimento; sulla facciata resistono alcune belle finestre di tufo lavorato. I sotterranei, in gran parte recuperati, sono stati oggetto di scavi archeologici e ora adibiti a sale espositive e sala convegni. L’alzato fu ridotto allo stato attuale di rudere durante l’occupazione napoleonica per sottomettere gli insorti borbonici, anche se mostra perfettamente l’imponenza avuta nel passato. Il valore aggiunto del Castello della Valle è costituito dalla preziosa opera del pittore siciliano Salvatore Fiume. Era il 12 agosto 1975 quando l’artista, all’apice della sua notorietà, si aggirava ispirato tra le rovine dell’edificio: decise di rivitalizzare il paese disseminando sue opere per le strade e nei monumenti e proprio al castello dipinse le pareti di una sala, all’epoca scoperchiata ed oggi restaurata e coperta. Nelle scene del “ La stanza dei desideri”, che hanno prevalentemente profilo naturalistico, trovano posto anche la figura di Pavarotti, a simboleggiarne la presenza a Fiumefreddo, e l’autoritratto dell’artista con la sua Zaù. Dichiarato “Monumento Contro Tutte le Guerre, nonostante il restauro, le due cannonate del generale Renyer, del 12 febbraio 1807, sono ancora ben visibili.

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Castello Ruffo di Scilla

Il castello Ruffo di Scilla, talvolta noto anche come castello Ruffo di Calabria, è un’antica fortificazione situata sul promontorio scillèo che divide le due spiagge di Marina Grande e di Chianalea, proteso sullo stretto di Messina (già “stretto di Scilla”). Il castello costituisce il genius loci della cittadina di Scilla, circa 20 km a nord di Reggio Calabria, e sicuramente uno degli elementi più caratteristici e tipici del paesaggio dello Stretto e del circondario reggino. Sicuramente, il fatto di aver attraversato secoli e secoli di civiltà, ha alimentato grandemente miti, leggende e misteri che già normalmente nascono intorno ai castelli tanto che anche Omero ne parla nell’Odissea. La prima fortificazione a Scilla risale all’inizio del V secolo a.C.. Nel 493 a.C., il tiranno di Reggio Anassila, per porre fine alle incursioni dei pirati fece iniziare l’opera di fortificazione dell’alta rocca. Questa divenne per Anassilao un importante avamposto di controllo sul mare. Baluardo della sicurezza dei reggini, dotata di approdo, la fortificazione di Scilla è di fondamentale importanza agli effetti del felice esito della guerra contro la pirateria, consentendo ai tiranni di Reggio di opporre per lungo tempo una valida resistenza contro gli attacchi di nuovi nemici e contro i continui tentativi di rivalsa dei Tirreni sconfitti. Il dominio reggino sul luogo fu interrotto per soli cinquant’anni da Dionisio, tiranno di Siracusa, che, nel 390 a.C., assoggettò la rocca dopo un lungo assedio. La rupe pian piano divenne una vera fortezza, tanto che nel III secolo a.C. la fortificazione dei reggini, alleati dei romani, resistette validamente ai Punici alleati dei Bruzi. Successivamente Ottaviano, una volta disfattosi del rivale Pompeo, avendo compreso l’importanza strategica della rupe di Scilla che gli aveva offerto opportuno rifugio, decretò che venisse maggiormente fortificata. Infatti Plinio il Vecchio cita Scilla come Oppidum Scyllaeum (Naturalis historia, III, 76), e oppidum in latino è un termine usato per indicare un grande insediamento fortificato.

Scrive il geografo greco Strabone sullo Skyllaion (in greco Σκυλλαίον, originale denominazione greca del luogo):

« Dopo il fiume Metauro c’è un altro Metauro; segue poi il promontorio Skyllaion, in posizione elevata, che forma una penisola con un piccolo istmo a cui si può approdare da entrambe le parti. Anasilao, tiranno di Rhegion, lo fortificò contro i Tirreni, facendone una stazione navale; impedì così che i pirati attraversassero lo Stretto: vicino infatti c’è il promontorio di Caenys che è l’ultima estremità dell’Italia che viene a formare lo Stretto […] »

Nel 1533 il castello venne acquistato da Paolo Ruffo che decise di restaurarne il palazzo baronale poiché nel 1578 la famiglia Ruffo ottenne il titolo di principe. Il forte terremoto del 1783, che danneggiò tutta l’area dello Stretto e parte della Calabria meridionale, non risparmiò il castello di Scilla che però, divenuto proprietà demaniale dello Stato nel 1808, fu restaurato nel 1810. Il terribile sisma del 1908 distrusse gran parte dell’antica struttura del castello, mentre nel 1913 la parte superiore venne chiusa per ospitare il faro. Costruito nello stesso anno per fornire un riferimento alle navi che attraversavano lo Stretto, il faro è tuttora attivo ed è gestito dalla Marina Militare. Poi durante il periodo fascista alcuni ambienti vennero divisi in appartamenti destinati a impiegati e funzionari pubblici. Nell’ultimo trentennio il castello è stato utilizzato come ostello della gioventù, ma oggi, dopo un nuovo restauro, è un centro culturale: ospita infatti il Centro regionale per il recupero dei centri storici calabresi ed è sede di mostre e convegni. L’edificio presenta una pianta irregolare con parti databili a diverse epoche ma che nel complesso conservano tutt’oggi la configurazione abbastanza omogenea di una fortezza dotata di cortine, torrioni e feritoie. L’ingresso è preceduto dal ponte che conduce all’edificio il cui ambiente principale è caratterizzato dal portale di pietra costruito con arco a sesto acuto, sui cui campeggiano lo stemma nobiliare dei Ruffo e la lapide che celebra il restauro del castello eseguito nel XVI secolo. Superato l’androne a volta ribassata si apre un cortile, e da qui, percorrendo il grande scalone, si giunge all’ingresso della residenza. Questa è dotata di ampi saloni, essendo stata di proprietà di una delle più ricche e importanti casate del regno di Napoli.

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Castello Ducale di Corigliano

l castello di Corigliano Calabro è una fortezza risalente all’XI secolo, sito in provincia di Cosenza nel comune omonimo. È stato definito come uno “fra i castelli più belli e meglio conservati esistenti nell’Italia meridionale”. Le prime notizie che testimoniano la presenza di un avamposto fortificato risalgono ai Normanni, in espansione verso la Calabria e la Sicilia, i quali dovettero erigere un baluardo a difesa di Corigliano e a controllo di tutta la sottostante piana di Sibari. L’origine del castello di Corigliano Calabro è legata alla figura di Roberto il Guiscardo (Roberto d’Altavilla), il re normanno d’aspetto gigantesco. Fu lui, secondo il suo biografo Goffredo Malaterra, a volere nel 1073 la costruzione di un fortilizio vicino Rossano, nell’ambito della linea di difesa realizzata in Valle Crati tra il 1064 e il 1080. Rossano era allora ancora fortemente permeata di religiosità e cultura bizantina e frequenti erano gli episodi di ribellione verso i nuovi conquistatori. La vicina Corigliano, pur essendo solo un piccolo borgo arroccato sulla collina detta ” del Serratore”, poteva subirne l’influenza e Roberto non voleva correre rischi. Da qui la decisione di costruire il castello che, secondo la tradizione normanna, aveva non tanto lo scopo di proteggere il territorio da pericoli esterni, quanto di far sentire alla comunità il peso del potere dominicale. Il primo signore del castello di Corigliano fu un vassallo del Guiscardo, Framundo, proveniente da L’Oudon (Francia), al quale seguirono suo fratello Rinaldo e poi suo nipote Guglielmo. La fortezza era costituita solo da una torre e la trasformazione che porterà il castello all’aspetto attuale avvenne solo dopo l’avvento dei Sanseverini, una delle famiglie più importanti del Regno di Napoli, e in particolare di Roberto, conte di Corigliano.  A questo periodo infatti risale la costruzione all’interno del lato sud della struttura di alcune importanti e comode stanze signorili. Nel 1490, Alfonso Duca di Calabria, figlio di Ferdinando d’Aragona, rafforzò il potente mastio collegato al castello tramite un ponte levatoio protetto dal ravellino, allargò e reso più profondo il fossato su cui si poggiavano le scarpate delle torri di cui tre di loro sono più piccole e incastonate alla struttura quadrangolare. Nel 1538 il terribile pirata Barbarossa, nel corso di una delle sue incursioni in Calabria alla ricerca di schiavi e ricchezze, rivolse il suo attacco al territorio di Corigliano. I Coriglianesi, dopo una vana resistenza erano sul punto di cedere quando Pietro Antonio Sanseverino, sedicesimo conte di Corigliano, fece diffondere la notizia che un suo servo avevo sognato S. Francesco di Paola che gli aveva predetto una sicura vittoria contro i barbari incursori. Rassicurati da questa profezia, i cittadini si raccolsero nel castello e attorno alle porte delle mura cittadine, dopo una strenua resistenza riuscirono ad avere la meglio sui corsari guidati dal Barbarossa. Passato, nel corso dei secoli, oltre che sotto la potente famiglia dei Sanseverino, anche dai Saluzzo e dai Compagna, oggi il Castello Ducale, dopo una sapiente opera di restauro che ha coperto l’arco temporale 1988 – 2002, è un fiore all’occhiello non solo del territorio della Sibaritide ma di tutta l’Italia meridionale. Il mastio si divide in quattro livelli fino ad arrivare in cima alla torre, ogni livello ha la sua caratteristica diversa dagli altri.

  • Piano terra: Il piano terra che doveva far parte della struttura più antica del castello, è affrescato solo nella volta con motivi geometrici monocromatici.
  • Piano delle crociate: il più ricco dei quattro livelli con affreschi di antichi sovrani e cavalieri alle pareti e drammatiche scene di battaglie nelle numerose lunette incorniciate da stucchi sulla volta.
  • Piano dell’antica Roma: in questo piano gli affreschi nei tondi della volta eternano famose scene dell’antichità classica, in un geometria che si compone in petali avvolgendosi a fiore sul tortuoso stelo della scala.
  • Piano degli scudi: ultimo piano del mastio, sono presenti numerosi scudi effigiati ad intervalli regolari lungo il perimetro della volta sulla quale spiccano regali figure assise in trono, contornate dai simboli del loro potere.

Anima del mastio è la vertiginosa scala a chiocciola in ferro voluta dai Compagna che si riavvolge su se stessa per tutta l’altezza della torre, in un crescendo di decori ed affreschi eseguiti dal pittore fiorentino Girolamo Varna attorno al 1870.

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Castello ducale di Corigliano Calabro

Castello Murat

Maniero a Pizzo Calabro della seconda metà del XV secolo in cui, nel 1815, fu imprigionato e condannato a morte per fucilazione il Re di Napoli Gioacchino Murat. L’edificazione del Castello Murat avvenne in due periodi storici diversi. La prima parte di esso era costituita dalla sola torre più grande detta Torre Mastia o di avvistamento. La sua costruzione rientrava nel sistema difensivo attuato dagli angioini per la difesa dei centri abitati costieri dalle incursioni saracene e risale alla fine del 1300. Proseguito cento anni dopo da Ferdinando I D’Aragona, esso rientrava in quel processo di fortificazione delle coste dell’Italia meridionale il cui scopo era quello di contenere le scorrerie saracene che infestavano i mari del Sud. L’Aragona, infatti, rimasto solo contro i turchi, cercò di rendere sicuro il suo Regno, fortificando i luoghi costieri più esposti alle scorrerie saracene con l’ordinanza del 12 novembre 1480.  Per Pizzo fu disposto di aggiungere alla torre angioina già esistente, un massiccio corpo rettangolare, munito di una torre a tronco conico, alquanto più piccola della precedente, e di costruire poco più in basso, a strapiombo sulla Marina, una torretta di guardia. I lavori si protrassero dal 1481 al 1485. Ultimata la sua costruzione, il nuovo Castello, fornito di archibugi e di artiglieria, ebbe un presidio di soldati, sotto il comando di un Ufficiale. Esso non fu mai una residenza signorile, ma sempre fortezza militare e prigione dove vennero rinchiusi personaggi illustri quali il filosofo Tommaso Campanella, l’alchimista Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro, il filosofo Pasquale Galluppi e Ricciotti Garibaldi, figlio di Giuseppe ed Anita. Il prigioniero più celebre del Castello di Pizzo è Gioacchino Murat, re di Napoli e cognato di Napoleone, che giunse su queste coste con un manipolo di uomini per guidare una rivoluzione contro i Borboni che però non ci fu. Giunto a Pizzo l’8 ottobre 1815, fu subito fatto prigioniero e, dopo 5 giorni, fucilato. Nel suo complesso, il Castello conserva il suo aspetto originario. Esso si sviluppa su una pianta quadrangolare inscritta in un trapezio. Un tempo si accedeva attraverso un ponte levatoio, oggi sostituito da un piano di calpestio in muratura. Sul portale principale della porta d’ingresso c’è una lapide che ricorda Gioachino Murat. Il castello è composto da un piano a livello stradale e da un piano superiore. Sotto il piano a livello stradale, vi sono i sotterranei ai quali è vietato l’accesso, ma si narra che conducano fuori città, nei pressi di Vibo Valentia (circa a 11 Km) e verso il lago Angitola (circa a 7 Km). La parte della fortezza oggi visitabile riguarda i semisotterranei e il piano superiore. All’interno del maniero una ricostruzione storica con dei manichini in costume riproduce gli ultimi giorni di vita di Gioacchino Murat: nei semi sotterranei un corridoio lungo e stretto conduce  alle celle nelle quali furono rinchiusi Murat ed alcuni soldati della sua spedizione; al primo piano la sala in cui si svolse il sommario processo contro l’ex Re di Napoli, la cella in cui egli trascorse gli ultimi momenti della sua vita, nella quale si confessò con il Canonico Masdea e, infine, scrisse la lettera di addio alla moglie Carolina e ai suoi 4 figli. Sul ballatoio, il luogo in cui venne fucilato il 13 ottobre del 1815. Dalle terrazze del Castello si può ammirare il Golfo di Sant’Eufemia e lo Stromboli fumante da un lato e dall’altro la piazza di Pizzo, luogo di riunione storico per gli abitanti della cittadina e sede delle gelateria dove è possibile degustare il famoso tartufo.

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 Castello Normanno-Svevo di Cosenza

Il Castello Normanno-Svevo di Cosenza rappresenta il principale monumento della città dei Bruzi, che lo vede ergersi ormai da secoli su uno dei punti più alti della città, il colle Pancrazio, uno dei sette colli della città. E’ edificato su una motta artificiale di forma rettangolare, il cui orientamento rimanda alle edificazioni dei Bretii (VI sec a.C.), popolazione che era solita posizionare le proprie fabbriche rispetto alle direzioni astronomiche fondamentali. Per mancanza di fonti documentarie, non è certo che il luogo ove sorge il Castello sia esattamente quello occupato un tempo dalla Rocca Bretia, ma è indubbio che i cosentini Bizantini costruirono, nel 937 d.C., il proprio forte in cima allo stesso colle sulle rovine di un’antica rocca. E’ noto anche che dopo poco il capitano e califfo saraceno Saati Cayti rimaneggiò fortemente il Castello. Il forte viene spesso definito Normanno, e infatti, a partire dal XII secolo, Ruggiero II ingrandì il Castello, ne rinforzò le fondamenta e le mura, facendone una vera e propria roccaforte normanna. In questo periodo il Castello ospitò anche la Curia. Nel 1184 come molti altri monumenti storici della città, fu gravemente danneggiato da un terremoto, fino alla sua completa ristrutturazione durante il XIII secolo da parte di Federico II di Svevia (da qui la sua denominazione ufficiale: normanno-svevo). Durante il conflitto angioinoaragonese fu adibito a zecca per la realizzazione di monete, e venne successivamente trasformato in residenza principesca per Luigi III d’Angiò e la consorte Margherita di Savoia, venuti a governare la provincia calabrese. Nel 1459 vi dimorò Re Alfonso II di Napoli, fino a quando gli spagnoli, nel XVI secolo, non gli restituirono la sua funzione bellica, rappresentando per tutto il 1500 il fortilizio militare più importante della Calabria settentrionale. La sua storia si perde per tutto il 1600, ed essendo nuovamente danneggiato da numerosi terremoti cadde completamente in rovina. Fu ripreso dai Borboni che lo adibirono a carcere, e dopo l’unità d’Italia passò finalmente al comune di Cosenza che lo acquistò in un’asta pubblica. Dopo i restauri degli ultimi anni il Castello presenta ben conservati: la torre ottagonale, di epoca sveva, caratterizzata da strette “saiettiere” che permettevano ai difensori di usare le armi stando al coperto e con uno strombo d’apertura, gli stemmi di età angioina incisi sugli archi svevi a costoloni, che si immettono nel corridoio detto “dei fiordalisi”, lo scudo aragonese, le sale del trono, delle armi e dei ricevimenti oltre alla cisterna Santa Barbara,le segrete e il cortile interno. Un ultimo intervento di restauro sulla struttura, iniziato nel 2008, si è concluso nel 2015 ridando alla città il suo simbolo e rendendola nuovamente visitabile tramite un bus messo a disposizione per i turisti, e che permette a questi ultimi di raggiungere il castello in alto sulla collina.

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Castello Carlo V

Il castello di Carlo V è una fortezza di epoca medievale che sorge nella parte antica di Crotone. Costruito nel XV secolo per difendere la città dalle incursioni dei Saraceni, fu modificato nel 1541 da Carlo V. Presenta una pianta poligonale, e due torri: una più massiccia detta “Torre Aiutante”, e un’altra detta “Torre Comandante”. Attualmente il castello ospita una sezione del museo archeologico nazionale di Crotone e la Biblioteca Comunale “Armando Lucifero”. Il castello è di proprietà dello Stato ed è in totale consegna alla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria. Il castello di Crotone nasce come una rudimentale fortezza sull’antica Acropoli greca, per difendere il territorio dalle invasioni straniere. Nel corso degli anni, successive dominazioni apportarono modifiche per migliorarne la difesa, ma la costruzione attuale avvenne sotto gli spagnoli con il viceré Don Pedro di Toledo, ad opera dell’architetto italiano Gian Giacomo dell’Acaya, che ne fece una delle più possenti fortezze militari d’Italia. Si entrava nel castello dall’attuale Piazza Castello, grazie ad un ponte in parte fisso in muratura ed in parte levatoio in legno.  La porta principale era inserita in una torre a forma di piramide tronca che dominava le cortine occidentali tra le due torri d’entrata, il ponte ed il fossato. Nel fossato è stata messa in luce la base della grande torre quadrangolare detta “della manovella”, con la quale si sollevava il ponte. Il Baluardo di San Giacomo era una struttura importante perché dominava il porto e la Marina circostante. Serviva da riparo alle truppe e vi era il fanale principale del porto. Nel 1895 fu in parte demolito per ricavarne materiale da costruzione. All’interno del baluardo vi è una scala che conduce alla Porta del Soccorso, posta ai piedi del baluardo. La cortina orientale (detta de lo critazzo) tra il Baluardo di San Giacomo e quello di Santa Caterina ingloba i resti della Torre di Santa Maria, pertinente al più antico castello medievale, messa in luce grazie agli scavi compiuti nel 2010 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria. La Torre Aiutante, simile a quella del Comandante, era adibita a dimora degli ufficiali. La Torre Marchesana a base circolare armata di quattro cannoni sorgeva all’interno del castello, nella parte centrale più elevata ed era un ottimo posto di osservazione; usata come carcere per i forzati che costruivano il porto fu danneggiata dal terremoto nel 1862. Sottostante alla Marchesana vi era un’altra torre minore con numerose feritoie per i fucilieri. Il castello ospitava i soldati, la Chiesa di San Dionisio (1601), la Chiesa Nuova e la Chiesa di San Carlo (1859), l’alloggio del castellano, i magazzini dell’artiglieria, una caserma per le donne ed una prigione detta “La Serpe”. È stata anche restaurata la Caserma Campana.

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Castello Aragonese di Reggio Calabria

Il castello aragonese di Reggio Calabria è la principale fortificazione della città, sorge nell’omonima piazza Castello tra la via Aschenez e la via Possidonea. Esso è considerato, insieme ai Bronzi di Riace, uno dei principali simboli storici della città di Reggio. Dal 1956 ospita l’osservatorio dell’Istituto nazionale di geofisica. Anche se è universalmente conosciuto come “aragonese”, l’origine del Castello di Reggio è in realtà molto più antica infatti tracce di una fortificazione di questa zona della città risalgono all’epoca romana. Comunque l’esistenza documentata di un vero e proprio castello risale all’anno 536; successivamente nel 1059 passò dai Greci ai Normanni e nel 1266 a Carlo I d’Angiò. Dall’epoca dei Normanni, che vi stabilirono la corte, il castello fu modificato ed ampliato in più riprese e venne restaurato nel 1327, dopo le ripetute guerre tra Angioini ed Aragonesi, quindi fortificato nel 1381 dalla regina Giovanna I. Nel 1382 Carlo di Durazzo ordinò al capitano governatore di Reggio la restaurazione del castello ponendo scrupolosa attenzione affinché i lavori fossero adempiti da tutti gli addetti.

« La torre maestra del castello, detta Magna de’ Cola, circondata di mura, e la torre lombarda dovevano essere restaurati a spese della regia Curia; la torre Palombara a spese dei Giudei di Reggio; la torre di Mese a spese dei cittadini di Mesa; la torre detta di Santo Niceto dagli abitatori di Santo Niceto; la torre ch’era sulla porta dagli abitatori di Amendolea; la torre, detta Malerba da quei di Malerba; le fabbriche ch’erano nel castello accanto alla Chiesa a spese della regia Curia.
La Chiesa del castello dovea restaurarsi a spese dell’Abazia di San Nicola di Calamati; l’impennata sull’entrata della porta del castello a spese dell’abazia di Terreti.
Il vescovo, di Bova dovea, restaurare le stanze ov’erano, la cucina e la dispensa; gli uomini, del feudo di Leucio de Logoteta, il forno; l’abazia di San Giorgio de Enchia la sala, grande e finalmente l’università di Reggio dovea curare il restauro de’ barbacani. »

Comunque fu Ferdinando I di Aragona nel 1458 a far eseguire le modifiche più sostanziali, costruendo due grosse torri merlate verso sud e un rivellino ad oriente, fu aggiunto il fossato, alimentato dal torrente Orangi (che scorreva nei pressi dell’attuale piazza Orange) e dopo un primo intervento si dovette alzare l’opera di svariati metri per permettere ai cannoni di colpire fino al quartiere extraurbano di Sbarre, tutto sotto la direzione dei lavori di Baccio Pontelli (noto architetto e discepolo di Giorgio Martini). Nel 1539 Pietro da Toledo ne fece aumentare la capienza interna in modo da poter rifugiare quasi 1000 persone, permettendo di salvare più volte i reggini dalle invasioni dei Turchi durante le quali il castello fu usato come prigione. Comunque nonostante numerosi interventi, dall’epoca di Ferdinando I di Aragona l’aspetto rimase pressoché inalterato fino al 1869, quando ne venne decisa la riconversione in caserma, che comportò l’abbattimento del rivellino con l’unificazione del piano interno. Con l’unità d’Italia del 1874, scoppiarono diatribe tra chi voleva demolire il castello per fare scomparire l’ultima testimonianza del dominio spagnolo e chi ne voleva impedire la demolizione perché il castello rappresentava un monumento storico di tutte le antiche ed importanti memorie. Nel 1897 il Castello è stato dichiarato Monumento Nazionale. Più tardi venne danneggiato dal terremoto del 1908, e in parte anche demolito per poter congiungere la via Aschenez con la via Cimino secondo le indicazioni del discutibile piano regolatore, redatto malvolentieri da Pietro De Nava su consiglio dell’amministrazione. Fu però mantenuta la parte più antica e significativa del bastione, quella con le due torri aragonesi. Nel 1986 a causa di inadeguati lavori di restauro crollò un’altra parte del castello. Oggi, grazie a sapienti e moderni lavori di restauro conclusi con successo nel 2000, il castello si presenta in tutta la sua bellezza, ed è sede di periodiche esposizioni e mostre d’arte e di fotografia.

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Castello Ruffo di Nicotera

Il castello Ruffo di Nicotera è una residenza gentilizia che si erge nel centro storico di Nicotera, sede del “Civico museo archeologico” e del “Centro per lo studio e la conservazione della civiltà contadina del Poro”. Il primo castello edificato a Nicotera venne fatto erigere presumibilmente dal re normanno Roberto il Guiscardo nel corso dell’XI secolo, il quale lo fece erigere per controllare la Sicilia, teatro di guerra con gli Arabi, anche se altre fonti indichino il gran conte Ruggero il Normanno, quale promotore per la realizzazione dell’edificio militare. Di sicuro ciò che ha caratterizzato il castello per tutto l’arco della sua vita è il continuo susseguirsi di distruzioni e ricostruzioni, dovute sia ai disastrosi terremoti (in particolare al terremoto del 27 marzo 1638), sia alle distruzioni operate dagli assalti dei saraceni nel 1074 e nel 1085; oppure nel curioso episodio del 1284, quando le truppe armate dell’ammiraglio aragonese Ruggero di Lauria, artefice della cacciata degli angioini dalla Calabria, distrussero completamente il castello che venne in seguito ricostruito dallo stesso Ruggero di Lauria. Con l’avvento di Federico II sia la città che il castello subirono un processo di ampliamento e fortificazione secondo i canoni artistici degli svevi, costruendo e ampliando l’arsenale vicino al porto. Federico II fu artefice del principale sviluppo della città di Nicotera, pertanto è da considerare che il castello ebbe un ruolo principale nell’assetto della città. Da allora il castello ha attraversato secoli di storia e molte vicissitudini, tra cui il passaggio alla famiglia Ruffo. Secondo la tradizione, l’edificio è collegato alla marina di Nicotera attraverso cunicoli sotterranei e segreti. L’attuale fortificazione è opera dell’archittetto Ermenegildo Sintes che nel 1764 riconvertì il castello in residenza estiva per il conte Fulco Antonio Ruffo. L’edificio infatti, è stato eretto sulle rovine dell’antica fortezza svevo-angioina, realizzando torri angolari e ampie terrazze, dalle quali è possibile scorgere la marina sottostante. l castello durante il corso della sua vita ospitò illustri personaggi, quali san Bruno di Coloniasan Ludovico d’Angiòpapa Urbano IIGioacchino da Fiore e l’imperatrice Costanza d’Altavilla. La struttura, ad oggi ancora incompleta, fu edificata a pochi metri dai resti del precedente maniero normanno, di cui rimangono solo alcuni basamenti in pietra e una cisterna, in parte inglobati in un vicino palazzo gentilizio. La struttura appare come una massiccia mole dominante la sottostante Marina di Nicotera, con la facciata principale che presenta marcate analogie con la certosa di San Martino a Napoli. La pianta del castello Ruffo di Nicotera è quadrilatera, con tre torri angolari, quadrilatere anch’esse, la quarta torre non venne mai realizzata. Le due torri frontali, collegate da un susseguirsi di sette arcate, sono messe in comunicazione da una balconata sorretta da mensole di granito grigio. Oltre alla quarta torre manca anche parte del prospetto, abbattuto dal violento terremoto del 1783 che colpì la piana di Sant’Eufemia. I sotterranei del castello sono raggiungibili da un ingresso posto nel cortile interno del castello. Dall’ingresso, con portale in granito si accede a un corridoio con volta a botte, il quale fa da accesso anche al piano terra. Quest’ultimo ospita due ampie sale, la prima con volta a vela, mentre il secondo salone con volta a crociera è irraggiato dalle sette finestre che si aprono nelle sette arcate della facciata principale. Nel cortile del castello trova spazio un arco dal quale si accede all’atrio, pavimentato da grandi lastre di granito e adornato da un ampio scalone.

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Castello Svevo di Rocca Imperiale

L’Imponente fortezza di Rocca Imperiale fatta costruire da Federico II di Svevia nel 1225 a controllo della via Appia-Traiana, sorge a 200 m slm. Dopo la morte di Federico II, il castello fu affidato da Carlo I d’Angiò ai cavalieri dell’Ordine Gerosolimitano.  Alfonso d’Aragona non si limitò solo, nel 1487, a rafforzare la rocca, ma la ampliò e la ricostruì in modo da coprire il vecchio monumento svevo, forse più piccolo e con torre centrale quadrata. Diversi sono stati i feudatari nei secoli successivi; nel 1644 la rocca resse all’attacco di 4.000 pirati saraceni. Nel 1717 il castello passò ai duchi Crivelli di cui l’ultimo discendente si vendette mobili e persino le coperture dei tetti e infissi lasciandolo in completo abbandono, iniziando così quel periodo di devastazione che ridusse l’enorme mole a cava di materiale edile, soggetta ad ogni sorta di vandalismo. Negli ultimi anni sono iniziati i lavori di restauro, ancora in corso. Il castello svevo  appare come un’enorme nave di pietra, la prua rivolta verso Sud, le grigie fiancate protette da torri simmetriche, e sopra coperta, il cassero scagliato nel cielo. Analizzandolo nei suoi elementi, risulta costituito da un mastio poligonale a scarpa i cui lati più brevi, a Sud, si innalzano su un profondo burrone e i rimanenti, e pianta quasi rettangolare, sono rafforzati da due torri cilindrico–tronco–coniche ad Oriente, da una a sperone allo spigolo Nord-Ovest (torre frangivento) a da altra cilindrica, a sezione costante, al centro del lato posteriore, ad Ovest. A sua volta il mastio, tranne nei lati meno accessibili, è circondato da un muro di cinta provvisto di parapetto, che forma il fossato largo e profondo circa 8 metri; di un ponte levatoio esterno, di una via sopraelevata racchiusa in un bastione merlato anch’esso a sperone, alto 20 metri e di un secondo ponte levatoio più grande, interno, che chiudeva il portale di ingresso. Nella rocca, scaloni, arcate, fornici e spiazzali sorprendono ancora per il senso di vastità che vi impera; ma destano ancora assai meraviglia le previdenze e gli accorgimenti per rendere l’edificio inespugnabile, mediante l’assicurazione dei rifornimenti logistici con locali per deposito di olio e di grano, cinque cisterne a decantazione d’acqua ed una finestra che dà sulla costa scoscesa ad Occidente, nonché le sporgenze delle torri, un triplice ordine orizzontale di feritoie e una lunga serie di merli per battere efficacemente da ogni punto e con pochi uomini il suolo circostante. on mancano scuderie razionali per i cavalli del signore e degli uomini d’arme, casematte, sotterranei, corridoi intercomunicanti e trombe per l’aerazione nelle torri; anzi diverse gallerie furono interrate e si dice che ve ne fosse una, ora non rintracciabile, di uscita segreta all’esterno. Uno stanzone tetro tuttora esistente custodiva i prigionieri e più giù, dopo una serie di ambienti vari, era la sala dei supplizi, nella volta della quale è ancora infisso un anello di ferro che serviva per dare i tratti di fune e forse anche per le impiccagioni. A tutto questo complesso architettonico erano poi collegate le mura del paese che svolgendosi dal “Murorotto”, sul fianco di casa Giannattasio, dove si notano i resti di una torre quattrocentesca, raggiungevano “la Croce”, indi “l’Ospedale” e casa Moliterni dove avevano termine sull’orlo del precipizio di “Scalella”.

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Castello di Caccuri

Il castello di Caccuri ha origini molto antiche, edificato probabilmente nel VI sec. d.C. dai bizantini come presidio difensivo a guardia della valle del Neto. La fortificazione, costruita su una rupe posta a circa 650 m di altitudine, garantiva una straordinaria visuale del Marchesato e delle coste del mar Jonio. Nei secoli successivi il “castrum” perde la funzione militare, divenendo la residenza di famiglie prestigiose. Nel 1418 il castello è incluso tra i lasciti del Conte Carlo Ruffo di Montalto alla figlia Polissena che va in sposa al giovane Francesco Sforza, figlio appena diciassettenne di Muzio Attendolo. E’ proprio in virtù di questo matrimonio che il feudo di Caccuri passa agli Sforza e che il caccurese Cicco Simonetta segue Francesco a Milano, sino a divenire suo cancelliere, abile amministratore del Gran Ducato di Milano, nonché fine tessitore della politica milanese Quattrocentesca tanto che Niccolò Machiavelli, nel XVIII capitolo delle “Istorie Fiorentine” lo definì : “… messer Cecco, uomo per prudenza e per lunga pratica eccellentissimo…”). Nel XVI secolo inizia per il Castello un periodo di rapidi passaggi di proprietà, dalle famiglie Spinelli, Sersale e Cimino, sino al 1651, quando il feudo di Caccuri fu acquistato da Antonio Cavalcanti, Barone di Gazzella. Per i Cavalcanti, che acquisirono il titolo di Duchi di Caccuri, il castello rappresentò una stabile dimora per quasi due secoli; sono numerose le testimonianze che di questo periodo si possono ancora ammirare all’interno del castello : i portali in pietra e gran parte dell’impianto architettonico, gli affreschi su legno che adornano i soffitti di alcune stanze e soprattutto la splendida Cappella Palatina, che si conserva intatta e custodisce una collezione di dipinti Seicenteschi di Scuola Napoletana. Nel 1830 l’ultima erede dei Cavalcanti, la duchessa Rachele Ceva Grimaldi, vendette il feudo ai baroni Barracco. Don Guglielmo Barracco ne fece la propria dimora realizzando una serie di cospicui interventi di ammodernamento. I lavori, che furono progettati e diretti dall’ingegnoso architetto napoletano Adolfo Mastrigli, terminarono nel 1885 e trasformarono il castello in una residenza confortevole ed altamente tecnologica, la cui testimonianza più importante è senz’altro la particolare torre acquedotto. Dopo la morte di Guglielmo il castello fu disabitato per anni, fino a quando, nella prima metà del ‘900, ai Barracco subentrarono gli attuali proprietari, la famiglia Fauci, originaria di Isola di Capo Rizzuto. Nell’ultimo decennio, grazie ad un meticoloso e prudente restauro conservativo, Romeo Fauci ha ridonato al castello l’antico splendore, preservandone l’autenticità : oggi il Castello di Caccuri è una dimora storica Ottocentesca “vissuta” ed arredata, volta ad ospitare attività culturali ed eventi di rappresentanza, oltre che resort di classe elevata infatti le lussuose suite aperte all’ospitalità su prenotazione rendono il castello di Caccuri un B&B suggestivo ed assolutamente unico nel suo genere con la possibilità di vivere le atmosfere autentiche ed emozionanti della dimora, magari leggendo un vecchio libro della biblioteca, cenando a lume di candela nel salone dei banchetti, per poi sorseggiare un cognac nello studio sulle note di un sottofondo jazz, o ammirando il panorama dallo splendido giardino pensile. Altra perla del castello è la cappella Palatina databile intorno al 1669, anno in cui Antonio Cavalcanti ottiene l‟indulto “oratorii privati in domo suae abitationis”. L’interno è ad aula, ripartito da un arco di trionfo sul quale spicca lo stemma dei Cavalcanti e che segna l’accesso alla zona presbiteriale, caratterizzata dall’originario soffitto ligneo a cassettoni con decorazioni dipinte. L’altare maggiore, in legno laccato e dorato, ha una fitta decorazione acantiforme, presente anche sulla esuberante cornice della pala d’altare che raffigura Santa Barbara. L’altare laterale, decorato con stucchi in stile rococò, è dedicato a San Gaetano da Thiene. Di grande interesse artistico è l‟inedita e originale collezione di dipinti Seicenteschi di Scuola Napoletana, tra cui la “Maddalena penitente con paesaggio” di Micco Spadaro (1610-1675) ed il “Miracolo di San Tommaso d’Aquino“ di Domenico Maria Muratori (1661-1742). La Cappella, i cui altari sono entrambi consacrati, conserva intatti gli arredi e le res sacrae originali (candelieri, messali, paramenti sacri). Di particolare pregio la porta a vetri dipinti di gusto neorinascimentale, realizzata nel 1893.

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Castello Normanno-Svevo di Vibo Valentia

Si staglia maestoso sulla collina dove era situata l’acropoli dell’antica Hipponion e domina, con la sua forma di nave, la città di Vibo Valentia e la bassa valle del Mesima. Edificato tra il 1070 ed il 1074 d.C. per volere di Ruggero il Normanno, che in questi lidi aveva condotto e accampato il suo esercito, il maniero era probabilmente una semplice fortificazione, costituita da una sola torre triangolare al centro di altre tre torri circolari. Nonostante i forti rimaneggiamenti ricevuti, il castello di Vibo Valentia conserva l’impianto normanno. Il castello fu ampliato ed in parte rifatto in epoca sveva da Matteo Marcofaba, governatore della Calabria incaricato da Federico II di ripopolare il borgo. A questo periodo risale certamente la torre poligonale, all’angolo nord-est del complesso, costruita in conci ben squadrati, dalle notevoli dimensioni e dalla disposizione ordinata, tecnica riscontrabile in altri castelli coevi, della Puglia soprattutto. Altre aggiunte e modifiche furono eseguite per volere dagli angioini, che dal 1277 vi insediarono una guarigione militare stabile. Quasi nulla si intravede dei restauri eseguiti dagli aragonesi, anche se un documento del 1494 a firma di Carlo d’Aragona menziona rifacimenti consistenti dell’impianto difensivo. Il castello di Vibo Valentia perse la sua funzione difensiva, divenendo residenza nobiliare sotto Ettore Pignatelli nel 1501, avendo egli acquisito dagli spagnoli il privilegio di modificarlo a suo piacimento. Nei quasi tre secoli della loro signoria, i Pignatelli fecero modificare l’ingresso sud, con una doppia porta con caditoia. Fu realizzato il portale occidentale, sormontato da una lapide in marmo recante lo stemma di famiglia. I primi seri danni all’edificio furono causati dal terremoto del 1659, ma dopo il devastante sisma del 1783, l’unico ambiente rimasto ancora integro fu la torre poligonale. Venne infatti abbattuto il secondo piano poichè pericolante. Abbandonato definitivamente dalla famiglia Pignatelli, il castello di Vibo Valentia, divenne carcere dopo qualche restauro effettuato dai Borboni, e perciò assalito ed ancora danneggiato durante la sommossa popolare del 1858. Successivi interventi lo hanno trasformato in caserma. Il lento recupero del castello di Vibo Valentia, tra i rari castelli di Calabria che presentano evidenti contaminazioni angioine, inizia negli anni ’70. Oggi il castello è sede del Museo Archeologico di Vibo Valentia, che conserva dei reperti provenienti dall’antica Hipponion e dal territorio circostante, nonchè degli uffici provinciali della Sovrintendenza per i Beni Archeologici della Calabria.

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Castello Aragonese di Castovillari

Imponente complesso di età tardo-medievale, il castello si erge sopra un istmo pianeggiante del borgo antico di Castrovillari, a strapiombo sulle valli del Coscile e del Fiumicello. Nel 1490, per volontà del re Ferdinando d’Aragona, quasi certamente sul sostrato di un fortilizio più antico di età sveva, venne fortemente ristrutturato. Giunto in Calabria per sedare l’infausta congiura dei Baroni, Ferdinando fece rinforzare alcuni castelli ritenuti strategici per il controllo dei suoi possedimenti. Sul portale d’ingresso, lo stemma delle armi reali aragonesi, affiancato da due putti, reca anche una scritta dedicatoria in latino, secondo la quale Ferdinando I d’Aragona fece costruire il castello Castrovillarese per tenere a freno i cittadini che più volte si erano ribellati al dominio straniero. L’imponente costruzione di Castrovillari, adibito a carcere dal 1495 al 1995, si presenta come un unico blocco murario trapezoidale all’esterno e rettangolare all’interno, interrotto soltanto da quattro torri angolari cilindriche, ed era circondata, in epoca antica, da un profondo fossato che alcuni studiosi ritenevano pieno d’acqua, mentre altri sostenevano che vi fossero allogati dei “capannati” ( in realtà nell’architettura militare del XV secolo non prevedeva l’acqua nei fossati). Era altresì dotata di un ponte levatoio, ma era priva di finestre ed aperture notevoli e dovevano esserci soltanto feritoie, caditoi e rare fenditure di difesa. Ad un indagine più approfondita, risulta che la torre posta a nord-ovest, nei pressi del Ponte della Catena, ha una pianta poligonale con i lati irregolari e ciò farebbe pensare ad una struttura innalzata sui ruderi di una torre preesistente di epoca normanno-sveva. La torre più grande, invece, il cosiddetto “mastio”, decorata da archetti pensili (beccatelli), è tristemente nota come la “torre infame” (o “della fame”, secondo alcuni storici), a causa delle punizioni terribili inflitte ai prigionieri in essa rinchiusi. L’interno attualmente presenta un ampio arioso cortile in cui si aprono gli ingressi alle varie abitazioni. I sotterranei della torre, sono caratterizzati da una serie di corridoi bui, di passaggi segreti e di umide e tetre stanze dalle volte a botte. E’ plausibile che il castello sia stato progettato, come gli altri in Calabria, secondo i criteri architettonici del celebre ingegnere militare Francesco di Giorgio Martini, operante alla corte d’Aragona, anche se le fonti storiche locali parlano del Castrovillarese Paolo Giannitello come costruttore del maestoso edificio. In verità molti studiosi ritengono che il nome del Giannitello sia quello del notaio che aveva redatto un atto di vendita i cui denari, trecentosessanta ducati, servirono appunto per la costruzione del castello. Carlo V vendette il borgo di Castrovillari alla nobile e crudele famiglia Spinelli di Cariati, per poi essere ceduta ai Sanseverini e ripresa dagli stessi Spinelli che crearono una atmosfera di terrore in città. Ancora più atroce fu l’800, quando, durante la lotta al brigantaggio, la “torre infame” divenne teatro di orrendi delitti, anche a causa di un feroce e crudele carceriere, Francesco Minervini da Cassano. Costui, descritto da diversi storici, era alto e giallastro in viso, aveva lunghi e scarmigliati capelli e portava con sé una lunghissima mazza con la punta di ferro, con la quale infieriva barbaramente contro i prigionieri, seppellendoli vivi, senza né acqua né cibo, nei sotterranei. Si racconta che, attraverso camminamenti sotterranei si giungesse direttamente dal castello a palazzo Cappelli, sede del Tribunale della città a partire dal 1862.

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Castello Normanno di Stilo

Tra i castelli della Regia Curia, come si ha dai documenti del 1269, figura anche quello del castello Normanno di Stilo. Questo era stato costruito da Ruggero il Normanno sul Monte Consolino, luogo da cui si poteva dominare meglio tutta la cittadina e la vallata fino al mare Ionio. Per i tempi il Castello di Stilo ebbe una grande importanza strategica ed alla sua manutenzione erano tenuti molti, enti e persone, come si rileva dall’Archivio della Regia Zecca dell’anno 1281. Il Castello che s’innalza sulla vetta del Consolino è strettamente legato allo sviluppo di Stilo, che era anche circondata da mura, torri ed altri baluardi opportunamente eretti a difesa e in parte ancora esistenti. Padre Apollinare Agresta, abate generale dell’ordine basiliano, nel volume La vita di San Giovanni Theristi del 1677, così parla del castello di Stilo :”… per essere questo castello assai forte sopra tutti gli altri della provincia, era in quei tempi pregiatissimo a’ Re e godeva alcune prerogative e fra l’altre, che molti Baroni e feudatari, fossero obbligati alle di lui riparazioni”. Il castello di Stilo era cinto da varie opere di difesa che lo rendevano assolutamente inespugnabile. Di queste cinture se ne possono identificare ancora parecchie lungo l’erta del monte Consolino. C’erano inoltre, sparsi qua e là, strategicamente, altri posti di guardia e singole difese che potevano rendere sempre più difficile, per non dire impossibile, il passaggio al nemico, che avesse eventualmente forzato le altre opere difensive. In questi recinti si distinguono ancora tre porte e due postazioni ricordate con il nome delle antiche macchine (armi) di difesa che ivi erano installate: ingenia e mangana. La cinta bassa delle fortificazioni cominciava poco più sopra della chiesetta bizantina La Cattolica. Altri sbarramenti, serbatoi di acque e rifugi precedevano il castello vero e proprio che aveva fortificazioni autonome coronate da parecchie torri semicircolari. Al tempo di Carlo d’Angiò nel castello di Stilo furono rinchiusi parecchi prigionieri politici a cui vennero mozzati mani e piedi per avere tentato la fuga. Una fuga non più possibile quando le prigioni furono scavate sotto il castello, sulla parete del Monte Consolino, là dove la montagna di calcare sprofonda a picco e a strapiombo per centinaia di metri. Ecco perché quelle prigioni non avevano nemmeno una porta, perché si poteva entrare o uscire soltanto se si era calati o issati dall’alto con un paranco. Il Castello vero e proprio era formato da un complesso di fabbriche abbastanza esteso, di forma rettangolare. Subito dopo la porta, due possenti torri, posteriori al nucleo più antico, difendevano l’entrata all’interno. Sulla torre quadrata (chiamata d’Altavilla, con chiaro riferimento all’epoca normanna), si apriva una sala. Un’altra più grande, nella torre maggiore, che aveva altre camere su tre piani. Vi erano altri vani annessi alle cucine ed al forno. Tutte le torri erano provviste di larghe feritoie (a bocca di lupo) donde potevano essere rotolati sassi, versato olio bollente ed altri mezzi di difesa propri del tempo. Nella parte centrale del castello c’era una chiesa o cappella. Dai tetti, con opportune condutture ricavate con tegole affrontate e con tubi di coccio (ancora esistenti), si otteneva la raccolta di acqua piovana che andava a finire in una vasta cisterna che occupava lo spazio sotterraneo sottostante ad una buona parte dell’edificio centrale. Nei castelli come quello di Stilo non dovevano essere ammesse donne. Tanto il castello quanto le opere accessorie lungo il monte cominciarono a subire gravi danni durante la guerra tra Francesi e Spagnuoli. I Francesci del Bonaparte, nel 1806, diedero il colpo di grazia. Al castello va riferita una singolare leggenda che richiama il tempo delle incursioni saracene, durante le quali Stilo fu spesso assediata. In uno di questi assedi la popolazione atterrita, per suggerimento del suo protettore S. Giorgio, si rifugiò sul monte. Ma perdurando l’assedio, cominciavano a difettare i viveri e specialmente l’acqua.Allora il Santo ordinò che tutte le donne che allattavano bambini raccogliessero in apposito recipiente il latte: ne fu confezionata una grossa ricotta che fu posta alla bocca di un cannone. Cadde sul campo nemico e i Saraceni a quella vista giudicarono che non avrebbero potuto prendere per fame la città, se aveva tanto di cibo da regalarne perfino ai suoi nemici. Così tolsero l’assedio ed andarono via. Il punto dove la provvidenziale ricotta femminile cadde ebbe in seguito il nome di Vinciguerra, nome che dura tutt’ora. Ma oggi del castello normanno di Stilo non restano che i ruderi.

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Castello del Principe

Tra i castelli più belli e meglio conservati della Calabria, il castello di Belvedere Marittimo, altrimenti detto del Principe, fu costruito nella seconda metà del XI secolo per volere di Ruggiero il Normanno. In origine la sua dimensione doveva essere limitata e, probabilmente si sviluppò intorno ad un preesistente castrum. Il primo impianto fu eretto probabilmente dai longobardi ma l’unica notizia accertata è che esisteva prima del 1046 quando fu occupato da Guglielmo Bardote, mercenario del principe di Capua Pandolfo IV, sottraendolo di fatto al Principe di Salerno Guaimario IV e usandolo come base per portare scompiglio sul territorio. Guaimario chiese aiuto al re Normanno Dragone che cinse d’assedio la città e tramite consiglio di un contadino la incendiò e la libero dall’occupante. Solo successivamente il castello venne adibito a dimora stabile dei signori locali succedutisi nel feudo di Belvedere Marittimo. Divenuto e adibito quindi a residenza, prese il nome di castello del Principe. Nel corso dei secoli molte famiglie nobili si successero nel possesso del maniero. Nel 1269 passò da Carlo I d’Angiò a Giovanni di Montfort. La baronia continuò con Simone di Bellovidere e con il feudatario Ruggero di Sangineto, che restaurò la struttura sia nel 1287 che nel 1289. Rimase proprietà dei Sangineto fino al 1376. Seguirono i Sanseverino fino al 1382, gli Orsini del Balzo fino al 1405, i Cutrario fino al 1426 e nuovamente i Sanseverino. Quando il regno di Napoli fu conquistato dagli aragonesi nel 1426, molti feudi vennero confiscati, e tra questi anche quello di Belvedere Marittimo. Ferdinando d’Aragona infatti, raggiunse la Calabria per sedare l’infausta congiura dei Baroni ordita contro di lui. Fece quindi potenziare i castelli di Castrovillari, Corigliano e Belvedere Marittimo, oltre a edificare quello di Pizzo. Nel 1490 il castello venne munito di ponte levatoio e ampliato con mura e due torri cilindriche merlate alla maniera guelfa. Ancora oggi l’ingresso è sormontato da una lapide con stemma aragonese retta da due putti. Nel 1494 il feudo ritornò ai Sanseverino fino al 1595, tempo intervallato da un breve dominio dei Giustiniani. Nel 1622 il comune di Belvedere Marittimo fu scisso dalla baronia dei Sangineto e divenne proprietà della famiglia feudataria dei Carafa, ai quali rimase fino alla confisca. Il castello di Belvedere Marittimo è una struttura a pianta quadrata con le due torri esposte a sud. Sia queste ultime che le mura presentano accorgimenti di carattere difensivo tipicamente aragonesi, come il redondone e base scarpata. A sud e a ovest si vedono i ruderi del fossato e i piccoli spazi in cui erano legate le catene del ponte levatoio. Il castello del Principe di Belvedere Marittimo è stato dichiarato monumento nazionale e il modello in plastica è riprodotto ne “L’Italia in miniatura” a Rimini.

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Regio Castello di Amantea

Il castello di Amantea (già Regio castello di Amantea) è situato nell’omonima città, in provincia di Cosenza, nel basso Tirreno cosentino. A dominio della strada costiera e della via per Cosenza che corre lungo la valle del fiume Catocastro, fu in passato un’importante piazzaforte sotto i bizantini, gli arabi, i normanni, gli svevi, gli angioini e gli aragonesi. Fu risistemato nel periodo viceregnale e sotto i Borbone, ma subì gravi danni durante i terremoti del 1638 e del 1783; fu lasciato in stato abbandono dopo il disastroso assedio del 1806-1807 subito da parte delle truppe napoleoniche. Attualmente il castello è in rovina, e l’accesso ai resti sul colle che domina la città risulta piuttosto faticoso. Nel 2008, la proprietà dell’area è stata acquistata dal Comune di Amantea. La città vecchia di Lampeteia o Clampetia fu spazzata via da un maremoto del 365 e venne poi ricostruita sotto il nome di Nepetia (“nuova città” o “nuovo accampamento” in greco).  Nepetia fu occupata dai bizantini e dopo il 553 fu sede di un governatorato militare e di una piazzaforte sui confini settentrionali del thema di Calabria. Furono dunque i bizantini i primi a fortificare il sito dell’attuale Amantea: tuttavia, il nome attuale venne alla città dalla dominazione araba. Nell’846 infatti Nepetia venne conquistata dagli arabi di Sicilia e ribattezzata “Al-Mantiah”, “la rocca”. I Normanni conquistarono Amantea nel 1060-1061, scacciandone una volta per tutte i bizantini. Nel 1094 la diocesi di Amantea venne aggregata a quella di Tropea, nel quadro della latinizzazione dei culti nell’Italia meridionale voluta dal papato e dai sovrani normanni. Durante la dominazione normanna Amantea decadde, rimpiazzata come importante centro di controllo del territorio dalla vicina Aiello Calabro. Sotto la dominazione sveva il castello venne rafforzato, nell’ambito del piano del ripopolamento delle zone costiere voluto da Federico II. In virtù del buon governo svevo, Amantea ed altri castelli della zona resistettero tenacemente al nuovo sovrano di origine francese Carlo I d’Angiò: questi inviò il conte di Catanzaro Pietro Ruffo a riconquistare la città, che resistette alle preponderanti forze angioine per tutto il mese di maggio del 1269, prima di capitolare alla metà di giugno di quello stesso anno. I ribelli furono quasi tutti puniti atrocemente. Amantea fu al centro delle vicende della cosiddetta “guerra dei novant’anni” tra Angiò ed Aragona per il possesso del Regno di Napoli e Sicilia, seguita al casus belli dei Vespri siciliani. La popolazione amanteota era di tendenza aragonese; il castello, difeso da duecento uomini e ben provvisto di viveri dai castellani di fede angioina, fu assediato dalla flotta e dall’esercito aragonese nel 1288, e capitolò a patti onorevoli. Il castello tornò agli Angiò in forza della pace di Caltabellotta del 1302: dopo un periodo di ritorsioni contro gli amanteoti per la loro fede aragonese, la città ottenne dagli ultimi sovrani angioini-durazzeschi importanti esenzioni e privilegi che portarono un aumento di popolazione. Sotto gli aragonesi, la castellania venne affidata alla famiglia Carafa, duchi di Maddaloni. Nel 1600 e 1700 fu colpito da vari terremoti ma fu sempre ricostruito. Durante i fatti della Repubblica Napoletana (1799), Amantea si consegnò spontaneamente ai giacobini: la popolazione di fatto disarmò la guarnigione del castello, e piantò l’albero della libertà, guidata da Ridolfo Mirabelli, capo della piazza nel breve periodo rivoluzionario. Infatti dopo neppure un mese sopraggiunsero i sanfedisti guidati dal cardinale Fabrizio Ruffo, che vennero rapidamente a capo del tentativo di resistenza giacobino. Fu invece con l’invasione napoleonica che il castello di Amantea ebbe il suo ultimo momento di gloria. All’interno delle mura cittadine i “capimassa” borbonici iniziarono ad organizzare la resistenza all’imminente contrattacco in forze dei francesi, analogamente a quanto si stava facendo nei paesi vicini. In quelle settimane all’interno dei paesi calabresi furono perpetuati delitti e violenze contro giacobini o presunti tali, spesso solo nemici personali dei borbonici al comando in quel momento. Ad ogni modo, l’attacco francese principale iniziò il 5 dicembre 1806: le forze assedianti ammontavano a 5000 uomini con un reparto d’artiglieria comandati dai generali Guillaume Philibert DuhesmeJean ReynierJean-Antoine Verdier e dal tenente colonnello di origine amanteota Luigi Amato. I borbonici assediati ammontavano a qualche centinaio, dotati di 12 bocche da fuoco in tutto, e capitanati da Ridolfo Mirabelli, che alla fine dell’assedio sarà decorato con il grado di tenente colonnello dal re Ferdinando IV di Borbone. La piazza di Amantea resistette strenuamente fino al 7 febbraio 1807, quando Mirabelli e Reynier firmarono una capitolazione onorevole. Dopo l’Unità d’Italia (1861), l’area del castello venne assegnata dal demanio militare al 5º Corpo d’Armata, ed in seguito ad un ente assistenziale napoletano. Negli anni settanta, con il progressivo ridimensionamento di questi enti in vista del loro scioglimento, l’area fu messa in vendita. Così il castello nel 1974 fu acquistato dalla famiglia Folino. Il Comune di Amantea lo ha rilevato nel 2008. Il castello occupa un plateaux con bella visuale sia sul piccolo golfo del fiume Oliva sul mar Tirreno (e nei giorni di tramontana è possibile vedere addirittura l’isola di Stromboli e Pizzo), sia sulla valle del fiume Catocastro, inoltrandosi attraverso la quale si arriva a Cosenza lungo l’antico tracciato della via Popilia. Probabilmente fu in età normanna e sveva che venne fortificata pesantemente la parte meridionale del colle, decentrata rispetto all’abitato ma rivolta verso gli obiettivi che interessava tenere sotto controllo in quell’epoca, ossia le vie di comunicazione tra la costa e l’interno. La torre mastia ovoidale rivolta a nord-ovest, detta di San Nicola, fu realizzata in età angioina, a giudicare dallo stemma recante i gigli di Francia che vi rimane sopra; e pure in età angioina, pare sotto il regno di Giovanna I d’Angiò, fu costruita la torre circolare con vista mare, isolata dal complesso propriamente fortificato. In età aragonese le mura furono abbassate ma rinforzate in spessore, fu costruito un rivellino d’accesso sul lato orientale (oggi completamente crollato) e realizzato uno spalto che precedeva il fossato in tutta la sua lunghezza. Oggi è quasi interamente conservato il grande bastione rivolto a sud, a scarpa con rodendone, poggiante sulla viva roccia della rupe, già di per sé formidabile difesa. Oggi restano davvero pochi avanzi degli ambienti interni del castello, perciò è possibile saperne qualcosa di più solo scorrendo le planimetrie e le vedute settecentesche. Questo grande quadrilatero era tutto circondato da un fossato, già invaso da erbacce nel Settecento, ed ancora oggi esistente: in particolare, rimane la parte in muratura dell’accesso secondario al castello, sul lato settentrionale. Il ponte levatoio è andato distrutto. Oltre il fossato, il resto dell’altopiano era circondato da un muretto diroccato già nel Settecento, che formava una sorta di “cittadella” o “avanzata” concepita per intrappolare il nemico che fosse riuscito a penetrarvi. Al castello è possibile salire da almeno quattro sentieri, piuttosto difficoltosi: uno parte dalla Strada Tirrena poco prima della confluenza con corso Umberto I, un altro incomincia a destra della chiesa del Carmine in corso Umberto I, un terzo (Salita San Francesco) si sviluppa dall’antica porta urbica fino a toccare anche le rovine del complesso francescano sottostanti la torre angioina, un quarto infine parte dalla chiesa del Collegio (a cui sono annesse le imponenti rovine dell’ex-collegio gesuitico).

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Castello di Squillace

Il castello normanno di Squillace si erge sulla sommità del colle dove è adagiata la cittadina calabrese, conferendogli un’immagine imponente. Al visitatore che vi arriva dal centro storico, appare un portale bugnato sulla cui parte superiore campeggia lo stemma in marmo dei Borgia. Nel corso dei secoli il fortilizio ha subito numerosi, a volte anche pesanti, rimaneggiamenti, motivo per cui oggi si presenta con un’architettura discontinua, apparentemente non assoggettata a precisi canoni progettuali. La facciata del castello è ristretta fra due diverse torri. A sinistra quella cilindrica posata su un cono tronco, a destra dell’ingresso quella poligonale, decisamente più marcata come dimensione. Il castello fu in origine di proprietà bizantina. Agli inizi del decimo secolo, presumibilmente nell’anno 904, il castrum diventò roccaforte dei musulmani che insediarono l’emiro africano Abstaele. Gli succedette nel 921 il suo omologo Olkbek che vi fu ucciso alcuni anni più tardi. Vi subentrò allora l’emiro Saklab. La riconquista da parte dei bizantini, avvenuta nel 965, fu vanificata nel 982 quando Ottone di Sassonia conquistò la fortezza. Ma le scorribande degli eserciti provenienti dal Mediterraneo non erano finite. Così, all’alba dell’anno 1000, l’emiro Mihel giunse a Squillace, ne mise a ferro e fuoco l’abitato e riconquistò il castello. L’affermazione definitiva dei Normanni si registra nel 1059. Squillace viene così annessa tra le grandi contee feudali del sud dell’Italia. Proprio con l’avvento di Ruggero d’Altavilla, detto “il Normanno”, questa cittadina conobbe un periodo di grande sviluppo economico e di pace, nonostante nel luogo convivessero varie etnie e culture, anche di lingue diverse. Contestualmente furono realizzate importante infrastrutture e venne introdotto ufficialmente il culto latino. All’arrivo di Federico II il castello di Squillace assurge allo status di fortezza per il controllo strategico e militare, secondo la politica federiciana. Città e castello vengono dati in concessione ad Elisabetta d’Altavilla alla quale, nel 1231, subentrerà il camerario dell’imperatore svevo Riccardo. Otto anni dopo lo statuto federiciano norma le regole e la lista dei castelli da ristrutturare e, quello di Squillace, non compare tra di essi. Sempre nel 1239 il castello sarà ammodernato e chiare appaiono le influenze architettoniche delle maestranze francesi chiamate alla corte sveva. Alla morte di Federico l’architettura viene rafforzata ulteriormente in funzione di difesa nell’ambito delle lotte tra Svevi ed Angioini per la conquista del meridione d’Italia. Nell’anno 1256 gli Squillacesi, per ordine del principe Manfredi, figlio di Federico II, vengono assoggettati al dominio di Federico Lancia e, più tardi, del fratello Galvano. Correva il 1271 quando gli Angioini confiscarono i feudi degli Svevi e li assegnarono a Giovanni di Montfort. Fino al 1445 vi saranno vari domini sul castello e sulla città: nell’ordine i conti Lancia, i Montfort, i Del Balzo ed i Marzano. Giunge poi l’epoca aragonese. Nel 1484/1485 Federico d’Aragona, futuro re di Napoli, sarà il principe di Squillace. Fra il 1494 ed il 1735 a governare sono invece i Borgia. Ciò prese le mosse dal fatto che, il 7 maggio 1494, papa Alessandro VI pianificò le nozze fra il suo figlio tredicenne Goffredo e la figlia di Alfonso d’Aragona, Sancha (o “Sancia”). Goffredo divenne il primo principe di Squillace appartenente alla dinastia Borgia. Venne seguito da Francesco, Giovanni, Pietro, Anna e da Antonia Borgia d’Aragona (o “Pymentall”). Alla scomparsa di Donna Antonia, nel 1729, Squillace venne dichiarata “stato aperto” ed annessa alla Regia Corte. Fu così che il territorio venne declassato al grado di marchesato e, nel 1755, viene regalato da Carlo III di Borbone al marchese Leopoldo De Gregorio da Messina, ultimo feudatario della città. La dominazione dei Borgia, tristemente famosa per i pesanti balzelli imposti al popolo, terminerà con l’arrivo dei francesi. Il castello va in rovina in seguito al sisma del 1783. Da ricordare che il castello, sotto il governo borbonico, fu anche carcere mandamentale. Anche il filosofo Fra’ Tommaso Campanella di Stilo vi fu rinchiuso per un periodo, in attesa del processo in cui doveva rispondere per avere favorito una tentata rivolta antispagnola. La funzione di casa circondariale fu svolta fino al 1978 quando la struttura venne sottoposta al recupero monumentale. Nel corso della sua lunga vita il castello di Squillace fu teatro di importanti avvenimenti, tra cui l’incontro del 1098 tra Ruggero il Normanno e Brunone di Colonia che ricevette in dono il bosco di Santo stefano, nella cui pace e serenità potè edificarvi il famoso convento della Certosa di Serra San Bruno. Grazie alla sua posizione a dominio della città, dal castello di Squillace si gode il magnifico panorama sul mar Ionio, che spazia dalle splendide spiagge di Caminia di Stalettì fino al promontorio di Capo Rizzuto. La vicinanza di Squillace sia al mare, sia alle montagne delle Serre, rende la località ottima meta per il turismo estivo, ma anche per escursioni naturalistiche nel vicino Parco Regionale delle Serre, e archeologiche per la vicinanza del Parco Archeologico di Scolacium.

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Castello Normanno di Amendolara

Il Castello di Amendolara, posto al culmine di una rupe che si erge a strapiombo sulla vallata sottostante, sulla quale è arroccato l’antico borgo medievale, fu costruito intorno all’VIII-IX secolo, forse sui resti di una preesistente fortezza longobarda.  I Normanni con Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria e signore di Amendolara, cominciò ad edificare il Castello. Il Guiscardo in seconde nozze nel 1058 sposò la principessa di Salerno Sichelgaida, ed ebbe una figlia di nome Mabilia, alla quale diede in dote il castello di Amendolara con tutto l’Alto Ionio. I Normanni tennero in grande considerazione il castello di Amendolara, perché era l’unica stazione di riposo e di ristoro tra Mileto (CZ) capitale dei Normanni e la Puglia. Gli stessi, occupata la Sicilia nel 1091, trasferirono a Palermo la sede della corte, e per la Calabria la speranza di una rinascita svanì. Federico II il quale fece abbellire e restaurare il castello, diventando “domus imperialis”, e vi soggiornò in diverse occasioni durante i suoi numerosi viaggi verso la Sicilia e la Puglia. Federico II ci trascorrerà periodi di riposo destinati al diletto della caccia con il falcone, da cui prende il nome contrada Falconara. A Federico II, morto nel 1250, successe il figlio illegittimo Manfredi che sposò la regina Elena d’Epiro. Questi, durante il viaggio in Puglia, sostarono nel Castello di Amendolara dove per l’ultima volta furono ospitati dei reali, e ciò avvenne nell’anno 1263. Fu poi residenza di tutte quelle famiglie nobili che ebbero il possesso del feudo di Amendolara, fra cui i Sanseverino, i Marra, baroni Gambarotta, i Ruffo, i Carafa, i Pignatelli di Bellosguardo. Questi ultimi dovettero lasciare il Castello nel 1808, quando lo Stato incamerò tutti i beni nobiliari in seguito alle nuove leggi sull’eversione della feudalità. Messo in vendita, fu acquistato dai Marchesi Gallerano, che ancora oggi con i loro discendenti conservano la proprietà. In seguito al terremoto del 1783 il Castello fu notevolmente danneggiato, tanto che durante la fase di ricostruzione gran parte delle torri e delle mura vennero inglobate nelle case private adiacenti e trasformate in abitazioni, mentre alcuni tratti della cinta crollarono. La sua posizione dominante denuncia la primitiva funzione di difesa dell’abitato, confermata dalla pianta triangolare e dalla lunga cinta muraria sulla quale si levavano diverse torri. Un possente terrapieno, alto una decina di metri e con muri spessi oltre un metro, costituisce la base del Castello, protetto lungo il lato occidentale anche da un largo fossato, dove l’unico passaggio era rappresentato da un ponte levatoio, sostituito poi da un ponte in pietra. Nel fossato si aprono le piccole finestre dei seminterrati, che probabilmente erano adibiti a carcere. Il portale d’ingresso, con arco a tutto sesto in muratura, immette, attraverso un sottopasso, nel cortile centrale, un ampio spiazzo su cui si affacciano i magazzini, un tempo cantine, rimesse e stalle. Sullo spiazzo, prima della gradinata, vi è una porta d’accesso a quella che deve essere stata la Cappella delle investiture, decorata da affreschi come quella della fine del 1200 di Scuola napoletana. Nell’opera d’arte si nota, al centro di una Croce Taumata, un Cristo crocefisso, due figure di Santi ai lati ed un Pantocratore in alto. Una scalinata a due rampe conduce al piano nobile e all’arioso colonnato che conferisce all’insieme un eccezionale movimento plastico. Allo stato attuale presenta una tipologia di chiara impostazione tardo-settecentesca, riscontrabile in modo particolare nella definizione della scansione ritmica dei balconi delle facciate, con ringhiere in ferro battuto, nonché da elementi neoclassici come gli archi che sorreggono il colonnato, edificato sicuramente nella prima metà dell’Ottocento. Attualmente, dopo alcuni restauri realizzati da privati con l’avvallo della Soprintendenza ai Monumenti della Calabria, l’antico maniero ospita un ristorante allestito in stile normanno, mentre si può godere dall’ampio spiazzale, a cui si accede appena varcato l’ingresso principale, un interessante panorama che comprende l’ameno bosco di Straface, la relativa omonima fiumara ed in lontananza Castroregio, abitato dai discendenti di Albanesi che emigrarono in Italia nel 1500. L’incantevole visione termina con quella della degradante Serra del Dolcedorme ai piedi del Pollino. Al lato Nord dello spiazzale si gode la vista del Rione Convento.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Ipazia: La Martire Del Pensiero Libero.

Ipazia

Ipàzia nacque ad Alessandria tra il 355 e il 370 d.C. (la data non è certa) ed era figlia del matematico e filosofo Theon di Alessandria che la istruì al pensiero filosofico neo-platonico. Fu matematica e astronoma, sapiente filosofa, influente politica, profonda conoscitrice di musicologia, sfrontata e carismatica maestra di pensiero e di comportamento e, cosa assolutamente fuori dai canoni per l’epoca, completamente disinteressata alla religione e alla famiglia. Infatti, non fu mai madre né moglie, sentendosi già «sposata alla verità», e affermava che nessuna religione potesse essere adatta ad uno scienziato, perché la religione impone dei limiti al pensiero umano, e uno studioso non può avere limiti se vuole inseguire il sapere. Fu bellissima e amata dai suoi discepoli, pur respingendoli sempre. Fu fonte di scandalo e oracolo di moderazione. La sua femminile eminenza accese sia l’invidia da parte dei potenti cristiani portandola poi alla morte, ma anche la fantasia di poeti e scrittori di tutti i tempi, che la fecero rivivere nelle loro opere. Ipazia insegnò ininterrottamente ad Alessandria per più di vent’anni. I suoi scritti sono andati perduti o incorporati in pubblicazioni di altri autori ed è difficile ricostruirne il pensiero. Conosciamo tuttavia alcuni frammenti di commenti che sono riconducibili a lei:

  • Commentario sui tredici volumi dell’ ”Aritmetica di Diofanto” (Il sec.), cui si devono lo studio delle equazioni indeterminate, le diofantee, e importanti elaborazioni delle equazioni quadratiche. Nel suo commento, Ipazia sviluppò soluzioni alternative a vecchi problemi e ne formulò di nuovi che vennero inglobati in seguito nell’opera di Diofanto.
  • Commentario sugli otto volumi del “Le coniche di Apollonio di Perga” (III sec. a.C.), un’analisi matematica delle sezioni del cono, figure che furono dimenticate fino al XVI secolo quando vennero usate per illustrare i cicli secondari e le orbite ellittiche dei pianeti.
  • Commentario, insieme al padre Theon, sull’ “Almagesto di Tolomeo”, un’opera in tredici libri che raccoglieva tutte le conoscenze astronomiche e matematiche dell’epoca.

Non essendoci per Ipazia un confine netto tra scienza e filosofia, che si fusero con lei in un’unica persona, non ci sono giunte nemmeno sue opere di stampo filosofico.

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Sono piuttosto le testimonianze dei contemporanei a dare notizia della sua fama. Sinesio, lo studente venuto da Cirene e futuro vescovo di Tolemaide la chiama «madre, sorella, maestra e benefattrice», e le fonti del tempo la ritraggono come una scienziata e filosofa dai talenti insoliti che partecipa attivamente alla vita politica. Socrate Scolastico (380-450), di religione cristiana, di professione avvocato, nella “Historia Ecclesiastica” scrisse di lei: “Ad Alessandria c’era una donna chiamata Ipazia, figlia del filosofo Teone, che ottenne tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e di Plotino, lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali venivano da lontano per ascoltare le sue lezioni. Come unica erede e capostipite della scuola platonica, ella applicava perfettamente questa dottrina: partire dalle scienze matematiche per raggiungere la conoscenza della “Vera Filosofia”, quella più alta e pura. Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini, infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale”.

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Nelle “Cronaca di Giovanni” del vescovo cristiano di Nikiu leggiamo: “In quei giorni apparve in Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata Ipazia, che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica e che ingannò molte persone con stratagemmi satanici. Il governatore della città l’onorò esageratamente perché lei l’aveva sedotto con le sue arti magiche. Il governatore cessò di frequentare la chiesa come era stato suo costume. E non solo fece questo, ma attrasse molti credenti a lei, ed egli stesso ricevette gli increduli in casa sua”. Damascio (480-550), pagano, filosofo neoplatonico e ultimo direttore della Accademia di Atene, soppressa dall’imperatore Giustiniano nel 529, scrisse nella “Vita di Isidoro”, poi ripresa anche nel Suda, l’ enciclopedia bizantina del X secolo: “Ipazia nacque ad Alessandria dove fu allevata ed istruita. Poichè aveva più intelligenza del padre, non fu soddisfatta dalla sua conoscenza delle scienze matematiche e volle dedicarsi anche allo studio della filosofia. La donna era solita indossare il mantello del filosofo ed andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele, o i lavori di qualche altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica. Fu giusta e casta e rimase sempre vergine. Lei era così bella e ben fatta che uno dei suoi studenti si innamorò di lei, non fu capace di controllarsi e le mostrò apertamente la sua infatuazione. Alcuni narrano che Ipazia lo guarì dalla sua afflizione con l’aiuto della musica. Ma la storia della musica è inventata. In realtà lei raggruppò stracci che erano stati macchiati durante il suo periodo mestruale e li mostrò a lui come un segno della sua sporca discesa e disse, “Questo è ciò che tu ami, giovanotto, e non è bello!”. Alla brutta vista fu così colpito dalla vergogna e dallo stupore che esperimentò un cambiamento del cuore ed diventò un uomo migliore. Tale era Ipazia, così articolata ed eloquente nel parlare come prudente e civile nei suoi atti. La città intera l’amò e l’adorò in modo straordinario, ma i potenti della città l’invidiarono, cosa che spesso è accaduta anche ad Atene. Anche se la filosofia stessa è perita, il suo nome sembra ancora magnifico e venerabile agli uomini che esercitano il potere nello stato”.

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La filologa Silvia Ronchey nei suoi studi ci fa vedere Ipazia immersa nella vita pubblica della città: “Oltre all’insegnamento pubblico (demosia) che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” (idia) che teneva nei giardini rigogliosi della sua dimora, che portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria insieme alle élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo i decreti teodosiani, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni. Quell’ ”educazione ellenica” che si chiamava ancora “paideia”, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva: «Il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente. I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “supremo giudice” e “signora beata dall’anima divinissima”. A quella cerchia Ipazia impartiva un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici. I miti degli dèi dell’Olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio che ricordiamo in seguito diventò vescovo cristiano di Tolemaide. Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica (politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non sopportava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato”.

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Ipazia si occupò anche di meccanica e di tecnologia applicata. Le vengono attribuite due invenzioni: un areometro e un astrolabio piano. Il primo strumento, che determina il peso specifico di un liquido, fu progettato come un tubo sigillato avente un peso fissato ad un’estremità: a seconda di quanto questo tubo affondava in un liquido, era possibile leggerne su una scala graduata il peso specifico. L’astrolabio progettato da Ipazia era formato da due dischi metallici forati, ruotanti uno sopra l’altro mediante un perno rimovibile: veniva utilizzato per calcolare il tempo, per definire la posizione del Sole, delle stelle e dei pianeti. Pare che mediante questo strumento Ipazia abbia addirittura risolto alcuni problemi di astronomia sferica.

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Se poco si sa della vita di Ipazia, non mancano i dettagli circa la sua morte. Il 30 aprile del 311 Galerio, a nome anche di Costantino e di Licinio, emanò l’editto di Nicomedia. Galerio decretò la fine degli editti di Diocleziano, riconobbe ai cristiani libertà di culto e di riunione, restituì alle chiese i beni non ancora alienati dopo la confisca e ordinò la ricostruzione delle chiese. Il cristianesimo divenne ufficialmente “religio licita”. In ottant’anni i cristiani riuscirono ad impadronirsi del vertice dell’Impero Romano e si trasformarono in accaniti persecutori dei fedeli di quella religione i cui valori avevano dato vita alla grandezza di Roma e dell’Impero. Con Teodosio I il cristianesimo divenne religione di stato e, nel 392, la religione romana venne proibita, pena la morte.  La distruzione dei templi ellenici, voluta proprio dall’imperatore Teodosio I, fu messa diligentemente in atto dal vescovo Teofilo. Questo attacco così altamente simbolico, è seguito da un breve periodo di tregua, che vide Ipazia ancora libera e influente.

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Ipazia vedeva nel cristianesimo soprattutto il fanatismo e la violenza, in quanto il vescovo Teofilo aveva fatto distruggere, oltre a vari monumenti della civiltà greco-orientale, anche il famoso tempio di Serapide e l’annessa biblioteca. A Teofilo, morto nel 412, succede il nipote Cirillo, assai più bellicoso, il quale si dota di una milizia privata (i parabalani) e dopo uno scontro forse pretestuoso fra ebrei e cristiani, caccia gli ebrei dalla città. I pagani sanno che il loro turno sta per arrivare quando, nel 414 il prefetto Oreste, estimatore di Ipazia e inviso al vescovo, viene aggredito da un gruppo di monaci e ferito. Il colpevole, Ammonio, è condannato a morte, ma Cirillo gli organizza funerali in pompa magna e lo proclama martire. Chiamò a raccolta tutti i cristiani che marciarono in collera verso le sinagoghe degli ebrei e ne presero possesso, le purificarono e le convertirono in chiese. Una di esse venne dedicata a San Giorgio. Saccheggiarono tutte le loro proprietà e li derubarono completamente. Il prefetto Oreste non fu in grado di portare loro alcun aiuto. Ipazia aveva tutte le caratteristiche per essere odiata dai cristiani ed essere la prossima vittima: donna, pagana, scienziata di grande fama e guida della scuola filosofica neoplatonica di Alessandria.

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In questi tempi in cui il Medio Oriente è percorso dal terrore dell’integralismo islamico e insanguinato da episodi massicci e cruenti di persecuzione religiosa, non è facile ma è importante ricordare che la chiesa cristiana ai suoi inizi si macchiò di una violenza integralista per molti versi affine, come quella dei parabalani, i monaci-barellieri, di fatto miliziani clericali che massacrarono Ipazia, la fecero a pezzi e diedero i suoi resti alle fiamme. Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino. Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa. Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato “la grande energia” del suo governo ecclesiastico. Anche se alcuni intellettuali cattolici hanno invitato, se non alla decanonizzazione, alla cautela, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza.

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La descrizioni di quei drammatici giorni la lascio ancora una volta a chi in quei tempi ha vissuto questo straziante fatto. Socrate Scolastico scrisse: “Fu vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva. Ipazia aveva avuto frequenti incontri con Oreste. Questo fatto fu interpretato calunniosamente dal popolino cristiano che pensò fosse lei ad impedire ad Oreste di riconciliarsi con il vescovo. Alcuni di loro, perciò, spinti da uno zelo fiero e bigotto, sotto la guida di un lettore chiamato Pietro, le tesero un’imboscata mentre ritornava a casa. La trassero fuori dalla sua carrozza e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e poi l’assassinarono con delle tegole. Dopo avere fatto il suo corpo a pezzi, portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinaron, e là li bruciarono. Questo affare non portò il minimo obbrobrio a Cirillo, e neanche alla chiesa di Alessandria. E certamente nulla può essere più lontano dallo spirito del cristianesimo che permettere massacri, violenze, ed azioni di quel genere. Questo accadde nel mese di marzo durante la quaresima, nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo consolato di Onorio ed il sesto di Teodosio”.

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Damascio incolpò proprio Cirillo dell’assassinio di Ipazia:” Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione [il cristianesimo], passò presso la casa di Ipazia, e vide una grande folla di persone e di cavalli di fronte alla sua porta. Alcuni stavano arrivando, alcuni partendo, ed altri sostavano. Quando lui chiese perché c’era là una tale folla ed il motivo di tutto il clamore, gli fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia il filosofo e che lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo fu così colpito dalla invidia che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di assassinio che potesse immaginare. Quando Ipazia uscì dalla sua casa, secondo il suo costume, una folla di uomini spietati e feroci che non temono né la punizione divina né la vendetta umana la attaccò e la tagliò a pezzi, commettendo così un atto oltraggioso e disonorevole contro il loro paese d’origine. L’Imperatore si adirò, e l’avrebbe vendicata se non fosse stato subornato da Aedesius. Così l’Imperatore ritirò la punizione sopra la sua testa e la sua famiglia tramite i suoi discendenti pagò il prezzo. La memoria di questi eventi ancora è vivida fra gli alessandrini”.

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Anche il vescovo di Nikiu parla della morte di Ipazia: ”Poi una moltitudine di credenti in Dio si radunò sotto la guida di Pietro il magistrato, un credente in Gesù Cristo perfetto sotto tutti gli aspetti, e si misero alla ricerca della donna pagana che aveva ingannato le persone della città ed il prefetto con i suoi incantesimi. Quando trovarono il luogo dove era, si diressero verso di lei e la trovarono seduta su un’alta sedia. Avendola fatta scendere, la trascinarono e la portarono nella grande chiesa chiamata Caesarion. Questo accadde nei giorni del digiuno. Poi le lacerarono i vestiti e la trascinarono attraverso le strade della città finché lei morì. E la portarono in un luogo chiamato Cinaron, e bruciarono il suo corpo. E tutte le persone circondarono il patriarca Cirillo e lo chiamarono ‘il nuovo Teofilo’ perché aveva distrutto gli ultimi resti dell’idolatria nella città”.

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Dopo l’assassinio di Ipazia i suoi allievi abbandonarono la città. Alessandria perse definitivamente il suo ruolo di centro culturale. Alessandria era stata, fin dal tempo dei Tolomei, un grande centro culturale. Basti ricordare che vi avevano studiato e insegnato Eratostene, Archimede, Euclide, Tolomeo, Plotino. Nel 415 d.c. perse anche l’ultima scienziata eminente di quell’epoca. L’antica filosofia e scienza ellenistiche vennero riscoperte soltanto nel Rinascimento, un millennio dopo. Fu celebrata e idealizzata, ma anche mistificata e fraintesa. Da allora Ipazia scompare dalla storia, se non per prestare alcune sue doti a santa Caterina di Alessandria. Nel Settecento, ricompare in una disputa tra cattolici ed anglicani inglesi: di “facili costumi” per i primi (che ci faceva, altrimenti, per le strade di Alessandria?), “vittima del fanatismo” per i secondi, così come nella voce Eclectiques , dell’Encyclopédie e per Voltaire, Henry Fielding, Edward Gibbon e altri Illuministi. Nel poema epico ”Ipazia o delle filosofe” (1827), la contessa Diodata Saluzzo Roero tenta di ribaltare questa interpretazione. La sua Ipazia si converte al cristianesimo e muore da santa: «languida rosa sul reciso stelo, nel sangue immersa la vergine giacea, avvolta a mezzo nel bianco suo velo, soavissimamente sorridea, condonatrice dell’altrui delitto, mentre il gran segno redentor stringea». Similmente di bianco vestita, ma viva e fieramente pagana, l’aveva descritta in due delle sue “poesie antiche” il poeta rivoluzionario Leconte de Lisle: in “Hypatie, per colpa di un uomo nato in Galilea”, parla di Ipazia avente lo «spirito di Platone e il corpo d’Afrodite» e in Hypatie et Cyrille, invece il vescovo alla filosofa può offrire solo la scelta tra il silenzio e la vita. Nel celebre affresco di Raffaello, “La Scuola di Atene”, l’unica figura femminile rappresentata è proprio Ipazia, che è anche l’unica filosofa e alcuni critici sostengono che il suo volto sia quello di Francesco Maria della Rovere.

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Ipazia compare nel teatro e nel romanzo dell’Otto e del Novecento, forse anche suo malgrado, perché facilmente le calzano i tratti della martire eroica, tanto più martire quanto più la sua autorevolezza intellettuale è indiscussa. Marcel Proust (All’ombra delle fanciulle in fiore), Umberto Eco (Baudolino), Hugo Pratt in un album di Corto Maltese le rendono omaggio, mentre prendono il suo nome associazioni di femministe, filosofe e scienziate. Nel XXI sec. l’autonomia femminile, come quella della ricerca scientifica, resta contrastata dall’autorità politica e religiosa come 1600 anni prima, e Ipazia non cessa di ispirare saggi, romanzi e polemiche come quelle attorno al film, del regista spagnolo Alejandro Amenàbar, Agorà.  In una intervista il regista spiega: “Non ho mai avuto intenzione di attaccare i cristiani. Anche se mi definisco un ateo che non esclude la possibilità di qualcosa di superiore, sono stato educato secondo i principi del cattolicesimo e il mio film è cristiano perchè difende i principi cristiani della pietà e della compassione e avvicina il destino di Ipazia a quello di Gesù Cristo. Volevo mostrare al pubblico come nulla sia cambiato rispetto all’antichità, come ciò che i cristiani facevano all’epoca somigli al comportamento degli integralisti islamici di oggi. La gente continua a combattere e a morire per le proprie idee, giuste o sbagliate che siano”.

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Ciò che caratterizza la figura di Ipazia, nel racconto della sua vita, risiede nella sua inclinazione al pensiero libero e inarrestabile: ogni aspetto della sua biografia appare agevolmente riconducibile ai suoi studi, al suo amore per la filosofia, intesa a sua volta come interrogazione del circostante. Caterina Annese, scrittrice, parla di come la figura di Ipazia viene presa oggi come punto di riferimento per i movimenti femministi: ”Vorrei accennare alle ragioni per cui il femminismo ed il pensiero di genere si impadronirono della sua figura, impiegandone appunto la summenzionata definizione di martire del pensiero in una chiave del tutto “personale”, ovvero quella connessa alle rivendicazioni dell’identità di genere. La figura di Ipazia è stata assunta dal pensiero di genere sia come capro espiatorio della violenza patriarcale, perpetuatasi a più riprese nel corso della storia, sia come esempio per quelle donne che intendano promuovere o condividere iniziative scientifiche e più ampiamente culturali. Ipazia diviene così, nell’immaginario di molte, baluardo della libertà di pensiero specificamente femminile, sfidando l’autorità maschile. Occorre a tal proposito tener conto del fatto che spesso il pensiero di genere si “impossessa” , nel vero senso della parola, di storiche figure femminili, al preciso scopo, più o meno dichiarato, di accreditare e avallare le proprie tesi, assegnando così un’ulteriore riferimento storico alle proprie rivendicazioni. D’altra parte, la libertà del pensiero costituisce una delle tematiche più care alle femministe, che, a partire dagli Women’s studies, hanno cercato di ripercorrere la costituzione del pensiero delle donne nella storia, cercando di “riesumare” figure di pensatrici spesso superficialmente cancellate e oscurate dall’onnipresenza del pensiero maschile.”

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E continua: “La libertà di Ipazia diventa così, per tutta la tradizione di studi sulle donne, un evento espressamente politico e di genere: una sorta di variabile impazzita che esplode in seno all’ordine sociale e simbolico di stampo patriarcale, attraverso la sua autoaffermazione, o come dichiara la Arendt, attraverso il proprio gioco nel mondo. Sempre per le femministe, Ipazia ripresenterebbe il ruolo che la donna rivestiva millenni addietro: la sacerdotessa della Madre Terra, che con gli strumenti del Sapere e della Logica riesce a trasmettere ai suoi simili le Verità dell’Universo. In questo senso Ipazia era facilmente assimilabile ad una strega, come definita nel Malleus Maleficarum, sebbene, in realtà, non fosse null’altro che una donna colta, consapevole e desiderosa di aiutare l’altro con le sue arti. Da quanto sinora tratteggiato, sorgerebbe a mio avviso un’ulteriore questione: occorre ricordare Ipazia esclusivamente in quanto donna, come vorrebbero le femministe, oppure soprattutto in quanto intellettuale, pensatrice, astronoma, prescindendo cioè dalla sua identità di genere? Mi domando peraltro come mai, tenuto conto dell’indubbia rilevanza della ricerca della verità e dell’agire nel mondo condotti da Ipazia, sinora, o perlomeno prima dell’uscita del film Agorà in Italia, la sua figura sia stata ricordata solo dal pensiero di genere. Mi chiedo, cioè, perché non siano stati i filosofi di professione, posto che ne esistano, “in genere” e non “di genere”, a interrogarsi sulla sua figura, sulla sua carica simbolica. Sono pertanto dell’avviso che Ipazia dovrebbe essere ricordata non in quanto “donna martire”, ma in quanto filosofa tout court, ovvero per il suo pensiero piuttosto che esclusivamente per il suo genere. In tal modo peraltro si accredita una certa vulgata non certo trascurabile secondo cui “la libertà della donna la si fa esclusivamente in funzione dell’uomo”, ovvero rientra nelle retoriche, più o meno manifeste, di una certa fallocrazia imperante”.

 

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters