I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

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I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

Questa rubrica sta piacendo molto ai nostri lettori ed è un piacere per noi accontentarli con un altro articolo sulle personalità nostrane che con la loro calabresità hanno reso un contributo importante all’umanità. Molti personaggi hanno nomi altisonanti ma si conosce davvero la loro storia e ciò che li ha resi grandi? Molti invece non si conoscono proprio ma le loro gesta hanno cambiato il modo di vivere di tutti noi. E poi ci sono quelli che si conoscono ma non si sa che sono calabresi, e scoprirlo ci rende ancora più orgogliosi di essere nati nella loro stessa terra. Siete pronti ad inorgoglirvi, per l’ennesima volta, con questi nuovi pezzi da novanta “made in Calabria”?

GIOACCHINO DA FIORE

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Gioacchino da Fiore nacque intorno al 1130 a Célico, in provincia di Cosenza, da famiglia ricca e stimata infatti il padre Mauro era tabulario o notaio. Venerato come beato dalla Chiesa cattolica (da parte dei florensi e dei gesuiti Bollandisti), fu monaco, abate, teologo, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta e Dante Alighieri nel XII canto del Paradiso dice di lui: “…il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato…”. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza. Ben presto fu mandato dal padre a lavorare, sempre a Cosenza, presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la Corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, con i Notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo l’Arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano si allontanò definitivamente dalla Corte Reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta, dove ebbe il privilegio di visitare i luoghi della nascita e della predicazione di Cristo. Forse nel corso di questo viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re (Dio).

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Si fece monaco cistercense presso l’abbazia della Sambucina da cui però si allontanò per andare a predicare dall’altra parte della valle vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino Rende. Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove il Vescovo lo ordinò sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Poco tempo dopo si trasferirì proprio qui, dove divenne abate nel 1177. A Corazzo l’abate Gioacchino cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia. Durante questo periodo incontrò, nell’Abbazia di Casamari, il Papa Lucio III che gli concesse la “licentia scribendi”, scaturita dall’interpretazione di Gioacchino di una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Matteo d’Angers. Con l’aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca Campano, fututo Arcivescovo di Cosenza nonchè realizzatore del duomo, iniziò quindi la stesura delle sue opere principali: “La Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento” e “L’Esposizione dell’Apocalisse”.

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Al ritorno da un viaggio a Verona per incontrare Papa Urbano III, si ritirò a Pietralata, da lui ribattezzata Petra Olei, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell’Abbazia di Corazzo. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino, pertanto nell’autunno del 1188 Gioacchino salì in Sila con i suoi discepoli alla ricerca di un territorio abitabile e lo trovò nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. Dopo un complesso confronto tra Gioacchino e il re dei normanni Tancredi, l’asceta ebbe in dono un vasto tenimento posto nelle adiacenze del luogo scelto precedentemente, con l’aggiunta di 300 pecore e 30 some di grano, per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire il protomonastero di Fiore Vetere e successivamente nel 1194, dopo la morte di Tancredi, il nuovo regnante Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II, concesse a Gioacchino privilegi sovrani su tutta la Calabria.

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Gioacchino fondò molti monastreri e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma ricevendo da Papa Celestino III l’approvazione della “Congregazione Florense” e dei suoi Istituti il 25 agosto del 1196. I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e misero a coltura i terreni, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del “novus ordo”. Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale, ultima sua costruzione. Il suoi resti furono traslati nell’abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L’ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.

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I seguaci di Gioacchino subito dopo la sua morte raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditatogli ingiustamente. Il 20 luglio 1684 il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all’Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull’altare vicino al sepolcro dell’abate Gioacchino. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie. All’approssimarsi dell’VIII centenario della morte dell’Abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l’iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana.

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Gioacchino da Fiore ebbe tante interessanti e originali intuizioni tra le quali le più importanti sono:
– l’esistenza di diverse forme di concordia tra l’Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio e con questo concetto, noto come modello “binario della teologia della storia”, data la piena proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di “proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l’età apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro”;
– da questo concetto binario, Gioacchino elabora un “modello ternario”, connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l’analisi teologico-iconografica delle lettere “ALFA” e “OMEGA”;
– dallo sviluppo di queste due concezioni basilari Gioacchino approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle “Tre Età della Storia terrena”, sostenendo che se c’era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre (corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda (784-746)) e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio (appresentata dal Vangelo e compresa dall’avvento di Gesù, estesa nel tempo che va da Ozia fino al 1260), allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del “millennio sabbatico”, ovvero quel periodo in cui l’umanità attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. Un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l’uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e il ricongiungimento di cristiani ed ebrei.

02-gioachino-da-fiore-webNel suo “Monasterium” delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione della chiesa, della quale condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere, con la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un’età di perfezione.

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Oltre ad essere un punto di riferimento spirituale del tempo, infatti tra coloro che seguivano le sue idee c’erano regnanti e papi, le sue straordinarie intuizioni hanno cavalcato i secoli arrivando ai giorni nostri, influenzando sia alcuni movimenti religiosi, tra cui il più importante è senza dubbio l’ideologia dei Francescani spirituali francesi e italiani tra i quali esponenti ricordiamo Ubertino da Casale, Jacopone da Todi, Arnaldo de Villanova e moltissimi altri e addirittura l’apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi e la struttura urbanistica che i francescani diedero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc., e sia di molte personalità tra cui Roger Bacon (Bacone), Girolamo Savonarola, Celestino V, Michelangelo Buonarroti nella costruzione della struttura compositiva della Cappella Sistina, Dante Alighieri citandolo direttamente o indirettamente diverse volte nel Paradiso e Barack Obama che fece del pensiero di Gioacchino da Fiore, oltre che un punto di riferimento per la stesura della sua tesi di laurea, anche la base portante dei sui discorsi durante la sua campagna elettorale per le presidenziali e successivamente citandolo a più riprese nei discorsi alla nazione, definendolo come “maestro della civilta’ contemporanea” e “ispiratore di un mondo più giusto”, usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto “change we can”, per indicare la necessità di un cambiamento radicale della storia e proclamandolo il portabandiera di una società più equa e di un’epoca straordinaria, in cui lo spirito riuscirà a cambiare il cuore degli uomini.

MILONE DI CROTONE

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Tra i personaggi più illustri della Magna Grecia e certamente l’atleta più forte di tutti i tempi, il grande Milone fu pugile e lottatore imbattuto per oltre vent’anni. Nato e vissuto nell’antica Kroton (Crotone) del VI secolo a.C. grazie alle sue gesta sportive e non, divenne tra gli uomini più influenti del gruppo aristocratico che governava la città di Miscello. La sua prima vittoria sportiva la ottenne all’età di 15 anni (540 a.C.), partecipando e vincendo nella disciplina sportiva della lotta. Si dice infatti che, per allenarsi, era solito portare sulle spalle vitelli, così da potenziare maggiormente la sua massa muscolare. Può essere considerato a tutti gli effetti il prima culturista della storia. Nel corso della sua vita fu capace di sei vittorie olimpiche disputate fra il 540 a.C. e il 512 a.C. e di altre sei vittorie ai Giochi Pitici di Delfi che si tenevano in onore di Apollo, dieci ai Giochi Istmici presso Corinto e nove ai Giochi Nemei. In 28 anni di carriera, Milone vince 33 volte. La sua specialità era l’orthopale, un tipo di lotta. Per di più, quando partecipò alle olimpiadi per la settima volta e si scontrò con un suo concittadino, il diciottenne Timasiteo, il quale lo ammirava fin da piccolo e da cui imparò anche molte mosse, alla finale, il suo avversario si inchinò senza nemmeno iniziare a combattere, in segno di rispetto all’uomo a cui gli dei diedero in dono la forza e la disciplina. Forse siamo di fronte al primo caso nella storia delle Olimpiadi antiche in cui sappiamo il nome del secondo classificato, anch’esso calabrese, in quanto le liste tramandate sin dall’antichità hanno per protagonisti solo i primi classificati.

pancrazioUna leggenda vuole che in occasione dei giochi olimpici, prima di vincerli, corse da Crotone ad Olimpia con un toro sulle spalle provocando un grande clamore. Tanta gloria rese Milone uno dei personaggi più illustri e famosi del mondo antico, conosciuto ovunque per la sua proverbiale forza e considerato eroe leggendario appartenente alla stirpe degli Eraclidi, discendente diretto di Eracle, a sua volta ritenuto “ecista morale” della città di Crotone. Molte notizie ci vengono tramandate da storici come Diodoro Siculo che lo inserisce anche in alcuni scenari cittadini che ne hanno fatto di lui, eroe “nazionale”. Era noto, oltre che per la grande forza, anche per il grande appetito. Pare, infatti, che una volta avesse portato di peso un toro di 4 anni allo stadio, fatto un giro di campo con l’animale sulle spalle, che l’abbia ucciso con un colpo solo e che se lo sia mangiato tutto nello stesso giorno. Come se non bastasse, si racconta che egli fosse alto circa due metri e che era capace di sollevare anche un uomo con un dito della mano.

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Del resto, ad uno sportivo vincente come lui potevano essere portati solo onore e rispetto, tanto che un suo ammiratore di nome Dameas, come regalo, gli fece erigere una statua nello stadio di Olimpia in cui Milone era rappresentato ritto su un disco con i piedi uniti. Milone è noto anche per essere stato discepolo di Pitagora e sposo di sua figlia Myia. In occasione di un terremoto, che colse il gruppo dirigente aristocratico guidato da Pitagora mentre era in riunione proprio in casa del filosofo, Milone si sostituì ad una colonna spezzata dal sisma reggendo sulle sue spalle il soffitto dell’abitazione permettendo così alla struttura di non crollare e di far scappare tutti in tempo. Mito o realtà storica? Sta di fatto che quando si tramandano le gesta e le imprese di certi affascinanti personaggi, tutto ciò che li riguarda viene molto romanzato, per far risaltare ancora di più le imprese. Milone fu comandante dell’esercito crotoniate in occasione della famosa battaglia di Trionto contro i sibariti del 510 a.C. che sancì la sconfitta e la distruzione dell’opulenta colonia di Sybaris. Milone vestito come Eracle, con la clava e la pelle di leone sulle spalle, guidò il suo esercito verso una delle vittorie più schiaccianti della storia antica. Persino Democede, crotoniate e medico personale del re Dario di Persia, per tornare a casa contro il parere del re persiano, sposò in tutta fretta una figlia di Milone, costringendo Dario a desistere dai suoi piani.

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La data della morte di Milone è sconosciuta ma, come per la maggior parte degli antichi greci famosi, la dinamica del decesso è divenuta un mito. Secondo Strabone e Pausania, l’ormai vecchio Milone stava attraversando un bosco quando s’imbatté in un ulivo secolare sacro alla dea Hera, antistante appunto al tempio Crotonese di Hera Lacina, dal tronco cavo. Il lottatore inserì le mani nella fenditura per spezzare in due il tronco in un’ultima dimostrazione di forza, ma vi rimase incastrato e divenne preda di un branco di lupi.

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Il mito della forza e dalla vita di Milone ha alimentato la fantasia di diversi artisti, facendo del lottatore celebre soggetto di opere d’arte e di letteratura. Già nel 1590 il bronzista veneziano Alessandro Vittoria fuse una statua raffigurante Milone. La morte del lottatore divenne poi un soggetto ricorrente nella produzione artistica del XVIII secolo ma, per onorare il personaggio, si ricorse spesso alla raffigurazione dei leoni invece che dei lupi quali responsabili della sua morte. Nella scultura “Milone di Crotone” del francese Pierre Puget (1682), l’artista predilesse invece una rilettura del mito in chiave barocca, focalizzando come soggetti la vittoria dell’età sulla forza del lottatore e la vana gloria del trofeo olimpico. L’originale si trova nel museo del Louvre a Parigi ma esistono anche delle copie che si trovano nel Parque Buenos Aires di San Paolo in Brasile, in Cours Estienne d’Orves a Marsiglia in Francia e nel piazzale antistante il PalaMilone a Crotone. Il “Milone di Crotone” di Étienne-Maurice Falconet (1754) permise all’artista di ottenere l’accesso alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di Parigi. Sempre nel Settecento, il pittore Joseph-Benoît Suvée realizzò l’olio su tela “La morte di Milone”. Nel XIX secolo, uno sconosciuto artista realizzò una statua bronzea di Milone ora in Holland Park, a Londra e il pittore irlandese James Barry tornò a raffigurare su tela la morte del lottatore.

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Una statua di Milone si trova allo stadio dei Marmi di Roma. François Rabelais citò Milone di Crotone nel suo “Gargantua”, Shakespeare fece lo stesso nel secondo atto dell’opera “Troilo e Cressida” e Alexandre Dumas descrive brevemente la figura di Milone in “Vent’anni dopo” e lo cita nel “Visconte di Bragelonne”. La Nestlè produce bevande e prodotti ispirati al famoso Milo di Crotone. La Coca Cola dedica una cartolina ai più grandi campioni Olimpici e tra di essi Milone di Crotone. Nel Maine, negli Stati Uniti, esiste una città, Milo, che prende il nome da Milone di Crotone.

RENATO DULBECCO

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Renato Dulbecco nacque a Catanzaro il 22 Febbraio 1914 da Leonardo, ingegnere ligure del Genio Civile, e da Maria Virdia, proveniente da una famiglia di professionisti originari di Tropea. Fin da bambino fu educato dai genitori al sacrificio e allo studio, era ateo e fortemente antireligioso. All’età di cinque anni, dopo la fine della prima guerra mondiale, si trasferì in Liguria con la sua famiglia, nella casa paterna di una frazione di Imperia: trascorse un’infanzia serena che favorì la sua curiosità e la sua vocazione per la ricerca scientifica. Qui visse anche alcune esperienze, fra cui la morte dell’amico Peppino, che furono decisive per la scelta della sua carriera futura, dal momento che si accese in lui la consapevolezza dell’impotenza della medicina dinanzi a malattie molto gravi. Qui Dulbecco compì gli studi secondari, presso il Regio Liceo ginnasio Edmondo De Amicis ed il suo tempo libero lo trascorreva presso l’Osservatorio Meteorologico e Sismico della sua città dove iniziò a mostrare una spiccata propensione per le materie scientifiche e una notevole manualità tecnica che lo portarono a costruire strumenti all’avanguardia grazie a quanto aveva appreso dalla lettura di alcune riviste scientifiche del tempo come il primo sismografo elettronico, poi usato da Herlitska per registrare le contrazioni dei muscoli.

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Seguendo le orme di uno zio materno, nel 1930, a soli sedici anni, fece il proprio ingresso nella facoltà di medicina dell’Università di Torino, nello stesso anno di Rita Levi Montalcini e un anno dopo l’iscrizione di Salvador Luria, compagni con cui condividerà negli anni a venire il magistero di Giuseppe Levi, l’emigrazione negli Stati uniti e il premio Nobel. Fra i primi del corso, al secondo anno venne ammesso come interno nel laboratorio di Giuseppe Levi, anatomista di fama internazionale, nonché pioniere della coltura dei tessuti in vitro. Nell’Istituto di anatomia normale umana ebbe la possibilità di disporre «di un laboratorio e di un banco per poter lavorare» ai propri esperimenti, ma fu anche un’occasione per conoscere meglio la personalità carismatica del maestro, un docente che si era imposto alla sua attenzione per il rigore scientifico e l’«esplicito antifascismo». Dopo qualche anno, il giovane Renato lasciò il laboratorio di Levi e si trasferì presso quello di Anatomia Patologica di Ferruccio Vanzetti, divenendo anche interno all’ospedale Mauriziano, spinto dall’interesse per la clinica. Si laureò a soli 22 anni, nel 1936, con una tesi sulle alterazioni del fegato dovute al blocco nell’efflusso della bile e ricevette in quest’occasione diversi premi, essendo stato riconosciuto come il migliore laureato dell’università con la migliore tesi.

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Partì per il servizio militare come ufficiale medico fino al 1938. Un anno dopo é richiamato per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e inviato prima sul fronte francese e quindi in Russia. Fu una caduta sul ghiaccio e la lussazione di una spalla durante l’offensiva sul Don a garantirgli un provvidenziale periodo di congedo: una volta dimesso decise infatti di disertare le armi sino al giorno della liberazione per aiutare come medico i partigiani nascosti sulle colline torinesi e per un breve periodo fu membro del Comitati di Liberazione Nazionale. Successivamente avvia l’attività di ricerca e contemporaneamente si iscrive alla facoltà di Fisica, che frequenta e concluse dal 1945 al 1947. Su consiglio di Rita Levi Montalcini, si trasferisce negli Stati Uniti per lavorare con Salvador Luria, ormai docente all’università di Bloomington e scoprendo un mondo totalmente diverso dalla sua terra natia. Si imbarcano sulla stessa nave, la Montalcini andrà a St. Louis, lui alla Indiana University. Negli Usa Dulbecco studia certi virus che attaccano i batteri, per ciò chiamati batteriofagi. Fa la prima scoperta quasi per caso, quando si accorge che questi virus vengono riattivati dalla luce ultravioletta di un tubo al neon.

Renato Dulbecco

Il contratto di lavoro offertogli da Luria prevedeva una durata di due anni, ma date le dimostrazioni di grande capacità e acutezza dello scienziato, egli ebbe la possibilità di proseguire a Bloomington le sue ricerche, acquisendo definitivamente la cittadinanza americana. La stima da parte del suo “datore di lavoro” fu tale che nell’estate del 1948, lo invitò a lavorare con lui per alcuni mesi presso il Cold Spring Harbor, un prestigioso laboratorio in cui affluivano scienziati da tutte le parti del mondo. Intanto aveva conosciuto Max Delbruck, un collaboratore di Luria. Delbruck (Nobel 1969) lo invita al California Institute of Technology di Pasadena, più noto come Caltech, uno dei più importanti laboratori scientifici del mondo. Qui sviluppa ricerche sui virus animali che si dimostreranno utili a Sabin per la preparazione del vaccino per la poliomielite. A partire da questo momento, la fama dello scienziato accrebbe e tutta la ricerca sui virus fu rivoluzionata.

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Nel 1958 comincia ad interessarsi alla ricerca oncologica, studiando virus animali che provocano forme di alterazione nelle cellule. La scoperta più importante è la dimostrazione che il DNA del virus viene incorporato nel materiale genetico cellulare, per cui la cellula subisce un’alterazione permanente. Nel 1964 vince il premio Lasker per la ricerca medica e sempre per queste ricerche nel 1975 gli fu conferito il premio Nobel per la medicina con David Baltimore e Howard Temin. La sua sorpresa alla notizia di quest’ultimo riconoscimento si evince chiaramente da queste parole: « Il cuore mi saltò in gola. Avevo capito bene? […] Non osavo dirlo, ma facendomi coraggio mormorai: “il premio Nobel”». Alla cerimonia del Nobel, Renato Dulbecco, che era da sempre un alfiere della lotta contro il fumo, non perse l’occasione per lanciare una dichiarazione contro il tabagismo.

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Dal 1972 si trasferisce a Londra, all’Imperial Cancer Research Fund, dove ha la possibilità di lavorare nel campo dell’oncologia umana, e successivamente al Salk Institute di La Jolla (California). La personalità del grande scienziato, mai pago di conoscenza, lo portò ad immergere se stesso in un nuovo colosso della scienza moderna: il Progetto Genoma, con l’obiettivo di mappare l’intera sequenza del genoma umano, in modo da comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro. Conoscere tutti i geni dell’uomo era l’anello mancante di questa catena vitale, e l’unico modo per smuovere la titubante comunità scientifica fu quello di lanciare il progetto mediante una delle riviste scientifiche più autorevoli: Science. Nell’arco di pochi mesi, furono attuate numerose iniziative, la scintilla del nuovo “ordigno” della scienza era stata innescata. Nel 1993 rientra in Italia dove lavorò presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Milano, oltre a guidare la Commissione Oncologica Nazionale e a ricoprire l’incarico di presidente emerito del Salk Institute, completando, nel 2003, la mappatura del genoma.

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Renato Dulbecco è stato insignito della laurea honoris causa in Scienze dall’Università Yale ed è stato membro di diversi organismi scientifici internazionali, tra cui l’Accademia dei Lincei, la National Academy of Sciences statunitense, la Royal Society britannica e l’IPPNW (International Physicians for the Prevention of Nuclear War). Nel 1999 presenta il quarantanovesimo Festival di Sanremo insieme a Fabio Fazio e Laetitia Casta. Muore il 20 febbraio del 2012 a La Jolla, località nei pressi di San Diego dove risiedeva da anni, colpito da un infarto tre giorni prima del suo 98º compleanno.

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Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, treccani.it, calabriatours.org, mediterraneoantico.it, lastampa.it, biografieonline.it.

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

Come promesso continuiamo la carrellata di personaggi importanti della nostra Calabria. Nelle puntate precedenti (da leggere con voce baritona), abbiamo parlato di Telesio, Barlaam, D’amico. Viste le reazioni dei lettori, è evidente che l’obiettivo è stato raggiunto, incuriosire e far conoscere nomi noti e meno noti. In questa seconda parte incontreremo personaggi di epoche diverse, che per molti sono fonte di ispirazione grazie al loro pensiero.

TOMMASO CAMPANELLA

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Tommaso Campanella, al secolo Giovan Domenico Campanella, nasce a Stilo in Calabria, il 5 settembre 1568, da povera famiglia. Entra in un convento domenicano a tredici anni prendendo il nome di fra Tommaso. La sua formazione è fortemente influenzata dal filosofo calabrese Bernardino Telesio (1509-1588), da cui riprende le posizioni antiaristoteliche e naturalistiche. Sulla sua scorta scrive un’opera in latino, Philosophia sensibus demonstrata [La filosofia dimostrata attraverso i sensi], che gli attira le persecuzioni della Chiesa. Arrestato a Napoli, dove frequentava Giambattista Della Porta, esperto in magia naturale e in arti occulte, Tommaso Campanella subisce un primo processo nel 1592. Fugge viaggiando da una città all’altra, ma a Padova, dove conosce Galileo Galilei, è nuovamente arrestato; portato a Roma, dove resta in prigione per alcuni mesi, viene costretto all’abiura e poi condannato a ritornare in un convento calabrese. Nel 1599, in Calabria, dove le masse contadine erano costrette a subire, in terribile miseria, l’oppressione della Spagna e della Chiesa, Tommaso Campanella organizza una rivolta popolare che avrebbe dovuto instaurare una società teocratica secondo il modello poi esposto nella Città del sole. La congiura viene scoperta. Tommaso Campanella, arrestato nel novembre 1599, può salvarsi solo fingendo di essere pazzo: i folli, infatti, non potevano essere condannati a morte. Nonostante venga torturato più volte, riesce a resistere alle sofferenze e a restare fedele alla propria finzione. Così viene condannato all’ergastolo, a Napoli, nel 1602.

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In carcere resta per 27 anni, dal 1599 al 1626. Qui scrive La Città del sole, le poesie e molte delle sue opere filosofiche, fra difficoltà incredibili di ordine materiale e intellettuale che lo costringono a venire a patti con le autorità: cosicché non è facile capire quanto, in questo periodo, risponda al suo effettivo pensiero e quanto, invece, alle esigenze di un compromesso con la Chiesa. Per l’intervento del papa Urbano VIII, Tommaso Campanella riottiene la libertà, dapprima condizionata e limitata, poi definitiva, vivendo a Roma, nella cerchia di intellettuali e di prelati che assistevano il pontefice. Ma nel 1633 la scoperta di una congiura antispagnola in cui è coinvolto un suo discepolo, lo pone di nuovo in una posizione di pericolo, cosicché l’anno successivo si rifugia in Francia, alla corte di Luigi XIII. Qui prepara un piano di pubblicazione delle sue opere in dieci volumi, ma riesce a pubblicarne solo tre, perché muore il 21 maggio 1639.

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Nella cultura di Tommaso Campanella confluiscono tendenze diverse: da quelle dei movimenti ereticali del Medioevo (si pensi a una figura come quella del monaco calabrese Gioacchino da Fiore, 1130-1202, la cui concezione religiosa era fondata sull’attesa della fine del mondo, profetizzata per l’anno 1260, e dell’avvento successivo di un nuovo “millennio”, in cui Dio e il Bene avrebbero governato la vita umana) a quelle del naturalismo, del magismo e dell’ermetismo che avevano caratterizzato la cultura platonica rinascimentale; dalla cultura popolare calabrese, con la sua concezione magica e animistica della natura, alla teologia della Controriforma, che mirava a unire potere politico e potere religioso (programma ripreso infatti da Tommaso Campanella). Della cultura rinascimentale egli riprende la tendenza alla magia, non il metodo scientifico e razionalistico; la spregiudicatezza intellettuale, non l’individualismo né la fiducia nell’azione del singolo; egli privilegia invece l’aspetto comunitario, sociale, collettivo spingendosi fino a ipotizzare una società comunistica nella Città del sole.

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Tommaso Campanella scrisse le sue poesie perlopiù in carcere. Un gruppo di 89 venne pubblicato nel 1622 in Germania, per interessamento dell’amico Tobia Adami, con il titolo Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla (pseudonimo di Tommaso Campanella), accompagnate dal commento dell’autore. Sono sonetti, madrigali, odi e tre elegie «fatte con misura latina» (è uno dei primi tentativi di rendere nella metrica italiana quella latina), tutti componimenti scritti fra l’inizio del secolo e il 1613.
Le poesie di Tommaso Campanella partono spesso da temi autobiografici (anzitutto quello del carcere) per innalzarsi sino all’esaltazione della superiore missione del poeta, alla condanna dei vizi e delle ipocrisie dominanti, alla riproposizione dei motivi politici che parallelamente confluiscono nella Città del sole.
Accanto alle opere in latino (come la Philosophia realis [Filosofia reale], la Theologia e la Metaphysica) spicca il trattato in volgare, scritto nel 1604, Del senso delle cose e della magia. Il mondo vi è immaginato come un animale, come un organismo vivente i cui vari aspetti sono tutti dotati di sensibilità. Tutta la natura dunque è pervasa da un’unica vita, da un’anima comune: la morte è solo un momento necessario alla continuazione di questa vita perpetua. La magia permette di intervenirvi così come l’astrologia concede di prevederne gli sviluppi. Dio si identifica con il processo naturale guidandolo verso una complessiva conciliazione di tutte le cose, verso un’armonia universale che si realizza progressivamente nel flusso stesso dell’esistenza. Il progetto politico si inserisce appunto in questa fiducia. Si tratta di portare a compimento quanto è già previsto dal piano di Dio. Il teorico della politica è dunque anche un profeta.

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Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all’esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea (materia).
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Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all’azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l’America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l’uomo e pertanto afferma l’esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di autocoscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus’, che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus’ che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d’Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus’ sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito’: io penso quindi esisto (cogito ergo sum).
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In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l’ordine universale dell’universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il cristianesimo è l’unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma al contempo coincide con l’ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.
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Campanella fu autore anche di un’importante opera di carattere utopico, ovvero La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all’Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell’utopismo campanelliano è da annoverare anche La nuova Atlantide di Ruggero Bacone. L’utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere. L’incertezza è già evidente nell’interpretazione della critica idealistica, che nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell’opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale.

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Per Silvio Spaventa, Campanella è il “filosofo della restaurazione cattolica”, in quanto, la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: “Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo”. È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi “sono vani se non hanno per base l’istruzione e la felicità delle classi più numerose”. Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo.

PASQUALE GALLUPPI

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Pasquale Galluppi nacque a Tropea il 2 aprile del 1770 da un’antica casata nobiliare e possidente terriera. Formato al cattolicesimo, dopo i primi studi incentrati soprattutto sulla filosofia e sulla matematica, nel 1788 fu mandato a Napoli a studiare giurisprudenza. Egli tuttavia disattese il volere paterno: apprese il greco con Pasquale Baffi, seguì le lezioni di teologia (passione nata già ai tempi di Tropea grazie alla Teodicea di Gottfried Wilhelm von Leibniz e alle opere di Christian Wolff) di Francesco Conforti e si dedicò a una lettura attenta dei testi biblici e dei Padri della Chiesa, dalla quale fin da subito emerse un interesse peculiare per gli scritti e la figura di sant’Agostino. Dopo il suo ritorno nella città natale, nel 1794, egli proseguì gli studi filosofici, approfondendo in particolare testi appartenenti alla scuola cartesiana. Al 1795 risale il deferimento da parte del Sant’Uffizio di Roma a causa di una dissertazione di teologia tenuta presso la Regia accademia degli Affaticati di Tropea circa l’idea che le «supposte virtù dei pagani […] mancanti della vera carità debbono dirsi vizi» (L. Meligrana, prefazione a P. Galluppi, Memoria apologetica, a cura di L. Meligrana, 2004, p. XXIX). Per difendersi dall’accusa di eresia egli compose una Memoria apologetica ispirata a sant’Agostino, il cui pensiero ritenne essere la difesa più efficace della propria innocenza. L’introduzione a tale scritto fu redatta da monsignor Carlo Santacolomba, le cui teorie gianseniste, cariche di ferrea intransigenza morale e caratterizzate da salde «tendenze anticurialiste e antitemporaliste»  sono ben riconoscibili.

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Al 1799 è datato invece il coinvolgimento nei fatti della Repubblica partenopea. Alcuni anni più tardi ricoprì la carica di Controllore delle contribuzioni dirette per diciassette anni, dunque sia sotto i Napoleonidi che sotto il governo dei Borboni. Intorno al 1800 scoprì Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), un autore che egli non solo ritenne importante, ma addirittura un punto di svolta di tutto il suo percorso di studio e di pensiero. Il sensismo dell’abate francese, insieme all’empirismo dell’Essay concerning human understanding di John Locke (1632-1704), fu infatti il viatico per uno scandaglio filosofico di tipo analitico-fondativo precedente ogni ricerca metafisica su Dio e sull’universo. Pur essendo per indole lontano da ogni estremismo, dunque, tra i due schieramenti – dei giacobini e dei sanfedisti – il pensatore tropeano non solo fu vicino per formazione intellettuale alla causa giacobina, ma si adoperò anche, tramite la traduzione di fogli propagandistici in favore delle truppe del generale francese Championnet, perché questa potesse diffondersi. L’episodio fu causa del suo imprigionamento nella fortezza di Pizzo quando la città di Tropea si assoggettò alle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, contro il quale il nostro si scagliò duramente nel primo scritto politico intitolato Pensieri filosofici sulla libertà individuale compatibile con qualunque forma di governo, risalente al 1805, che tuttavia, forse per prudenza, non diede alle stampe e che rimase inedito fino alla pubblicazione nel 1865. Tale scelta di comodo non deve tuttavia far dimenticare il valore delle parole, queste sì non ambigue, rivolte contro un clero che svilisce «il vero spirito del Cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo» e che ha permesso a «un Cardinale di comandare delle masse di ribaldi e di fanatici» e di «innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e di ogni sorta d’iniquità» (Tulelli 1865, pp. 111-12).

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Il 1820 è l’anno dei moti carbonari in Piemonte e nel Regno di Napoli: questo nuovo fervore gli ispirò, tra l’altro, la composizione degli Opuscoli politico-filosofici sulla libertà. In questi libelli troviamo interventi a favore “della eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni e della propria industria”, oltre che della libertà di stampa e di culto, interventi stimolati tra l’altro da avvenimenti come la promulgazione della legge sulla libertà di stampa nel Regno di Napoli, risalente al 26 luglio 1820, e dalle discussioni sui principi costituzionali e sulle libertà civili che avevano luogo all’interno del Parlamento del Regno. La difesa di un liberalismo monarchico-costituzionale può spiegare anche la presa di posizione a favore del re Ferdinando I, contenuta nello scritto intitolato Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli, che appare a tutti gli effetti non solo una valutazione storica errata, ma anche una triste contraddizione rispetto alla memoria dei martiri del 1799, considerato che il re aveva fatto massacrare buona parte dell’avanzata intellighenzia illuminista napoletana, tra cui anche i maestri del filosofo Conforti e Baffi. Essa, infatti, potrebbe rientrare in un orizzonte più ampio, finalizzato a salvaguardare in ogni modo l’identità di uno Stato, che egli chiama già «nazione» (Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, cit., p. 85), delineando una posizione netta contro l’ingerenza straniera nel territorio italiano.  Il cambiamento di prospettiva sarebbe dovuto quindi proprio alla necessità di perseguire con la maggiore efficacia possibile un progetto nazionale di autonomia per gli Stati italiani. È per questo che «nel nome del filosofo di Tropea» si è inteso evocare la rinascita speculativa della Nazione Italiana, quale simbolo e auspicio di quello che sarebbe stato, più tardi, l’agognato risorgimento politico della nostra terra.

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Con i suoi scritti egli pone al centro una questione politico-civile fondamentale: quale è quella libertà civile, di cui deve godere il cittadino, in rapporto al potere politico in generale, prescindendo da qualunque forma di governo? In primo luogo vi è per Galluppi la libertà di pensare, che nessun errore o eccesso può limitare, e di seguito la libertà di stampa, di cui tuttavia sono ammessi alcuni vincoli rispetto alla religione. Egli sostiene la possibilità per ciascuno di non uniformarsi alla religione di Stato e l’illegittimità di azioni da parte dello Stato stesso che forzino in qualche modo scelte e libertà dell’individuo in questo campo: si tratta però appunto di libertà di coscienza, e non di libertà di culto, rispetto alla quale la decisione è invece rimessa allo Stato. Questa limitazione è connaturata a un concetto stesso di libertà di ispirazione essenzialmente giusnaturalistica, intesa come un diritto naturale precedente ogni ordinamento positivo.

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Lungimirante e all’avanguardia per i tempi resta tuttavia la sua posizione a favore del matrimonio civile, il cui significato di principio in termini legislativi e sociali è evidente quanto innegabile: in forza della libertà di coscienza già riconosciuta, la legislazione non può più riguardare il matrimonio se non come un contratto civile; altrimenti il cittadino non avrebbe la libertà di essere non conformista. «La libertà di essere non conformista»: in questa espressione si racchiude l’essenza del Galluppi teorico e filosofo della libertà. Le sue istanze e spinte liberali, pur se mediate sovente da una distanza di comodo, indicano tuttavia un elemento centrale della sua dimensione politico-civile destinato a riversarsi in maniera coerente e sentita nell’opera filosofica, ovvero il primato della coscienza. La “filosofia dell’esperienza” galluppiana è a tutti gli effetti un tentativo di riscrittura e di oltrepassamento del criticismo gnoseologico kantiano. Una gnoseologia elaborata per superare sia gli eccessi dogmatico-soggettivi del razionalismo sia quelli scettico-oggettivi dell’empirismo in una conciliazione teorica che neanche nelle tre Critiche sarebbe stata raggiunta. Secondo Galluppi, il discorso kantiano è messo in crisi in maniera decisiva proprio dalla constatazione che un fenomeno suppone necessariamente due realtà; quella del soggetto, a cui qualche cosa apparisce; quella della cosa che al soggetto si mostra. L’accesso al fenomeno dunque non è solo mera espressione o proiezione di un soggetto, ma è sempre interazione di soggetto e oggetto; ciò induce a individuare una dimensione che garantisca proprio tale interazione: la coscienza: «io percepisco il me, il quale percepisce un fuor di me». Giungiamo così al cuore della filosofia morale del filosofo tropeano: i precetti morali non sono né massime né imperativi, ma verità primitive che si fondano sull’esperienza, pur se prescritti dalla ragione: «l’esistenza de’ doveri, e perciò del bene e del male morale è una verità primitiva, che la Coscienza ci manifesta».

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Nel 1831 si insediò con successo presso la cattedra di logica e metafisica dell’Università di Napoli. Intanto la sua fama di studioso si diffondeva non solo in Italia (dove fu insignito di molte onorificenze), ma anche all’estero. Una testimonianza di siffatta considerazione proviene dal privilegiato rapporto con l’ambiente culturale francese, che fu suggellato nel 1838 con la nomina a socio corrispondente estero dell’Académie des sciences de l’Institut de France e nel 1841 con il conferimento della Legion d’onore. Galluppi morì a Napoli, al suo tavolo di lavoro, il 13 dicembre 1846.

 

LUIGI GIGLIO (LILIO)

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Luigi Giglio, in latino Aloysius Lilius, nacque intorno al 1510 a Cirò, presso Crotone, in Calabria, da una famiglia di modeste condizioni. Delle vicende della sua vita ben poco si sa, tanto che in passato ne è stata persino messa in dubbio l’origine calabrese e il nome di battesimo è stato indicato nella forma di Alvise Baldassarre. Luigi Lilio, medico e astronomo, ideò la riforma del calendario, promulgata da Papa Gregorio XIII (da cui prese il nome) nel 1582. Fu una delle piu’ importanti riforme del Rinascimento italiano, ideata da Lilio e portata avanti a Roma, nella seconda meta’ del XVI secolo, da un gruppo di calabresi guidati dal Cardinale Guglielmo Sirleto.  Insieme al fratello Antonio, frequento’ l’Universita’ di Napoli dove si laureo’ in medicina, non tralasciando pero’ di coltivare la passione per la matematica e l’astronomia. Nella città partenopea era agli stipendi della famiglia Carafa, feudatari di Cirò, non essendo sufficienti le magre sostanze paterne per potere attendere agli studi. Dopo una permanenza presso l’Universita’ di Perugia, quale docenti di medicina nel 1552, i fratelli Lilio frequentarono un influente gruppo di intellettuali che facevano capo all’Accademia delle Notti Vaticane, fondata a Roma dal Cardinale Sirleto e dal Cardinale Carlo Borromeo.  A quanto sembra Giglio dedicò l’ultimo decennio della vita a perfezionare la sua proposta di riforma del calendario, ma morì prima che questa fosse presentata al papa.

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Il grande problema astronomico-confessionale che Lilio si trovo’ ad affrontare era stato posto quando il Concilio di Nicea stabili’ che la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima domenica dopo il plenilunio di primavera. In epoca successiva pero’ era stato evidenziato che l’anno solare risultava piu’ lungo di 11 minuti e 14 secondi, per cui ogni 128 anni si sommava un giorno in piu’ (13 giorni nel 1500). Nel tentativo di risolvere il rompicapo, tutti i piu’ grandi astronomi e matematici di varie epoche si erano cimentati inutilmente. Fu Lilio a proporre di calcolare l’anno solare in base alle Tavole Alfonsine: in questo modo la durata dell’anno solare risulto’ essere di 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 12 secondi. La proposta di ricondurre l’equinozio di primavera al 21 marzo, eliminando dieci giorni e sopprimendo il bisesto a tutti gli anni centenari non multipli di 400 (gli anni centenari venivano cosi’ calcolati normalmente ad eccezione di quelli le cui prime cifre erano divisibili per quattro – 1700, 1800, 1900 – mentre il 2000 era considerato a cadenza normale), alla fine risulto’ vincente. L’anno di 366 giorni fu detto bisestile, perché quel giorno complementare doveva cadere sei giorni prima delle calende di marzo (facendo raddoppiare il 23 febbraio), e chiamarsi così bis sexto die ante Kalendas Martias (nel doppio sesto giorno prima delle calende di marzo). Inoltre, al fine di una più corretta misurazione delle lunazioni, essenziale per indicare il termine pasquale, il Giglio propose di sostituire al sistema del ciclo metonico (che prevedeva l’intercalazione, in un periodo di 19 anni composti ciascuno di 12 mesi, di altri sette mesi) un nuovo metodo basato sul calcolo delle epatte, di cui redasse delle tabulae.

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Sfortunatamente Lilio non pote’ seguirne il destino perche’ mori’, nel 1576, dopo una grave malattia. Nel 1577 Antonio Lilio presento’ pero’ il lavoro del fratello a Papa Gregorio XIII che lo accolse con molta gratitudine. Nello stesso anno venne stampato un volumetto che riportava le osservazioni di Luigi Lilio con i passaggi piu’ significativi, i calcoli e le tavole del nuovo calendario. La stampa venne eseguita a cura del Cardinale Sirleto, sorta di ‘deus ex machina’ dell’impresa, e curata da Pietro Ciaconio, esperto in Storia della Chiesa per le implicazioni civili ed ecclesiastiche, e Cristoforo Clavio, gesuita di Bamberga, astronomo e matematico, direttore dell’Osservatorio Vaticano. Nell’ultima pagina era possibile leggere la proibizione, da parte di Sirleto, pena la scomunica, di vendere o ristampare il volume.Dopo innumerevoli polemiche e veleni, il 14 settembre 1580, la Congregazione voluta da Gregorio XIII presento’ la relazione conclusiva dal titolo “Ratio corrigendi festes confirmata et nomine omnium qui ad calendarii correctionem delecti sunt oblata SS.mo D.N. Gregori XIII”. Di questo testo esistono due copie: l’una conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’altra presso la Biblioteca Casanatense di Roma. Il 24 febbraio 1582 il documento venne poi firmato e promulgato dal pontefice che, in data 5 marzo 1582, lo fece pubblicare, per affissione, sulla porta della Basilica di San Pietro.

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Un’intuizione che, in breve tempo, divento’ oggetto di discussione tra esperti di matematica ed astronomia. Astronomi e matematici, come Giuseppe Giusto Scaligero, Georgius Germanus e François Viète non approvarono la riforma liliana e cercarono in tutti i modi di creare calendari alternativi senza però riuscirci. James Heerbrand, professore di teologia a Tubinga, presentò le sue obiezioni nel Disputatio de adiaphoris et calendario gregoriano, tanto che accusò il papa, da lui definito “Il Calendarista”, di essere “l’Anticristo” che aveva creduto di poter mutare il tempo, ingannando i veri cristiani a celebrare le festività religiose in giorni volutamente sbagliati. In un altro scritto polemico, i cui principali autori furono Maestlin e il teologo Osiander, si argomentava che il papa avesse rubato dieci giorni dalla vita di ciascuno, i contadini non sapevano più quando arare o seminare i campi e gli uccelli smarriti non sapevano più quando cantare o emigrare. La prima difesa del calendario fu pubblicata nel 1585 ad opera del gesuita Johannes Busaeus, le cui argomentazioni, dirette principalmente contro le posizioni del teologo Heerbrand, vertono sulla correttezza scientifica e soprattutto interpretativa della riforma rispetto alle direttive del Concilio di Nicea. Tycho Brahe e Giovanni Keplero, gli astronomi più autorevoli del tempo, nonostante fossero protestanti, fattore che indubbiamente limitava le loro pubbliche dichiarazioni, considerarono la riforma elaborata da Lilio perfetta da un punto di vista scientifico. Keplero lasciò un articolo, pubblicato dopo la sua morte, nel quale presenta le sue argomentazioni in forma di dialogo tra un cancelliere protestante, un predicatore cattolico e un esperto matematico. La frase finale di questo dialogo è illuminante: ”La Pasqua è una festa e non un pianeta. Tu non puoi determinarla con giorni, ore, minuti e secondi.” L’opinione di Brahe è nota grazie a due lettere nelle quali l’autore afferma che le critiche mosse dagli astronomi contrari alla riforma erano dettate non da rigore scientifico ma da avversione verso il pontefice.

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Egidio Mezzi, storico di Lilio, afferma: ‘Matematici ed astronomi italiani e stranieri non danno il giusto rilievo a questa straordinaria figura  che riusci’ ad elaborare un calendario che ancora oggi, nonostante i ritmi vertiginosi raggiunti dalla scienza, non e’ stato superato”. Il fisico Antonio Zichichi in un’intervisse disse del Giglio: “Il mio interesse per Luigi Lilio nasce dal fatto che se fosse stato un inglese, un tedesco o una persona non italiana a scoprire il calendario perfetto lo saprebbero tutti, invece nessuno sa che e’ stato un italiano. Nessuno sa che e’ stato Aloysius Lilius, nato a Ciro’ in Calabria, a elaborare questo calendario passato alla storia con la benedizione di Papa Gregorio XIII, un bolognese. Bologna e’ la mia citta’ universitaria. Penso sia corretto rendere omaggio a questi due grandi personaggi della storia d’Italia e del mondo”. Il Calendario Gregoriano elaborato da Aloysius Lilius, ha detto Papa Giovanni Paolo II agli scienziati della World Federation of Scientists è: «… un contributo tra i più significativi e duraturi offerto dalla Cultura Cattolica sin dal lontano 1582 a tutti i popoli del mondo».

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Il Calendario Gregoriano venne man mano adottato nei diversi Paesi del mondo: in Italia, Portogallo e Spagna nell’ottobre del 1582; nel dicembre dello stesso anno in Francia e nei Paesi Bassi di Fede Cattolica. Diciotto anni dopo, nel 1600, venne adottato in Scozia. Bisogna attendere il 1700 per vederlo in uso nei Paesi di Fede Protestante: Danimarca e Norvegia. E addirittura il 1752 per vederlo in uso nel Regno Unito d’Inghilterra. Nei paesi di Fede Ortodossa andò in vigore tra il 1916 e il 1923. In Russia fu introdotto nel 1917. In Cina il governo repubblicano adottò il Calendario Gregoriano il 20 novembre 1911. Negli usi comuni però rimase in vigore il vecchio Calendario finché il governo di Nanking stabilì che col 1º gennaio 1930 il solo Calendario valido a tutti gli effetti giuridici dovesse essere quello Gregoriano di Aloysius Lilius. È attraverso queste diverse fasi che oggi, per la prima volta nella storia del mondo, tutte le Nazioni si trovano ad avere lo stesso Calendario.

Nel 2012 la Regione Calabria ha istituito la Giornata del Calendario in memoria di Luigi Lilio fissandola per il 21 marzo di ogni anno.

Il cratere Lilius sulla Luna prende il suo nome.

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Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria, adnkronos, eccellenzecalabresi, treccani.

 

 

 

 

 

 

La Grotta del Romito: Usi e Costumi del Calabrese Preistorico.

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La Grotta del Romito è una delle testimonianze di arte preistorica più importante non solo d’Italia ma di tutta Europa. Si trova a 296 metri s.l.m., ubicata ai piedi del monte Ciagola o Ciavola, parte di un ambiente naturalistico di grande fascino e pregio, con le caratteristiche geologicamente tipiche del paesaggio carsico come grotte ripari e inghiottitoi, in località Nuppolara nel comune di Papasidero, nella Valle del fiume Lao, in provincia di Cosenza e deve il suo nome alla frequentazione dei monaci del vicino monastero di Sant’Elia che la utilizzarono come eremo. L’attuale toponimo dell’abitato di Papasidero deriverebbe da un Papas Isídoros, capo di una comunità basiliana del Mercurion, uno dei maggiori luoghi del misticismo dell’Italia meridionale in cui fiorì a partire dal VI° secolo il monachesimo greco-orientale, in corrispondenza di un territorio che si estendeva lungo il confine occidentale delle attuali Calabria e Basilicata. A quota m. 210 s.l.m, con i suoi 854 abitanti attuali, il piccolo paese medievale di Papasidero si sviluppa a partire da una rocca longobarda ampliata a Castello nei secoli successivi, sotto le denominazioni Normanno-Sveva, Angioina e Aragonese.

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La Grotta consta di due parti: la Grotta vera e propria lunga circa 20 metri e un tempo senz’altro ben illuminata dalla luce del giorno, ed il Riparo che si estende per circa 34 metri. I depositi della grotta e del riparo costituiscono una sola grande formazione sedimentaria dove si possono ammirare suggestive formazioni di stalagmiti e stalattiti a frange e a cuspidi di colore prevalentemente bianco. All’interno della grotta esiste anche una galleria ancora inesplorata. Sito di fondamentale importanza per la preistoria calabrese insieme alla Grotta della Madonna nella vicina località costiera di Praia a Mare, esso costituisce uno dei più importanti giacimenti italiani del Paleolitico superiore (30.000-10.000 anni fa) e attesta frequentazioni più recenti risalenti al Neolitico europeo (7.000 – 4.000 anni fa). Ed è proprio in questa cavità che visse “l’uomo del Romito”, probabilmente un uomo di Cro-Magnon, il quale non sapeva allevare gli animali e non conosceva l’agricoltura e la lavorazione della ceramica. In seguito fu l’Homo Sapiens ad abitare intensamente la grotta lasciando innumerevoli testimonianze del suo passaggio con i suoi strumenti litici e ossei, con lo stupendo graffito e con i resti dei propri scheletri.

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La Grotta viene scoperta nella proprietà di Agostino Cersosimo, nella primavera del 1961, dall’allora direttore del Museo Comunale di Castrovillari Agostino Miglio su segnalazione di due Papasideresi, Gianni Grisolia e Rocco Oliva durante un censimento agrario. In realtà, già nel 1954 un appassionato di archeologia di Laino Borgo, Luigi Attademo, aveva segnalato al Miglio l’esistenza del Riparo con una non meglio precisata figura di toro. La grande scoperta fu quindi affidata ad un archeologo di fama internazionale, Paolo Graziosi, dell’Università di Firenze, che diresse i lavori fino al 1968. Nell’ultimo decennio, a partire dal 2000, la cura del sito è stata affidata ad un suo discepolo, Fabio Martini, che insegna nella stessa Università.

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Le molteplici evidenze archeologiche restituite dal sito offrono agli studiosi numerosi elementi utili alla ricostruzione storica delle attività delle comunità di cacciatori-raccoglitori che abitarono il sito, le condizioni di vita dei gruppi umani preistorici, la loro interazione con l’ambiente e il paesaggio circostanti. Indicazioni sulla microfauna, la macrofauna e sui condizionamenti subiti dalle comunità dalle dinamiche climatiche avvenute dalla fine del Paleolitoco al Neolitico: la presenza nella grotta di un torrente, antecedente a 24.000 anni fa e avente fasi di ingrossamento alterne nei secoli , ha consentito la frequentazione umana in seguito ai prosciugamenti ed interventi di bonifica.

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Inoltre, dalla setacciatura del terreno di scavo nello strato risalente a 11.000 anni anni fa sono emersi, come per altri siti del Paleolitico superiore, dodici semi di “vitaceae” che per le loro dimensioni sono riferibili alla “Vitis silvestris”; importante anche il ritrovamento di palchi di Cervo palmato, Cervus elaphus palmidactyloides, rinvenuti sepolti in una piccola fossa e riferibili a significati simbolico-rituali e di gasteropodi bivalvi e scafopodi ovvero conchiglie marine della specie Columbella rustica e Cyclope neritea, lavorate e usate come ornamento che testimoniano altresì i contatti con il litorale tirrenico.

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Riferibile al periodo Neolitico è invece il ritrovamento di ossidiana che lascia ipotizzare “l’area del Romito” come centro di scambio e transito, tra l’area tirrenica e quella jonica, del vetro vulcanico proveniente dalle Isole Eolie, utilizzato per produrre punte di frecce, raschiatoi e altro, confermando l’importanza delle popolazioni neolitiche della Calabria nel commercio e il controllo di questo materiale. Al Neolitico Recente risale invece il deposito ceramico dello stile della necropoli di Masseria Bellavista di Taranto. È probabile che la frequentazione della grotta sia continuata nell’Età dei Metalli, nonostante non vi sia traccia documentaria. Nel cunicolo della grotta è stato rinvenuto un bel punteruolo di osso lavorato portante inciso un motivo geometrico costituito da un rettangolo inscritto in un altro, da fasci di linee parallele, rette e zig-zag e da segni a dente di lupo ai margini dello strumento. Essi ricordano analoghi motivi geometrici dell’ “arte mobiliare”, forme artistiche relative agli oggetti “Mobili” cioè di oggetti di uso sia rituale sia quotidiano risalenti al periodo preistorico, della grotta Polesini presso Tivoli e di quella spagnola del Parpallò presso Valencia.

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Nei livelli più alti del terreno sono stati rinvenute tre sepolture datate a 9.200 anni fa, contenenti ciascuna una coppia di individui disposti secondo un procedimento ben definito e giacenti in strati epipaleolitici. Una di queste sepolture si trova nella Grotta e due nel Riparo, poco distanti dal masso con la figura taurina. Gli scheletri ed il loro posto della sepoltura all’interno della Grotta del Romito, sono differenti dagli altri resti trovati in Europa perché i ricercatori precedentemente avevano trovato resti scheletrici sepolti individualmente, mentre in questo insediamento hanno trovato per lo più coppie di scheletri. Le sepolture hanno suggerito agli studiosi che probabilmente la Grotta era un posto “sacro” dove veniva effettuato il cosiddetto “Matrimonio-Sati” (la sepoltura di una coppia), conferma della supremazia delle associazioni filiali fra gli uomini e le donne dagli inizi stessi della storia umana.

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Dapprima sono venuti alla luce i depositi del Riparo: un uomo e una donna sdraiati in una piccola fossa ovale l’uno sull’altro. La donna copriva in parte la spalla sinistra dell’uomo e la sua nuca poggiava sulla guancia del compagno. L’uomo le circondava le spalle col braccio sinistro, mentre il destro era disteso lungo il corpo. Il corredo funebre era costituito da un grosso frammento di corno di bos primigenius appoggiato sul femore sinistro dell’uomo, mentre un altro corno era appoggiato sulla spalla destra. Intorno agli scheletri erano deposte delle selci lavorate. I due individui, di 15/20 anni di età, sono ambedue di statura molto piccola: 1,40 metri il maschio, 85 centimetri la femmina, che presenta il femore e l’omero affetti da un forte dismorfismo e da osteoporosi.

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Due scheletri umani disposti l’uno sull’altro e di sesso diverso costituivano l’altra duplice sepoltura contenuta in una fossa ovale. Si tratta di individui di circa 30 anni, alti 1,46 e 1,55 metri, entrambi sepolti con le gambe flesse. Alcune ossa del secondo individuo non erano al loro giusto posto (l’uomo a destra figurava, infatti senza femore e con l’epifisi nella fossa del bacino), probabilmente perché dopo la morte del primo individuo, alla riapertura della fossa per seppellirvi il secondo, sarebbero state involontariamente mosse le ossa è asportato il femore del primo.

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La terza sepoltura si trovava nel deposito della grotta circa allo stesso livello di quelle del riparo. Erano due individui sdraiati sul dorso e affiancati. Con le braccia distese, l’una appoggiata sul bacino e la sinistra entro il bacino. Si tratta di due individui maschili, di età al di sotto dei venti anni, di statura di 1,59\1,60 metri circa. Dello scheletro di sinistra rimanevano solo il bacino, gli arti inferiore e le ossa di un braccio. Parte della scatola cranica e meta della faccia furono ritrovate in seguito, in quanto il deposito era stato sconvolto in epoca imprecisata da lavori di scavi forse per rendere pianeggiante il terreno. L’individuo di destra era, invece, completo.

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Escluso la donna patologica della prima sepoltura che ha un cranio corto, tutti gli altri sono mesocefali, con cranio allungato, volta cranica piuttosto bassa, faccia stretta, mascelle robuste, triangolari e prominenti. Le orbite sono basse e il naso non molto lungo e neanche largo. Di questi scheletri una coppia è esposta al Museo di Preistoria di Firenze, insieme alle schegge litiche ritrovate (circa 280); un’altra è esposta al Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria e una terza è ancora oggetto di studio da parte dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze nei loro laboratori.

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Durante gli scavi sono state rinvenute anche un paio di sepolture singole. Un anziano di 35 anni (corrispondenti agli odierni 100) che, dagli accertamenti del caso, è risultato essere stato reso handicappato da molte malattie, ferimenti da caccia e cadute. La domanda fu, come fece a raggiungere l’età avanzata, a procurarsi il cibo necessario alla sopravvivenza; dalla dentatura molto abrasa, si è concluso che, probabilmente, si rendeva utile alla comunità lavorando le pelli con l’uso dei denti, in cambio della sussistenza. L’altro ritrovamento umano di grande interesse, si è rivelato essere quello di un giovane cacciatore che, nonostante la giovane età, fu sepolto con un corredo di oggetti degni di un capo. Altra caratteristica interessante di quest’uomo paleolitico, è l’altezza notevole per l’epoca e per la zona meridionale infatti, lo scheletro ritrovato appartenevano ad un individuo alto 1,74 metri.

 

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Un team di ricerca composto da italiani e americani ha fatto rinascere in 3D il cervello di un altro degli scheletri, chiamato “Romito 9”, delle Grotte del Romito e proprio Martini spiega che:” è lo scheletro di un ragazzino morto tra le aspre colline di quella che oggi è la Calabria. La causa della sua morte non è nota. Ma la presenza di decorazioni con conchiglie e ocra rossa trovate attorno al suo corpo deposto delicatamente fa pensare che il piccolo fu amato e pianto. Le ossa del cranio a quell’età sono ancora plastiche, in sviluppo, tanto da lasciare, seppure in maniera invisibile all’occhio umano, l’impronta del cervello, rilevabile con le tecnologie sofisticate di oggi. Un ritrovamento dunque eccezionale. Oggi possiamo sapere e toccare con mano un cervello di un nostro antenato di 17mila anni fa, grazie alla ricostruzione in 3D che un team ha realizzato negli Usa partendo dalla scatola cranica di un ragazzo ritrovato nella grotta del Romito a Papasidero in Calabria. Naturalmente non possiamo dire come quel cervello “funzionava”, come pensava, come interagiva col mondo esterno, ma sicuramente questo risultato raggiunto è destinato a fornirci importanti informazioni nuove e finora impensabili.  È la prima volta che la tecnologia ci permette di toccare con mano un cervello antico. Possiamo vedere chiaramente che l’area del linguaggio, è quasi uguale, nella morfologia, ad oggi. È lo studio più completo su un individuo così antico. Insieme alla ricostruzione 3D del cervello si prevede anche la ricostruzione del Dna dell’antico preadolescente”.

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A “leggere” queste “tracce” invisibili ci ha pensato il fisico Claudio Tuniz del Centro Internazionale di Fisica Teorica Abdus Salam di Trieste, il quale ha realizzato il modello informatico, che poi ha permesso di stampare in 3D, negli Usa, il cervello di 17mila anni fa. Tuniz ha fatto la ricostruzione teorica, grazie alle tecnologie avanzate del suo laboratorio realizzando circa 4mila radiografie, più o meno 10 per ogni grado della rotazione completa. La mappa ha permesso la stampa del cervello in California, dove sono disponibili le strutture necessarie e dove opera un altro specialista italiano, Fabio Macciardi, studioso di neuroscienze dell’università della California e docente di genetica medica all’università di Milano. Per raggiugere l’altro grande obiettivo ambizioso, l’estrazione del Dna dallo scheletro “Romito 9” è intervenuta la professoressa Olga Rickards, ordinario di antropologia molecolare all’università di Tor Vergata di Roma, che è riuscita a sequenziarlo.

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“Oggi molti ricercatori lavorano per trovare i geni legati alle patologie del linguaggio. Ma si tratta di una competenza molto complessa e si rischia di perdersi in un mare di informazioni genetiche. Serve scegliere solo quelle importanti che sono, probabilmente, sia quelle conservate nei millenni, sia quelle sviluppate nell’evoluzione. Sui dati ottenuti abbiamo realizzato molti confronti con quelli contemporanei. E il nostro obiettivo è realizzare lo stesso lavoro su 70 scheletri molto più antichi. Potremmo così ottenere una vera e propria mappa dell’evoluzione del cervello e del linguaggio degli ultimi 200mila anni. Sapere con precisione quali sono i geni del linguaggio” interviene Macciardi. Ma anche ‘datarli’, e continua: “Alcuni antropologi pensano che il linguaggio sia nato insieme all’arte, al pensiero simbolico (50 – 60mila anni fa). Altri addirittura pensano a 500mila anni fa. Due estremi su cui potremmo essere più chiari incrociando i dati morfologici e genetici delle diverse fasi evolutive. Ma si tratta di studi costosi che hanno bisogno di finanziamenti che bisognerà trovare”.

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Ma, oltre agli importanti resti umani che vanno sicuramente ad incrementare gli studi riguardo quel periodo della preistoria europea, ciò che caratterizza questo sito archeologico sono le celebri incisioni rupestri, che interessano due grandi pietre di crollo alle estremità opposte del riparo, analizzate dal Graziosi. La prima è quella dei cosiddetti “Segni Lineari”, un masso di circa 3,50 metri , con semplici tratti rettilinei o leggermente curvilinei, più o meno profondamente incisi, disposti in tutte le direzioni e variamente intersecantisi, senza alcun significato apparente. La sovrapposizione del deposito epipaleolitico consente di datarli verso la fine della serie (11.000 a.C. circa).

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La seconda è quella del “Masso dei Tori” che si trova presso l’imboccatura della grotta e reca incisi su diversi livelli tre profili di Bos Primigenius, un bovide selvatico antenato dei bovini domestici. Rappresenta una delle più importanti raffigurazioni dell’arte rupestre del Paleolitico Superiore: è così perfetto nel disegno e nella prospettiva, quanto nella scelta della superficie rupestre che gli dona un senso di 3D, da far affermare al professor Graziosi, di essere di fronte a “la più maestosa e felice espressione del verismo paleolitico mediterraneo, dovuto ad un Michelangelo dell’epoca”. L’attenzione ai dettagli anatomici e le proporzioni realiste rendono l’incisione dell’uro paragonabile, per lo stile della figurazione, al linguaggio espressivo dell’arte parietale rupestre franco-cantabrica, elementi che per importanza proiettano il sito archeologico del Romito nel più ampio contesto europeo.

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La figura di toro, lunga circa 1,20 metri è incisa su un masso di circa 2,30 metri di lunghezza e inclinato di 45° nella zona antistante l’ingresso della grotta. Il disegno, di proporzioni perfette, è eseguita con tratto sicuro così come è caratteristico dell’arte paleolitica. Le corna, viste ambedue di lato, sono proiettate in avanti ed hanno il profilo chiuso. Sono rappresentati con cura alcuni particolari, come le narici, la bocca, l’occhio e, appena accennato, l’orecchio. In grande evidenza le pieghe cutanee del collo e assai accuratamente descritti i piedi fessurati. Un segmento attraversa la figura dell’animale in corrispondenza dei reni. Secondo Graziosi:” Si ha l’impressione che almeno parte di questi segni preesistessero alla esecuzione del toro e che qualcuno sia stato addirittura utilizzato per la realizzazione delle grandi pieghe”.

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Tra le zampe posteriori dell’uro vi è incisa, molto più sottilmente, un’altra immagine di bovino di cui è eseguita soltanto la testa, il petto e una parte della schiena. Anche esso presenta le corna proiettate in avanti, ma a profilo aperto e solo nella seconda metà divise in due, mentre nella prima parte appare un solo corno, ripetendo un modulo tipico dell’arte paleolitica mediterranea. Sull’estremità inferiore dello stesso masso è incisa una terza piccola testa di toro. A fianco del masso col toro si trova una stalagmite a forma di equide senza testa. Secondo Graziosi:” Il rinvenimento delle sepolture nell’area intorno e tra i due grandi massi incisi farebbe pensare a due stele o una stele (quella col toro) delimitanti un’area funebre”. Infatti La ricorrenza di resti di uro insieme agli scheletri rimanda a funzioni di offerte funerarie, elementi che forniscono informazioni sull’universo simbolico, le pratiche rituali e funerarie paleolitiche.

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La disposizione delle inumazioni in prossimità del graffito del Bos Primigenius, “assegnano a questa immagine una valenza totemica di grande suggestione e conferisce all’ambiente un indiscutibile legame con il sacro” afferma Martini. E continua:” La consistenza e la continuità della serie stratigrafica, la rilevanza dei reperti, la presenza di un alto numero di inumazioni e dei due massi con incisioni fanno di questo sito archeologico calabrese uno dei giacimenti guida per la conoscenza delle culture preistoriche dell’Italia meridionale nell’ultima parte del Paleolitico. Effettivamente l’importanza del sito di Papasidero, a livello europeo, è legata all’abbondanza di reperti paleolitici, che coprono un arco temporale compreso tra 23.000 e 10.000 anni fa, che hanno consentito la ricostruzione delle abitudini alimentari, della vita sociale e dell’ambiente dell’Homo Sapiens”. Una storia spettacolare che spinge a dire a Maria Lombardo, Consigliere Commissione Cultura “Comitati Due Sicilie”, che: “Conoscere le nostre ricchezze è di vitale importanza per proiettare la Calabria verso un sano sviluppo del settore Turistico in chiave responsabile e sostenibile”. “Le risorse di eccellenza di Papasidero meritano di essere promosse, riconfermate e proiettate fuori dal contesto nazionale” ha affermato invece Enrico Marchianò, presidente del Club per l’ Unesco di Cosenza.

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Il sito attualmente è visitabile grazie all’intervento dell’Istituto Italiano di Archeologia Sperimentale, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Calabria ed il Comune di Papasidero, grazie ai quali sono stati realizzati interventi atti a garantire l’accesso alla grotta (passerelle, impianti di illuminazione) e la fruizione integrata del sito archeologico (guide e materiali didattici). Le illustrazioni all’interno della caverna, così come le opere d’arte geomorfologiche, sono aperte agli ospiti insieme alle repliche delle figure scheletriche (come precedentemente detto quelle reali sono state spostate a Firenze e a Reggio Calabria).

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Il professor Martini conclude una sua intervista dicendo:” Sono state avviate diverse iniziative di valorizzazione miranti ad inserire il Romito nei circuiti culturali e turistici. La grotta è stata musealizzata ed è in funzione un percorso attrezzato con servizio di visite guidate. L’Amministrazione comunale di Papasidero prevede anche l’ampliamento del locale Antiquarium nei pressi dell’antro”. Infatti, parte degli altri numerosi reperti risalenti sino alle prime frequentazioni della Grotta, attestate a oltre 23000 anni fa, unitamente al calco di sepoltura di una coppia e alla ricostruzione facciale di uno degli individui seppelliti nella grotta, sono esposti nel piccolo Antiquarium annesso al complesso, un piccolo museo didattico dove è possibile reperire tutte le informazioni indispensabili per un tuffo nel passato, alla scoperta dei nostri antenati Calabresi.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Il Tesoro della Calabria: il “Codex Purpureus Rossanensis”

 

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Il “Codex Purpureus Rossanensis” è un Evangeliario greco miniato, del formato di 260 x 307 mm, su pergamena colore rosso-porpora (da qui il nome “Purpureus”), di straordinario interesse dal punto di vista sia biblico e religioso, sia artistico, paleografico e storico, sia documentario. I pregi del manoscritto sono numerosi, tali da renderlo il “capolavoro” della produzione libraria ed artistica bizantina e un “unícum” di valore inestimabile. La bellezza del manufatto (è probabilmente il più antico e meglio conservato documento librario e biblico della cristianità) fa di esso “la più fulgida gemma libraria della Calabria, che da solo fa Museo” (Ciro Santoro). Il testo evangelico, nonostante alcuni errori di trascrizione degli amanuensi, è radice e fonte della dottrina cristiana e della cultura europea. Ottimo è l’equilibrio tra fede e scienza, tra religiosità e tecnica raffinata, tra pazienza e abilità, quale si manifesta sia nella scrittura sia nelle illustrazioni. Oggi il Codex Purpureo si presenta mutilo dei vangeli di Giovanni e Luca; ma in origine raccoglieva i testi completi. Il frontespizio presenta, infatti, una rota riccamente decorata in cui si inseriscono entro clipei le effigi degli evangelisti, e dentro la quale ricorre la scritta in greco “prospetto della sinfonia degli evangelisti”.  Tale iscrizione rimanda alla lettera di Eusebio di Cesarea a Carpiano. In questa lettera egli informa che Ammonio di Alessandria (padre della chiesa vissuto tra il 265 e il 340 d.C.) aveva realizzato una esposizione sintetica dei quattro vangeli, affiancando il testo di Matteo agli altri vangeli canonici. All’inizio di ciascun libro vi erano i Kephalaia, cioè gli indici dei capitoli, e la tavola miniata con l’evangelista di cui rimane solo quella di Marco.

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Il codice è di elevatissima qualità e presenta una dimensione medio-grande; ha una forma più o meno quadrangolare come era consuetudine in età tardo antica per i grandi libri d’apparato. La sua qualità elevata era anche data dall’uso dell’oricello, un colorante di origine vegetale, il cui uso era abbastanza diffuso tra le classi più elevate per il suo notevole costo, in epoca tardo-imperiale. Il Codex presenta le prime tre righe dei Vangeli con lettere d’oro, mentre il resto del testo è in argento eseguita in una maiuscola biblica disposta su due colonne. Per il resto i titoli che accompagnano le miniature presentano la maiuscola ogivale diritta. Il testo è distribuito su due colonne di 20 righe ciascuna (un’impostazione grafica giornalistica ante litteram).  Le parole non recano accenti, né spiriti, né sono tra di loro separate, né compaiono segni di interpunzione, tranne il punto ortografico (“punctum”) che segna la fine dei periodi.  Quando, invece, inizia il periodo, la prima parola si apre con una vocale o consonante più grande. Per la preziosità del manoscritto, la raffinatezza dei materiali impiegati la loro alta qualità si può dedurre che dovette essere utilizzato in onore di Cristo, Rex regnantium e Megas basileus. Questo codice, noto anche come il “Rossanensis”, è uno dei sette codici miniati orientali esistenti nel mondo. Tre sono in siriaco e quattro in greco. Questi ultimi sono il “Manoscritto 5111 o Codex Cottonianus”, in possesso della British Library di Londra (di cui, però, a causa di un incendio nel XVII secolo, è rimasto qualche esiguo e decomposto frammento soltanto di una pagina), la”Wiener Genesis”, conservata presso la Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna (costituita da 26 fogli, 24 dei quali miniati), il “Frammento o Codex Sinopensis”, custodito presso la Bibliothèque National di Parigi (formato da 43 fogli e 5 miniature) e infine il “Codex Purpureus Rossanensis”, che, con i suoi 188 fogli, pari a 376 pagine, è il Codice più ampio, più prezioso, più importante di quelli sopra citati; pare che un quinto codice greco, il cosiddetto “Codice o frammento «N»” (contenente una miniatura sulla lavanda dei piedi), esista nella città russa di S. Pietroburgo ex Leningrado.

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Dal punto di vista estetico, è diffusa la convinzione tra gli storici dell’arte che le illustrazioni pittoriche delle miniature, il portamento e la severità dei protagonisti e dei personaggi, i motivi stilistici, il gusto della metafora e dell’allegoria, l’efficace tavolozza policromatica etc. rappresentino nel “Rossanensis” la continuità dell’arte classica e pagana, che nell’Oriente (specificamente in Palestina, in Asia Minore, in Siria, ad Alessandria) ha avuto i suoi qualificati centri di produzione e di irradiazione.  Il ”Codice” di Rossano, perciò, mentre raccoglie, in sintesi, l’eredità e le suggestioni della cultura artistica ellenistica e di quella religiosa cristiana, svolge l’originale ruolo di tramite e di anello di congiunzione tra la sensibilità creativa del mondo antico, avviata verso la decadenza, e quella del mondo medievale e bizantino, destinata alla nuova egemonia culturale europea. Il “Codex Purpureus Rossanensis” è, altresì, un documento ineguagliabile nella sua carica straordinaria di spiritualità, di contenuti, di messaggi, di forte tensione e, nel contempo, di sereno “pathos”, che trasudano le antiche ed espressive pagine di questo Evangeliario.

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La peculiarità del Codex Rossanese è data dalle 15 miniature, scene tratte dai Vangeli che si richiamano alle celebrazioni della settimana santa bizantina, fatto questo che sottolinea una destinazione anche liturgica del libro. In particolare le miniature riprendono:

  • la risurrezione di Lazzaro (tav. 1);
  • l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (tav. 2);
  • la cacciata dei venditori dal tempio (tav. 3);
  • la parabola delle io vergini (tav. 4);
  • l’ultima Cena e la lavanda dei piedi (tav. 5);
  • la comunione col Pane (tav. 6);
  • la comunione col Calice (tav. 7);
  • Gesù nell’orto del Getsemani (tav. 8);
  • la guarigione del cieco nato (tav. 11);
  • la parabola del Buon Samaritano (tav. 12);
  • Gesù davanti a Pilato e pentimento di Giuda (tav. 13);
  • il tribunale di Pilato ed il confronto Gesù – Barabba (tav. 14);
  • l’Evangelista Marco (tav. 15).
  • Fuori testo sono da considerare le Tavole 9 (Frontespizio delle tavole dei Canoni) e 10 (la lettera di Eusebio a Carpiano in cornice dorata e decorata con fiori ed uccelli).

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Di esse 10 illustrazioni presentano la medesima impostazione visiva e grafica: la parte superiore è occupata dalla scena evangelica ed è separata da una sottile linea blu dalla scena inferiore, che è riservata, nella parte centrale, a quattro Profeti, dipinti a mezzo busto, tutti con il braccio destro alzato, con l’aureola e soltanto Davide e Salomone anche con la corona regia; al di sotto dei Profeti, che con la mano destra indicano l’avverarsi delle loro profezie nella scena superiore, ci sono infine le loro citazioni in cartigli o rotoli. Il protagonista, il centro gravitazionale, di quasi tutte le miniature (tranne le nn.  IX, X e XV) è la figura, fiera, pensosa, ieratica, autorevole, regale, egemonica, di Gesù: il Cristo barbuto, con i capelli lunghi, riversi sul collo e sulle spalle (e non sulla fronte come privilegerà la successiva arte bizantina), con intense e sempre diverse espressioni del volto, con un grande aureo nimbo crucifero o aureola intorno alla testa, con il mantello greco o himation di colore oro, che lascia scoperto il braccio destro ed i sandali.  Sotto l’himation Gesù indossa una tunica lunga manicata o chitone, che è di colore marrone in alcune miniature (Tavv. I, II, III, VIII), mentre in altre è di colore blu-turchino (Tavv.  IV, V, VI, VII, XI, XII, XIII, XIV), perché è cambiato il miniaturista o per un significato simbolico oscuro.  Gesù, inoltre, viene rappresentato in movimento, con il braccio destro e la mano alzati (Tavv. I, III, IV, V/a, VIII/a): l’accorgimento del miniaturista mira a rendere visibile il momento in cui il Cristo sta per proferire le frasi evangeliche, molte delle quali riportate nella parte superiore o inferiore della scena evangelica della tavola (“ Titula historiarum”).

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Non si possono escludere, comunque, altre destinazioni anche in considerazione della solennità delle scene e della preziosità del materiale scrittorio, che non era certo di uso comune e quindi forse proveniente da ambiente nobile e aristocratico. E allora potrebbe trattarsi di un Codice da parato: un codice-oggetto, cioè, destinato all’ostentazione in una casa di rango sociale elevato. Una terza ipotesi, avanzata come la precedente dal Prof. Guglielmo Cavallo dell’Università La Sapienza di Roma, uno dei massimi studiosi italiani di paleografia e storia della scrittura, vede nel Codex un atto di pietà finalizzato alla salvazione dell’anima per conto di un aristocratico committente-donatore. In altri termini, nel mondo bizantino si poteva commissionare un libro sacro donandolo poi a qualche chiesa o monastero allo scopo di ottenere con quell’opera di beneficenza la salvezza dell’anima. Il Codex potrebbe aver avuto proprio questa funzione gratificante.

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Le tre ipotesi, comunque, non necessariamente si devono auto escludere, per cui la funzione inizialmente unica potrebbe aver assunto anche gli altri significati. Da oggetto di ostentazione (“status symbol”) e gesto di pietà volto ad ottenere la salvazione dell’anima, è diventato anche oggetto di culto liturgico. Il professor Cavallo afferma: ”L’Italia centro-meridionale era nella tarda antichità e tanto più continuò a essere più tardi crocevia e meta di greco-orientali per convergenti motivi geografici, etnici, politici. Dal VII secolo – spinte dall’eresia monotelita e ancor di più dalle invasioni o incursioni slave, persiane e arabe che travagliavano gravemente l’impero bizantino – ondate di greco-orientali, soprattutto monaci ma anche elementi del clero e laici, giungevano in Sicilia, e da questa in Calabria e a Roma dislocandosi in particolare da Egitto, Palestina, Siria. Si trattò, altresì, di migrazioni non solo d’individui ma pure di modelli, quali soluzioni artistiche, formule liturgiche, istituti giuridici, e di oggetti, tra cui icone, avori, libri. A emigrare da Bisanzio e dai territori a est di Bisanzio nell’Italia meridionale era anche gran parte della classe dirigente, laica ed ecclesiastica, tanto che alcuni tra i papi ‘greci’ dal 642 al 752 provenivano o dalla Sicilia o dalla Calabria: classe sociale ristretta, ma che deteneva e trasferiva in queste regioni modelli e oggetti. Il Rossanensis purpureus, dunque, può esser giunto in Calabria mediante una di queste ondate d’immigrazione, direttamente o passando prima attraverso la Sicilia o magari Roma. L’invasione araba della Sicilia da una parte e la destrutturazione dell’elemento greco a Roma dall’altra determinarono più tardi una varia dislocazione di materiali greci che trovò un ricettacolo privilegiato nella Calabria bizantina dei secoli IX e X. Sicuro in ogni caso è che la vicenda del Rossanensis purpureus venne a legarsi indissolubilmente a Rossano, e Rossano vuol dire la Calabria, la regione che per testimonianze archeologiche, tradizione di pietà, costumi, dialetti conserva, forse più di qualsiasi altrove, il segno e il ricordo dello stretto legame tra l’Italia e la Grecia antica e medievale.”

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Certo è che ci troviamo di fronte ad un documento di valore inestimabile, che, tra l’altro, conferma la storica funzione di ponte tra Oriente ed Occidente della Calabria. È da ritenere, pertanto, che il Codex fosse conservato nel tesoro della Cattedrale fin dall’antichità. Ciò giustifica anche come sia potuto sfuggire nel sec. XVI al Cardinale Sirleto, interessato ai manoscritti dei monasteri più che a quelli di conservazione ecclesiastica. In aggiunta c’è da riportare un Memoriale del 1705, conservato nell’Archivio Vaticano fatto pervenire al papa dal clero di Rossano in polemica con l’Arcivescovo Andrea Adeodati, in cui si dice:

“Beatissimo Padre. Il Clero e Publico della Città di Rossano prostrati a’ piedi della S.V. le fanno sapere, come nella Chiesa Metropolitana di detta Città, quale prima officiava sotto il rito greco, e poi da più secoli in qua fu introdotto il rito Latino; e perché si ritrovano quantità di libri greci con lettere e figure dorate e miniate, formate sopra fogli di corteccia d’alberi, quali libri si teneano in gran stima per l’antichità e singolarità”.

Cos’altro possono essere questi “libri greci con lettere e figure dorate e miniate” se non il Codex Purpureus? Inoltre, denunciano proprio l’Arcivescovo di essere “nemico dell’antichità” e di avere “fatto sotterrare i suddetti libri sotto il pavimento della sacristia e proprio sotto il lavabo dei sacerdoti, senza curarsi del danno, che faceva a detta chiesa e città, col privarli di cose così memorabili”. Ed, infine, “ricorrono” perché il Santo Padre possa apportare “opportuno rimedio” alla gravissima vicenda.  L’arcivescovo, con la nota dell’11 ottobre dello stesso anno al cardinale Paolucci, segretario di stato della Santa Sede, respinge tutti i gravi addebiti (il documento è conservato nell’Archivio Vaticano, è stato segnalato da P. Francesco Russo nel suo “Regesto Vaticano per la Calabria” vol.  IX, reg. n. 50547, pag. 443, ed è stato studiato e divulgato da Luigi Renzo sulla terza pagina de “La Gazzetta del Sud” e nel suo libro “Sprazzi di Calabria.  Società, storia e cultura” del 1994, pp. 25-32). S’ignora sia l’esito della controversia sia i risvolti tuttora oscuri della stessa.

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La seconda notizia sul Codice di Rossano la fornisce, nel 1831, Scipione Camporota, canonico della Cattedrale della città, che dà ai fogli una prima sistemazione e l’attuale numerazione delle pagine con inchiostro nero. Notizia abbastanza approssimativa la da Cesare Malpica, che nel suo Diario di viaggio nel 1845-46 annota:

“II Capitolo del Duomo (di Rossano, n.d.r.) possiede un tesoro in un libro antichissimo che contiene gli Evangeli scritti in Greco, con caratteri d’argento sovra carta azzurrina, con belle e curiose miniature in testa alle pagine. Par che sia opera fatta al cominciar del medio Evo, quando Odorisi da Gubbio, e Franco Bolognese introdussero in Italia l’arte del miniare. I signori Canonici tengano pur gelosamente questo monumento, che ricorda l’antichità della loro Cattedrale, e i tempi famosi d’Italia. Questo volume in bellezza non cede a quelli di simil natura che io vidi in S. Nicola di Bari, e in S. Pietro in Galatina”.

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È vero che non si nomina esplicitamente il Codex, ma il fatto non desta meraviglia perché l’etichetta Codex Purpureus Rossanensis si deve ai due studiosi tedeschi Gebhardt e Harnack, che nel 1879-80 pubblicizzarono l’esistenza del documento. Ancora nel 1878, del resto, un anno prima dell’arrivo dei due studiosi, il medico rossanese Pietro Romano in suo breve saggio storico ( “Frammento di storia patria sul duomo ed episcopio di Rossano”, pp. 41-42), ricorda l’esistenza a Rossano di un “libro misterioso ed arcano”, chiamato semplicemente “libro antichissimo degli Evangeli Greci”, che, avendolo cercato ma non avendolo trovato, viene paragonato all’ “araba fenice, che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa!”, anche se ammette che la notizia “viene confermata da persone degne di fede e dalla testimonianza come il Malpica”.

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Assodato allora che il Codex è stato di proprietà della Cattedrale da tempo immemorabile, restano ancora alcuni quesiti tra cui quando è stato portato a Rossano e da chi. Gli storici convengono che a portarlo in Occidente siano stati tra l’VIII-IX secolo i monaci melchiti in fuga dalla Siria, dalla Palestina, dall’Egitto e dalla Cappadocia, sia a causa dell’odio iconoclasta dei bizantini (i monaci erano perseguitati perché ritenuti i principali diffusori del culto delle immagini), sia a causa degli Arabi che avevano invaso tutto il Medio Oriente e quindi non restava loro nemmeno il deserto per vivere in pace. La Calabria per la vicinanza con l’Oriente e per la natura stessa del terreno offrì a questi monaci profughi un rifugio ideale per continuare la loro vita ascetica, anche se lontani dalla madre patria. Una di queste comunità, ipotesi molto possibile, si stabilisce in qualcuno dei tanti monasteri rupestri ipogei, costituiti da grotte di arenaria, del tipo eremitico o lauritico (il monaco vive da solo in una grotta, ma in altre grotte vicine vivono altri monaci), che formano allora la famosa “Montagna Santa” (“Aghion Oros”) della città jonica, dove portano quanto di più prezioso avevano prodotto nella loro patria di provenienza, che, proprio perché prezioso, continua a fare loro da tramite con la Divinità ed impreziosisce la nuova patria di adozione. Il territorio di Rossano proprio in questo periodo infatti si trasformò in una piccola Tebaide. Possiamo ritenere alla luce di tali fatti che questi monaci sopraggiunti si siano portato dietro il Codex, poi rimasto in dote alla Cattedrale greca di Rossano. Se poi accettiamo l’ipotesi precedentemente del Codex da parato e quindi commissionato per essere esposto all’ammirazione in una casa di nobile ceppo, potremmo anche supporre che a portarlo sia stato un nobile aristocratico della corte di Bisanzio trasferito a Rossano e che da questi poi sia stato donato, magari come gesto votivo atto ad ottenere la salvazione dell’anima, alla Cattedrale per uso liturgico.

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Non sembri ingiustificato quanto stiamo dicendo ove si pensi che tra i secoli IX-X Rossano si afferma sempre più come centro militare e di cultura fino a diventare, nella seconda metà del sec. X, sede dello Stratego, città-guida della Calabria bizantina e quindi luogo di richiamo e di riferimento per l’aristocrazia in cerca di spazio. In qualunque modo sia pervenuto a Rossano, si può supporre che il Codex sia rimasto in uso nella Cattedrale fino alla soppressione del rito greco, avvenuta intorno al 1462. I canonici greci, ormai in assoluta minoranza, dovettero loro malgrado lasciare forzatamente la Cattedrale per trasferirsi nella chiesa di S. Nicola al Vallone, dove, secondo alcune voci era ubicata l’antica cattedrale bizantina. Il Codex, non più usato dopo la rimozione del rito, col passare del tempo è stato del tutto dimenticato in qualche angolo della sagrestia in balia degli eventi. Sarebbe stato ripescato, sia pure mutilo, dopo l’incendio che l’ha in parte distrutto, conservandolo poi senza alcuna rilevanza tra gli oggetti del tesoro. In un certo senso il silenzio su questo oggetto ha consentito di salvare il Codex da furti e manovre speculative, operazioni normali in tempi non certo benevoli nei confronti delle opere d’arte locali e degli stessi beni della Chiesa. Pensiamo ai commerci di cose sacre degli ecclesiastici, ai sequestri della Cassa Sacra, ai saccheggi dei francesi tra 700 e 800.

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Delle fonti dicono che, quando il Codex è tornato alla ribalta delle cronache Europee, i Canonici stavano cercando di venderlo per trovare i fondi necessari da destinare alla ristrutturazione del Coro della Cattedrale e che solo l’intervento oculato e tempestivo dell’arcivescovo Pietro Cilento riuscì a bloccare in tempo l’operazione. Anche i due tedeschi hanno avuto un secco rifiuto alla richiesta di acquisto, malgrado avessero offerto una ingente somma di denaro, ma indubbiamente bisogna però riconoscergli il merito di aver richiamato sull’Evangeliario l’attenzione del mondo della cultura aprendo per il documento un orizzonte più vasto e qualificato. Da allora, infatti, gli studi specialistici si sono susseguiti con passione addentrandosi nel merito dei contenuti esegetici, storici e artistici del meraviglioso Codex Rossanensis.

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Gli spazi dedicati al Rossanensis sono inseriti all’interno del Museo Diocesano e del Codex, anch’esso interamente rinnovato al fine di proporre una visione privilegiata degli ulteriori antichi tesori di arte sacra che lo spazio museale conserva grazie anche a un moderno allestimento multimediale. A contenere l’opera sarà una bella scatola di seta per proteggere come un bozzolo la preziosa pelle marocchina della sua copertina e un climabox che come una culla perfettamente climatizzata e sicura, garantirà un fresco costante. Tanto che le preziose pagine, nel 2013 sfogliate sotto gli occhi di Papa Francesco e dell’allora presidente Napolitano, ora potranno essere girate solo una volta all’anno.

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Il Codex Purpureus Rossanensis, riconosciuto nel 2015 dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità, ed è stato collocato nel programma di conservazione del patrimonio documentale “Memoria del mondo” (“Memory of the world”), al fine di proteggere questo patrimonio da rischi connessi all’amnesia collettiva, alla negligenza, alle ingiurie del tempo e delle condizioni climatiche, dalla distruzione intenzionale e deliberata.

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Il restauro è stato affidato nel 2012 all’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario (ICRCPAL) del Ministero dei Beni Culturali, affinché venissero eseguite approfondite analisi biologiche, chimiche, fisiche, tecnologiche e tutte le necessarie cure per il suo restauro e la sua conservazione. Attraverso il coordinamento di un Comitato di ricerca appositamente costituito presso l’Istituto, è stata condotta un’indagine interdisciplinare al fine di chiarire gli aspetti conoscitivi ancora irrisolti insieme alla redazione di linee-guida per la migliore conservazione dell’antico manufatto dal punto di vista ambientale.

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Il lavoro degli studiosi ha fornito, altresì, significative risposte sulla storia e sull’esecuzione del volume, oltre a dettare importanti indicazioni generali sulla fattura e lettura dei codici di analoga provenienza e periodo storico. Nei tre anni di studio e indagini sul Codex si è giunti ad una “rilettura” importante del codice stesso. Il restauro è stato effettuato in modo estremamente rispettoso del volume, per non alterarne ulteriormente le fragilità dovute all’invecchiamento naturale e a varie vicissitudini tra le quali il restauro, fra il 1917 e il 1919, di Nestore Leoni, al tempo famoso miniaturista, i cui interventi, sfortunatamente, hanno modificato in maniera irreversibile l’aspetto delle pagine miniate.

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Quasi tutti i ricercatori concordano nel datare il codice intorno alla metà del secolo VI. La legatura, in pelle scura, risale invece al secolo  XVII o XVIII. Le pergamene, contrariamente a quanto si credeva non sono state trattate con il murice, un mollusco gasteropode (conchiglia) da cui si ricavava la porpora reale (diffusa dai fenici), ma utilizzando l’oricello, un colorante di origine vegetale. Colorante, evidentemente a disposizione dell’antico laboratorio che trattò le pergamene. Tale importante esito si è ottenuto confrontando i risultati ottenuti su campioni appositamente preparati nel laboratorio di chimica con quelli forniti dagli originali, analizzati in spettroscopia di riflettanza con fibre ottiche (FORS). Le analisi di laboratorio, eseguite in micro-Raman, micro-Infrarosso in Trasformata di Fourier (FTIR) e in Fluorescenza da Raggi X (XRF), su alcuni pigmenti originali e altri appositamente preparati in laboratorio, hanno permesso di approfondire le conoscenze sui materiali pittorici impiegati nell’alto medioevo e forniscono la prima evidenza sperimentale dell’uso della lacca di sambuco in un manoscritto così antico.

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Inoltre, l’assenza nel manoscritto di ogni tipo di preparazione delle miniature conferma l’origine Bizantina del codice. Una tavolozza pittorica, composta da molti colori (bianco, nero, rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco, viola, rosa, malva, oro), è stata usata nel prezioso manoscritto. Inoltre, l’oro puro e l’argento sono stati utilizzati per la scrittura dei Vangeli, così come è stato utilizzato inchiostro nero per i titoli. Alcune parti sbiadite dei testi in argento, in epoca sconosciuta, sono state sovrascritte con inchiostro nero. Fortunatamente, per i tecnici incaricati a svolgere le analisi, il miniaturista (o miniaturisti) non ha macinato finemente i pigmenti utilizzati per le miniature. Così è stato possibile analizzare spettroscopicamente ogni singolo pigmento, anche quando applicati in miscela, favorendo così l’identificazione delle materie coloranti.

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Per il professor Cavallo: “La carica di spiritualità che vi è insita è restituita, innanzi tutto, dal colore della pergamena e dalle sue valenze simboliche. Il nesso tra porpora e sangue richiamava il sangue versato da Cristo sulla Croce, e da quanti per il trionfo della Croce avevano dato la vita. Purpurei sono dunque i martiri. Altresì la porpora non era solo correlata al simbolismo del sangue espiatorio versato sulla Croce, ma anche al colore della tunica fatta indossare a Cristo per irriderne la regalità che, insieme alla corona di spine, quel colore evocava. Con Costantino e in epoca successiva, la porpora, come simbolo congiunto del potere imperiale e della sacralità divina, una volta proiettata sul libro sacro, ne faceva oggetto di adoratio e di pompa liturgica in occasione di cerimonie sacre.”

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Il 2 luglio 2016 il Codex è stato riportato a Rossano da Roma, e per la città e la regione è stato un giorno di festa. Disse Umberto Broccoli, famoso archeologo: “L’arrivo del Codice a Rossano è paragonabile a quando si tolsero i ponteggi alla Cappella Sistina a Roma”. Il Monsignor Satriano invece commentò così:” Sta risorgendo una comunità di uomini e donne che sta producendo benessere non in termini economici ma inteso come crescita spirituale dunque bene dell’essere. Questo è il frutto maturo di un albero che è cresciuto bene”. Per Sgarbi il Codex “rappresenta, seppur nelle difficoltà di godimento di poche pagine, una testimonianza fondamentale del mondo cristiano e dell’Occidente bizantino che ha a Rossano un suo rifugio e la sua fortezza”.

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Sul futuro del Codex, la responsabile delle comunicazioni per il restauro del manoscritto, Rosi Fontana affermò: “Il Codice appartiene a Rossano e Rossano sicuramente è il suo Codice Purpureo: possiamo immaginargli ancora altri 1.500 anni di vita. Oggi è in una super teca, super climatizzata, monitorata 24 ore su 24. Quindi è tenuto nel migliore dei modi possibili e la sua musealizzazione continuerà per lunghissimo tempo ed è certamente il monumento più importante dell’Italia Bizantina del Sud.”

Un pezzo di storia che da solo vale il viaggio in Calabria.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Ipazia: La Martire Del Pensiero Libero.

Ipazia

Ipàzia nacque ad Alessandria tra il 355 e il 370 d.C. (la data non è certa) ed era figlia del matematico e filosofo Theon di Alessandria che la istruì al pensiero filosofico neo-platonico. Fu matematica e astronoma, sapiente filosofa, influente politica, profonda conoscitrice di musicologia, sfrontata e carismatica maestra di pensiero e di comportamento e, cosa assolutamente fuori dai canoni per l’epoca, completamente disinteressata alla religione e alla famiglia. Infatti, non fu mai madre né moglie, sentendosi già «sposata alla verità», e affermava che nessuna religione potesse essere adatta ad uno scienziato, perché la religione impone dei limiti al pensiero umano, e uno studioso non può avere limiti se vuole inseguire il sapere. Fu bellissima e amata dai suoi discepoli, pur respingendoli sempre. Fu fonte di scandalo e oracolo di moderazione. La sua femminile eminenza accese sia l’invidia da parte dei potenti cristiani portandola poi alla morte, ma anche la fantasia di poeti e scrittori di tutti i tempi, che la fecero rivivere nelle loro opere. Ipazia insegnò ininterrottamente ad Alessandria per più di vent’anni. I suoi scritti sono andati perduti o incorporati in pubblicazioni di altri autori ed è difficile ricostruirne il pensiero. Conosciamo tuttavia alcuni frammenti di commenti che sono riconducibili a lei:

  • Commentario sui tredici volumi dell’ ”Aritmetica di Diofanto” (Il sec.), cui si devono lo studio delle equazioni indeterminate, le diofantee, e importanti elaborazioni delle equazioni quadratiche. Nel suo commento, Ipazia sviluppò soluzioni alternative a vecchi problemi e ne formulò di nuovi che vennero inglobati in seguito nell’opera di Diofanto.
  • Commentario sugli otto volumi del “Le coniche di Apollonio di Perga” (III sec. a.C.), un’analisi matematica delle sezioni del cono, figure che furono dimenticate fino al XVI secolo quando vennero usate per illustrare i cicli secondari e le orbite ellittiche dei pianeti.
  • Commentario, insieme al padre Theon, sull’ “Almagesto di Tolomeo”, un’opera in tredici libri che raccoglieva tutte le conoscenze astronomiche e matematiche dell’epoca.

Non essendoci per Ipazia un confine netto tra scienza e filosofia, che si fusero con lei in un’unica persona, non ci sono giunte nemmeno sue opere di stampo filosofico.

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Sono piuttosto le testimonianze dei contemporanei a dare notizia della sua fama. Sinesio, lo studente venuto da Cirene e futuro vescovo di Tolemaide la chiama «madre, sorella, maestra e benefattrice», e le fonti del tempo la ritraggono come una scienziata e filosofa dai talenti insoliti che partecipa attivamente alla vita politica. Socrate Scolastico (380-450), di religione cristiana, di professione avvocato, nella “Historia Ecclesiastica” scrisse di lei: “Ad Alessandria c’era una donna chiamata Ipazia, figlia del filosofo Teone, che ottenne tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e di Plotino, lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali venivano da lontano per ascoltare le sue lezioni. Come unica erede e capostipite della scuola platonica, ella applicava perfettamente questa dottrina: partire dalle scienze matematiche per raggiungere la conoscenza della “Vera Filosofia”, quella più alta e pura. Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini, infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale”.

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Nelle “Cronaca di Giovanni” del vescovo cristiano di Nikiu leggiamo: “In quei giorni apparve in Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata Ipazia, che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica e che ingannò molte persone con stratagemmi satanici. Il governatore della città l’onorò esageratamente perché lei l’aveva sedotto con le sue arti magiche. Il governatore cessò di frequentare la chiesa come era stato suo costume. E non solo fece questo, ma attrasse molti credenti a lei, ed egli stesso ricevette gli increduli in casa sua”. Damascio (480-550), pagano, filosofo neoplatonico e ultimo direttore della Accademia di Atene, soppressa dall’imperatore Giustiniano nel 529, scrisse nella “Vita di Isidoro”, poi ripresa anche nel Suda, l’ enciclopedia bizantina del X secolo: “Ipazia nacque ad Alessandria dove fu allevata ed istruita. Poichè aveva più intelligenza del padre, non fu soddisfatta dalla sua conoscenza delle scienze matematiche e volle dedicarsi anche allo studio della filosofia. La donna era solita indossare il mantello del filosofo ed andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele, o i lavori di qualche altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica. Fu giusta e casta e rimase sempre vergine. Lei era così bella e ben fatta che uno dei suoi studenti si innamorò di lei, non fu capace di controllarsi e le mostrò apertamente la sua infatuazione. Alcuni narrano che Ipazia lo guarì dalla sua afflizione con l’aiuto della musica. Ma la storia della musica è inventata. In realtà lei raggruppò stracci che erano stati macchiati durante il suo periodo mestruale e li mostrò a lui come un segno della sua sporca discesa e disse, “Questo è ciò che tu ami, giovanotto, e non è bello!”. Alla brutta vista fu così colpito dalla vergogna e dallo stupore che esperimentò un cambiamento del cuore ed diventò un uomo migliore. Tale era Ipazia, così articolata ed eloquente nel parlare come prudente e civile nei suoi atti. La città intera l’amò e l’adorò in modo straordinario, ma i potenti della città l’invidiarono, cosa che spesso è accaduta anche ad Atene. Anche se la filosofia stessa è perita, il suo nome sembra ancora magnifico e venerabile agli uomini che esercitano il potere nello stato”.

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La filologa Silvia Ronchey nei suoi studi ci fa vedere Ipazia immersa nella vita pubblica della città: “Oltre all’insegnamento pubblico (demosia) che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” (idia) che teneva nei giardini rigogliosi della sua dimora, che portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria insieme alle élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo i decreti teodosiani, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni. Quell’ ”educazione ellenica” che si chiamava ancora “paideia”, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva: «Il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente. I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “supremo giudice” e “signora beata dall’anima divinissima”. A quella cerchia Ipazia impartiva un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici. I miti degli dèi dell’Olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio che ricordiamo in seguito diventò vescovo cristiano di Tolemaide. Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica (politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non sopportava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato”.

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Ipazia si occupò anche di meccanica e di tecnologia applicata. Le vengono attribuite due invenzioni: un areometro e un astrolabio piano. Il primo strumento, che determina il peso specifico di un liquido, fu progettato come un tubo sigillato avente un peso fissato ad un’estremità: a seconda di quanto questo tubo affondava in un liquido, era possibile leggerne su una scala graduata il peso specifico. L’astrolabio progettato da Ipazia era formato da due dischi metallici forati, ruotanti uno sopra l’altro mediante un perno rimovibile: veniva utilizzato per calcolare il tempo, per definire la posizione del Sole, delle stelle e dei pianeti. Pare che mediante questo strumento Ipazia abbia addirittura risolto alcuni problemi di astronomia sferica.

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Se poco si sa della vita di Ipazia, non mancano i dettagli circa la sua morte. Il 30 aprile del 311 Galerio, a nome anche di Costantino e di Licinio, emanò l’editto di Nicomedia. Galerio decretò la fine degli editti di Diocleziano, riconobbe ai cristiani libertà di culto e di riunione, restituì alle chiese i beni non ancora alienati dopo la confisca e ordinò la ricostruzione delle chiese. Il cristianesimo divenne ufficialmente “religio licita”. In ottant’anni i cristiani riuscirono ad impadronirsi del vertice dell’Impero Romano e si trasformarono in accaniti persecutori dei fedeli di quella religione i cui valori avevano dato vita alla grandezza di Roma e dell’Impero. Con Teodosio I il cristianesimo divenne religione di stato e, nel 392, la religione romana venne proibita, pena la morte.  La distruzione dei templi ellenici, voluta proprio dall’imperatore Teodosio I, fu messa diligentemente in atto dal vescovo Teofilo. Questo attacco così altamente simbolico, è seguito da un breve periodo di tregua, che vide Ipazia ancora libera e influente.

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Ipazia vedeva nel cristianesimo soprattutto il fanatismo e la violenza, in quanto il vescovo Teofilo aveva fatto distruggere, oltre a vari monumenti della civiltà greco-orientale, anche il famoso tempio di Serapide e l’annessa biblioteca. A Teofilo, morto nel 412, succede il nipote Cirillo, assai più bellicoso, il quale si dota di una milizia privata (i parabalani) e dopo uno scontro forse pretestuoso fra ebrei e cristiani, caccia gli ebrei dalla città. I pagani sanno che il loro turno sta per arrivare quando, nel 414 il prefetto Oreste, estimatore di Ipazia e inviso al vescovo, viene aggredito da un gruppo di monaci e ferito. Il colpevole, Ammonio, è condannato a morte, ma Cirillo gli organizza funerali in pompa magna e lo proclama martire. Chiamò a raccolta tutti i cristiani che marciarono in collera verso le sinagoghe degli ebrei e ne presero possesso, le purificarono e le convertirono in chiese. Una di esse venne dedicata a San Giorgio. Saccheggiarono tutte le loro proprietà e li derubarono completamente. Il prefetto Oreste non fu in grado di portare loro alcun aiuto. Ipazia aveva tutte le caratteristiche per essere odiata dai cristiani ed essere la prossima vittima: donna, pagana, scienziata di grande fama e guida della scuola filosofica neoplatonica di Alessandria.

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In questi tempi in cui il Medio Oriente è percorso dal terrore dell’integralismo islamico e insanguinato da episodi massicci e cruenti di persecuzione religiosa, non è facile ma è importante ricordare che la chiesa cristiana ai suoi inizi si macchiò di una violenza integralista per molti versi affine, come quella dei parabalani, i monaci-barellieri, di fatto miliziani clericali che massacrarono Ipazia, la fecero a pezzi e diedero i suoi resti alle fiamme. Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino. Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa. Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato “la grande energia” del suo governo ecclesiastico. Anche se alcuni intellettuali cattolici hanno invitato, se non alla decanonizzazione, alla cautela, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza.

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La descrizioni di quei drammatici giorni la lascio ancora una volta a chi in quei tempi ha vissuto questo straziante fatto. Socrate Scolastico scrisse: “Fu vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva. Ipazia aveva avuto frequenti incontri con Oreste. Questo fatto fu interpretato calunniosamente dal popolino cristiano che pensò fosse lei ad impedire ad Oreste di riconciliarsi con il vescovo. Alcuni di loro, perciò, spinti da uno zelo fiero e bigotto, sotto la guida di un lettore chiamato Pietro, le tesero un’imboscata mentre ritornava a casa. La trassero fuori dalla sua carrozza e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e poi l’assassinarono con delle tegole. Dopo avere fatto il suo corpo a pezzi, portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinaron, e là li bruciarono. Questo affare non portò il minimo obbrobrio a Cirillo, e neanche alla chiesa di Alessandria. E certamente nulla può essere più lontano dallo spirito del cristianesimo che permettere massacri, violenze, ed azioni di quel genere. Questo accadde nel mese di marzo durante la quaresima, nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo consolato di Onorio ed il sesto di Teodosio”.

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Damascio incolpò proprio Cirillo dell’assassinio di Ipazia:” Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione [il cristianesimo], passò presso la casa di Ipazia, e vide una grande folla di persone e di cavalli di fronte alla sua porta. Alcuni stavano arrivando, alcuni partendo, ed altri sostavano. Quando lui chiese perché c’era là una tale folla ed il motivo di tutto il clamore, gli fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia il filosofo e che lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo fu così colpito dalla invidia che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di assassinio che potesse immaginare. Quando Ipazia uscì dalla sua casa, secondo il suo costume, una folla di uomini spietati e feroci che non temono né la punizione divina né la vendetta umana la attaccò e la tagliò a pezzi, commettendo così un atto oltraggioso e disonorevole contro il loro paese d’origine. L’Imperatore si adirò, e l’avrebbe vendicata se non fosse stato subornato da Aedesius. Così l’Imperatore ritirò la punizione sopra la sua testa e la sua famiglia tramite i suoi discendenti pagò il prezzo. La memoria di questi eventi ancora è vivida fra gli alessandrini”.

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Anche il vescovo di Nikiu parla della morte di Ipazia: ”Poi una moltitudine di credenti in Dio si radunò sotto la guida di Pietro il magistrato, un credente in Gesù Cristo perfetto sotto tutti gli aspetti, e si misero alla ricerca della donna pagana che aveva ingannato le persone della città ed il prefetto con i suoi incantesimi. Quando trovarono il luogo dove era, si diressero verso di lei e la trovarono seduta su un’alta sedia. Avendola fatta scendere, la trascinarono e la portarono nella grande chiesa chiamata Caesarion. Questo accadde nei giorni del digiuno. Poi le lacerarono i vestiti e la trascinarono attraverso le strade della città finché lei morì. E la portarono in un luogo chiamato Cinaron, e bruciarono il suo corpo. E tutte le persone circondarono il patriarca Cirillo e lo chiamarono ‘il nuovo Teofilo’ perché aveva distrutto gli ultimi resti dell’idolatria nella città”.

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Dopo l’assassinio di Ipazia i suoi allievi abbandonarono la città. Alessandria perse definitivamente il suo ruolo di centro culturale. Alessandria era stata, fin dal tempo dei Tolomei, un grande centro culturale. Basti ricordare che vi avevano studiato e insegnato Eratostene, Archimede, Euclide, Tolomeo, Plotino. Nel 415 d.c. perse anche l’ultima scienziata eminente di quell’epoca. L’antica filosofia e scienza ellenistiche vennero riscoperte soltanto nel Rinascimento, un millennio dopo. Fu celebrata e idealizzata, ma anche mistificata e fraintesa. Da allora Ipazia scompare dalla storia, se non per prestare alcune sue doti a santa Caterina di Alessandria. Nel Settecento, ricompare in una disputa tra cattolici ed anglicani inglesi: di “facili costumi” per i primi (che ci faceva, altrimenti, per le strade di Alessandria?), “vittima del fanatismo” per i secondi, così come nella voce Eclectiques , dell’Encyclopédie e per Voltaire, Henry Fielding, Edward Gibbon e altri Illuministi. Nel poema epico ”Ipazia o delle filosofe” (1827), la contessa Diodata Saluzzo Roero tenta di ribaltare questa interpretazione. La sua Ipazia si converte al cristianesimo e muore da santa: «languida rosa sul reciso stelo, nel sangue immersa la vergine giacea, avvolta a mezzo nel bianco suo velo, soavissimamente sorridea, condonatrice dell’altrui delitto, mentre il gran segno redentor stringea». Similmente di bianco vestita, ma viva e fieramente pagana, l’aveva descritta in due delle sue “poesie antiche” il poeta rivoluzionario Leconte de Lisle: in “Hypatie, per colpa di un uomo nato in Galilea”, parla di Ipazia avente lo «spirito di Platone e il corpo d’Afrodite» e in Hypatie et Cyrille, invece il vescovo alla filosofa può offrire solo la scelta tra il silenzio e la vita. Nel celebre affresco di Raffaello, “La Scuola di Atene”, l’unica figura femminile rappresentata è proprio Ipazia, che è anche l’unica filosofa e alcuni critici sostengono che il suo volto sia quello di Francesco Maria della Rovere.

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Ipazia compare nel teatro e nel romanzo dell’Otto e del Novecento, forse anche suo malgrado, perché facilmente le calzano i tratti della martire eroica, tanto più martire quanto più la sua autorevolezza intellettuale è indiscussa. Marcel Proust (All’ombra delle fanciulle in fiore), Umberto Eco (Baudolino), Hugo Pratt in un album di Corto Maltese le rendono omaggio, mentre prendono il suo nome associazioni di femministe, filosofe e scienziate. Nel XXI sec. l’autonomia femminile, come quella della ricerca scientifica, resta contrastata dall’autorità politica e religiosa come 1600 anni prima, e Ipazia non cessa di ispirare saggi, romanzi e polemiche come quelle attorno al film, del regista spagnolo Alejandro Amenàbar, Agorà.  In una intervista il regista spiega: “Non ho mai avuto intenzione di attaccare i cristiani. Anche se mi definisco un ateo che non esclude la possibilità di qualcosa di superiore, sono stato educato secondo i principi del cattolicesimo e il mio film è cristiano perchè difende i principi cristiani della pietà e della compassione e avvicina il destino di Ipazia a quello di Gesù Cristo. Volevo mostrare al pubblico come nulla sia cambiato rispetto all’antichità, come ciò che i cristiani facevano all’epoca somigli al comportamento degli integralisti islamici di oggi. La gente continua a combattere e a morire per le proprie idee, giuste o sbagliate che siano”.

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Ciò che caratterizza la figura di Ipazia, nel racconto della sua vita, risiede nella sua inclinazione al pensiero libero e inarrestabile: ogni aspetto della sua biografia appare agevolmente riconducibile ai suoi studi, al suo amore per la filosofia, intesa a sua volta come interrogazione del circostante. Caterina Annese, scrittrice, parla di come la figura di Ipazia viene presa oggi come punto di riferimento per i movimenti femministi: ”Vorrei accennare alle ragioni per cui il femminismo ed il pensiero di genere si impadronirono della sua figura, impiegandone appunto la summenzionata definizione di martire del pensiero in una chiave del tutto “personale”, ovvero quella connessa alle rivendicazioni dell’identità di genere. La figura di Ipazia è stata assunta dal pensiero di genere sia come capro espiatorio della violenza patriarcale, perpetuatasi a più riprese nel corso della storia, sia come esempio per quelle donne che intendano promuovere o condividere iniziative scientifiche e più ampiamente culturali. Ipazia diviene così, nell’immaginario di molte, baluardo della libertà di pensiero specificamente femminile, sfidando l’autorità maschile. Occorre a tal proposito tener conto del fatto che spesso il pensiero di genere si “impossessa” , nel vero senso della parola, di storiche figure femminili, al preciso scopo, più o meno dichiarato, di accreditare e avallare le proprie tesi, assegnando così un’ulteriore riferimento storico alle proprie rivendicazioni. D’altra parte, la libertà del pensiero costituisce una delle tematiche più care alle femministe, che, a partire dagli Women’s studies, hanno cercato di ripercorrere la costituzione del pensiero delle donne nella storia, cercando di “riesumare” figure di pensatrici spesso superficialmente cancellate e oscurate dall’onnipresenza del pensiero maschile.”

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E continua: “La libertà di Ipazia diventa così, per tutta la tradizione di studi sulle donne, un evento espressamente politico e di genere: una sorta di variabile impazzita che esplode in seno all’ordine sociale e simbolico di stampo patriarcale, attraverso la sua autoaffermazione, o come dichiara la Arendt, attraverso il proprio gioco nel mondo. Sempre per le femministe, Ipazia ripresenterebbe il ruolo che la donna rivestiva millenni addietro: la sacerdotessa della Madre Terra, che con gli strumenti del Sapere e della Logica riesce a trasmettere ai suoi simili le Verità dell’Universo. In questo senso Ipazia era facilmente assimilabile ad una strega, come definita nel Malleus Maleficarum, sebbene, in realtà, non fosse null’altro che una donna colta, consapevole e desiderosa di aiutare l’altro con le sue arti. Da quanto sinora tratteggiato, sorgerebbe a mio avviso un’ulteriore questione: occorre ricordare Ipazia esclusivamente in quanto donna, come vorrebbero le femministe, oppure soprattutto in quanto intellettuale, pensatrice, astronoma, prescindendo cioè dalla sua identità di genere? Mi domando peraltro come mai, tenuto conto dell’indubbia rilevanza della ricerca della verità e dell’agire nel mondo condotti da Ipazia, sinora, o perlomeno prima dell’uscita del film Agorà in Italia, la sua figura sia stata ricordata solo dal pensiero di genere. Mi chiedo, cioè, perché non siano stati i filosofi di professione, posto che ne esistano, “in genere” e non “di genere”, a interrogarsi sulla sua figura, sulla sua carica simbolica. Sono pertanto dell’avviso che Ipazia dovrebbe essere ricordata non in quanto “donna martire”, ma in quanto filosofa tout court, ovvero per il suo pensiero piuttosto che esclusivamente per il suo genere. In tal modo peraltro si accredita una certa vulgata non certo trascurabile secondo cui “la libertà della donna la si fa esclusivamente in funzione dell’uomo”, ovvero rientra nelle retoriche, più o meno manifeste, di una certa fallocrazia imperante”.

 

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Monoliti: I Sassi Più Grandi Del Mondo

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Il termine monolito deriva dalla parola greca μονόλιϑος, ovvero monolithos, composta da mono (uno o singolo) e lithos (pietra). Si tratta di una formazione rocciosa costituita da un unico blocco di pietra, a volte talmente immenso da essere considerato una vera e propria montagna.  Uno dei problemi più comuni nell’individuare qual è il monolito più grande del mondo è che lo stesso termine “monolito” viene spesso usato in modo ambiguo. Per esempio, il Monte Augustus, chiamato così in onore del fratello da Francis Thomas Gregory durante il suo epico viaggio di 107 giorni per la regione Gascoyne in Australia, viene considerato il più grande monolito del mondo, ma in realtà è un monoclinale, più precisamente un anticlinale asimmetrico, cioè una porzione di roccia esposta appartenente a un livello sottostante con la piega degli strati rocciosi avente convessità rivolta verso l’alto, quindi non è composta da un singolo pezzo di roccia, anche se la distinzione non è sempre chiara. Un altro problema è che molte rocce e montagne considerate i più grandi monoliti del mondo in realtà non lo sono poiché tali affermazioni sono raramente supportate da conferme geologiche, e i dati su cui si basano prendono in considerazione una sola dimensione, quindi o solo l’altezza oppure solo la circonferenza. Inoltre, l’altitudine può essere misurata in base al livello del mare oppure in base al terreno circostante. I geologi preferiscono di gran lunga utilizzare i termini monadnock, da menadena (“montagna isolata”) dal linguaggio dei nativi americani della tribù degli Abenaki, oppure inselberg (letteralmente in tedesco anche questa volta ”montagna isolata”) che fu originariamente coniato per descrivere queste abbondanti forme montuose osservate in Africa meridionale, per riferirsi a un rilievo o a un monte solitario che domina la zona circostante, ma c’è da puntualizzare che non tutti gli inselberg possono essere considerati monoliti. L’elenco dei monoliti geologici più grandi e affascinanti del mondo è molto ampio e come si potrà notare queste strutture geologiche sono sparse in tutti i cinque continenti con caratteristiche molto diverse le une dalle altre che le rendono uniche.

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Senza alcun dubbio una delle icone naturali più riconoscibili al mondo è Uluru o Ayers Rock in Australia.  È considerato il monolite più grande del mondo e si trova a 335 km a sud-ovest di Alice Springs, la città più vicina. Circondato dalla superficie completamente piana del bush, Uluru è visibile da decine di chilometri di distanza con un’altezza di 348 metri (è stato calcolato che sotto terra sprofondi per circa 7 km), con una circonferenza di ben 9,4 chilometri ed è caratterizzato da una superficie molto dura e pareti estremamente lisce a strapiombo. Uluṟu è il nome aborigeno originale del luogo e si pensa derivi dalla parola ulerenye, una parola Arrernte che significa “strano”. Il primo non indigeno ad avvistare la formazione fu l’esploratore Ernest Giles, nell’ottobre del 1872 ma fu William Gosse a battezzare la roccia Ayers Rock in onore dell’allora Premier del Sud Australia Sir Henry Ayers.  Attualmente, il nome originale aborigeno è quello più utilizzato per indicare la roccia, mentre “Ayers Rock” è utilizzato solo per indicare il relativo aeroporto. Formalmente riconsegnato dal governo australiano agli indigeni del luogo nel 1985, si tratta di un luogo sacro per gli aborigeni, infatti ha un ruolo particolare nella mitologia del dreamtime, “era del sogno” o tjukurpa, cioè un insieme di “miti di formazione” volti a spiegare le caratteristiche geografiche del territorio come “tracce” dei viaggi e delle azioni di esseri ancestrali, vissuti, appunto, nell’epoca del sogno che precede la memoria umana, descritti come giganti in parte umani e in parte simili ad animali o piante. Ciò che rende ancora più suggestivo questo monolito è la gamma di colori che lo caratterizza nei diversi momenti della giornata. La consueta tonalità terracotta gradualmente vira verso il blu/viola al tramonto, per poi riapparire in un rosso fiammante al mattino, con il sole che sorge dietro il monolito. Questi effetti di colore sono dovuti a minerali come i feldspati che riflettono particolarmente la luce rossa. Il massiccio è costituito in larga parte di ferro e il suo colore rosso è dovuto all’ossidazione.

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Il segreto meglio custodito della Mauritania, il Ben Amera, si nasconde nel deserto in attesa di essere presa d’assalto dal turismo di massa. Secondo alcune fonti, questo è il secondo monolito più grande del mondo, dopo Uluru. Ben Amera si trova a 5 km da Tmeimichat, un piccolo villaggio situato lungo il tragitto percorso dal treno del deserto che collega Nouadhibou e Zouerate. Un “sasso” di granito di 1.7 km di circonferenza e alto oltre 380 metri, che svetta nel deserto creando un punto di riferimento per nomadi e viaggiatori infatti i “locali” creavano degli incendi controllati che erano visibili nelle oscure notti del deserto del Sahara. Ben Amera è circondato da dune, e l’effetto di contrasto sul paesaggio è mozzafiato.

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In Africa un altro monolito molto alto è la Zuma Rock. Si trova a nord della capitale della Nigeria, Abuja, ed è facilmente osservabile percorrendo la strada principale da Abuja a Kaduna ed è a volte indicato come la “Porta a Abuja da Suleja”. Anche se è solamente un terzo larga rispetto al monte Uluru, la Roccia di Zuma è alta il doppio, elevandosi per ben 725 metri sulle aree circostanti. Secondo alcuni osservatori è possibile riconoscere il volto di una persona impresso nella parte bianca al centro della roccia. E’ una pietra ignea intrusiva o plutonica, cioè rocce magmatiche solidificate all’interno della crosta terrestre con un lento processo di raffreddamento, composta da gabbro e granodiorite. Fu un rifugio per la popolazione Gbagyi durante le guerre intertribali contro l’invasione delle tribù vicine. Zuma è raffigurato sulla banconota delle 100 naira, la moneta nigeriana.

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In Asia, tra i più grandi monoliti abbiamo il Savandurga, una collina a 60 km a ovest di Bangalore ( Karnataka , India ) nei pressi della strada per Magadi. A 1226 m sul livello del mare, fa parte dell’altopiano Deccan ed è formato da graniti.  Savandurga è frequentata da pellegrini che vengono a visitare i due templi alla base della collina: il tempio Lakshmi Narasimhaswamy e il tempio Veerabhadraswamy. E’ tra le mete di trekking più famose della nazione, per i suoi tanti percorsi di varia difficoltà, oltre ad essere frequentato dagli amanti degli sport acquatici per la presenza del lago formatosi alle sue pendici dalla diga Manchanabele Dam. Savandurga è formato da due colline conosciute localmente come Karigudda (collina nera) e Biligudda (bianca collina). La prima testimonianza del nome della collina è in uno manoscritto del 1340 di Veera Ballala III, sovrano dell’Impero Hoysala dove è chiamato Savandi. Un’altra versione è che il nome deriva da Samantadurga, un governatore sotto Ahchutaraya a Magadi, anche se non c’è conferma di ciò.  Saavana in sanscrito significa anche “tempo dei tre rituali”. Robert Home nel suo “Select views in Mysore” (1794) lo chiamò Savinadurga o il forte della morte: nella sua descrizione non c’erano gradini per raggiungere la cima della collina ed era coperta da bambù e altri alberi formando una barriera. Urne funerarie megalitiche sono state trovate nella zona.

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Ancora in Asia la “Lion rock” (“roccia del leone”), su cui sorge il sito archeologico di Sigiriya, è una vera e propria fortezza naturale che domina il rigoglioso ambiente verde della giungla. È una delle principali attrazioni turistiche dello Sri Lanka, situata nel nord del distretto di Matale vicino alla città di Dambulla nella Provincia Centrale. La roccia di Sigiriya è costituita da un’enorme placca magmatica indurita di un antico vulcano spento ed eroso. È in un luogo sopraelevato rispetto alle pianure circostanti, visibile per chilometri. La roccia si trova su una collina dai pendii scoscesi. L’altezza della collina è di 370 metri ed è a picco su tutti i lati. Ha una forma ellittica ed una sommità piatta che scende lentamente in direzione dell’asse lungo dell’ellisse. Sigiriya, considerata da alcuni l’ottava meraviglia del mondo, è composta da un antico castello eretto da re Kasyapa nel quinto secolo. Il sito archeologico di Sigiriya contiene i resti del palazzo maggiore costruito sulla sommità piatta della collina, una terrazza di medio livello che comprende la “Porta dei Leoni”, da cui prende il nome il monolito, ed un muro con affreschi, il palazzo secondario che si arrampica sui pendii sotto la roccia, ed i fossati, le mura ed i giardini che si estendono per centinaia di metri oltre il bordo della roccia. Il sito fungeva sia da palazzo sia da fortezza. I ruderi rimasti sono sufficienti per permettere ai turisti di restare stupefatti della semplicità ed allo stesso tempo della creatività dei suoi architetti. Il palazzo maggiore situato sulla cima della roccia comprende delle cisterne tagliate nella roccia che contengono ancora acqua. I fossati e le mura che circondano il palazzo inferiore posseggono ancora una bellezza simile a quella originaria. Sigiriya potrebbe essere stata abitata fin dalla preistoria. La sua roccia venne usata come riparo per un monastero dal terzo secolo a.C., con grotte preparate e donate dai seguaci del buddista Sangha. I giardini ed il palazzo vennero eretti da Kashyapa. In seguito alla sua morte ne venne mantenuto l’uso monastico fino al quattordicesimo secolo, dopodiché venne abbandonato. Le sue rovine furono scoperte nel 1907 dall’esploratore britannico John Still. Le inscrizioni Sigiri vennero decifrate dal famoso archeologo Paranavithana che pubblicò un lavoro in due volumi, pubblicato da Oxford, noto come “Sigiri Graffiti”. Scrisse anche il popolare libro “Story of Sigiriya”.

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In America del Nord il più famoso monolito è la Torre del Diavolo (Devils Tower), alta 386 metri dal terreno circostante ed è ciò che rimane di un antico vulcano esposto a una lenta erosione. Si trova nelle Black Hills, a Crook County, nel nord-est del Wyoming, ed è stata dichiarata Monumento Nazionale degli Stati Uniti nel 1906 dal presidente Theodore Roosevelt. Deve il suo nome ad una spedizione del 1875, quando il Col. Dodge, interpretando come “Bad God’s Tower” il nome dato dai nativi americani alla montagna, iniziò a chiamarla Torre del Diavolo. La montagna rappresenta sicuramente uno dei paesaggi più caratteristici, tanto che attorno è stato fondato l’omonimo parco nazionale, meta di circa 400.000 visitatori l’anno. La montagna è diventata famosa in tutto il mondo nel 1977, quando fu scelta come sede del punto di incontro tra gli alieni e gli umani dal regista Steven Spielberg per il suo celebre film Incontri ravvicinati del terzo tipo. Una leggenda Lakota racconta che mentre sette bambine raccoglievano dei fiori ai piedi del monte, degli orsi si avvicinarono per divorarle, ma il Grande Spirito le salvò trasportandole in cima al picco. I solchi sui lati del monte sarebbero le incisioni degli artigli degli orsi lasciati mentre questi tentavano di arrampicarsi. Il picco è sacro per i Lakota, i Cheyenne e i Kiowa, che considerano un sacrilegio le scalate compiute da molti turisti. A giugno, periodo in cui si svolgono cerimonie sacre degli indiani locali, è richiesto, anche se non in via ufficiale, che gli scalatori stiano alla larga dal monte.

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Ancora in America del Nord si trova El Capitan, uno dei luoghi più famosi dello Yosemite National Park, un monolito granitico che si eleva per quasi 910 metri dalla Yosemite Valley. L’intera montagna in realtà è ben più alta, 2308 metri, ed è una delle attrazioni più ricercate dagli alpinisti di tutto il mondo infatti  la sua parete verticale denominata Nose (naso) costituisce una delle più popolari sfide di alpinismo estremo al mondo. Sulla parete di El Capitan salgono più di 70 vie di arrampicata. Il massiccio ricevette questo nome dal Battaglione Mariposa quando esplorò la zona nell’anno 1851. El Capitan fu considerata una traduzione approssimativa in lingua spagnola del nome locale che usavano dare i pellerossa della parete perpendicolare, trascritto come To-to-kon oo-lah o To-tock-ah-noo-lah. Non è chiaro se il nome attuale si riferisca ad un capo tribù specifico o in termini generali. In tempi recenti il nome viene spesso contratto in El cap in particolare dagli scalatori.Nel 1958, Warren J. Harding, Wayne Merry e George Whitmore sono stati i primi a scalare in libera il Nose di El Capitan. La montagna ha ispirato il nome della release 10.11 di Mac OS X che è stata chiamata appunto El Capitan.

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Un altro monolito molto famoso negli USA è la Stone Mountain, conosciuta a livello locale come Our Granite Mother, è un monadnock di adamellite di quarzo situata vicino a alla città Stone Mountain, Georgia negli Stati Uniti. Si eleva per 514 metri sul livello del mare ma solo 251 metri dalla superficie circostante. La montagna è anche conosciuta per il suo bassorilievo completato nel 1972, situato sulla facciata nord, il più grande del mondo. Il bassorilievo rappresenta alcuni dei personaggi di spicco degli Stati Confederati d’AmericaStonewall JacksonRobert E. Lee e Jefferson Davis. Stone Mountain, una volta era di proprietà dei fratelli Venable ed è stato il sito della fondazione del secondo Ku Klux Klan nel 1915. E’ stato acquistato dallo Stato della Georgia nel 1958. Alla base la sua circonferenza è di circa 8 km ed è circondata dallo Stone Mountain Park.  Numerosi libri di riferimento e la letteratura della Georgia hanno dichiarato Stone Mountain come “il più grande pezzo esposta del granito nel mondo”.

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La Peña de Bernal è considerato il terzo monolito più grande al mondo, seguito dal monolite di Gibilterra (Spagna) e dal Pan di Zucchero (Rio de Janeiro). La sua formazione risale al periodo giurassico (65-180 milioni di anni fa). Le dimensioni originali sono state stimate ben tre volte maggiori delle attuali e queste si traducono in un peso stimato intorno a 2 milioni di tonnellate. Si innalza per 433 metri sopra il piccolo paese di Bernal, nello stato di Querétaro (Messico). Numerosi sono stati gli studi per determinare la sua formazione che risulta essere di natura vulcanica (UNAM – Università Nazionale Autonoma del Messico). Il monolite si è originato durante un’eruzione vulcanica, nel momento della formazione della Sierra Madre Orientale ed Occidentale. È composto da Silicio, elemento resistente che ha permesso alla Peña di arrivare dalla sua formazione, quasi 9 milioni di anni fa, fino ad oggi così ben preservata. La parola Bernal deriva dalla lingua basca e significa monolite mentre peña significa roccia. La leggenda narra che l’esercito spagnolo avvicinandosi al monolite la prima volta esclamarono “este es un bernal como los que existen en el mar o en los valles” (“Questo è un monolite come quelli che si trovano in mare o per le valli”).  Nel febbraio 2006 è stata indicata come “montagna magica” da parte del Ministero del Turismo del Messico, per i suoi attributi simbolici, leggende e la storia, infatti ogni anno il 21 marzo, durante l’ equinozio di primavera, migliaia di turisti si riuniscono alla roccia e nei suoi dintorni per una festa “mistico-religioso”, per “ricaricarsi energeticamente”. Il tipo di pietra e le possibili offerte per la salita organizzata del Peña de Bernal lo rende una attrattiva a livello nazionale ed internazionale per i professionisti di arrampicata su roccia . Il monolite è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 2009.

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Pan di Zucchero, in portoghese conosciuta come Pão de Açúcar, è una delle più ricercate attrazioni turistiche di Rio de Janeiro. Situata su una penisola che si estende da un estremo della baia Guanabara all’interno dell’oceano Atlantico, la montagna, costituita da granito e quarziti, sorge a 396 metri sul livello del mare. Altre origini del nome lo fanno derivare dal termine Pau-nh-acuqua che, nel linguaggio tupi-guaraní parlato dagli indigeni tamoios, significa “alta collina”. Proprio sotto al Pan di Zucchero Estácio de Sá fondò il primo nucleo della città di Rio de Janeiro il 1° marzo 1565 (giorno in cui ancora oggi si festeggia la fondazione di Rio de Janeiro. Una funivia porta i visitatori alla cima del Pan di Zucchero, dove è possibile godere da una parte di una spettacolare vista su Copacabana e dall’altro di Botafogo e del Centro di Rio de Janeiro (potrete riconoscere molti edifici, l’aeroporto Santos Dumont, le spiagge, l’Aterro do Flamengo, Niterói, il Ponte Rio-Niterói, la Baia di Guanabara fino alla Serra do Mar e al Dedo de Deus). Ai piedi del Pan di Zucchero si svolgono numerose attività fisiche come il trekking, l’arrampicata e la pesca, senza contare che a Praia Vermelha (davanti all’accesso alla funivia) si possono fare molti sport da spiaggia. La versione della funivia del Pan di Zucchero precedente a quella attuale in funzione dal 1972 fino a pochi anni fa venne progettata e montata dalla storica azienda italiana Agudio.

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Il Parco nazionale di Torres del Paine si trova nella regione all’estremo sud della Patagonia, in Cile, ed è uno dei posti più incantevoli al mondo. Il punto più caratteristico del parco è proprio quello delle tre Torres del Paine, tre spettacolari monoliti di granito formati dall’affioramento di un laccolite di roccia ignea, che posteriormente è stato eroso dal ghiaccio, dall’acqua e dai venti. La vetta più alta è quella della Torre Sur, scalata per la prima volta da Armando Aste,ed è di circa 2500 metri. Anche le altre due torri non sono meno imponenti: la Torre Central è di 2460 metri e fu scalata per la prima volta nel 1963 da Chris Bonington e Don Whillans mentre la Torre Norte è alta 2260 metri e fu scalata per la prima volta da Guido Monzino. Sulle tre Torres del Paine salgono numerose vie d’arrampicata aperte a partire dagli anni ’60. Nel parco, la fauna è abbondante e variegata: gli animali più diffusi sono i puma, i guanachi, le volpi grigie, i marà, i nandù e i condor delle Ande. Due mammiferi rari sono il kodkod (un piccolo gatto selvatico) e l’orso dagli occhiali, l’unico orso del Sud America, mentre due specie di uccelli abbastanza diffuse sono il fenicottero del Cile e l’anatra muschiata.

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Anche in Antartide esiste un monolito molto famoso chiamato Scullin Monolith, una roccia a forma di mezzaluna difronte al mare. Nel 1930, Douglas Mawson fece un volo aereo dalla nave militare sopra l’area del monolito e messo piede sulla roccia, il 13 febbraio la chiamò in onore di James Scullin , Primo Ministro dell’Australia nel 1929 – 31. La vetta più alta dello sperone fu invece denominata “Monte Klarius Mikkelsen”, per il capitano Klarius Mikkelsen, capitano della baleniera norvegese Catcher Torlyn, che solcava quei mari. Dato che non è coperto di neve o ghiaccio, è un importante luogo di riproduzione per gli uccelli, in particolare procellarie e di pinguini di Adelia, protetti dal Antarctic Treaty System.

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In Europa il più grande monolito è la Rocca di Gibilterra (in inglese: Rock of Gibraltar; in spagnolo: Peñón de Gibraltar; in in arabo: جبل طارق‎ che significa “Monte di Tariq”; in latino Mōns Calpē; in greco antico Κάλπη Όρος Kálpē Óros), promontorio situato nel territorio britannico d’oltremare di Gibilterra. È un monolito calcareo di origine giurassica alto 426 metri. E’ di origine calcarea e risale al periodo Giurassico a circa 200 milioni di anni fa, quando la Placca africana si scontrò con la Placca euroasiatica. Il Mediterraneo divenne un mare chiuso, che si prosciugò durante la Crisi di salinità del Messiniano. Si aprì poi lo Stretto di Gibilterra e quindi il Mediterraneo assunse la sua attuale conformazione. La Rocca fa parte della Cordigliera Betica, una catena montuosa nella parte meridionale della Penisola Iberica. Nella Rocca di Gibilterra si trovano circa 100 caverne tra cui la St. Michael’s Cave, una popolare destinazione turistica. Invece, nella Gorham’s Cave sono stati trovati resti dell’Uomo di Neandertal di 30.000 anni fa. Inoltre sono stati trovati resti di animali di cui si erano alimentati, ciò indica che l’Uomo di Neandertal aveva una dieta molto diversificata. Qui è possibile avvistare anche circa 250 bertucce o scimmie di Barberia (Macaca sylvanus), gli unici primati selvatici rimasti in Europa. Ricordiamo inoltre che, nella mitologia greca, in corrispondenza della Rocca di Gibilterra veniva individuata una delle Colonne d’Ercole, che segnavano il confine del Mediterraneo e del mondo conosciuto.

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Il secondo monolito più grande d’Europa e il più grande d’Italia è la Pietra Cappa, detta anche Pietra Kappa e si trova nel Parco Nazionale dell’Aspromonte, superando il Sasso di Remenno che si trova in Lombardia. Si trova in provincia di Reggio Calabria precisamente tra i comuni di Natile Vecchio e di San Luca, nella Locride. Da questi due comuni si può arrivare sia a piedi che con l’auto fino ad un certo punto. Questo monolito è la meta preferita degli escursionisti soprattutto nel periodo estivo. Pietra Cappa ha attirato oltre 5.000 visitatori provenienti da ogni luogo, i quali hanno potuto ammirare le bellezze del paesaggio e la forma del dominante monolite. Essa è stata infatti ripetutamente fotografata e visitata, fino a divenire emblema dell’intero Aspromonte. Pietra Cappa è alta 140 metri e occupa 4 ettari di terreno. Situata sul versante orientale del Parco dell’Aspromonte, nella valle chiamata delle Grandi Pietre proprio per la presenza di numerosi conglomerati rocciosi modellati dalle intemperie fino ad assumere forme particolari, Pietra Cappa ha origini antichissime e appare citata già negli antichi monumenti medievali. Circondato da una fitta vegetazione di eriche, lentisco, mirto, corbezzolo, castagno, lecci, cespugli di menta e di origano, sprigiona una forza e un’energia atavica, con il suo carattere selvatico e solitario ancora non intaccato dalla mano dell’uomo moderno. Gli unici segni di antropizzazione sono i resti bizantini che s’incontrano sul sentiero che conduce al monolite. Da visitare i ruderi della Chiesetta bizantina di San Giorgio, un tempo dotata di pavimento di marmo, di cui rimane qualche suggestiva colonna e qualche muro. A guardia di questa vallata mozzafiato i Giganti di San Giorgio, secolari castagni lasciataci in eredità probabilmente dai monaci basiliani che incorniciano la bellezza naturale, paesaggistica di questo luogo. Il suo nome “Cappa” deriva da “coppa rovesciata”, in riferimento alla cavità interna che la contraddistingue. Le origini di questo grande masso sono davvero antiche: nei documenti medioevali si legge di pietra Gauca ovvero pietra vuota, un toponimo riconducibile non solo a pietra Cappa ma a tutta la zona circostante, caratterizzata da insediamenti rupestri, piccole rocce e grotte che ricordano in qualche modo paesaggi della Cappadocia, storica regione dell’Asia Minore caratterizzata da numerose meteore. Sul monolite aleggiano diverse leggende, legate alla lotta tra il bene e il male. Due sono quelle di origine cristiana: la prima narra che mentre predicavano la buona novella, Cristo e i discepoli giunsero anche ai piedi dell’Aspromonte dove fecero una penitenza raccogliendo alcuni pesanti massi che il Signore trasformò in fumanti pagnotte, lasciando solo Pietro con un piccolo boccone, come punizione per aver raccolto un misero ciottolo. Riconoscendo il proprio errore, fu lo stesso Pietro a volere che quella pietra restasse lì a ricordo della sua malizia e sfiorandola con un dito la fece diventare talmente grande da ricoprire il terreno tutt’intorno. Poi, una volta diventato il custode del cielo, l’apostolo decise di imprigionare per l’eternità nell’enorme macigno la guardia che schiaffeggiò Gesù davanti al Sinedrio, i cui colpi contro la nuda roccia e le grida di dolore vengono sentiti ancora oggi dai pastori e dai passanti.  Secondo un’interpretazione del mito Gesù giunse in Calabria, e mentre meditava su pietra San Pietro, venne assalito dal demonio, il quale iniziò una dura persecuzione. Il Signore però non cadde in tentazione e si liberò dal male con il solo segno della Croce; secondo questa leggenda il diavolo, intollerante del divino segno, venne scaraventato violentemente contro pietra Cappa, lasciando così un’impronta resistente al tempo. Tutt’oggi infatti da San Pietro osservando attentamente la vicina pietra Cappa si distingue un’impronta nella roccia, con le somiglianze di un corpo umano, ma dalle dimensioni assai più grandi. Ma Pietra Cappa riveste un ruolo rilevante, addirittura, nel mistero dei Cavalieri Templari. Raccontano le leggende, infatti, che Reggio, oltre ad essere la patria della Decima Legione Fretense che crocifisse Gesù e trafugò i tesori del tempio di Gerusalemme, tra le cui fila militavano Longino, il legionario che trafisse con la lancia il costato di Cristo e il funzionario Lucius Artorius, ossia il vero re Artù, e dei numerosi crociati dai quali ebbero origine i cavalieri di Malta, fu anche il punto di partenza dei monaci che fondarono l’ordine di Sion, i quali ebbero la rivelazione del Graal, la simbolica coppa del sangue di Cristo, proprio a Pietra Cappa. E qui, nelle sue misteriose ramificazioni che arriverebbero sin nelle viscere della terra, si sarebbero stabiliti, e, in seguito, nascosti, i Cavalieri del Tempio, rendendo la ‘Regina dell’Aspromonte’ ancora più enigmatica e affascinante.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Gaia e le sue Linee Energetiche

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Sin dall’antichità gli insediamenti umani non sono mai stati casuali.
Grande attenzione veniva data non solo alle risorse che un territorio offriva ma anche alla sua “salute energetica”. Per percepire tale salute si utilizzavano metodi legati ad abilità oggi non più considerate attendibili, quali la radioestesia, le capacità rabdomantiche se non le visioni o le divinazioni. In ogni caso un luogo doveva emanare un certo tipo di energia per essere adibito ad una certa funzione e non per niente in questi posti furono costruiti maestosi edifici in cui si praticava il culto degli dei e la gente veniva regolarmente in pellegrinaggio per offrire doni propiziatori. Appare nella sua evidenza che qui si concretizzavano notevoli influenze positive. Tutto ciò ci fa pensare che esista una fisiologia energetica della Terra che in qualche modo era palese ai nostri predecessori. Dolmen, obelischi, menhir, piramidi, le grandi cattedrali ne sono un esempio. Nulla era dato al caso. La prima e più vasta rete energetica conosciuta dagli antichi e giunta fino a noi è composta da Cardo Mundi e Decumano; ma bisogna arrivare al secolo scorso, con gli studi di Watkins con le Ley Line, Peyrè, Curry e poi Hartmann, con le loro reti, per finire con Oberto Airaudi con le sue linee sincroniche per avere nuove teorie sulle griglie energetiche che coprono il nostro pianeta, griglie geobiologiche che possono essere utilizzate per equilibrare la nostra salute e l’ambiente che ci circonda.

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La parola geobiologia, nasce dai due vocaboli geo (Terra), bio (vita) e logos (dottrina) e rappresenta perciò lo studio delle influenze che le energie della terra possono avere sulla vita in genere (vegetali, animali, uomo), ed i mezzi più adatti per risanare i luoghi ove tali energie fossero disarmoniche. Essa raduna in sé la conoscenza e le esperienze accumulate da tante scienze riconosciute (geologia, fisica, biologia, architettura, ecc.), e non ancora riconosciute (rabdomanzia, radiestesia, ecc.). La Terra possiede, come tutto ciò che vive nell’Universo, un corpo fisico ed uno energetico, in cui possiamo riconoscere dei percorsi energetici e centri specifici, paragonabili a quelli presenti nell’uomo. Come le correnti nervose partono dal nostro cervello per arrivare ai punti più lontani del corpo, così le correnti telluriche, sorte dai diversi centri nervosi del pianeta, lo attraversano dandogli la vita. In alcuni punti particolari, l’intensità della radiazione terrestre è abbastanza forte da modificare la composizione chimica delle piante che vi crescono, da attirare gli animali che vi trovano una energia più salutare e, in genere, anche noi umani sentiamo istintivamente i luoghi positivi, dove stiamo volentieri come affermato dal professore canadese Persinger, con i suoi ultra decennali studi di geofisica applicata alla neuropsicologia degli stati modificati di coscienza. Per esempio, molti dei luoghi storici dove avvengono guarigioni miracolose o della divinazioni oracolari sono sovrastanti corsi d’acqua sotterranei con un’energia molto forte. Anzi in molte cattedrali o templi questi corsi d’acqua sono stati appositamente deviati così da passare sotto l’altare e creare frequenze particolari. Si pensi a Lourdes o a Chartres o alla sorgente di Fatima.

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E’ stata individuata anche un’altra singolare correlazione, quella tra luogo sacro e movimenti tellurici. Ad esempio l’Oracolo di Delfi era posizionato sopra una faglia tellurica in una zona sovente soggetta a terremoti. E’ pur vero che le doti divinatorie della Pizia sono oggi spiegate con l’esalazione dell’etilene che fuoriusciva dalle falde del terreno ma queste ipotesi possono comunque convivere senza grossi problemi.

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In oriente lo studio delle simmetrie dell’ambiente circostante permetteva di determinare i luoghi dove costruire; greci e latini facevano pascolare e dormire le greggi sui terreni da abitare e poi ne controllavano lo stato delle viscere. Aùguri e sacerdoti detenevano il potere di determinare i luoghi di culto e guarigione, generalmente pieni di energia positiva. Lo sapevano anche i maestri muratori che costruirono attorno al 1100 in Francia ben 80 cattedrali gotiche, riprendendo le misteriose conoscenze dei Templari.

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E noi sappiamo che molti santuari moderni sono stati costruiti su resti di templi antichi che a loro volta sorgevano su luoghi benefici già usati prima. Gli antichi conoscevano bene anche l’orientamento del letto e sapevano che la posizione migliore per dormire è quella con la testa rivolta verso Nord e i piedi verso Sud. In questo modo il magnetismo terrestre può fluire più facilmente nel nostro organismo e apportare un sonno più ristoratore. Lo scrittore britannico Ruth Borchard dichiarò: “Più la forma di vita è elementare, più le sue capacità innate (gli istinti), compresa la Rabdomanzia, sono valide, integre e infallibili. La mente cosciente può acquisire queste capacità solo con uno sforzo perseverante e non le potrà mai utilizzare con la sicurezza propria degli animali”. La rabdomanzia, dal greco ràbdos, è una tecnica che impiega l’uso di una bacchetta (di solito una forcella di nocciolo) allo scopo di individuare giacimenti di minerali o localizzare delle acque sotterranee. I Cinesi la praticavano già circa duemila anni fa ed erano diventati molto esperti nelle ricerche relative al sottosuolo infatti un’incisione su legno, risalente all’anno 147 a.c. raffigura un Imperatore cinese, appartenente alla dinastia Hia, con in mano un oggetto la cui forma evoca quella di un diapason. Un’iscrizione spiega, senza possibilità di equivoci, che tale strumento era usato per scopi rabdomantici e sembra che tale Imperatore sia stato uno dei più grandi idrologi dell’antichità.

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Gli Etruschi godevano fama di essere ottimi conoscitori delle influenze cosmiche e telluriche, essi piantavano delle aste nel terreno per migliorare le culture o deviare i fulmini. I Romani utilizzavano delle bacchette (dette lituus) con cui le persone sensibili scoprivano falde sotterranee per l’alimentazione delle truppe. In questo modo furono scoperte (probabilmente per puro caso) un certo numero di sorgenti termali.

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Le fasce magnetiche che ricoprono la Terra non sono rigide linee e non presentano sempre un andamento perfettamente geometrico. Le maglie si distendono e si allungano, si comprimono e hanno capacità di deformarsi in presenza di vari fattori come temporali, fulmini, tempeste magnetiche, fasi lunari, terremoti, fenomeni vulcanici, alluvioni, corsi d’acqua sotterranea, ma anche ripetitori radiotelevisivi, antenne di telefonia mobile, trivellazioni, reti fognarie, condutture metalliche di acqua, gas o altro. Non sono neppure nocive di per sé, ma sono indice di vitalità della Terra in quanto essere vivente, non solo: la loro natura le rende vie di comunicazione tra i vari esseri viventi e tra questi e il resto dell’universo. La nocività si manifesta quando i campi elettromagnetici naturali entrano in conflitto con quelli artificiali accumulando in eccesso livelli di energia.

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Le pietre avrebbero avuto un ruolo di vitale importanza nei riti praticati. I giganteschi blocchi granitici di Stonehenge, di Baalbek e centinaia d’altri templi antichi venivano issati in posizione eretta poiché considerati accumulatori di potere magico. Il potere s’imprigionava grazie a qualche misteriosa interazione tra le forze della Terra e quelle del subconscio. A tal proposito è calzante la testimonianza che proviene dalla misteriosa Rapa Nui (l’Isola di Pasqua), dove gli indigeni raccontano di come i Moai si muovessero grazie al “mana” del mitico capo Tuu-ko-ihu, che faceva camminare le statue. E’ descritta come una forza magica che esercitava il suo potere dall’interno stesso delle statue, apparentemente senza interventi fisici dall’esterno. Forse la conoscenza di antiche tecniche per la manipolazione delle forze della Terra si è inesorabilmente persa col tempo.

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Le reti energetiche più conosciute e studiate sono:

  • Cardo Mundi e Decumano
  • Reti di Peyrè, Hartmann e Curry
  • Ley Lines
  • Linee Sincroniche

 

CARDO MUNDI E DECUMANO

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Il CARDO MUNDI (cardine del mondo) è la proiezione dell’asse terrestre sulla crosta generata dalla rotazione terrestre e costituisce un campo elettromagnetico che va da Nord a Sud e presenta un picco energetico ogni 24 mt. Perpendicolarmente ad esso si trova un altro campo energetico che va da Ovest verso Est: il DECUMANO (De Cuius Manus = la mano degli dei che fa girare la terra) il cui picco energetico è ogni 30 mt. La parola ha origine dalla linea tracciata dagli aùguri quando interpretavano i presagi degli dei. Non è ben chiaro dai testi consultati se i picchi energetici coincidano con i punti di intersezione delle due linee. Per il momento li consideriamo ipoteticamente coincidenti. Cardo Mundi e Decumano erano conosciuti dagli antichi, tanto che i Romani chiamavano Cardo e Decumano le vie principali delle città. Nei “Corpus Agrimensorium Romanorum”, raccolta di testi che risalgono a circa 2000 anni or sono, si illustrano i vari sistemi di rilevamento, le aree, per la catalogazione e l’inserimento delle costruzioni. L’individuazione dell’origine avveniva a cura di un sacerdote, che, come un rabdomante, mediante un lituo, un bastone sacro con la parte superiore ricurva, simile ad un bastone pastorale nelle fissava due direzioni cardinali, nord e ovest il centro delle direzioni energetiche della rete geodinamica ortogonale di base, cioè il cardo e il decumano, a 90° tra di loro e provenienti, il Cardo da nord e il Decumano da ovest. Solo dopo questa rituali i sacerdoti potevano stabilire la salubrità o meno del luogo. Questa rete geodinamica avvolge tutto il globo e veniva usata come assi cartesiani per ubicare edifici soprattutto, dedicati al sacro. I templi e le chiese venivano eretti seguendo rigidamente l’onda portante di questi allineamenti energetici. Il Decumano, con il suo fluire da ovest verso est, genera due vettori a 45° dal proprio asse, nominati con le direzioni dalle quali provengono: il nord/ovest e il sud/ovest. Le linee che vanno da NordOvest a Sud Est vengono considerate sinistrose, con energia a rotazione antioraria, assorbenti e quindi potenzialmente dannose per l’organismo. Le linee che vanno da NordEst a SudOvest hanno invece energia a rotazione oraria, radianti e quindi potenzialmente benefiche.

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Il Prof. Walter Kunnen, ricercatore belga, ha studiato questi fasci di energia, utilizzando e mettendo a punto uno strumento di misurazione da lui riscoperto:l’antenna di Lecher, in grado di rilevare, con una frequenza impostata, l’intensità, la polarità, e la direzione, sia di un’onda portante che di un onda portata o pendolare. Sulla base di questi studi si riesce a dare un interpretazione alla funzione per la quale venivano costruiti gli edifici, ovvero, le casse armoniche che amplificavano il segnale energetico ricevuto. Erano quindi templi o chiese di esaltazione se vi era prevalenza di segnale NordEst a SudOvest oppure di penitenza se dominava il vettore di NordOvest a Sud Est. Più di 10 anni ricerche svolte su tantissimi siti, con diverse datazioni temporali, confermano queste tesi e addirittura riescono a stabilire come, i costruttori del sacro, riuscivano a deviare, tagliare e dividere le linee energetiche, per ottenere risultati a loro utili All’interno di questo reticolato di base si collocano come frattali le altre reti energetiche terrestri.

 

RETI di PEYRE’, HARTMANN e CURRY

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Circa cinquanta anni fa, scienziati tedeschi e francesi, scoprirono che la terra è solcata da una fitta rete di raggi di perturbazione cosmotellurica. Essa è composta da numerosi campi di forza lineari, intersecantesi tra loro in punti detti nodi, composti da forze di varia natura che si sovrappongono e si sommano tra loro. Ma già nel 1937 Peyré di Bagnoles-de-l’orne segnalò al Congresso Internazionale della Stampa Scientifica, l’esistenza di raggi tellurici in fasce verticali, parallele e perpendicolari al meridiano magnetico, formanti una scacchiera di circa 8 m di lato, e nel 1947 pubblicò il libro “Radiations cosmo-telluriques: leur topographie sur toute la planète, leur rapport possible avec la pathologie humaine, animale, vegetale et notamment avec le cancer”.Nell’opera si faceva il punto delle conoscenze intorno ai raggi Peyré, e il loro rapporto con le malattie dell’uomo, degli animali e delle piante e in particolare con il cancro. Alcuni anni dopo il dott. Hartmann, da cui la griglia, o rete H, prese il nome, si accorse che la linee che la compongono formano dei veri e propri muri invisibili, ma misurabili, che dalla superficie terrestre attraversano tutta la biosfera. Hartmann raccolse nel libro Krankheit als Standortproblem (malattia come problema dovuto al luogo) una serie di articoli scritti in più di trent’anni. In un articolo del 1951 afferma: “Secondo le osservazioni che ho fatto sussiste una legame fra l’irraggiamento terrestre e la malattia. I raggi della Terra provocano un effetto patogeno soltanto su strisce strette (larghe circa 5-10 cm) che si manifestano come zona di stimolo, ovvero di reazione del rabdomante”.

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Riguardo agli effetti sulla salute Hartmann effettua quelle che egli stesso definisce “osservazioni sconvolgenti” e scrive infatti: “Eccetto pochissime malattie, come l’influenza, il morbillo, il raffreddore, eccetera, ci sono poche malattie che non siano causate da una striscia stretta”. Alcuni anni dopo, nel 1968, Hartmann parla invece per la prima volta di “griglia a rete globale”. Dato che ogni sistema vivente sulla Terra è sottoposto ad influenze cosmiche e telluriche, l’organismo subisce le variazioni di frequenza e d’intensità del campo elettromagnetico del pianeta, dovute alla rotazione del globo terrestre su sé stesso e alla sua rivoluzione intorno al sole. Il nostro pianeta si comporta insomma come la piastra negativa di un immenso condensatore, l’altra parte del quale, il cosmo, costituisce la carica positiva. Questa cosmo coppia provoca un campo di natura elettromagnetica, il cui punto di origine è il centro della terra.

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Esso si manifesta sotto forma di una vasta griglia invisibile che copre tutta la superficie del pianeta e in corrispondenza della quale si verifica l’emissione di particolari radiazioni. Gli studi hanno confermato le teorie, soprattutto per i seguenti due aspetti:

  1. Esiste un rapporto molto stretto fra determinati luoghi e l’insorgenza di certe malattie (ciò è anche confermato da diversi studi epidemiologici);
  2. Vivendo per lunghi periodi in particolari zone geopatiche, il corpo umano reagisce per adeguarsi alle variazioni, ma così facendo può facilmente sviluppare malattie.

Su tutta la terra, dalla superficie del suolo alla biosfera, esiste dunque un vero e proprio reticolo, le cui maglie si trovano ogni due metri circa sulla direzione nord-sud e perpendicolarmente ogni 2,5 metri circa su quella est-ovest. Lo spessore della “maglia” (detta anche “parete” della rete) è di circa 21 centimetri che, come la distanza dall’una all’altra, può variare a seconda della natura del suolo.

Il pericolo per la salute è massimo nei punti di incrocio fra le maglie. Così come le correnti marine alterano la forma delle reti da pesca, la forma dei reticoli si modifica in corrispondenza di corsi d’acqua, materiale elettrico, ferroso o metallico in genere o altro ancora che vedremo più avanti.

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Il reticolo ha quindi tre zone di intensità diversa:

  1. La zona neutra: essa è compresa fra i limiti di ciascun riquadro; in essa non vi sono radiazioni rilevanti e le attività vitali vi si svolgono senza alterazioni. È la zona ideale per la vita dell’uomo, specie per rimanervi lunghi periodi e per il sonno.
  2. Le pareti: per tutta la loro lunghezza costituiscono una zona di prima intensità, la cui debole azione non può nuocere all’uomo, a meno che l’intensità non sia aumentata da fenomeni diversi.
  3. I nodi: le zone di massima intensità di radiazioni telluriche; si trovano all’intersezione delle pareti e dunque sono dei riquadri di circa 21 cm di lato; anche qui le dimensioni possono variare notevolmente e sono aumentate da oggetti metallici, specie se collegati alla corrente elettrica, da corsi d’acqua e da faglie sotterranee e cavità del sottosuolo. Altri tipi di perturbazione sono causati da accumuli di metano, radon, petrolio e altro.

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Sapendo che tutti i materiali vibrano e irradiano, il campo radiante naturale è la base per la genesi e la conservazione della vita, che gli organismi viventi sono sensibili a campi elettromagnetici (CEM) di diversa frequenza e che oggi alle radiazioni naturali (onde Spherics, onde di Schumann, etc.) si aggiungono quelle create dall’uomo con inevitabili interferenze reciproche ne consegue che nell’uomo moderno abbiamo una diminuzione delle resistenze ai campi patogeni a causa dello stato di intossicazione generale, causato dalla vita innaturale che conduciamo, piena di interferenze energetiche e alimentari; gli effetti negativi variano da persona a persona, ma si acuiscono quanto più lungo è il periodo di esposizione al nodo o se l’individuo è già ammalato. I disturbi iniziali sono del tutto aspecifici e di tipo funzionale, ma hanno una forte tendenza alla cronicizzazione (insonnia, astenia, cefalea, depressione, vertigini, scarsa concentrazione, etc.). Dopo diversi anni possono insorgere malattie cardiovascolari, degenerazioni cellulari, tumori. I riscontri sono ormai migliaia, ottenuti sia tramite esami di laboratorio che tramite statistiche. Famosissimo è l’esperimento di Hartmann stesso su 24.000 topi di laboratorio. Dopo aver rilevato il reticolo nella zona dell’esperimento, Hartmann collocò delle gabbie con 12.000 topolini nelle zone neutre della rete e i restanti sui nodi del reticolo e poi inoculò in tutti i topolini la stessa quantità di cellule tumorali. Nelle settimane successive constatò che i topolini che vivevano sui nodi si ammalarono tutti di cancro e morirono nel giro di 40 giorni, mentre la malattia crebbe durante i primi giorni nei topolini posizionati in zona neutra poi si stabilizzò per un lungo periodo. Alla fine del periodo di osservazione erano sopravvissuti 8.000 topolini. L’organismo, non indebolito dal campo di disturbo geopatico, era addirittura riuscito a vincere la malattia. Un altro degli esperimenti più interessanti è quello del Dr. Petschke. Egli scelse tre punti di un tavolo, uno neutro, uno lungo la parete e uno sul punto di incrocio della rete di Hartmann. In questi punti, scrupolosamente, effettuò 62 esperimenti sulla velocità di sedimentazione del sangue. Si ebbero enormi variazioni del risultato, dipendenti dalla posizione delle provette, certamente non ascrivibili alla casualità. La sedimentazione risultò ritardata sul reticolo e sull’incrocio e normale nel punto neutro.

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La griglia descritta da Hartmann si restringe verso i poli e si allarga in corrispondenza dell’equatore, non è rigida ma è come una maglia che tende ad allargarsi o restringersi in presenza di altri campi magnetici. La rete H subisce variazioni della sua regolarità geometrica e del grado di patogenicità dei suoi campi, in numerosi casi tra cui fattori di natura cosmica come temporali, fulmini, tempeste magnetiche, fasi lunari, macchie solari, particolari coincidenze astrali, venti, irraggiamento cosmico, oppure fattori di natura tellurica come terremoti, fenomeni vulcanici, alluvioni, corsi d’acqua sotterranea, faglie, falde freatiche, cavità sotterranee, masse metalliche, sacche di gas o petrolio e fattori di natura tecnica come miniere, trivellazioni, reti fognarie, condutture metalliche, pilastri in ferro-cemento nel sottosuolo, qualsiasi forma di agopuntura artificiale, scavi per l’accatastamento di residui metallici, scorie radioattive e ogni tipo di rifiuto in genere. Gli studi hanno indicato che dodici ore prima che avvenga un terremoto il reticolo subisce una distorsione. Gli animali solitamente sono sensibili alle distorsioni temporanee del reticolo e lo evidenziano con stati di agitazione e comportamenti anomali. L’intensità dei campi della rete H subisce anche variazioni secondo un ritmo circadiano. Dalle ore 0 alle ore 2 e dalle ore 12 alle ore 14, si ha un aumento della patogenicità della rete, mentre tra le ore 5 e le ore 7 e tra le ore 17 e le ore 19, l’effetto geopatogeno raggiunge i suoi picchi di minore intensità.

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I nodi di Hartmann possono essere trovati guardando gli animali. Su un nodo le api impazziscono, fanno moltissimo miele e poi cadono in esaurimento, a meno che l’apicultore non le sposti dopo il periodo di produzione fino a primavera. I gatti stanno sui nodi quindi l’uomo non dovrebbe mai stare dove di solito sta un gatto. I cani e cavalli scansano i punti negativi e, se noi mettiamo la cuccia in un punto geopatogeno, rifiutano di entrarci; si dice che dove sta bene un cane sta bene anche l’uomo. In Asia i nomadi fanno il campo dove i cani selvatici si fermano a riposare. Termiti e formiche fanno i nidi sopra i nodi, che per di più sono sopra corsi d’acqua tanto che alcune tribù africane scavano i pozzi proprio sotto i formicai.

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Nelle Alpi bavaresi, nel luogo dove si vuole costruire una stalla o una casa, si mette un formicaio e, se le formiche vanno via, il luogo va bene. Gli alberi indicano zone patogene se il tronco è marcio e cavo, ci sono tumori o rigonfiamenti del legno, muschi molto verdi e brillanti sul tronco per 4 o 5 m anche dalla parte non a nord (il muschio indica generalmente la parte a nord), siepi gialle, fusti che si contorcono come se volessero scappare ecc. Sull’uomo si guarda la resistenza elettrica della pelle che varia per influssi di campo. Si misura il potenziale con elettrodi sulla pelle che danno la curva di resistività e se si e’ in zona neutra, la curva e’ piana e tranquilla mentre se si è su un nodo la curva è accidentata. Hartmann ha fatto 125000 di questi georitmogrammi (variazioni di resistività cutanea).

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La Rete di Curry, dal nome del medico tedesco che l’ha studiata, ha natura elettrica e pare sia di origine cosmica; è disposta in modo diagonale rispetto a quella di Hartmann: le sue “fasce” si propagano da nord/nord-ovest a sud/sud-est e da sud/sud-ovest a nord/nord-est, formando un angolo di circa 45° rispetto all’asse magnetico terrestre. I lati sono di circa 3 – 3.5 metri ma possono essere estremamente variabili; ciò rende molto difficile la loro corretta individuazione. I punti di incontro sono anche qui detti nodi e data la loro maggiore carica elettromagnetica (maggiore anche dei nodi H), sono considerati perturbanti causando le geopatie già descritte per i nodi H. I nodi C possono assumere anche dimensioni che dai 50 cm. giungono fino al metro. La rete Curry è mobile, estremamente variabile e perturbabile da altri fattori di origine naturale o artificiale. Non va infine dimenticato che aumenta la propria intensità dalle ore 23.00 alle ore 04.00 circa.

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La rete di Curry non sostituisce o nega l’esistenza della rete H, ma ad essa si sovrappone e con essa interagisce. I punti, in cui i vertici delle maglie della rete di Hartmann corrispondono con quelli di una maglia del reticolo di Curry, sono particolarmente patogeni per l’uomo. I camini cosmo-tellurici della rete di Curry sono condotti verticali che rendono possibile il fluire di energie dal cielo alla terra e viceversa. La loro dislocazione è indipendente dalle anomalie della struttura della terra. Le loro forme sono cilindriche con diametro variabile da un camino ad un altro. Si compongono di un nucleo che ha un’attività più intensa della circonferenza. Alcuni sono larghi fino a 60 centimetri. La loro funzione risiede nel fatto che permettano un flusso di inspirazione/espirazione della terra. E’ un fluire lento, circa 2 – 3 minuti (ispirazione), durante il quale il diametro del camino si allarga. Segue una breve pausa e poi il flusso si inverte con un’espirazione di circa 3 minuti.

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La rilevazione di tali flussi è delicata, difficile ed eseguita con metodi radioestesici. Studi francesi hanno evidenziato che all’interno di ogni chiesa medievale veniva individuata una zona marcatamente negativa. Il punto veniva evidenziato con una pietra, “la pietra dei morti” ed era il luogo ove veniva collocato il feretro durante le funzioni del commiato. Analogamente esistevano zone ad alta energia dove di solito era per esempio collocato il fonte battesimale.

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Le Reti di Hartmann e Curry sono misurabili con il galvanomerto (misura le correnti elettriche anche deboli) e il geomagnetometro (registra il magnetismo di origine terrestre), oltre che con la radiestesia e il comportamento animale.

 

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Nel 1920 Alfred Watkins , stava percorrendo con la propria auto le strade di Blackwardine, nell’Herefordshire, in Inghilterra, quando, osservando la cartina, si rese conto che moltissimi siti preistorici, in quella zona per lo più megalitici, e edifici di culto erano allineati e collegabili tra loro con precise linee rette, costituite, anche nella realtà, da piste, sentieri, di circa due metri di larghezza. Dopo una serie di approfondite ricerche, che sfociarono nei volumi Early British Trackways e The Old Straight Track, Watkins giunse alla conclusione che quelle linee erano risalenti al periodo pre-romanico, forse addirittura al neolitico; che fossero poi state ricalcate nell’età del bronzo e del ferro e preservate in modo occasionale durante la cristianizzazione, giungendo quasi intatte fino a noi. Queste direttrici sono state chiamate ley lines o linee di prateria. Larghe all’incirca due metri ed equidistanti tra loro, percorrerebbero l’intera superficie terrestre, incrociandosi tra loro formando una griglia. Su questi incroci sorgerebbero i templi e i luoghi sacri e sotto di esse scorrerebbero fiumi sotterranei o sarebbero presenti filoni di minerali metallici.

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Riguardo la loro funzione, Watkins inizialmente riteneva che le ley lines fossero semplici vie di comunicazione tra luoghi di rilevanza sociale e religiosa particolarmente forte nel periodo neolitico. Tuttavia, il fatto che molte lines ricalchino il percorso del sole durante i solstizi o quello della luna, lasciava pensare che essere avessero anche una funzione legata all’ambito spirituale infatti, sempre secondo Watkins, esse potevano costituire una sorta di percorso, di tracciato, da compiersi durante alcune particolari celebrazioni o cerimonie. Il fatto stesso che le lines colleghino luoghi di culto come siti megalitici o zone di sepoltura o chiese pare confermare tale interpretazione. Secondo il parere dello studioso Martin Gray, nei punti di intersezione, spesso posti in corrispondenza di corsi d’acqua sotterranei o, comunque, chiare anomalie del suolo, si svilupperebbero dei centri di potere, da intendersi come luoghi in cui la latente energia della terra, grazie agli influssi dei corpi celesti, viene riattivata, quasi ridestata. Con la predisposizione di pietre in verticale (menhir o dolmen), i nostri antenati avrebbero avuto la concreta possibilità di sfruttare tale energia, convogliandola in giusta misura: enormi macigni verticali posti ad arte, di cui ignoriamo tutto, anche il modo con cui furono trasportati da luoghi lontanissimi, ma situati nei luoghi in cui dovevano dar luogo a particolari attività, solitamente dedicati alla preghiera, all’invocazione di Entità benefiche ed alla ricerca di un collegamento tra il proprio spirito e la divinità. Oggi, in simili luoghi, ritroviamo le rovine di antichi centri di culto se non costruzioni a forte valenza religiosa.

teaserbox_2452250402Inizialmente, Watkins non attribuì alle ley-lines alcun significato soprannaturale o magico: ad attribuire un primo connotato soprannaturale alle “linee di prateria” fu l’occultista e scrittore Dion Fortune, che nel romanzo del 1936 The Goat-footed God conferì alle ley-lines caratteristiche magiche, legate al culto della terra. In seguito, due rabdomanti inglesi, il capitano Robert Boothby e Reginald Smith del British Museum, collegarono i tracciati delle ley lines alla presenza di falde acquifere sotterranee e all’esistenza di ipotetici flussi elettromagnetici. Ancora, due ricercatori nazisti, Wilhelm Teudt e Josef Heinsch, piegando la ricerca all’esaltazione incondizionata della razza ariana, conclusero che gli antichi Teutoni avevano contribuito alla realizzazione di una fitta rete di linee astronomiche, le cosiddette Heilige Linien, la quale avrebbe collegato tra loro i più importanti luoghi sacri dell’antichità. Teudt localizzò uno di questi punti nel Teutoburgo Wald district nella Bassa Sassonia, centrata attorno la formazione rocciosa di Die Externsteine.

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Continuando a parlare di ley line, c’è da dire che questi flussi energetici sono molto diversi, per struttura, dai nodi geopatici e hanno anche polarità diverse: i nodi energetici che si creano all’intersezioni delle varie reti energetiche (Hartmann, Curry), sono per noi esseri umani un’energia negativa (difatti si chiamano nodi geopatici) e cioè energia che ci danneggia. L’energia delle ley lines invece, è costituita da fiumi energetici (come le correnti nel mare) di pura e potente energia sottile che attraversano l’etere in una direzione ed è sempre quella; questi flussi ci energizzano, ci attivano i chakra e possono costituire per noi esseri umani una notevole fonte di guarigione. Non sappiamo ancora bene come nascano le ley line; possiamo trovarne una all’improvviso e possiamo non trovarla più dopo chilometri, sempre all’improvviso. Secondo la Geobiologia, le leyline possono essere lunghe da pochi metri a centinaia di chilometri, larghe da 2/3 metri a 100/120, di altezza che va da pochi metri ai 30/50 e il flusso energetico scorre sulla superficie del terreno seguendo i rilievi del suolo e quindi salendo anche su per colline e montagne. L’intensità, quantificata in Bovis, che è lo strumento utilizzato per la misurazione delle cosiddette energie sottili, risulta variabile dai 6/7000 bovis, ai 15/16.000 bovis per quelle più potenti. Il reticolato di questa antica rete globale formerebbe percorsi dritti e tutta una serie di triangoli sull’intero pianeta, tanto da far individuare collegamenti già noti, come quello Tra Carnac in Francia e Karnak in Egitto passando da Lione e dai fori romani, oppure quello tra Dodona, Thebes e il monte Ararat, o ancora la famosa linea di San Michele solo per citarne alcuni.

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Nel 1969 lo scrittore John Michell riprese il termine ley lines, associandolo a teorie spirituali e mistiche su allineamenti di forme terrestri, sulla base del concetto cinese del Feng Shui. Riteneva infatti che una rete mistica di ley lines esistesse in tutta la Gran Bretagna. Secondo l’antica disciplina cinese che significa vento e acqua, a rappresentazione dei due elementi principe della Terra, le ley lines suddividerebbero la Terra in un vero e proprio reticolato energetico. Paul Deveraux avrebbe poi concluso che tutti i cerchi di pietre possano indicare la presenza di una ley line. La sua forza verrebbe misurata in base alla lunghezza, alla precisione della deviazione, al numero dei marcatori energetici ed al loro significato individuale.

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Su tali basi, si possono individuare le ley lines in diverse categorie di base, quali quelle astronomiche, funerarie e geometriche. Secondo una delle più accreditate teorie, le origini del Feng Shui, nonostante siano ancora incerte, sembrano risalire alle tombe del Neolitico, e seguire i suoi principi nella costruzione. Ciò confermerebbe le teorie di Mitchell. Non a caso, nella costruzione del dinamico equilibrio di Yin e Yang, il primo, principio oscuro e femminile, è rappresentato dall’acqua; il secondo, principio caldo e luminoso maschile, è rappresentato dal vento, inteso nel senso del respiro. Entrambi indispensabili, si applicano nella vita quotidiana anche nell’arredamento interno degli edifici. Dopo la pubblicazione del libro di Michell, la versione spiritualizzata del concetto fu adottata da altri autori e applicata a paesaggi e luoghi di tutto il mondo.

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Entrambe le versioni della teoria furono criticate per il fatto che le distribuzioni casuali dei punti servivano inevitabilmente a creare allineamenti apparenti. La deduzione che le linee avessero non solo funzione di comunicazione tra luoghi simbolo, ritenuti sacri, ma che fossero connesse all’energia spirituale di un posto, introdusse allo studio della magia e dell’esoterismo. Non a caso si parla spesso di Stonehenge come di uno dei siti megalitici più energetici esistenti al mondo, e dove spesso le persone si riuniscono per “ricaricarsi”. E’ altrettanto vero che di luoghi come Stonehenge ne esistano infiniti altri: basti pensare ad Avebury HengeSilbury HillCastlerigg stone circle, o i Menhir della nostra Sardegna.

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Lo stesso esempio viene fatto a proposito dei crop circles, molti dei quali compaiono proprio in quella zona. I monoliti contengono quarzo, eccellente canalizzatore di energia. Si tratta però di energie non misurabili secondo le leggi fisiche, ma attraverso la psiche o il subconscio. Potremmo definire questi punti dei veri e propri chacka della Terra, tanto che possono essere intercettati facilmente attraverso la rabdomanzia. Dove compaiono i crop circles invece, si sono registrati particolari infrasuoni e si è osservato come, in quei momenti l’energia che si sprigiona in quelle aree sia talmente elevata da influire su cellulari, registratori e telecamere.

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Proprio l’allineamento geometrico di Silbury, Avebury ed i complessi megalitici di Stonehenge e Glastonbury si combinano a formare un triangolo rettangolo che attraversa il paesaggio inglese.

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L’ipotenusa è formata dalla ley line di San Michele inglese, che attraversa l’Inghilterra, lungo l’apice del Sole allo zenith nel mese di maggio. Avebury si trova infatti esattamente 1/4 di un grado a nord di Stonehenge. La English Michael Ley Line rappresenta la principale linea di energia che collega i principali siti megalitici e altri imponenti edifici di culto in Inghilterra.

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Ma il culto dell’Arcangelo Michele è professato in tutta Europa e i luoghi sacri dedicati a questo santo sono posizionati su un’unica linea retta con un allineamento perfetto, inspiegabile, è solo una casualità? Skellig Michael (Repubblica Irlandese) posto all’estremo nord di questa linea su un’isola dell’Irlanda, raggiungibile soltanto con il mare calmo, St Michael’s Mount (Cornovaglia – Inghilterra sud-occidentale) a poca distanza da Stonehenge, con il tempo diventò una delle mete di pellegrinaggi più importanti del medioevo in Gran Bretagna., Mont Saint Michel (Normandia – Francia) l’isola incantata nel nordest della Francia, la Sacra di San Michele (Val di Susa – Piemonte) dall’origine incerta e punto mediano della linea, San Michele del Gargano (Monte Sant’Angelo – Puglia) il più famoso luogo di culto micaelico dell’occidente, Monastero di San Michele (Isola di Simi – Grecia) attaccata quasi alla Turchia, nel Dodecaneso meridionale, in un’insenatura stupenda del mare Egeo e per finire il Monte Carmelo (Gerusalemme) sacro agli ebrei, ai cristiani, ai musulmani e ai bahá’í è il viaggio che percorre questa linea perfetta è molto potente.

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Forse ancora più sorprendente è il fatto che i tre luoghi più importanti ovvero Mont Saint Michel, la Sacra di San Michele  e il santuario di Monte Sant’Angelo si trovano alla medesima distanza, 1000 chilometri. Inoltre la Linea Sacra è in perfetto allineamento con il tramonto del sole nel giorno del Solstizio di Estate e per questa è anche chiamata la ley line di Apollo.

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Nel 1936 il filologo francese Xavier Guichard pubblica il libro “Eleusis-Alesia” dove riporta la scoperta di misteriosi allineamenti esistenti tra paesi di tutta Europa accomunati da alcune peculiari caratteristiche: l’assonanza nel nome con la parola ”Alesia” e la collocazione in vicinanza di fiumi, pozzi o fonti di acque minerali. Nell’antico idioma indoeuropeo alis significa asilo, rifugio, ed è straordinario verificare come esistano molte città che richiamano tale vocabolo nel loro nome e come tutte convergano verso una cittadina della Francia meridionale oggi nota come Alise-Saint-Reine e un tempo chiamata Alesia (ad Alise si trova la “Fontana inesauribile di Santa Regina” che, si narra, abbia guarito 50.000 ammalati). Tra le città allineate troviamo Alassio in Liguria, Aliso in Corsica, La Aliseda in Spagna e molte altre; è probabile che il “ristoro” possibile in queste località non sia solo di tipo fisico per eventuali pellegrini, ma che possa essere soprattutto di natura spirituale in virtù delle caratteristiche energetiche di questi luoghi collocati in punti speciali del reticolato terrestre.

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Le ley line possono anche sporcarsi durante il loro tragitto e portare a valle la congestione sottile che incontrano sul loro percorso. E’ stato sopra detto che una ley line è un flusso enegetico con una direzione come un fiume. Se una ley line incontra una fabbrica, una centrale elettrica, un cimitero, una discarica, un giacimeto radiattivo, essa si congestiona e si “trascina” con se la congestione acquisita e se voi avete situata un’abitazione a valle del flusso energetico della line, vi vivrete la congestione che la line ha “incontrato” sul suo procedere. Se l’intensità della ley line è alta, essa riuscirà poi a “autopulirsi” dalla congestione. C’è anche da dire che con lo sviluppo attuale delle civiltà occidentali e ora anche del terzo mondo, una qualsiasi ley line incontra sul suo cammino necessariamente siti congestionati e quindi, a differenza di un passato dove gli inquinamenti tecnologici non esistevano, una ley line si porta dientro necessariamente qualche congestione.

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Il suo percorso attraversa congestioni che possono essere sia naturali, che create dall’uomo. Queste congestioni sono naturali quando la ley line incontra energie geopatiche di grande ampiezza e intensità, oppure giacimenti di minerali a noi nocivi come l’uranio, o altri agenti naturali a noi altamente tossici. Le congestioni create dall’uomo possono essere pozzi neri, discariche, cimiteri, centrali nucleari, centrali elettriche. Il caso di gran lunga peggiore è essere situati a valle di una ley line che passa attraverso una centrale atomica.

LE LINEE SINCRONICHE

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Le linee sincroniche sono grandi fiumi di energia che circondano il nostro pianeta e lo collegano all’universo. Lungo le linee sincroniche si sviluppa l’evoluzione della vita e dell’essere umano e si addensano gli eventi principali in grado di direzionare sincronicamente le forme e la loro trasformazione. Sono le “autostrade” sulle quali viaggiano le forme-pensiero e le idee, attraverso le quali transitano le anime in prossimità della loro incarnazione. Delle Linee Sincroniche ne parla per la prima volta la Comunità di Damanhur, in particolare nel libro di Oberto Airaudi, Linee sincroniche: Gli scorrimenti energetici del pianeta, editato nel 1998.

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La Terra è attraversata da diciotto Linee principali: nove con direzione Nord-Sud e nove con direzione Est-Ovest”, che gli antichi cinesi chiamavano la “Schiena del Drago” o “Vene del Drago”. La grande muraglia cinese è stata eretta su una Linea Sincronica ed è spesso chiamata “dorsale del Drago”. Come per le nadi del corpo umano, l’intersecarsi di due o più linee determina un punto di regolazione dell’intero sistema energetico (per le linee sincroniche si parla di “nodo splendente”). Le Linee Sincroniche trasportano pensieri e idee e attraverso di esse è possibile collegarsi a qualsiasi punto del pianeta e possono accelerare il corso degli avvenimenti intervenendo sulle probabilità. Tutto l’universo è percorso da queste linee che, tra loro collegate, creano una rete di comunicazione tra i mondi, le stelle e le galassie ove sia presente la complessità della vita. In tempi passati, non solo costruire lungo una Linea Sincronica era auspicabile e maggiormente produttivo, ma spesso i “nodi splendenti”, divenivano sede di luoghi di culto particolari, al fine di sfruttare al meglio le concentrazioni energetiche e di potere che contribuivano all’insorgenza di particolari fenomeni.

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La differenza tra Linee Sincroniche e Ley Lines sta nel flusso energetico che le due portano. Le linee sincroniche sono determinate da energie psico-energetiche ( la conoscenza, l’immaginazione, il linguaggio emozionale, l’elevazione dello spirito, le trasformazioni dal punto di vista psichico, l’accesso alle altre dimensioni, l’energia sottile plasmabile col Pensiero), per questo catalizzano gli flusso degli eventi grazie alle sincronicità spazio-temporali (da qui il loro nome) e non sono dritte. Le Ley Lines sono linee energetiche rette che collegano vari luoghi sacri del neolitico, ma questo tipo di energia è un’emanazione delle energie prodotte dalla Terra che produce una risonanza con l’energia di tutti gli esseri viventi che hanno un contatto con essa. L’energia e il potere delle Linee Sincroniche non è localizzato solo in perfetta corrispondenza con la vena, ma si espande, parimenti può essere influenzato senza che determinati avvenimenti si svolgano proprio su di essa. Queste linee non scorrono per la loro intera lunghezza sulla superficie della Terra: solo in alcuni punti esse sono affioranti. Il loro tragitto è soprattutto ipogeo o aereo. L’impiego dell’adeguata conoscenza “magica” consente di inviare o ricevere informazioni e pensieri da tutto il mondo e persino dal cosmo, programmare le reincarnazioni e viaggiare nello spazio. Le linee sincroniche si dividono in Grandi linee e linee Minori. Le Grandi linee si suddividono a loro volta in 9 linee orizzontali e 9 linee verticali. Le Minori a loro volta si dividono in 2 al loro interno con scorrimento opposto ,ruotando a spirale attorno a un baricentro.

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Le linee verticali:

PRIMA: si trova al centro dell’Oceano Pacifico e scorre fino al Polo Sud

SECONDA: attraversa il Canada,va negli USA,in Messico,tocca alcune isole nel Pacifico e dal sud America raggiunge il polo sud

TERZA: passa x il Perù,il Cile e la Terra del fuoco,poi raggiunge il polo sud

QUARTA: attraversa la Groenlandia,affiora a Capo verde e scende verso sud

QUINTA: dal nord attraversa l’irlanda,il sud dell’Inghilterra(Stonehenge),arriva in Bretagna,scorre fino alle Alpi,scende in Italia,arriva in Egitto e poi dal centro Africa procede verso il polo sud

SESTA: entra in Russia,Polonia,Ungheria,Austria,Italia,scende fino alla Grecia,Turchia,Libano,Israele,torna in Egitto e scende verso il polo sud

SETTIMA: attraversa il Pakistan e il Nepal,l’India e segue il corso dei fiumi.Si inabissa verso il centro della terra senza arrivare al polo sud

OTTAVA: attraversa l’Unione Sovietica,scende fino all’Himalaya,prosegue in Thainlandia e scende verso il polo sud

NONA: parte dalla Siberia,arriva in Cina,scende verso la Nuova Zelanda e raggiunge il polo sud

Le linee orizzontali:

A: incontra la prima in Alaska e in Canada la seconda e la terza. Sfiora l’Islanda,l’Irlanda e l’ Inghilterra.

B: resta in Usa nei pressi del lago Ontario,poi si tuffa nell’ Atlantico,prosegue in Portogallo,Spagna,Francia,Italia,Jugoslavia,Romania fino in Cina e Giappone.

C: nasce nel Pacifico,sfiora la California,prosegue in Messico,si tuffa nell’Atlantico,raggiunge il Mediterraneo,arriva in Egitto e poi prosegue verso il Pakistan e Iran e da qui verso il Nepal.

D: in Perù,Amazzonia,Atlantico.Arriva in Egitto e nella penisola arabica,il Mar Rosso e prosegue verso l’India,la Birmania.Poi sprofonda nel mare verso terra.

E: affiora nel Pacifico poi prosegue verso il Brasile.Da qui raggiunge l’Africa e poi l’oceano Indiano

F: dal Cile attraversa il Sud America e si tuffa nell’Atlantico.Raggiunge l’Africa del sud,il mar Rosso e risorge verso l’Australia.

G: sud America,Atlantico,Africa fino all’ Australia

H: costa sud Americana fino alla terra del fuoco.Poi Atlantico fino all’Africa e da qui prosegue fino in Australia.

I: Terra del Fuoco,Atlantico e molte zone non abitate.

In questo periodo storico, sono molto attive le verticali seconda ,quinta e sesta e le orizzontali A,B,C.

La terza è un po’ meno attiva mentre la Nona, ha aumentato il suo potenziale.

Le linee Minori si originano quasi sempre in 3 circostanze:

1)nei punti di maggiore vicinanza tra le grandi linee.

2)quando le grandi linee sono aggrovigliate.

3)in corrispondenza di fiumi, isole o montagne

Possono essere considerate “porte energetiche”, per entrare in contatto con altre dimensioni o livelli evolutivi. Sono individuabili con la radiestesia, l’osservazione della morfologia e della storia del territorio ma anche mediante viaggi astrali e medianità. Ley Lines e Linee Sincroniche si distinguono così dalle Reti Hartmann e Curry non avendo corrispondenze con le linee magnetiche terresti.

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E’ scientificamente provato che utilizziamo solo il 10% delle nostre potenzialità cerebrali. Anche la percezione, attraverso i nostri sensi, è parziale. Riusciamo ad udire solo determinate frequenze, così come riusciamo a vedere e percepire solo una gamma limitata di radiazioni cromatiche. Tutto ciò è considerato normale, mentre non si pensa altrettanto di persone che estrinsecano capacità “extrasensoriali”. Dagli studi di Sergio Costanzo, scrittore e biologo, si viene da porsi una domanda: “Che cos’è dunque un luogo d’energia?” Il luogo è per definizione “una porzione di spazio materialmente o idealmente delimitata”. Dalla notte dei tempi, le necessità fondamentali dell’essere umano sono rimaste inalterate: reperire il nutrimento fisico e spirituale. E’ per rispondere a questo bisogno primordiale, che l’uomo nel corso dei millenni, ha delimitato fisicamente ma soprattutto idealmente, luoghi particolari per caratteristiche geofisiche ed energetiche. Energia, un termine derivato dal greco, dato dalla fusione di due parole, “en” dentro ed “ergon”, lavoro, opera. Dunque i “Luoghi d’Energia” non sono altro che porzioni di spazio idealmente o materialmente delimitati in grado di produrre autonomamente e intimamente un lavoro. In altre parole luoghi capaci di estrinsecare energie di varia natura che inevitabilmente si compenetrano e interagiscono con tutte le altre forme di energia, inclusa quella compressa, ovvero, la materia. Associare i due termini ed i significati che sottendono è invero abbastanza arduo ed inusuale almeno per l’uomo moderno, ma questo concetto è stato il fondamento su cui si è basata la ritualità e quotidianità umana in ogni epoca ed ad ogni latitudine. I luoghi d’energia da sempre rappresentato un punto di riferimento, per l’uomo alla ricerca del benessere, della salute fisica ma soprattutto del contatto col trascendente.

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Come dice lo stesso Sergio Costanzo: “Nel corso dei millenni, in virtù delle loro caratteristiche, questi luoghi sono divenuti luoghi di culto, in onore di divinità, le più disparate, o luoghi di cultura e potere. Paradossalmente questo intimo legame tra energia e fede, energia e conoscenza, ne ha decretato l’alienazione e l’oblio. Le nebbie del passato, vanno gradualmente dissolvendosi e da più parti autorevoli voci si alzano, nel tentativo di portare l’uomo, a riappropriarsi di quella cultura e quella conoscenza che gli erano proprie. Purtroppo, agli albori del terzo millennio, vittima consapevole eppur complice di una fretta imperante, l’uomo ha poco tempo e poca voglia di porsi domande e in questo contesto di cultura preconfezionata, preferisce assumere una forma mentis non propria alla quale si conforma e si adatta. Un sapere che era proprio di tutte le culture antiche e che era stato trasmesso e conservato con cura da generazioni di sciamani, sacerdoti, veggenti, sensitivi, druidi, profeti, monaci e architetti. Ecco dunque il perché di questo luogo ideale e materiale, un tentativo modesto di aprire uno spiraglio, di esplorare il nostro mondo, di concepire la Terra come un essere vivo e pulsante capace di agire, reagire e soprattutto interagire con l’uomo e la sua energia. Templi, caverne, menhir, piramidi, moschee, piccole pievi romaniche o maestose cattedrali, chi di noi in certi luoghi non si è sentito almeno una volta accolto, abbracciato, sollevato, e il suo respiro si è fatto sincrono, ritmato, con un respiro più ampio, immenso. Questi luoghi che dalla preistoria hanno richiamato a se l’uomo, sono stati frequentati, armonizzati, modificati, usurpati, ma ancora oggi il battito della terra è forte e presente”.

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Nel loro insieme queste linee costituiscono una sorta di sistema nervoso della Terra, in quanto veicolano nel loro flusso. Il corretto funzionamento del reticolato energetico terrestre è importantissimo per la salute del pianeta e dei suoi abitanti: oggi purtroppo tale funzionamento è gravemente ostacolato da costruzioni e comunità moderne edificate senza alcun rispetto del sacro e dalla continua creazione di forme pensiero dense e negative. L’ “Ipotesi Gaia” (derivato da quello dell’omonima divinità femminile greca, nota anche col nome di Gea) è una teoria di tipo olistico formulata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979 in “Gaia. A New Look at Life on Earth”, trovando poi numerosi consensi nel mondo scientifico e si basa sull’assunto che tutte le componenti geofisiche del pianeta Terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al comportamento e all’azione degli organismi viventi, vegetali e animali: ad esempio la temperatura, lo stato d’ossidazione, l’acidità, la salinità e altri parametri chimico-fisici fondamentali per la presenza della vita sulla Terra presentano un equilibrio variabile nel tempo che evolve in sincronia con il biota.

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Questa teoria ha fatto si che il mondo moderno si riappropri del biocentrismo a discapito di un egoistico antropocentrismo. Mettere al centro dell’universo l’Uomo (un astratto Uomo con la U maiuscola) significa contraddire una banale realtà: senza le piante, gli animali, l’aria, l’acqua, noi uomini non esisteremmo neppure. È un delirio di onnipotenza. Un eccesso di presunzione. È un’illusione su cui si sono strutturati immensi e presuntuosi quanto fragili sistemi di pensiero, che ci hanno separato dal mondo reale portandoci a credere che esista un pensiero puro disincarnato, che tutto sia stato creato per noi, che siamo liberi di abusare di piante, animali e ogni altro elemento naturale. Che siamo i signori e padroni del mondo. Oggi la scienza, con il contributo decisivo dell’ecologia, è arrivata a ripensare in termini completamente nuovi, ma insieme antichissimi, la struttura stessa del mondo in cui viviamo. Una caratteristica basilare dell’ecologia è l’interdisciplinarietà creando una scienza trasversale, che lega fra loro tutte le scienze della natura e dell’uomo, prendendo a modello la natura stessa, in cui tutti i fenomeni sono legati indissolubilmente. Per andare avanti, l’ecologia è tornata alle radici, si è ricollegata a visioni del mondo che erano ritenute primitive, oscurantiste, curiosità antropologiche o che semplicemente erano ignorate.

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È sotto il nome di Gaia che risorge la concezione della Terra come sistema simile a quelli viventi, come unico organismo dotato di capacità di autoregolazione, finalizzata al benessere complessivo di ogni componente della biosfera. Il termine “biosfera” (la sfera del vivente) venne coniato nel 1875 dal geologo e filosofo austriaco Edward Suess. Secondo Suess, il mondo vivente è una “totalità capace di sostentarsi”, che ha un substrato geologico; fa parte integrante della superficie della Terra, interagisce con l’atmosfera (l’aria) e la litosfera (l’involucro esterno solido della Terra, la crosta terrestre, fatta di rocce,in Greco “lithos”). Il primo scienziato, tuttavia, a sostenere che “la Terra è un organismo vivente”, “un singolo organismo gigantesco in evoluzione” fu il mineralogo, radiogeologo e geochimico russo Vladimir I Vernadsky (1863-1945). Prima ancora, diversi scienziati avevano anticipato la concezione della Terra-organismo: nel 1700, lo scozzese James Hutton  dicendo: “Io ritengo che la Terra sia un super-organismo e che il suo studio appropriato debba essere fisiologico”, e il francese Jean Baptiste Lamarck: “I fenomeni viventi non sono a sé stanti, fanno parte di un tutto più vasto, la natura.Sono comprensibili solo alla luce della loro costante interazione con il mondo non vivente”. Nel 1800, il geografo ed enciclopedico francese Eliseé Reclus affermò: “L’uomo è la natura che prende coscienza di sé”. Concetto che sarà ripreso dall’ecologia profonda eliminando anche qui l’antropocentrismo: anche gli alberi, le rocce, i delfini hanno e sono coscienza, seppure diversa da quella umana, intendendo per coscienza l’informazione che appunto in-forma, mette in una forma l’energia sottostante a ogni fenomeno fisico.

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E secondo alcuni pensatori, come il biochimico inglese Rupert Sheldrake, tutta la vita è coscienza, e si evolve sotto l’influenza di “campi morfogenetici”, sorta di memorie cosmiche attive in cui si plasma l’evoluzione. I campi morfogenetici sono “stampi” prodotti dall’accumularsi di esperienze delle forme viventi; così sarebbero i campi morfogenetici entro cui si svilupperebbe l’evoluzione delle forme e delle funzioni. Sheldrake è autore fra l’altro del libro “La rinascita della natura. Un nuovo rapporto tra scienza e divinità. L’ecologia come ‘essere’ e non solo come ‘fare’”, ed. Corbaccio, Milano, 1993. Un esempio di come gli scienziati possano fare “scandalo”, anzi come questo sia il loro mestiere, se fatto bene. L’ipotesi Gaia è una teoria scientifica, ovvero un costrutto mentale provvisorio, che potrà essere modificato in base a nuovi studi e ricerche; non è una verità di fede, una religione, un’interpretazione spiritualista o animista della realtà naturale. Tuttavia ha saputo, al di là delle sue intenzioni, mobilitare l’immaginazione e il sentimento. Oggi è la base di una nuova concezione globale che vede l’essere umano come semplice parte di un tutto molto più grande, non più signore e padrone ma custode della natura e della vita. Riprendendo anche le tradizioni dell’ermetismo (secondo il quale “ciò che è in alto è come ciò che è in basso”), la nuova scienza degli insiemi e la teoria olografica della realtà (quella secondo cui in ogni parte c’è il tutto: la dimostrazione scientifica sarebbe data dalla clonazione, con cui si riesce a ricreare da una cellula l’organismo intero) scoprono che le simbiosi di piccoli organismi (cellule), e le stesse differenziazioni funzionali all’interno di una cellula, sono riprodotte a più grandi dimensioni. Questi “insiemi”, detti anche “oloni”, sono unità autosufficienti ma a loro volta composte da sotto-insiemi, e parti di insiemi più grandi. Una città, come un corpo umano, ha parti dedicate allo studio, alla riflessione, all’immaginazione, all’informazione (come il cervello e il sistema nervoso), al commercio e al nutrimento (come il sistema digerente), all’evacuazione (discariche, fogne), alla circolazione, al trasporto (come il cuore, le vene, la linfa), alla riproduzione, alla produzione. Allo stesso modo, la natura, la biosfera.

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In questo grandissimo organismo, noi siamo una piccola parte, ma importante come lo sono tutte le minime parti; forse possiamo paragonarci ai sensi e al cervello; ma, per altri versi, visto ciò che stiamo combinando all’ambiente, anche a una malattia, a un parassita fastidioso. Vittorioso sul piano tecnologico, economico, militare, l’Occidente deve cercare nuove vie per risolvere le gravi situazioni di squilibrio causate dal suo stesso successo, di fronte alla profonda crisi ambientale, sociale e politica. Il successo si sta ripiegando su se stesso come un guanto. Il disastro attuale delle guerre per il petrolio è un grido di disperazione del grasso occidente che non vuole prendere atto (nei suoi dirigenti-petrolieri-armaioli guerrafondai, non nei milioni di persone sempre più coscienti) che il futuro o sarà ecologico, o non sarà.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Wormhole Superconduttore

wormhole-warp-lines2Il wormhole non è più fantascienza ma un progetto reale, portato alla vita da un’equipe di studiosi italiani. Il team che ha realizzato il sogno di Albert Einstein nei laboratori dell’Università di Napoli Federico II, è capitanato dal fisico Salvatore Capozziello, docente all’Università Federico II di Napoli e ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) nonché presidente delle Società italiana di Relatività Generale e Fisica della Gravitazione (Sigrav). Lo studio è stato postato online su ArXiv (clicca qui per vedere lo studio) ed è in via di pubblicazione sulla rivista International Journal of Modern Physics D; il progetto è in via di definizione con il gruppo di Francesco Tafuri, del dipartimento di Fisica della Federico II.

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Vengono comunemente definiti cunicoli spazio-temporali in grado di collegare un punto con un altro di uno stesso universo o, ancor più suggestivamente, di stabilire una connessione fra un universo ed un altro presumibilmente parallelo al primo. Sono i wormhole (letteralmente ‘buchi di vermi’), sorta di ‘scorciatoie’ che permetterebbero di passare da un punto all’altro di uno o molteplici universi più velocemente di quanto impiegherebbe la luce a percorrere la distanza attraverso lo spazio normale, consentendo al tempo stesso veri e propri viaggi nel tempo. E’ questa la traduzione in pochissime parole di concetti molto complessi propri della fisica più avanzata, sebbene elaborati sulla base di teorie che scienziati come Albert Einstein e Nathan Rosen enunciarono già negli anni ’30 del Novecento ipotizzando l’esistenza di gigantesche strutture cosmiche poi definite appunto ‘ponti di Einstein-Rosen’. A tal proposito la metafora del verme non è affatto casuale: il termine wormhole deriva appunto dall’immaginare che l’universo sia come una specie di mela sulla cui superficie si muova un verme. Ebbene, se questo continuerà a strisciare sulla superficie, la distanza tra due punti opposti della mela sarà pari a metà della sua circonferenza, ma se invece esso scava un foro direttamente attraverso la mela, la distanza da percorrere per giungere a destinazione sarà inferiore. Il cunicolo spazio-temporale di cui gli scienziati ipotizzano l’esistenza in natura, presumibilmente generato da una immane forza gravitazionale che deformerebbe lo spazio-tempo, è idealmente paragonabile proprio a quel buco scavato dal verme nella mela.

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Ha spiegato Capozziello: “Il problema di partenza era spiegare l’esistenza di strutture che, come i buchi neri, assorbono tutta l’energia di un sistema senza restituirla: in pratica ci si trovava di fronte ad una violazione del principio di conservazione dell’energia”. E continua: “La nostra idea era quella di riuscire a simulare gli effetti gravitazionali a energie più basse e dato che è impossibile riprodurre in laboratorio strutture gravitazionali estremamente energetiche e massicce, ci siamo posti la domanda se esistono strutture simili, ma alle dimensioni e alle energie di laboratorio”. Una delle probabili spiegazioni ipotizza che lo spazio-tempo sia bucato.  A questo fine è stato realizzato il minuscolo prototipo ottenuto collegando due foglietti di grafene, una struttura purissima di atomi di carbonio, materiale sottile come uno strato di atomi, resistente come un diamante, flessibile come la plastica e richiestissimo sul mercato delle nanotecnologie, di cui dal giugno del 2014 il più grande centro di produzione europeo è a Como, con legami molecolari e un nanotubo.

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La struttura ottenuta è neutra e stabile, nel senso che al suo interno non entra nulla e nulla fuoriesce, ma quando si introducono dei difetti (perturbazioni) vengono generate delle correnti. “Ci siamo accorti che ‘drogando’ il grafene, cioè mettendo al suo interno degli atomi penta o eptavalenti, cioè con 5 o 7 legami anziché i sei a nido d’ape del grafene puro, succede una cosa interessante: il sistema si ‘attiva’ e si generano correnti entranti e correnti uscenti nel grafene. Nel caso di un legame in meno rispetto al grafene standard otteniamo una corrente elettrica entrante. Con un legame in più la corrente è uscente. Se proiettiamo questo risultato alle scale astrofisiche, allora abbiamo trovato il modo per far passare informazione attraverso il wormhole. In altre parole, controllando i difetti del grafene possiamo controllare il segno dell’informazione: possiamo cioè comunicare con un osservatore che si trova dall’altra parte. Questo passaggio di energia elettrica è importante perché la corrente passa da una parte all’altra del wormhole a resistenza nulla, il passaggio è cioè istantaneo, mentre normalmente all’interno di un materiale si incontrano resistenze e rallentamenti”. Ha quindi aggiunto lo scienziato: “Spostandoci su dimensioni cosmiche, potremmo considerare un osservatore che con la sua navetta si avvicina a un wormhole come un elemento capace di perturbare la struttura: in questo caso sarebbe possibile passare da una parte all’altra del cunicolo spaziotemporale, così come trasmettere segnali da una parte all’altra”.

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Un’ipotesi che senza dubbio fa volare con la fantasia.  Il Principio di Relatività di Einstein stabilisce che non si può viaggiare più veloci della luce, fatto che renderebbe impossibile qualsiasi contatto con altre civiltà extraterrestri, proprio per l’immensa distanza spazio-tempo che ci separa. La produzione del wormhole significa per molti la vittoria sugli scettici di chi crede agli extraterrestri, ora ancor più di prima, in quanto questi cunicoli potrebbero essere delle vere e proprie scorciatoie per spostarsi in poco tempo nell’Universo o addirittura fare viaggi nel tempo.

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Il cinema e la TV sono pieni di esempi in cui si parla dei wormhole:

1) Stargate, scritto e diretto nel 1994 da Roland Emmerich, dove la“porta delle stelle” è costituita da antichi congegni costruiti da una razza aliena e disseminati nelle galassie per favorire viaggi rapidi, anzi istantanei. Primo di una trilogia mai completata generò 3 serie tv: Stargate SG-1, Stargate Atlantis e Stargate Universe.

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2) L’ambientazione della serie tv Star Trek: Deep Space Nine (176 puntate fra il 1993 e il ’99) non è l’astronave ma una stazione spaziale collocata vicino a un wormhole, popolato da misteriose entità extradimensionali venerate dal popolo dei Bajoriani.

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3) Sliders: I viaggiatori (1995-2000) dove si usavano i ponte di Einstein-Rozsen per collegare universi paralleli. Presumendo che la realtà esista come parte di un multiverso, si ci chiede cosa sarebbe successo se grandi o piccoli eventi della storia si fossero svolti in maniera differente (ucronia).

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4) Nel film Sfera di Barry Levinson del 1998, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Crichton,  i protagonisti scoprono che la presunta nave aliena situata a 300 metri sotto l’Oceano Pacifico non è altro che un’astronave americana di circa metà del XXI secolo che si era addentrata in un wormhole ed era ritornata indietro nel tempo di circa 300 anni, precisamente nel 1709, precipitando nel fondo dell’oceano.

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5) Nel film Contact delle intelligenze aliene inviano sulla terra i piani di costruzione di un artefatto che genera un wormhole per raggiungere la stella Vega.

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6) Nel film Thor (Marvel Studios/Paramount-2011) gli dei asgardiani usano il Ponte Bifröst per spostarsi tra i 9 regni che governano: sulla Terra la scienziata Jane Foster pensa che questo mezzo di trasporto sia un possibile Ponte di Einstein-Rosen.

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7) Se la Terra diventa inabitabile speriamo gli alieni ci regalino un wormhole per cercare una nuova casa come nel film Interstellar di Christopher Nolan, Oscar nel 2015 per gli effetti speciali.

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8) Nel film Jumper – Senza confini, i cosiddetti Jumper usano i wormhole per teletrasportarsi in qualsiasi parte del mondo.

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Con questo primo prototipo, costruito in scala microscopica, per il momento si possono solo ipotizzare viaggi di quel tipo. Alla domanda su quali sono gli obiettivi di questo studio Capozziello risponde: “Sono due. Il primo è creare a Napoli o altrove un centro di eccellenza in cui mettere insieme nanotecnologia e cosmologia, quindi l’infintamente piccolo e l’infinitamente grande. Il secondo è accedere a fondi europei, in modo da strutturare il lavoro e dare occasioni di ricerca a giovani studiosi. Vanno messi a punto anche gli aspetti teorici, ad esempio passando in rassegna tutte le soluzioni di wormhole analoghe alla nostra. Diciamo che c’è una sinergia fra gli aspetti puramente speculativi di fisica fondamentale e l’aspetto tecnologico e applicativo di fisica della materia. Sono ottimista. Si è già fatto avanti un importante centro svedese specializzato nelle nanotecnologie. Siamo solo ai primi passi”.

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Pur rimanendo ad ogni modo con i piedi per terra, le implicazioni tecnologiche di quanto osservato dai ricercatori sono importantissime, perché consentirebbero di trasmettere segnali elettrici in maniera estremamente precisa, rapidissima grazie alla superconduttività e a livello atomico. Le applicazioni di tale tecnologia sarebbero pressoché infinite, e al momento la realizzazione di un primo prototipo su scala industriale è lo scopo più immediato: “Il fatto che abbiamo a che fare con correnti autoindotte, quindi generate dalla geometria del sistema, potrebbe dar luogo a molteplici sviluppi. Intanto possiamo ottenere un sistema superconduttore con trasmissione di corrente a resistenza zero, contrariamente a quanto accade nei sistemi elettronici attuali e si potrebbero ottenere, ad esempio, nanostrutture capaci di trasmettere segnali in modo istantaneo poiché la corrente elettrica passerebbe nel vuoto. Un altro vantaggio è che stiamo usando carbonio, un elemento reperibilissimo in natura”. In altre parole, un wormhole superconduttore. Niente male, in attesa di quello gravitazionale.

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E per concludere, alla domanda se finalmente siamo arrivati a costruire la macchina del tempo il professore chiude: “L’unica certezza è che questo è un wormhole che permette il passaggio di corrente elettrica con estrema precisione, non è una macchina del tempo. Da qui a costruirne una potrebbero passare 100 anni ma la scoperta è comunque di quelle che possono avere ripercussioni tecnologiche significative nella nostra vita. La ricerca scientifica non è mai esercizio vano. Detto questo è bello e umano sognare e continuare a cercare di capire chi, dove siamo e il perché?”.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Fast Radio Buster: Naturali o Artificiali?

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Un Fast Radio Buster (FRB), in italiano lampo radio veloce, è un fenomeno astrofisico di alta energia che si manifesta come un impulso radio transitorio, con durata di pochi millisecondi. Si tratta di lampi molto luminosi nella banda radio provenienti da regioni del cielo esterne alla Via Lattea. La denominazione di ciascun lampo radio veloce è composta dalla sigla FRB seguita dalla data di rilevazione nella forma “AnnoMeseGiorno”. L’universo di per sé e i suoi innumerevoli corpi celesti, emettono segnali radio che però costituiscono una sorta di rumore di fondo, da filtrare per cercare di isolare quei segnali ritenuti interessanti e aventi specifiche caratteristiche. Per comprendere l’importanza della scoperta è necessario fare qualche passo indietro. Fino a una decina di anni fa, gli astronomi non sapevano nemmeno che esistessero i fast radio burst. Il primo fu scoperto quasi per caso nel 2007, il fenomeno divenne noto come il “lampo di Lorimer”, durante una revisione di alcuni dati forniti dal Parkes Observatory nel New South Wales in Australia. Da Parkes sono stati rilevati ben 16 dei 18 FRB scoperti tra il 2001 e il 2016.

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L’osservatorio ha come suo strumento principale un radiotelescopio con una parabola di 64 metri di diametro, con una gloriosa storia di oltre 50 anni alle spalle (ebbe per esempio un ruolo centrale per captare le trasmissioni tv in diretta dalla Luna quando ci fu l’allunaggio nel 1969). A differenza dei classici telescopi che osservano la luce visibile, un radiotelescopio rileva le onde radio emesse dai corpi celesti nell’Universo, consentendo quindi di spingersi molto più lontano nelle osservazioni rispetto a un normale telescopio con specchi e lenti. I radiotelescopi più potenti sono costituiti da una serie di antenne paraboliche, che lavorando insieme permettono di captare segnali a seconda del punto dell’Universo verso cui sono puntate. Un radiotelescopio deve essere puntato verso la direzione giusta e al momento giusto per captare un segnale che dura pochissime frazioni di secondo e che, nella maggior parte dei casi, non si ripeterà mai più. Anche se molti radiotelescopi sono costituiti da svariate parabole dal diametro di decine di metri, la porzione di cielo che può essere coperta da un’osservazione è infinitesimale, se comparata con la vastità della volta celeste.

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 La mancanza di una spiegazione convincente sulla loro causa ha portato a numerose ipotesi. Secondo alcuni, i fast radio burst si producono quando le stelle di neutroni (stelle iperdense, ciò che resta di un’esplosione stellare verso la fine del ciclo vitale di una stella) si scontrano tra loro o con altri corpi celesti. Altri ricercatori hanno ipotizzato che a generare i FRB siano alcune sfortunate stelle, pochi istanti prima di essere completamente risucchiate in un buco nero, mentre c’è chi teorizza che i repentini segnali radio siano prodotti dalle magnetar, stelle di neutroni con un campo magnetico gigantesco (miliardi di volte superiore a quello della Terra), che producono grandi emissioni elettromagnetiche. Nel 2010 fu annunciata la scoperta di altri sedici impulsi radio, rilevati sempre dall’osservatorio di Parkes e che presentavano caratteristiche analoghe a FRB 010724, salvo il fatto di essere di chiara origine terrestre. La scoperta dei pèriti (peryton in inglese), come furono chiamati, gettò un’ombra sull’interpretazione extragalattica per il lampo di Lorimer almeno fino al 2015, quando fu identificata la loro causa: i pèriti si manifestavano quando veniva aperto lo sportellino di un forno a microonde ancora in fase di riscaldamento in prossimità del telescopio.

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 I FRB sono molto sfuggenti ed è estremamente difficile localizzare il loro punto di origine in aree remote dell’Universo. La costanza è stata ripagata un paio di anni fa, quando è stato rilevato un fast radio burst  con una caratteristica che lo rende unico, almeno fra quelli conosciuti: si ripete. Sì chiama FRB 121102, dalla data della prima rilevazione, avvenuta il 2 novembre 2012 con l’antenna di Arecibo, nell’isola di Porto Rico. Nel novembre del 2015, l’astronomo Paul Scholz della McGill University di Montreal ha trovato, in dati di archivio di Arecibo, tra maggio e giugno del 2015, dieci ripetizioni non periodiche di un lampo radio veloce che per misura della dispersione e direzione della sorgente erano compatibili proprio con FRB 121102.

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Ciò ha portato innanzitutto ad ipotizzare che la causa dei lampi radio veloci non possano essere dei fenomeni distruttivi, come la collisione di buchi neri o stelle di neutroni, che non sarebbero ripetibili. Nel dicembre del 2016 è stata segnalata la scoperta di altre ripetizioni nella stessa porzione di cielo, date dalle osservazioni svolte dall’antenna di Arecibo e da un gruppo di ricerca guidato da Shami Chatterjee, della Cornell University, che ha utilizzato le 27 parabole dei radiotelescopi del Very Large Array (VLA) nel New Mexico. Le coordinate ottenute sono state poi inserite negli strumenti dell’Osservatorio Gemini, che ha un telescopio ottico nell’emisfero nord (Hawaii) e uno in quello sud (Cile), e finalmente nel gennaio 2017 è stato annunciato che lo studio ha permesso di identificare la sorgente del segnale in una piccola galassia nana (pochi miliardi di stelle a fronte dei 200/400 miliardi della nostra, la Via Lattea) distante oltre 3 miliardi d’anni luce dalla Terra, vicino la costellazione dell’Auriga. La scoperta, che si è guadagnata la copertina di Nature, è stata possibile grazie anche alla collaborazione con le antenne della European VLBI Network (EVN),fra le quali quella da 32 metri di Medicina dell’INAF, in provincia di Bologna, controllati dal JIVE (Joint Institute for VLBI in Europe) in Olanda.

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«La sensibilità combinata dei telescopi della rete EVN, la grande distanza che li separa l’uno dall’altro e le capacità uniche del processore dati centrale di JIVE, permettono di individuare eventi di appena un millesimo di secondo con una precisione di puntamento in cielo di circa 10 milliarcosecondi: equivalenti più o meno alla dimensione apparente che avrebbe, vista dai Paesi Bassi, una palla da tennis situata a New York», dice uno dei coautori dell’articoli, Zsolt Paragi, del JIVE. «I fast radio bursts sono uno fra i più interessanti fenomeni astrofisici scoperti nel corso degli ultimi dieci anni. Dieci anni durante i quali non eravamo ancora riusciti a individuare l’esatta provenienza di queste esplosioni energetiche. La nuova scoperta, realizzata anche grazie alla partecipazione dei radiotelescopi che abbiamo in Italia è motivo di grande eccitazione, perché fornisce un’informazione nuova e cruciale per comprendere la fisica di questo fenomeno: la distanza dell’oggetto d’origine, individuato con precisione in una remota galassia», sottolinea Steven Tingay, responsabile dell’Unità Scientifica per la radioastronomia dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e direttore dell’Istituto di Radioastronomia dell’INAF di Bologna. Sapere che l’origine di FRB 121102 si trova in una galassia nana può essere un indizio cruciale per determinarne la natura. Il gas presente in queste galassie è relativamente primitivo, almeno rispetto a quello che incontriamo nella Via Lattea e offre dunque un ambiente favorevole alla formazione di stelle assai massicce. Osservando ciò gli scienziati suggeriscono che una possibile causa degli FRB sia proprio il collasso di una di queste stelle. «Tuttavia, dobbiamo essere prudenti», raccomanda Tingay riguardo alle congetture sul possibile meccanismo d’origine. «La storia decennale dello studio degli FRB è una storia di false partenze e di vicoli ciechi, tre passi avanti e due indietro. Non dimentichiamo, poi, che questo particolare FRB è molto speciale: della ventina che conosciamo, è l’unico che si ripete. Pertanto, è anche possibile che a produrlo non sia lo stesso tipo di processo alla base degli altri. In ogni caso, è un risultato che segna un importante progresso in quest’affascinante ambito di ricerca». Spiega Daniele Malesani, astronomo italiano presso l’Università di Copenhagen, che ha partecipato alla campagna osservativa successiva alla scoperta del FRB 121102 «Dai calcoli si può stimare che in pochi millesimi di secondo quella sorgente ha liberato tanta energia quanta quella che in nostro sole irraggia in un giorno intero».

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Ci sono altri 3 importanti FRB che sono stati studiati in questo decennio e sono quello scoperto da Masui, astronomo presso la University of British Columbia e il Canadian Institute for Advanced Research e Jonathan Sievers, dell’Università di KwaZulu-Natal a Durban, in Sud Africa, denominato FRB 110523, l’ FRB 150418 rilevato a Parkes in Australia e studiato anche dal Sardinia Radio Telescope (SRT) dell’INAF e dal telescopio Subaru dell’Osservatorio Nazionale del Giappone (NAOJ), sulle isole Hawaii e quello catturato da da Vikram Ravi del Caltech e Ryan Shannon della Curtin University, rinominato FRB 150807. Il primo è importante perché conteneva dettagli sulla sua polarizzazione che non erano mai stati identificati fino ad allora infatti prima della rivelazione di questo segnale, ai FRB era stata associata solo una polarizzazione circolare ma grazie ad esso è stato possibile individuare sia la polarizzazione circolare che quella lineare. La polarizzazione è una proprietà della radiazione elettromagnetica e indica sostanzialmente l’orientamento dell’onda. Gli occhiali da sole polarizzati sfruttano questa proprietà per bloccare una parte dei raggi solari e i film in 3D la usano per ottenere l’illusione della profondità. I ricercatori hanno utilizzato queste informazioni aggiuntive per determinare che il segnale radio del FRB presentava rotazione di Faraday, una torsione che le onde acquisiscono passando attraverso un intenso campo magnetico. «Sepolto all’interno di un set di dati enorme, abbiamo trovato un segnale molto particolare, che mostrava tutte le caratteristiche note di un Fast Radio Burst, ma anche una componente di polarizzazione in più, mai osservata prima”, ha detto Sievers. Inoltre, le misure di dispersione caratteristiche dei lampi radio, che hanno permesso di scartare altri segnali in una mole di dati di 40 terabyte, possono essere utilizzate per ottenere la regione a cui appartiene la sorgente infatti questo segnale è stato collocato in maniera molto precisa a 6 miliardi di anni luce. In questo caso, la misura esclude i modelli che chiamano in causa le stelle della nostra Galassia e, per la prima volta, dimostra che il FRB deve aver avuto origine in un’altra galassia. «Presi insieme questi dati ci danno più informazioni sui FRB di quante ne abbiamo mai ottenute, e ci forniscono importanti vincoli su questi eventi misteriosi», conclude Masui. «Inoltre, ora abbiamo un nuovo strumento molto interessante che snellisce la ricerca nei dati d’archivio, e questo ci permetterà di scoprire altri FRB e di avvicinarci ad una comprensione migliore della loro natura».

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Il secondo è stato molto studiato perché il segnale radio, pur affievolendosi progressivamente, è stato registrato per circa 6 giorni. Grazie a queste informazioni i ricercatori sono riusciti a individuare la posizione del FRB con una precisione circa 1000 volte migliore rispetto agli eventi precedenti infatti è stata identificata in una remota galassia ellittica, distante circa 6 miliardi di anni luce da noi.  L’osservazione ottica ha permesso anche di misurare il redshift, cioè la velocità alla quale la galassia si allontana da noi a causa dell’espansione accelerata dell’Universo. Oggi i modelli teorici predicono che l’universo sia composto per il 70% di energia oscura, per il 25% di materia oscura e per il 5% di materia ordinaria, quella di cui facciamo esperienza quotidiana. Tuttavia gli astronomi, pur facendo la lista di tutta la materia ordinaria che osserviamo nelle stelle, nelle galassie e nelle vaste regioni permeate di idrogeno diffuso, erano riusciti finora a identificare solo circa la metà della materia ordinaria attesa: il resto non poteva essere visto direttamente, ed è stato dunque denominato come “materia mancante”. “La buona notizia è che le nostre osservazioni sono in accordo col modello teorico: abbiamo trovato la materia mancante” affermò Evan Keane, Project Scientist presso la Square Kilometre Array Organisation, e continuò“ È la prima volta che un lampo radio viene utilizzato per condurre una misura cosmologica”.

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Il terzo è il più luminoso di tutti e Andrea Possenti, astronomo dell’Istituto Nazionale di Astrofisica commentò: «Lo studio aggiunge un esemplare, il più brillante, ad una famiglia finora poco numerosa e che quindi si arricchisce sostanzialmente con l’inserimento di ogni nuovo membro. In più, rispetto alle due decine di FRB noti, questo FRB ha il vantaggio di mostrare una percentuale di polarizzazione lineare elevatissima, dell’ordine dell’80 per cento. Ciò ha permesso una determinazione accurata della cosiddetta “misura di rotazione”, ossia dell’effetto prodotto dal campo magnetico attraversato dal segnale radio sulla direzione della polarizzazione del segnale stesso».

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Ma un nuovo studio, pubblicato su Astrophysical Journal Letters, ipotizza che questi fenomeni misteriosi potrebbero in realtà essere associati ad altre forme di vita nello spazio. Addirittura, potrebbero costituire una prova di tecnologia aliena avanzata: futuristici trasmettitori delle dimensioni di un pianeta, costruiti per alimentare sonde interstellari in galassie distanti. Ad ipotizzare che possano essere segnali artificiali, e quindi provenienti da una ipotetica civiltà aliena, non è l’ennesima e fantasiosa ipotesi di un qualche ufologo, ma di alcuni astrofisici di tutto rispetto dello statunitense Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics. Dopo dieci anni di ascolto di radiosegnali provenienti dall’universo, il team di esperti, coordinato da Manasvi Lingam e Abraham Loeb, racconta sulla rivista Astrophisical Journal Letters come tali fenomeni, potrebbero essere potenti segnali creati dalla tecnologia molto avanzata di una lontana popolazione aliena. Uno scenario fantascientifico? Non così tanto, secondo Loeb: “I segnali radio veloci sono estremamente luminosi, considerando la loro breve durata e il fatto che le loro sorgenti sono molto distanti. Non abbiamo ancora trovato una fonte naturale plausibile, quindi vale la pena contemplare l’ipotesi che possa esistere una fonte artificiale”. Loeb e Lingam hanno esaminato la fattibilità di creare un trasmettitore radio abbastanza forte da essere rilevabile a distanze così immense. Hanno scoperto che, se il trasmettitore è alimentato da luce solare, la luce concentrata su un’area pari a un pianeta di dimensioni due volte quelle della Terra potrebbe essere sufficiente a generare l’energia richiesta. Un progetto costruttivo di questo genere è ben al di là della nostra tecnologia, ma non è in contrasto con le leggi della fisica. Inoltre hanno preso in considerazione il fatto che un simile trasmettitore possa essere sostenibile da un punto di vista ingegneristico o se le immense energie coinvolte potessero fondere ogni struttura sottostante. Nuovamente hanno scoperto che un dispositivo raffreddato ad acqua potrebbe far fronte al calore. Hanno calcolato anche quale potrebbe essere la dimensione di una “sonda” spinta da un’energia simile a quelle dei FRB, giungendo alla conclusione che potrebbe pesare anche un milione di tonnellate, ossia oltre 20 volte le nostre più grandi navi da crociera. «Si potrebbe immaginare una nave interstellare, o intergalattica, in grado di trasportare un gran numero di persone per generazioni intere: una nave generazionale», commenta Loeb.“Sarebbero, quindi, abbastanza grande per il trasporto di persone tra le distanze interstellari o anche intergalattiche” spiega Lingam. Dalla Terra quello specifico impulso radio potrebbe essere osservato solo per un breve instante, perché l’ipotetica astronave, il pianeta di partenza così come la stella e la galassia sono in movimento.

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“Questo straordinario risultato indica un fenomeno astronomico ancora sconosciuto o inusuale, o potrebbe indicare che si tratta di una vasta rete di comunicazione aliena, e che l’universo pullula di forme di vita intelligenti”, afferma Nigel Watson, autore del famoso libro “Manuale sulle indagini sugli UFO”. E continua: “Ogni segnale insolito dallo spazio ci incoraggia a chiederci se questo provenga da una civiltà aliena. Questo segnale sembra così sfuggente e difficile da interpretare e dovrebbe essere un candidato per ulteriori analisi. Sarebbe fantastico se si trattasse di un segnale alieno, come la consapevolezza che non siamo soli in questo vasto universo avrebbe un impatto drammatico sulla nostra percezione del nostro posto nello schema delle cose.” Loeb  comunque ha sottolineato che tutto ciò è una pura ipotesi speculativa, ma alla domanda se crede davvero che gli FRB possano essere emissioni artificiali ha risposto: «La scienza non è una materia di fede ma di prove. Decidere cosa è probabile, prima di una ricerca, limita la ricerca stessa. Vale sempre la pena avanzare nuove idee e ipotesi, e lasciare che siano poi i dati a parlare».

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

I PRIMI NEANDERTHAL ERANO ROMANI

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Viveva a Roma la più antica comunità di Neanderthal di cui sia mai stata trovata traccia diretta in Europa. Lo dimostra uno studio condotto dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), in collaborazione con i paleontologi delle Università della Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, e dell’Università americana del Wisconsin-Madison, su resti di ossa animali, su alcuni strumenti litici e su due crani appartenenti all’uomo di Neanderthal, il primo rinvenuto nel 1929 dal duca Mario Grazioli, proprietario della cava di ghiaia di Sacco Pastore, località della campagna romana sulla riva sinistra del fiume Aniene, il secondo nel 1935, nella stessa località, dai paleoantropologi Alberto Carlo Blanc e Henri Breuil, conservati presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma.

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Alberto Carlo Blanc e Henri Breuil.

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Crani di Sacco Pastore

I risultati, pubblicati sulla rivista Plos One (clicca qui per leggere l’intero studio), aprono nuovi scenari sulle tappe dell’evoluzione dell’uomo e sui flussi migratori attraverso il Vecchio Continente.  La conferma è venuta dal riesame dei resti fossili di daini, ritrovati insieme ai resti umani, appartenenti alla sottospecie Dama dama tiberina, caratteristici dello stadio isotopico tra 8.5 e 7, che equivale ad un intervallo di tempo ben definito tra 295mila e 245mila anni fa. I dati faunistici, uniti agli strumenti in selce dell’industria litica preistorica ritrovati in quattro località vicine a Sacco Pastore (Ponte Mammolo, Sedia del Diavolo, Casal de’ Pazzi e Monte delle Gioie), confermano che quel territorio non può essere più giovane di 200mila anni, in sostanziale accordo con la stima geologica, di un’età di circa 250mila. La scoperta è importante se si considera che la stessa età di 295mila anni è stata ipotizzata dai paletnologi inglesi per gli strumenti in selce ritrovati sui terrazzi fluviali del Solent river, poco a sud di Londra, che sono attribuiti alle prime presenze dell’uomo di Neanderthal in Europa.

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“Sono più vecchi di oltre 100.000 anni rispetto a quanto sinora ritenuto, portando l’età del Neanderthal in Italia a 250.000 anni fa”, rileva il responsabile dello studio, Fabrizio Marra, dell’INGV. E continua: “il lavoro è partito dal punto in cui i ricercatori erano giunti un anno e mezzo fa, quando avevano dimostrato, attraverso la correlazione tra cicli sedimentari e variazioni globali del livello del mare, che i terreni in cui erano stati ritrovati i due crani erano molto più antichi di quanto sino allora ritenuto. Si è evidenziato che nessuno di questi reperti presenta caratteri tali da implicare un’età di 125.000 anni, come ipotizzato negli studi precedenti, mentre risultano del tutto compatibili e oltremodo simili ai sedimenti attribuiti e datati 250.000 anni”. “I resti della Valle dell’Aniene costituiscono la più antica evidenza diretta della presenza dell’uomo di Neanderthal sul continente europeo”, precisa Marra. “Gli uomini di Neanderthal potrebbero essere stati pertanto i protagonisti di una nuova antropizzazione dell’Europa avvenuta più di 250.000 anni fa: anche allora passando attraverso un’Italia ospitale, almeno dal punto di vista climatico, dove proprio nella sua capitale avrebbero stabilito una delle prime comunità”.

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I resti portati alla luce in Italia non sono molto numerosi rispetto all’Europa continentale. Prima di questo studio, l’esemplare di Neanderthal più antico ritrovato in Italia era l’Uomo di Altamura, scoperto in Puglia, incastonato in una cava di calcare nel 1993. Le analisi dei depositi di calcio sullo scheletro datano il reperto dai 128.000 ai 187.000 anni fa. Lo scheletro è rinomato per aver fornito il più antico campione di DNA estratto da sempre da un uomo di Neanderthal.

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Anche in Calabria sono stati ritrovati alcuni di questi rarissimi resti: una porzione cranica a Nicotera (Vibo Valentia) in Contrada Ianni di San Calogero e una mandibola a Reggio Calabria nel quartiere Archi.

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Le ultime tracce dei Neanderthal si perdono in Crimea sul massiccio Ak-Kaya. Qui Neanderthal e Sapiens vissero insieme per un certo periodo di tempo, nelle stesse condizioni climatiche e ambientali.

I Neanderthal prendono il nome dalla valle di Neander presso Düsseldorf, in Germania, dove vennero ritrovati i primi resti fossili. Erano simili agli esseri umani in apparenza, anche se erano più bassi e tarchiati. I loro volti generalmente presentavano un naso largo, una arcata sopraccigliare prominente e zigomi angolati. Sono i nostri parenti estinti più stretti. Fiorenti in Europa per gran parte del Pleistocene, i resti dei Neanderthal sono stati trovati in tutto il continente, dalla costa del Mar Nero della Russia alla costa atlantica della Spagna. Fu un “Homo” molto evoluto, in possesso di tecnologie litiche elevate e dal comportamento sociale piuttosto avanzato, al pari dei Sapiens di diversi periodi paleolitici. Convissuto nell’ultimo periodo della sua esistenza con lo stesso Homo Sapiens, l’Homo Neanderthalensis scomparve in un tempo relativamente breve, evento che costituisce un enigma scientifico oggi attivamente studiato. Le presunte teorie vanno dagli effetti dei Sapiens, attraverso una maggiore competizione violenta per il cibo e per le risorse, dalla trasmissione involontaria di fatali malattie o dalla selezione sessuale,  al cambiamento climatico o anche ad una importante eruzione vulcanica. L’analisi del DNA ha rivelato che il genoma dell’Homo Sapiens e dell’Homo Neanderthalensis è identico al 99,84% e che hanno meno di 100 proteine che differiscono nella loro sequenza amminoacidica. Tuttavia, nonostante la strabiliante somiglianza genetica, le due specie contano differenze fondamentali. In altre parole, le differenze tra le due specie potrebbero essere valutate con una serie di interruttori on/off che attivano o meno parti del DNA.

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Sapiens e Neanderthal si incrociarono più volte nell’Europa di 50 mila anni fa, ma non furono in grado di generare prole sana, in particolare, figli maschi in grado di perpetuare un nuovo mix umano. Lo rivela uno studio di Michael Barton, archeologo della School of Human Evolution and Social Change dell’Arizona State University, sulla genetica dei nostri lontani “cugini” effettuato non sul DNA mitocondriale (quello trasmesso dalla madre), ma sul cromosoma Y di un maschio Neanderthal vissuto a El Sidrón (Spagna) 49 mila anni fa. Le analisi dimostrano che quel cromosoma sessuale è completamente diverso da quello dell’uomo moderno: in pratica, del cromosoma Y dei Neanderthal non c’è più traccia nel DNA dei maschi Sapiens. E questo, nonostante europei ed asiatici abbiano ereditato dall’1 al 3% del patrimonio genetico (si parla di un 20%, forse di un 30%, se invece si considera complessivamente tutto il materiale genetico) dei vicini ominidi come afferma uno studio di Svante Pääbo dell’Harvard Medical School di Boston, uno dei fondatori della paleogenetica. Il DNA del Neanderthal spagnolo presenta mutazioni in tre diversi geni immunitari, uno dei quali produce antigeni che scatenano una risposta immunitaria nelle donne incinte, causando l’aborto dei feti maschi recanti quel gene. In pratica, anche se Sapiens e Neanderthal si incrociarono, anche in tempi relativamente recenti, furono incapaci di generare maschi sani: rimasero vicini, ma separati. Una distanza che avrebbe decretato il declino definitivo dei Neanderthal. Generazione dopo generazione, il DNA dei Neanderthal si sarebbe disperso, assorbito da quello delle popolazioni di Homo Sapiens, molto più numerose.

I Neanderthal comunque sono tra noi. Meglio, dentro di noi con una variante di un gene che regola le funzioni della cheratina, una proteina che aiuta la pelle, i capelli e le unghie che ci avrebbe avvantaggiato in un ambiente freddo. Ma anche con varianti correlate al diabete di tipo 2, alla malattia di Crohn, alla cirrosi biliare, al lupus. Sarebbe questa l’eredità dei Neanderthal che noi Sapiens ci portiamo dietro da almeno 40 mila anni.

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 Il businessman della valle di Neander che veste Armani al Neanderthal Museum di Mettmann in Germania.

 

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters