I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (1° Parte)

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Iniziamo quest’altra rubrica sulla Calabria, dopo aver evidenziato bellissimi castelli, aree archeologiche, miti e leggende, o Città fantasma. Questa volta vogliamo parlarvi di personaggi noti e meno noti, da Filosofi a Scienziati o Letterati, di cui tutti conoscono il nome, ma non hanno la benché minima idea della loro influenza nel mondo. Parliamo di personaggi storici di diverse epoche, i quali con la loro saggezza e genialità hanno ispirato personaggi più noti, ma non per questo superiori. Siamo sempre più consapevoli che per portare il nome della nostra Regione oltre i confini locali è necessario prendere coscienza, noi per primi, dei nostri tesori e della nostra storia. Ma altrettanto importante è conoscere le opere e le attività, e non solo i nomi, dei nostri figli più illustri. Quanti di voi hanno parcheggiato la loro auto in una via che per molti è un nome, hanno trascorso del tempo in una piazza, senza sapere a chi fosse dedicata? Alcune hanno nomi altisonanti Kennedy, Mazzini che difficilmente possono non essere conosciute, ma altre hanno nomi di uguale se non addirittura maggiore importanza, ma spesso ignoriamo di chi stiamo parlando. L’idea di questo articolo in realtà nasce qualche anno fa quando per trovare un negozio nella mia città (Cosenza) ho dovuto usare il tom tom, che ovviamente mi indicava tutte le vie e piazze che avrei dovuto attraversare. Proprio lì mi sono reso conto di quanti nomi trascuravo l’origine. E’ nata da lì una curiosità e quindi una ricerca e uno studio su questi personaggi. Oggi spero di fare cosa gradita iniziando con questi primi nomi, in realtà sono tantissimi, concentrandomi principalmente su personaggi Calabresi.
Avendo citato la mia “diletta” città non posso che iniziare dal grande Filosofo Bernardino Telesio. Vi indicherò quindi per lui come per gli altri alcuni cenni principali sperando di accendere la curiosità e la voglia di bramare altro. Sono tutti dati facilmente reperibili sul web, ma la speranza è che leggendo delle loro vite e dei loro pensieri,in questa carrellata, si possa generare la volontà di riscoprire i loro studi.

BERNARDINO TELESIO

Nato a Cosenza nel 1509 da famiglia nobile, riceve una buona formazione classica sotto la guida dello zio Antonio, umanista e poeta, che il giovane Bernardino seguirà, a partire dal 1517, anche nei suoi spostamenti verso Milano, Roma (dove avrà modo di stabilire contatti e legami con esponenti del mondo ecclesiastico e della stessa curia papale) e Venezia. Dopo un probabile passaggio nell’ambiente universitario padovano e un periodo di meditazione solitaria in un convento benedettino sulla Sila, sposa Diana Sersale. Nel 1563 è a Brescia, per incontrare un autorevole aristotelico, Vincenzo Maggi, professore a Padova e a Ferrara, e sottoporre al suo giudizio le tesi filosofiche che ha ormai intenzione di divulgare. Incoraggiato dal parere positivo di Maggi, nel 1565 pubblica a Roma, presso Antonio Blado, il De natura iuxta propria principia, in due libri. Dopo un prolungato soggiorno romano, Telesio torna stabilmente a vivere a Cosenza, pur mantenendo legami molto forti con la città di Napoli, e in modo particolare con la casa di Ferrante Carafa, dove troverà costante ospitalità e protezione. E proprio a Napoli, nel 1570, vede la luce la seconda versione del De natura, ancora in due libri, ma ampiamente corretta e rielaborata e con un titolo lievemente modificato: De rerum natura iuxta propria principia. Contestualmente, presso il medesimo stampatore napoletano Giuseppe Cacchi, Telesio fa uscire anche tre opuscoli: il De colorum generatione, il De mari e il De his quae in aëre fiunt et de terraemotibus. Nel 1586, ancora a Napoli, viene pubblicata l’ultima (e definitiva) rielaborazione del De rerum natura, in nove libri. In questo giro di anni Telesio compone o riordina pure diversi opuscoli di argomento fisico e medico-fisiologico, spesso polemici nei confronti dell’Aristotele dei Meteorologica e di Galeno. Dopo la sua morte, avvenuta a Cosenza nel 1588, nove di essi saranno pubblicati dall’allievo Antonio Persio sotto il titolo di Varii de rebus naturalibus libelli(Venezia 1590). Nel 1596 il De rerum natura e gli opuscoli Quod animal universum ab unica animae substantia gubernatur e De somno (entrambi inclusi nella silloge del 1590) saranno inseriti, sia pure con la clausola attenuante donec expurgentur, nell’Indice dei libri proibiti promulgato da Clemente VIII. Ma l’expurgatio sarà presto liquidata dagli organismi censori come impossibilis, trasformando la condanna condizionata in un divieto integrale, destinato a soffocare bruscamente, come nel caso delle tante proibizioni di quegli anni, un dibattito culturale tutt’altro che periferico o irrilevante.


Principi e forze del mondo naturale
Il laboratorio degli scritti telesiani è particolarmente complesso e intricato. Perennemente insoddisfatto delle soluzioni via via individuate e fermate nelle edizioni a stampa e, insieme, preoccupato per le reazioni degli avversari e delle autorità ecclesiastiche, il filosofo sottopone i suoi scritti a una revisione continua, instancabile. E questo è vero soprattutto nel caso dell’opera maggiore, con le sue tre stesure a stampa, le redazioni intermedie, il costante movimento di varianti. Riarticolata senza posa, la posizione telesiana resta tuttavia sostanzialmente immutata nei suoi tratti distintivi e nelle linee di fondo.L’obiettivo principale del filosofo è quello di superare l’immagine aristotelica del mondo. L’esercizio della sensibilità rivela che quel che agisce in natura non sono le forme sostanziali, le cause o le qualità aristoteliche, ma piuttosto due principi attivi o forze fondamentali, creati da Dio all’inizio del mondo. Questi principi sono il calore e il freddo. Il calore ha la sua sede nel Sole, il freddo nella Terra.Il Sole e i cieli, in quanto corpi ignei e caldi, si muovono per virtù propria, per un moto naturale che non necessita, per essere spiegato, del ricorso al primo motore o alle intelligenze motrici della tradizione aristotelica. Mentre la Terra, principio del freddo, rimane necessariamente immobile e inerte al centro dell’universo (di conseguenza, nessuna apertura, nella filosofia telesiana, a suggestioni copernicane).Le due forze universali, incorporee, necessitano di un sostrato fisico su cui esercitare la propria attività. Telesio identifica questo supporto o principio passivo nella materia o mole corporea, la quale, di per sé inerte, subisce innumerevoli trasformazioni indotte dal calore e dal freddo, nel loro contrasto perenne per il predominio e la reciproca assimilazione, in cui gioca un ruolo fondamentale il principio di autoconservazione. Il caldo è forza che illumina, riscalda, alleggerisce, dilata la materia e la mette in movimento; mentre il freddo la condensa, ispessisce, appesantisce e immobilizza.E proprio da questo rapporto, ed equilibrio, fra contrari la natura trae la spinta al divenire e la possibilità stessa della vita: il calore celeste si diffonde sulla Terra e dalla tensione, dalla polarità fra i due principi si originano tutti i fenomeni e i processi, compresa la generazione degli esseri viventi, la cui diversità, complessione e grado di vitalità è correlata alla quantità di calore e movimento da essi recepita.In natura si dà quindi una sostanziale unità e continuità: fra cielo e terra, dato che i corpi celesti sono ignei, e dunque né eterei, né impassibili, né inalterabili; e fra i diversi enti, dato che la differenza tra esseri inorganici, animali e uomo appare legata a una differenza di grado e non di natura.
L’uomo fra spiritus e anima
Anche l’uomo, che Telesio colloca al vertice degli enti mondani superiori, è immerso in questa dimensione squisitamente naturale. La sua complessione fisica, ma anche i meccanismi della conoscenza e della vita morale sono il prodotto e l’espressione di un processo cosmico più generale: come per ogni altro ente, anche nell’uomo il calore celeste si concentra e si caratterizza in una porzione di materia terrena, pervadendola e in certo modo strutturandola come organismo vivente. A partire da questo presupposto, Telesio individua il criterio ultimo di spiegazione dei processi conoscitivi umani nel concetto di spiritus. Lo spiritus è il luogo in cui, nei corpi animati, si specifica e si manifesta al suo livello più alto e acuto la sensibilità (cioè la capacità di percepire modificazioni o alterazioni) di cui ogni ente, nella natura telesiana, è dotato. “Simile e parente del cielo”, vale a dire espressione della vita universale del cosmo, lo spiritus è una sostanza materiale estremamente sottile e rarefatta, generata dal principio del calore, capace di movimento, coestensiva ai corpi e quindi mortale. Nella psicologia e nella gnoseologia telesiana lo spiritus presiede alle funzioni vitali dell’uomo e, in quanto organo e strumento non solo della sensazione, ma di ogni possibile attività conoscitiva (dall’immaginazione alla memoria, allo stesso esercizio dell’intelligere), assorbe e riassume in sé le funzioni tradizionalmente proprie dell’anima.

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Preoccupato di annullare in questo modo ogni tratto di specificità umana, Telesio accosterà successivamente al concetto di anima/spiritus, “generata dal seme” e quindi materiale e mortale, l’immagine di una mens superaddita, vale a dire un’anima superiore e immortale, infusa direttamente da Dio (substantia a Deo immissa). Questa seconda anima, tuttavia, non sembra esercitare alcuna funzione conoscitiva specifica; il suo ruolo, e il suo senso, attengono piuttosto alla dimensione pratico-morale: essa si pone all’origine dell’aspirazione dell’uomo a valori soprasensibili ed eterni, trascendenti la semplice dimensione della vita naturale. E proprio in base a questo ordine di considerazioni, è motivo di discussione fra gli interpreti se questa duplicazione di anime sia frutto di una effettiva evoluzione della riflessione telesiana oppure una misura meramente prudenziale, una concessione all’ortodossia metafisica e teologica.

Dalla conoscenza alla morale
Nonostante le cautele (o i compromessi), anche sul terreno delicato e scivoloso dell’etica Telesio non rinuncia al suo deciso naturalismo. Nell’ultimo libro del De rerum natura (1586) egli declina e sviluppa i presupposti della sua gnoseologia sul piano della morale, delineando una fenomenologia dei vizi e delle virtù dominata dall’azione dello spiritus, e ancora una volta ispirata al concetto chiave di autoconservazione. Nel contatto con le cose, lo spiritus prova sensazioni piacevoli oppure dolorose. Ciascun ente percepisce con piacere (e tende quindi a ricercare) eventi e fenomeni volti a perfezionare e tutelare il proprio essere, mentre percepisce con dolore (e tende a rifuggire) quanto può danneggiarlo o distruggerlo. Questa disposizione dello spirito a perpetuarsi e dispiegarsi liberamente, in quanto capace di orientare le azioni e le scelte degli uomini, si identifica con la virtù: al fondo, un calcolo o una previsione corretta dell’utile e del vantaggioso che Telesio interpreta di conseguenza come realtà naturale, non culturale. Polemizzando con le soluzioni dell’Etica Nicomachea, egli sottolinea che la virtù non si costruisce né si esplica attraverso l’educazione, l’esperienza, la ricerca e la costruzione di una misura. È piuttosto la maggiore o minore perfezione e purezza dello spirito di ciascun individuo a determinare il suo temperamento, la qualità della sua azione morale, e, per estensione, perfino i costumi e gli ordinamenti dei diversi popoli.
Se gli ideali dell’etica telesiana sono improntati alla moderazione, alla temperanza, alla costruzione di mutui legami fra uomini, il bene che lo spiritus è in grado di conseguire, “secondo natura e secondo le proprie forze”, necessariamente “momentaneo” e talora “incerto”, appare peraltro in armonia con il “vero bene” dell’uomo, garantito dalla promessa divina di salvezza e di immortalità.
Del resto, in tutta la filosofia telesiana il finalismo del mondo naturale e gli stessi meccanismi di conservazione sembrano trovare la loro ultima ragione di essere nel perfetto, e ordinatissimo, atto creatore di Dio. Una sapienza creatrice e ordinatrice che l’uomo può celebrare e contemplare, ma mai penetrare. All’interno di questa filosofia non è di fatto possibile, né sul piano epistemologico, né su quello etico, forzare i confini della conoscenza sensibile per cogliere il disegno nascosto dell’artefice del mondo.

Ricezione e influenza delle dottrine telesiane
L’eversivo naturalismo telesiano suscita negli ambienti filosofici italiani immediato interesse, dibattiti spesso vivaci e non poche polemiche (la più nota e significativa è quella con Francesco Patrizi da Cherso). Ma non mancano pure avversari più insidiosi e pericolosi: nel mondo delle università, nei circoli romani e nella stessa città di Cosenza, come rivela la lettera inviata da Telesio nell’aprile 1570 al cardinale Flavio Orsini, arcivescovo della città, ove si registrano con preoccupazione le “proposizioni contra la religione” individuate nei suoi scritti da alcuni concittadini: “ch’io metto l’anima mortale, et che negho ‘l Cielo sia mosso dall’intelligentie” (Girolamo De Miranda, Una lettera inedita di Telesio al cardinale Flavio Orsini, “Giornale critico della filosofia italiana”, 72, 1993, fasc. 3, p. 374).
E nonostante il gran lavoro di riscrittura e la costante volontà di negoziato con avversari e autorità ecclesiastiche, negli anni Novanta anche la sua opera sarà investita dal severo intento di normalizzazione e dalle rigidissime chiusure filoaristoteliche e filotomiste che caratterizzano il papato di Clemente VIII. Ormai consolidati e sempre più consapevoli e selettivi, gli organismi inquisitoriali ampliano il proprio perimetro di azione e di controllo, puntando a colpire non soltanto l’eresia religiosa e dottrinale, ma ogni forma di dissenso culturale. Si apre così una fase di verifica minuziosa dell’ortodossia di filosofi, naturalisti e scienziati, al fine di attenuare o ridurre a formulazioni consone al dettato scritturale, alla norma teologica o al precetto scolastico anche il pensiero dei novatores e le formulazioni della nuova fisica. In questa prospettiva, l’iscrizione all’Indice dei testi telesiani appare ascrivibile non solo a un generico antiaristotelismo, ma anche e soprattutto al carattere materialistico e immanentistico della sua filosofia (certo non incrinato dal dispositivo un po’ forzato dell’anima a Deo immissa), unito a una cosmologia che insiste sull’unità e omogeneità di mondo celeste e mondo sublunare.
Ma, al di là delle resistenze e dei divieti, il richiamo alla concretezza dei processi naturali e il rifiuto del principio di autorità sono elementi destinati a esercitare una suggestione indiscutibile e potente sui contemporanei. Già i primi lettori del De rerum natura percepiscono e interpretano le dottrine telesiane, costruite con lessico e immagini volutamente arcaizzanti, come un palese recupero della filosofia naturale presocratica. Così, il nesso – istituito in modo particolare da Patrizi – fra Telesio e Parmenide innesca una riflessione sui caratteri della materia e della corporeità i cui echi arriveranno fino a Francis Bacon (sua è la definizione di Telesio come “riformatore di non poche opinioni e primo degli uomini nuovi”) e Pierre Gassendi.
E anche Bruno e Campanella si confronteranno con le sue dottrine e non mancheranno di attribuirgli una funzione di rilievo nella sovversione dell’auctoritas aristotelica, premessa ineludibile per la costruzione di una filosofia della natura davvero nuova e libera da ipoteche secolari. La lettura del De rerum natura, con la sua dottrina della sensibilità universale, avrà per Campanella i caratteri di una vera e propria rivelazione, celebrata sia nella Philosophia sensibus demonstrata che nel celebre sonetto dedicato al “gran Telesio”. Mentre Bruno, pensatore mai particolarmente prodigo di elogi, nel De la causa, principio et uno ricorderà con dichiarato rispetto l’“ingegno” del “giudiciosissimo Telesio” e la sua “onorata guerra” contro Aristotele, giustamente combattuta alla luce di una concezione positiva e vitale della natura e delle forze che operano in essa. Ma non basta: perché l’immagine, tracciata in primo luogo da Campanella, di Telesio come capostipite della genealogia dei novatores sarà destinata a una lunga fortuna, soprattutto nell’Italia meridionale. Qui, infatti, fino alle soglie dell’Illuminismo, il filosofo cosentino, pur letto in misura sempre minore, sarà regolarmente evocato come maestro esemplare di un processo di rinnovamento culturale ancora in atto, e simbolo di una declinazione squisitamente italiana della libertas philosophandi.

 

GIOVAN BATTISTA D’AMICO

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Nome tornato agli onori della cronaca proprio in questi ultimi giorni, per le vicende inerenti il nuovo planetario che si appresta ad aprire i battenti a Cosenza, ma a differenza del precedente noto davvero solo a pochi.
Astronomo, Filosofo, matematico è nato a Cosenza nel 1511 ed è morto a Padova nel 1538, autore dell’operetta De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis, pubblicata a Venezia nel 1536 e nel 1537 e a Parigi nel 1549.Le sue osservazioni furono una delle fonti per il lavoro di Niccolò Copernico. Da (wikipedia) Contemporaneo di Bernardino Telesio, frequentò lo Studium dei Domenicani, università aperta a tutti e non solo all’ordine dei Padri Predicatori. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non quanto trapela dalla sua maggiore opera, il De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis et epicyclis, pubblicato nel 1536 a Venezia per i tipi di Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli. Dalla sua opera si traggono le uniche scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato nell’opera, che Amico fosse cosentino di nascita e che all’epoca della pubblicazione avesse la giovane età di 24 anni. Questo farebbe collocare la nascita dell’Amico a Cosenza forse nell’anno 1512, seppure alcuni studiosi propendano per il 1511. Tuttavia la nascita dell’astronomo risulta di difficile datazione non essendo noto in quale mese del 1536 il De motibus fu pubblicato e in quale periodo esso venne compilato dall’autore.Sempre all’interno del De motibus, nel proemio, l’Amico riferisce di essere stato allievo di Vincenzo Maggi (1498-1564), Marco Antonio Passeri detto il Gènua (1491-1563) e di Federico Delfino (1477-1547), professori all’Ateneo di Padova negli anni precedenti la pubblicazione del De motibus e anche professori del Telesio; queste informazioni porrebbero l’Amico nel filone di pensiero dell’aristotelismo padovano rinascimentale e dimostra che l’astronomo cosentino avesse frequentato l’Università di Padova, una delle più prestigiose dell’epoca, dalla quale tuttavia non si ha certezza se si fosse licenziato con una laurea, dato che il suo nome non risulta in nessuna lista di laureati di quell’ateneo. Dopo la frequentazione dei corsi di Padova parrebbe, ma anche qui non vi è certezza alcuna, che l’Amico fosse stato ammesso all’Accademia Cosentina forse nell’anno 1537, ovvero un anno dopo la prima pubblicazione a stampa del De motibus e un anno prima della morte del giovane astronomo che avrebbe avuto fra i 26 e i 27 anni. Va detto che il De motibus fu la prima operetta a mettere in discussione il modello tolemaico e che l’opera si concludeva anticipando per sommi capi alcuni dati oggetto di una futura pubblicazione e che promettevano di essere assolutamente rivoluzionari. L’Amico considerò due ordini di obbiezioni che erano state mosse al sistema esposto da Aristotele: da una parte le combinazioni di movimenti circolari che egli aveva supposto non spiegavano tutte le particolarità del percorso degli astri, dall’altra la variazione dei diametri apparenti della Luna e del Sole escludeva che essi si trovassero sempre ad ugual distanza dalla Terra. L’Amico aumentò quindi considerevolmente il numero delle sfere deferenti (e delle relative reagenti) attribuite a ciascun pianeta. La variazione, poi, dei diametri apparenti del Sole e della Luna, se pur la sua rilevazione non fosse dovuta a difetto degli strumenti, era spiegata dall’Amico, con cause geometriche. Da questa considerazione gli studiosi tendono a pensare che la prematura morte per assassinio di Amico fosse stata provocata dall’invidia della sua dottrina, così come suggerito da un anonimo che compose l’epitaffio del giovane astronomo nel quale si leggeva:
« IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut putatur, virtutisque, invidia, interfectus est MDXXXVIII. »
(Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11)
ovvero “ammazzato da ignoto sicario si pensa per invidia della sua scienza e delle sue virtù”.

Nel 1538 Amici venne assalito, derubato e ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che seguì accertò che era scomparsa una borsa contenente alcuni documenti, che forse erano proprio le carte con quelle rivoluzionarie osservazioni che aveva promesso l’autore, o almeno così sembrava credere l’Inquisizione nel processo postumo per eresia che subito dopo istituì contro lo studioso defunto. Dell’Amico fa menzione nella sua orazione in morte di Telesio, Giovanni Paolo d’Aquino, filosofo e oratore calabrese nato a Cosenza e morto intorno al 1612, che definisce l’Amico “così grande astrologo e filosofo” e nulla aggiunge alla sua biografia rispetto a quanto già noto. Un mistero impossibile da risolvere, visti i secoli trascorsi. Quel che resta certo è che, pochi anni dopo, le intuizioni del cosentino si rivelarono meritevoli di considerazione. Sembra che fossero note  anche al grande Niccolò Copernico, che pubblicò la sua teoria, nel De revolutionibus orbium coelestium appena cinque anni dopo la morte di Amico. E secondo alcuni non fu solo un caso.

 

BARLAAM

Così il Petrarca:
La morte mi ha privato del mio Barlaam. Ma, a dir vero, io stesso me ne ero privato. Non mi accorsi che l’onore si sarebbe risolto in un mio grave danno. Difatti, aiutandolo a diventare vescovo, persi il maestro con il quale avevo cominciato a studiare con fiduciosa speranza (Familiares, XII, 2.7).
Barlaam Calabro, al secolo Bernardo Massari, conosciuto anche come Barlaam di Seminara o Barlaam di Calabria (Seminara, 1290 ca.; † Avignone giugno[1], 1348), è stato un monaco, vescovo, matematico, filosofo, teologo e studioso della musica bizantino. Uomo di vasta cultura, fu maestro di lingua e di letteratura greca di Francesco Petrarca e di Giovanni Boccaccio, rivoluzionò l’aritmetica, scrisse di musica; ma fu anche profondo teologo, che si oppose alla dottrina dell’esicasmo dei monaci della Chiesa d’Oriente.
Nacque a Seminara, nei pressi di Reggio di Calabria, verso la fine del XIII secolo, e tradizionalmente si riporta l’opinione di Ferdinando Ughelli[2], non documentalmente provata, che il nome di battesimo fosse Bernardo.Le notizie certe sulla sua formazione si ricavano dalla bolla con cui papa Clemente VI lo nominò vescovo di Gerace: il documento informa che Barlaam fece il percorso monastico e sacerdotale in Calabria, nel monastero basiliano di Sant’Elia di Capasino (diocesi di Mileto).Dagli scritti di Barlaam stesso apprendiamo anche che egli fu formato nella fede nell’ambito della Chiesa Ortodossa, che in quegli anni era ancora molto diffusa nell’Italia meridionale[3]. Al contrario, non abbiamo evidenze sulla formazione culturale: tuttavia, emerge dai suoi scritti una profonda conoscenza dei filosofi greci, specialmente di Platone e Aristotele, ma anche di San Tommaso d’Aquino e della Scolastica, per cui si devono presupporre contatti con le maggiori scuole di filosofia e teologia dell’Italia meridionale e centrale.
Nella seconda metà degli anni Venti del XIV secolo si mise in viaggio, verso l’Etolia e Tessalonica, per poi giungere a Costantinopoli (approssimativamente nel 1326 o 1327) dove regnava Andronico III Paleologo, e dove il dotto Barlaam guadagnò i favori dell’imperatrice Anna di Savoia. Divenne igumeno dell’importante convento di San Salvatore; nel frattempo scrisse con successo trattati di logica e di astronomia (ne è sopravvissuto sino a noi uno sull’etica stoica) che lo resero famoso; ottenne una cattedra nell’università. Il suo successo come filosofo lo portò però anche allo scontro con l’intellighenzia della capitale e scatenò la gelosia dell’umanista bizantino Gregorio Niceforo, un professore nel monastero di Chora che in un suo libello narrò della sfida accademica tenutasi fra i due eruditi nel 1331 su tutti gli argomenti dello scibile umano di quei tempi. Dopo la sfida, Barlaam divenne stimato professore nel secondo centro culturale dell’impero, Tessalonica, dove ebbe fra i suoi allievi alcuni dei migliori futuri teologi e dotti bizantini: Gregorio Acindino, Nilo Cavasila, Demetrio Cidone.

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Nel 1333-1334, nell’ambito delle trattative per la riunificazione tra le due Chiese di Oriente e di Occidente, giunsero a Costantinopoli i domenicani Francesco da Camerino, arcivescovo di Vosprum, e Riccardo, vescovo di Cherson, incaricati dal papa Giovanni XXII.Grazie al suo prestigio e alla stima di cui continuava a godere presso gli ambienti di corte, Barlaam fu scelto dal patriarca Giovanni Caleca come portavoce della Chiesa ortodossa.Il punto di divisione, come noto, era principalmente il dogma della processione dello Spirito Santo: in tale occasione Barlaam sviluppò le sue argomentazioni teologiche e filosofiche, sulla base delle posizioni del volontarismo di Duns Scoto e Guglielmo di Occam, in opposizione alle tesi domenicane basate sul realismo di San Tommaso d’Aquino.
Le posizioni delle due parti rimasero inconciliabili e le trattative non ebbero alcun risultato; ma Barlaam, nelle sue dissertazioni, sviluppò anche critiche verso l’esicasmo e sottolineò la differenza di valore tra la teologia scolastica e la contemplazione mistica; con ciò divenne inevitabilmente protagonista di una violenta polemica contro le concezioni ascetiche e mistiche dei monaci del Monte Athos nella persona soprattutto di Gregorio Palamas.Nei confronti del monaci athoniti Barlaam ebbe parole dure, accusandoli di eresia gnostica e deridendoli col nomignolo di umbilicamini (omphalopsychoi). Il dibattito divenne uno scontro, che sfociò in una denuncia di eresia mossa da Barlaam contro Palamas davanti al patriarca Giovanni Caleca con lo scritto “Contro i Massaliani.La controversia, non vista di buon occhio dalle autorità che desideravano mantenere la pace religiosa, fu risolta nel Concilio di Costantinopoli (1341). Il discorso finale tenuto da Andronico, che celebrò una generale riconciliazione, non rispecchiò la realtà dei fatti: Barlaam, perdente, vide la condanna delle proprie dottrine e fu costretto a scusarsi formalmente con gli esicasti e a sospendere ogni futuro attacco verso di loro.Addirittura Giovanni Caleca, con un’enciclica, condannò le tesi di Barlaam e impose la distruzione dei suoi scritti.
Nel frattempo, nel 1339 era stato inviato da Andronico III ad Avignone come delegato in missione diplomatica in Europa, alla quale l’imperatore intendeva sollecitare un intervento per una crociata contro l’avanzata dei Turchi ottomani.
Barlaam si era recato a Napoli, insieme a Stefano Dandolo, presso Roberto d’Angiò e poi a Parigi da Filippo VI di Valois per chiedere aiuti militari; infine i due erano andati presso la Curia di Avignone di papa Benedetto XII per ottenere la sua approvazione alla crociata (in cambio Barlaam aveva prospettato un concilio ecumenico per la riunione delle due grandi Chiese).La missione non aveva avuto buon esito, a causa della situazione politica europea, ma nell’occasione Barlaam aveva costruito delle importanti relazioni personali.
Nel 1341, dopo il fallimento del concilio di Costantinopoli e la morte di Andronico III (15 giugno), Barlaam nel mese di luglio tornò in Calabria e da lì raggiunse a Napoli l’umanista Paolo da Perugia con cui collaborò nella compilazione delle Collectiones e nel riordinamento della libreria angioina.Tra l’agosto di quell’anno e il novembre del successivo fu ad Avignone da papa Clemente VI.Questo soggiorno fu particolarmente importante, perché Barlaam conobbe Francesco Petrarca, al quale insegnò il greco e dal quale fu avviato alla conoscenza del latino, con cui aveva poca dimestichezza; ma ancor più importante fu il definitivo passaggio di Barlaam alla fede cattolica.

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Grazie alla nuova obbedienza al papa, alle sue qualità personali e all’intercessione dei buoni uffici di Petrarca, gli fu assegnata la diocesi di Gerace, di cui Barlaam fu nominato vescovo il 2 ottobre dello stesso 1342, consacrato dal cardinale Bertrando del Poggetto.A Gerace non ebbe vita facile, a causa dei contrasti con la curia di Reggio.
L’ultima missione diplomatica
Nel 1346 fu nuovamente inviato in missione diplomatica dal papa a Costantinopoli in un rinnovato tentativo ecumenico.Tuttavia la situazione nella capitale bizantina era sempre molto tesa: sul trono sedeva Anna di Savoia reggente in nome del figlio Giovanni V; nel 1343 Palamas era stato arrestato e scomunicato.Giovanni Caleca, diventato nemico degli esicasti, fu deposto il 2 febbraio 1347 e il giorno stesso Giovanni Cantacuzeno, favorevole agli esicasti e appoggiato da Palamas tornato in auge, si autonominò coimperatore accanto a Giovanni V.Barlaam, già compromesso dalle sue precedenti posizioni, non poté far altro che tornare in Occidente.
In primavera fece ritorno ad Avignone, dove rimase fino alla morte avvenuta probabilmente agli inizi di giugno 1348.In effetti, non conosciamo la data certa della morte, ma la bolla di nomina di Simone Atumano, suo successore a Gerace, datata 23 giugno 1348, descrive l’evento come recente.
La copiosa produzione di Barlaam è andata in parte perduta e di quella sopravvissuta la maggior parte è ancora inedita. Ce ne è giunto un elenco con gli incipit nella Biblioteca graeca di Johann Albert Fabricius. Si contano opere teologiche, fra cui:
opuscoli contro la processione dello Spirito Santo Filioque;
scritti sul primato del papa;
il progetto di unione delle Chiese elaborato per la prima missione ad Avignone (in greco);
un discorso per il sinodo di Costantinopoli (in greco);
due discorsi in latino tenuti al cospetto di papa Benedetto XII;
varie lettere e scritti in latino successivi alla conversione;
otto lettere relative allo scontro con gli esicasti;
l’opera Contro i Messaliani è perduta in quanto fu distrutta a seguito della sconfitta di Barlaam nella disputa; ci restano solo alcune citazioni in altre fonti.
Opere filosofiche:
Ethica secundum Stoicos ex pluribus voluminibus eorumdem Stoicorum sub compendio composita, che espone l’etica stoica (mostra un’ottima conoscenza di Platone);
Le soluzioni dei dubbi proposti da Giorgio Lapita:
opere scientifiche:
Arithmetica demonstratio eorum quae in secundo libro elementorum sunt in lineis et figuris planis demonstrata, che è un corfimentario al secondo libro di Euclide;
un’opera in sei libri di algebra e aritmetica;
Logistica nunc primum latine reddita et scholiis illustrata, che è un trattato di calcolo con frazioni ordinarie e sessagesimali con applicazioni all’astronomia. L’opera fu pubblicata a Strasburgo nel 1592 e a Parigi nel 1600, insieme ad una sua traduzione in latino;
un commentario alla teoria dell’eclissi solare dell’Ahnagesto di Tolomeo;
una regola per la datazione della Pasqua;
commentari su tre capitoli degli Armonici di Tolomeo; questi capitoli trattano la relazione fra i numeri primi del Sistema Perfetto greco e le sfere celesti, come le consonanze musicali e il movimento dei pianeti si debbano trovare attraverso i numeri, e come le qualità delle sfere si accordino con quelle dei suoni musicali.
Sino ai tempi più recenti le opere teologiche e legate all’attività diplomatica sono state più studiate, mentre ultimamente si è rivalutata l’opera di Barlaam anche come acutissimo e brillante scienziato, versatile e innovativo, oltre che come significativo contributore nella reintroduzione del greco in Occidente, attraverso l’insegnamento della lingua a personalità come Paolo da Perugia e Petrarca e anche Boccaccio.

La novella di Barlaam
L’ENIGMATICO ZOO DELL’ANTELAMI SCOLPITO SUL BATTISTERO DI PARMA

Il complesso ha tre portali. Uno si apre sul lato settentrionale ed è chiamato della Vergine. Il secondo, che guarda a occidente, è detto del Giudizio e, per le regole liturgiche, costituisce l’ingresso principale. Il terzo, definito della Vita, è senza dubbio il più semplice. Evocano rispettivamente la nascita di Cristo, il suo ritorno per giudicare gli uomini e la possibilità di salvezza dalle tentazioni demoniache. L’ultimo, tuttavia, si differenzia dagli altri per la straordinarietà del contenuto. Nella lunetta c’è un bassorilievo che contiene una rappresentazione allegorica dell’esistenza umana. Al centro, tra i rami di un albero, siede un giovinetto con i piedi appoggiati al tronco.

La mano mancina estrae del miele da un alveare e l’altra lo porta alla bocca. Intanto, però, due roditori non facilmente definibili cercano di recidere le radici della pianta, mentre in basso un drago che sputa fiamme attende minaccioso che il ragazzo precipiti giù. Ai lati della pianta si vedono 4 tondi. L’inferiore a sinistra mostra il carro del sole trainato da due cavalli. Apollo impugna una frusta e punta verso la notte, quasi a voler fugare le ultime tenebre. Il superiore ritrae un profilo maschile che rappresenta il giorno. Nel medaglione in basso a destra si nota il cocchio della luna mosso da due tori, che Diana stimola con un pungolo. Intorno sono disposti due fanciulli nudi che suonano delle trombe e due bimbetti vestiti che cercano con dei bastoni di frenare la veloce corsa della biga. In quello più in alto si scorge la notte con una fiaccola e dietro la testa di un toro.


Il tessuto simbolico sembra quasi scontato e ricorda che l’esilio terreno è incessantemente consunto dall’implacabile incalzare del tempo, mentre le fauci dell’inferno attendono chi ha preferito la dolcezza dei piaceri effimeri al vero bene. In ogni modo i protagonisti del quadro non sono un’invenzione dell’artista. Prescindendo dai miti pescati tra i tesori della civiltà classica, lo scorcio ricalca fedelmente il succo d’un romanzo conosciuto nell’Europa occidentale a partire almeno dal X secolo. Si tratta dell’adattamento ellenico d’una leggenda popolare che parla di Josafat, figlio del re indiano Abenner. Costui decide di tenere il figlio nella bambagia, o meglio in un luogo di delizie, per evitare che subisca le sofferenze del mondo. Ma, nonostante tutte le precauzioni del padre, a un certo punto il principe incontra le cruciali testimonianze dell’infermità, della vecchiaia e della morte. E, incalzato dagli interrogativi che sorgono spontanei di fronte alle prove del dolore, sotto la guida dell’eremita Barlaam scopre la vita non edulcorata abbracciando la verità evangelica.


Un brano del libro, narrato dal maestro spirituale al nobile, racconta d’un uomo che, alla vista d’un unicorno imbizzarrito, fugge via a gambe levate ma finisce sul ciglio d’un burrone. Si aggrappa a un fuscello e pensa che da quel momento in poi può stare tranquillo. Ma, guardando bene, vede due sorci che stanno rosicchiando le radici dell’arbusto al quale è sospeso. Anzi, sono proprio sul punto di troncarle di netto. Allora scruta in fondo al burrone e scorge un mostro orribile, che spira fuoco dalle narici. Ha un aspetto torvo e minaccioso, spalanca ferocemente le fauci e non vede l’ora di divorarlo. A quel punto aguzza lo sguardo per esaminare la base d’appoggio su cui tiene puntellati i piedi. Nota quattro teste d’aspidi che si protendono fuori dalla parete rocciosa cui si tiene avvinghiato. Levando però gli occhi in alto, scopre che dai ramoscelli della pianta stilla qualche goccia di nettare. Allora cessa di preoccuparsi dei pericoli che lo circondano e si gusta in santa pace la zuccherata ghiottoneria. Orbene, l’aristocratico al quale la vicenda viene riportata non è altri che Siddharta. In sostanza, si è al cospetto della trasposizione in chiave cristiana della religione buddista.

Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria

Il Tesoro della Calabria: il “Codex Purpureus Rossanensis”

 

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Il “Codex Purpureus Rossanensis” è un Evangeliario greco miniato, del formato di 260 x 307 mm, su pergamena colore rosso-porpora (da qui il nome “Purpureus”), di straordinario interesse dal punto di vista sia biblico e religioso, sia artistico, paleografico e storico, sia documentario. I pregi del manoscritto sono numerosi, tali da renderlo il “capolavoro” della produzione libraria ed artistica bizantina e un “unícum” di valore inestimabile. La bellezza del manufatto (è probabilmente il più antico e meglio conservato documento librario e biblico della cristianità) fa di esso “la più fulgida gemma libraria della Calabria, che da solo fa Museo” (Ciro Santoro). Il testo evangelico, nonostante alcuni errori di trascrizione degli amanuensi, è radice e fonte della dottrina cristiana e della cultura europea. Ottimo è l’equilibrio tra fede e scienza, tra religiosità e tecnica raffinata, tra pazienza e abilità, quale si manifesta sia nella scrittura sia nelle illustrazioni. Oggi il Codex Purpureo si presenta mutilo dei vangeli di Giovanni e Luca; ma in origine raccoglieva i testi completi. Il frontespizio presenta, infatti, una rota riccamente decorata in cui si inseriscono entro clipei le effigi degli evangelisti, e dentro la quale ricorre la scritta in greco “prospetto della sinfonia degli evangelisti”.  Tale iscrizione rimanda alla lettera di Eusebio di Cesarea a Carpiano. In questa lettera egli informa che Ammonio di Alessandria (padre della chiesa vissuto tra il 265 e il 340 d.C.) aveva realizzato una esposizione sintetica dei quattro vangeli, affiancando il testo di Matteo agli altri vangeli canonici. All’inizio di ciascun libro vi erano i Kephalaia, cioè gli indici dei capitoli, e la tavola miniata con l’evangelista di cui rimane solo quella di Marco.

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Il codice è di elevatissima qualità e presenta una dimensione medio-grande; ha una forma più o meno quadrangolare come era consuetudine in età tardo antica per i grandi libri d’apparato. La sua qualità elevata era anche data dall’uso dell’oricello, un colorante di origine vegetale, il cui uso era abbastanza diffuso tra le classi più elevate per il suo notevole costo, in epoca tardo-imperiale. Il Codex presenta le prime tre righe dei Vangeli con lettere d’oro, mentre il resto del testo è in argento eseguita in una maiuscola biblica disposta su due colonne. Per il resto i titoli che accompagnano le miniature presentano la maiuscola ogivale diritta. Il testo è distribuito su due colonne di 20 righe ciascuna (un’impostazione grafica giornalistica ante litteram).  Le parole non recano accenti, né spiriti, né sono tra di loro separate, né compaiono segni di interpunzione, tranne il punto ortografico (“punctum”) che segna la fine dei periodi.  Quando, invece, inizia il periodo, la prima parola si apre con una vocale o consonante più grande. Per la preziosità del manoscritto, la raffinatezza dei materiali impiegati la loro alta qualità si può dedurre che dovette essere utilizzato in onore di Cristo, Rex regnantium e Megas basileus. Questo codice, noto anche come il “Rossanensis”, è uno dei sette codici miniati orientali esistenti nel mondo. Tre sono in siriaco e quattro in greco. Questi ultimi sono il “Manoscritto 5111 o Codex Cottonianus”, in possesso della British Library di Londra (di cui, però, a causa di un incendio nel XVII secolo, è rimasto qualche esiguo e decomposto frammento soltanto di una pagina), la”Wiener Genesis”, conservata presso la Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna (costituita da 26 fogli, 24 dei quali miniati), il “Frammento o Codex Sinopensis”, custodito presso la Bibliothèque National di Parigi (formato da 43 fogli e 5 miniature) e infine il “Codex Purpureus Rossanensis”, che, con i suoi 188 fogli, pari a 376 pagine, è il Codice più ampio, più prezioso, più importante di quelli sopra citati; pare che un quinto codice greco, il cosiddetto “Codice o frammento «N»” (contenente una miniatura sulla lavanda dei piedi), esista nella città russa di S. Pietroburgo ex Leningrado.

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Dal punto di vista estetico, è diffusa la convinzione tra gli storici dell’arte che le illustrazioni pittoriche delle miniature, il portamento e la severità dei protagonisti e dei personaggi, i motivi stilistici, il gusto della metafora e dell’allegoria, l’efficace tavolozza policromatica etc. rappresentino nel “Rossanensis” la continuità dell’arte classica e pagana, che nell’Oriente (specificamente in Palestina, in Asia Minore, in Siria, ad Alessandria) ha avuto i suoi qualificati centri di produzione e di irradiazione.  Il ”Codice” di Rossano, perciò, mentre raccoglie, in sintesi, l’eredità e le suggestioni della cultura artistica ellenistica e di quella religiosa cristiana, svolge l’originale ruolo di tramite e di anello di congiunzione tra la sensibilità creativa del mondo antico, avviata verso la decadenza, e quella del mondo medievale e bizantino, destinata alla nuova egemonia culturale europea. Il “Codex Purpureus Rossanensis” è, altresì, un documento ineguagliabile nella sua carica straordinaria di spiritualità, di contenuti, di messaggi, di forte tensione e, nel contempo, di sereno “pathos”, che trasudano le antiche ed espressive pagine di questo Evangeliario.

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La peculiarità del Codex Rossanese è data dalle 15 miniature, scene tratte dai Vangeli che si richiamano alle celebrazioni della settimana santa bizantina, fatto questo che sottolinea una destinazione anche liturgica del libro. In particolare le miniature riprendono:

  • la risurrezione di Lazzaro (tav. 1);
  • l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (tav. 2);
  • la cacciata dei venditori dal tempio (tav. 3);
  • la parabola delle io vergini (tav. 4);
  • l’ultima Cena e la lavanda dei piedi (tav. 5);
  • la comunione col Pane (tav. 6);
  • la comunione col Calice (tav. 7);
  • Gesù nell’orto del Getsemani (tav. 8);
  • la guarigione del cieco nato (tav. 11);
  • la parabola del Buon Samaritano (tav. 12);
  • Gesù davanti a Pilato e pentimento di Giuda (tav. 13);
  • il tribunale di Pilato ed il confronto Gesù – Barabba (tav. 14);
  • l’Evangelista Marco (tav. 15).
  • Fuori testo sono da considerare le Tavole 9 (Frontespizio delle tavole dei Canoni) e 10 (la lettera di Eusebio a Carpiano in cornice dorata e decorata con fiori ed uccelli).

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Di esse 10 illustrazioni presentano la medesima impostazione visiva e grafica: la parte superiore è occupata dalla scena evangelica ed è separata da una sottile linea blu dalla scena inferiore, che è riservata, nella parte centrale, a quattro Profeti, dipinti a mezzo busto, tutti con il braccio destro alzato, con l’aureola e soltanto Davide e Salomone anche con la corona regia; al di sotto dei Profeti, che con la mano destra indicano l’avverarsi delle loro profezie nella scena superiore, ci sono infine le loro citazioni in cartigli o rotoli. Il protagonista, il centro gravitazionale, di quasi tutte le miniature (tranne le nn.  IX, X e XV) è la figura, fiera, pensosa, ieratica, autorevole, regale, egemonica, di Gesù: il Cristo barbuto, con i capelli lunghi, riversi sul collo e sulle spalle (e non sulla fronte come privilegerà la successiva arte bizantina), con intense e sempre diverse espressioni del volto, con un grande aureo nimbo crucifero o aureola intorno alla testa, con il mantello greco o himation di colore oro, che lascia scoperto il braccio destro ed i sandali.  Sotto l’himation Gesù indossa una tunica lunga manicata o chitone, che è di colore marrone in alcune miniature (Tavv. I, II, III, VIII), mentre in altre è di colore blu-turchino (Tavv.  IV, V, VI, VII, XI, XII, XIII, XIV), perché è cambiato il miniaturista o per un significato simbolico oscuro.  Gesù, inoltre, viene rappresentato in movimento, con il braccio destro e la mano alzati (Tavv. I, III, IV, V/a, VIII/a): l’accorgimento del miniaturista mira a rendere visibile il momento in cui il Cristo sta per proferire le frasi evangeliche, molte delle quali riportate nella parte superiore o inferiore della scena evangelica della tavola (“ Titula historiarum”).

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Non si possono escludere, comunque, altre destinazioni anche in considerazione della solennità delle scene e della preziosità del materiale scrittorio, che non era certo di uso comune e quindi forse proveniente da ambiente nobile e aristocratico. E allora potrebbe trattarsi di un Codice da parato: un codice-oggetto, cioè, destinato all’ostentazione in una casa di rango sociale elevato. Una terza ipotesi, avanzata come la precedente dal Prof. Guglielmo Cavallo dell’Università La Sapienza di Roma, uno dei massimi studiosi italiani di paleografia e storia della scrittura, vede nel Codex un atto di pietà finalizzato alla salvazione dell’anima per conto di un aristocratico committente-donatore. In altri termini, nel mondo bizantino si poteva commissionare un libro sacro donandolo poi a qualche chiesa o monastero allo scopo di ottenere con quell’opera di beneficenza la salvezza dell’anima. Il Codex potrebbe aver avuto proprio questa funzione gratificante.

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Le tre ipotesi, comunque, non necessariamente si devono auto escludere, per cui la funzione inizialmente unica potrebbe aver assunto anche gli altri significati. Da oggetto di ostentazione (“status symbol”) e gesto di pietà volto ad ottenere la salvazione dell’anima, è diventato anche oggetto di culto liturgico. Il professor Cavallo afferma: ”L’Italia centro-meridionale era nella tarda antichità e tanto più continuò a essere più tardi crocevia e meta di greco-orientali per convergenti motivi geografici, etnici, politici. Dal VII secolo – spinte dall’eresia monotelita e ancor di più dalle invasioni o incursioni slave, persiane e arabe che travagliavano gravemente l’impero bizantino – ondate di greco-orientali, soprattutto monaci ma anche elementi del clero e laici, giungevano in Sicilia, e da questa in Calabria e a Roma dislocandosi in particolare da Egitto, Palestina, Siria. Si trattò, altresì, di migrazioni non solo d’individui ma pure di modelli, quali soluzioni artistiche, formule liturgiche, istituti giuridici, e di oggetti, tra cui icone, avori, libri. A emigrare da Bisanzio e dai territori a est di Bisanzio nell’Italia meridionale era anche gran parte della classe dirigente, laica ed ecclesiastica, tanto che alcuni tra i papi ‘greci’ dal 642 al 752 provenivano o dalla Sicilia o dalla Calabria: classe sociale ristretta, ma che deteneva e trasferiva in queste regioni modelli e oggetti. Il Rossanensis purpureus, dunque, può esser giunto in Calabria mediante una di queste ondate d’immigrazione, direttamente o passando prima attraverso la Sicilia o magari Roma. L’invasione araba della Sicilia da una parte e la destrutturazione dell’elemento greco a Roma dall’altra determinarono più tardi una varia dislocazione di materiali greci che trovò un ricettacolo privilegiato nella Calabria bizantina dei secoli IX e X. Sicuro in ogni caso è che la vicenda del Rossanensis purpureus venne a legarsi indissolubilmente a Rossano, e Rossano vuol dire la Calabria, la regione che per testimonianze archeologiche, tradizione di pietà, costumi, dialetti conserva, forse più di qualsiasi altrove, il segno e il ricordo dello stretto legame tra l’Italia e la Grecia antica e medievale.”

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Certo è che ci troviamo di fronte ad un documento di valore inestimabile, che, tra l’altro, conferma la storica funzione di ponte tra Oriente ed Occidente della Calabria. È da ritenere, pertanto, che il Codex fosse conservato nel tesoro della Cattedrale fin dall’antichità. Ciò giustifica anche come sia potuto sfuggire nel sec. XVI al Cardinale Sirleto, interessato ai manoscritti dei monasteri più che a quelli di conservazione ecclesiastica. In aggiunta c’è da riportare un Memoriale del 1705, conservato nell’Archivio Vaticano fatto pervenire al papa dal clero di Rossano in polemica con l’Arcivescovo Andrea Adeodati, in cui si dice:

“Beatissimo Padre. Il Clero e Publico della Città di Rossano prostrati a’ piedi della S.V. le fanno sapere, come nella Chiesa Metropolitana di detta Città, quale prima officiava sotto il rito greco, e poi da più secoli in qua fu introdotto il rito Latino; e perché si ritrovano quantità di libri greci con lettere e figure dorate e miniate, formate sopra fogli di corteccia d’alberi, quali libri si teneano in gran stima per l’antichità e singolarità”.

Cos’altro possono essere questi “libri greci con lettere e figure dorate e miniate” se non il Codex Purpureus? Inoltre, denunciano proprio l’Arcivescovo di essere “nemico dell’antichità” e di avere “fatto sotterrare i suddetti libri sotto il pavimento della sacristia e proprio sotto il lavabo dei sacerdoti, senza curarsi del danno, che faceva a detta chiesa e città, col privarli di cose così memorabili”. Ed, infine, “ricorrono” perché il Santo Padre possa apportare “opportuno rimedio” alla gravissima vicenda.  L’arcivescovo, con la nota dell’11 ottobre dello stesso anno al cardinale Paolucci, segretario di stato della Santa Sede, respinge tutti i gravi addebiti (il documento è conservato nell’Archivio Vaticano, è stato segnalato da P. Francesco Russo nel suo “Regesto Vaticano per la Calabria” vol.  IX, reg. n. 50547, pag. 443, ed è stato studiato e divulgato da Luigi Renzo sulla terza pagina de “La Gazzetta del Sud” e nel suo libro “Sprazzi di Calabria.  Società, storia e cultura” del 1994, pp. 25-32). S’ignora sia l’esito della controversia sia i risvolti tuttora oscuri della stessa.

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La seconda notizia sul Codice di Rossano la fornisce, nel 1831, Scipione Camporota, canonico della Cattedrale della città, che dà ai fogli una prima sistemazione e l’attuale numerazione delle pagine con inchiostro nero. Notizia abbastanza approssimativa la da Cesare Malpica, che nel suo Diario di viaggio nel 1845-46 annota:

“II Capitolo del Duomo (di Rossano, n.d.r.) possiede un tesoro in un libro antichissimo che contiene gli Evangeli scritti in Greco, con caratteri d’argento sovra carta azzurrina, con belle e curiose miniature in testa alle pagine. Par che sia opera fatta al cominciar del medio Evo, quando Odorisi da Gubbio, e Franco Bolognese introdussero in Italia l’arte del miniare. I signori Canonici tengano pur gelosamente questo monumento, che ricorda l’antichità della loro Cattedrale, e i tempi famosi d’Italia. Questo volume in bellezza non cede a quelli di simil natura che io vidi in S. Nicola di Bari, e in S. Pietro in Galatina”.

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È vero che non si nomina esplicitamente il Codex, ma il fatto non desta meraviglia perché l’etichetta Codex Purpureus Rossanensis si deve ai due studiosi tedeschi Gebhardt e Harnack, che nel 1879-80 pubblicizzarono l’esistenza del documento. Ancora nel 1878, del resto, un anno prima dell’arrivo dei due studiosi, il medico rossanese Pietro Romano in suo breve saggio storico ( “Frammento di storia patria sul duomo ed episcopio di Rossano”, pp. 41-42), ricorda l’esistenza a Rossano di un “libro misterioso ed arcano”, chiamato semplicemente “libro antichissimo degli Evangeli Greci”, che, avendolo cercato ma non avendolo trovato, viene paragonato all’ “araba fenice, che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa!”, anche se ammette che la notizia “viene confermata da persone degne di fede e dalla testimonianza come il Malpica”.

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Assodato allora che il Codex è stato di proprietà della Cattedrale da tempo immemorabile, restano ancora alcuni quesiti tra cui quando è stato portato a Rossano e da chi. Gli storici convengono che a portarlo in Occidente siano stati tra l’VIII-IX secolo i monaci melchiti in fuga dalla Siria, dalla Palestina, dall’Egitto e dalla Cappadocia, sia a causa dell’odio iconoclasta dei bizantini (i monaci erano perseguitati perché ritenuti i principali diffusori del culto delle immagini), sia a causa degli Arabi che avevano invaso tutto il Medio Oriente e quindi non restava loro nemmeno il deserto per vivere in pace. La Calabria per la vicinanza con l’Oriente e per la natura stessa del terreno offrì a questi monaci profughi un rifugio ideale per continuare la loro vita ascetica, anche se lontani dalla madre patria. Una di queste comunità, ipotesi molto possibile, si stabilisce in qualcuno dei tanti monasteri rupestri ipogei, costituiti da grotte di arenaria, del tipo eremitico o lauritico (il monaco vive da solo in una grotta, ma in altre grotte vicine vivono altri monaci), che formano allora la famosa “Montagna Santa” (“Aghion Oros”) della città jonica, dove portano quanto di più prezioso avevano prodotto nella loro patria di provenienza, che, proprio perché prezioso, continua a fare loro da tramite con la Divinità ed impreziosisce la nuova patria di adozione. Il territorio di Rossano proprio in questo periodo infatti si trasformò in una piccola Tebaide. Possiamo ritenere alla luce di tali fatti che questi monaci sopraggiunti si siano portato dietro il Codex, poi rimasto in dote alla Cattedrale greca di Rossano. Se poi accettiamo l’ipotesi precedentemente del Codex da parato e quindi commissionato per essere esposto all’ammirazione in una casa di nobile ceppo, potremmo anche supporre che a portarlo sia stato un nobile aristocratico della corte di Bisanzio trasferito a Rossano e che da questi poi sia stato donato, magari come gesto votivo atto ad ottenere la salvazione dell’anima, alla Cattedrale per uso liturgico.

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Non sembri ingiustificato quanto stiamo dicendo ove si pensi che tra i secoli IX-X Rossano si afferma sempre più come centro militare e di cultura fino a diventare, nella seconda metà del sec. X, sede dello Stratego, città-guida della Calabria bizantina e quindi luogo di richiamo e di riferimento per l’aristocrazia in cerca di spazio. In qualunque modo sia pervenuto a Rossano, si può supporre che il Codex sia rimasto in uso nella Cattedrale fino alla soppressione del rito greco, avvenuta intorno al 1462. I canonici greci, ormai in assoluta minoranza, dovettero loro malgrado lasciare forzatamente la Cattedrale per trasferirsi nella chiesa di S. Nicola al Vallone, dove, secondo alcune voci era ubicata l’antica cattedrale bizantina. Il Codex, non più usato dopo la rimozione del rito, col passare del tempo è stato del tutto dimenticato in qualche angolo della sagrestia in balia degli eventi. Sarebbe stato ripescato, sia pure mutilo, dopo l’incendio che l’ha in parte distrutto, conservandolo poi senza alcuna rilevanza tra gli oggetti del tesoro. In un certo senso il silenzio su questo oggetto ha consentito di salvare il Codex da furti e manovre speculative, operazioni normali in tempi non certo benevoli nei confronti delle opere d’arte locali e degli stessi beni della Chiesa. Pensiamo ai commerci di cose sacre degli ecclesiastici, ai sequestri della Cassa Sacra, ai saccheggi dei francesi tra 700 e 800.

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Delle fonti dicono che, quando il Codex è tornato alla ribalta delle cronache Europee, i Canonici stavano cercando di venderlo per trovare i fondi necessari da destinare alla ristrutturazione del Coro della Cattedrale e che solo l’intervento oculato e tempestivo dell’arcivescovo Pietro Cilento riuscì a bloccare in tempo l’operazione. Anche i due tedeschi hanno avuto un secco rifiuto alla richiesta di acquisto, malgrado avessero offerto una ingente somma di denaro, ma indubbiamente bisogna però riconoscergli il merito di aver richiamato sull’Evangeliario l’attenzione del mondo della cultura aprendo per il documento un orizzonte più vasto e qualificato. Da allora, infatti, gli studi specialistici si sono susseguiti con passione addentrandosi nel merito dei contenuti esegetici, storici e artistici del meraviglioso Codex Rossanensis.

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Gli spazi dedicati al Rossanensis sono inseriti all’interno del Museo Diocesano e del Codex, anch’esso interamente rinnovato al fine di proporre una visione privilegiata degli ulteriori antichi tesori di arte sacra che lo spazio museale conserva grazie anche a un moderno allestimento multimediale. A contenere l’opera sarà una bella scatola di seta per proteggere come un bozzolo la preziosa pelle marocchina della sua copertina e un climabox che come una culla perfettamente climatizzata e sicura, garantirà un fresco costante. Tanto che le preziose pagine, nel 2013 sfogliate sotto gli occhi di Papa Francesco e dell’allora presidente Napolitano, ora potranno essere girate solo una volta all’anno.

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Il Codex Purpureus Rossanensis, riconosciuto nel 2015 dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità, ed è stato collocato nel programma di conservazione del patrimonio documentale “Memoria del mondo” (“Memory of the world”), al fine di proteggere questo patrimonio da rischi connessi all’amnesia collettiva, alla negligenza, alle ingiurie del tempo e delle condizioni climatiche, dalla distruzione intenzionale e deliberata.

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Il restauro è stato affidato nel 2012 all’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario (ICRCPAL) del Ministero dei Beni Culturali, affinché venissero eseguite approfondite analisi biologiche, chimiche, fisiche, tecnologiche e tutte le necessarie cure per il suo restauro e la sua conservazione. Attraverso il coordinamento di un Comitato di ricerca appositamente costituito presso l’Istituto, è stata condotta un’indagine interdisciplinare al fine di chiarire gli aspetti conoscitivi ancora irrisolti insieme alla redazione di linee-guida per la migliore conservazione dell’antico manufatto dal punto di vista ambientale.

Restauro 'Codex Purpureus Rossanensis'

Il lavoro degli studiosi ha fornito, altresì, significative risposte sulla storia e sull’esecuzione del volume, oltre a dettare importanti indicazioni generali sulla fattura e lettura dei codici di analoga provenienza e periodo storico. Nei tre anni di studio e indagini sul Codex si è giunti ad una “rilettura” importante del codice stesso. Il restauro è stato effettuato in modo estremamente rispettoso del volume, per non alterarne ulteriormente le fragilità dovute all’invecchiamento naturale e a varie vicissitudini tra le quali il restauro, fra il 1917 e il 1919, di Nestore Leoni, al tempo famoso miniaturista, i cui interventi, sfortunatamente, hanno modificato in maniera irreversibile l’aspetto delle pagine miniate.

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Quasi tutti i ricercatori concordano nel datare il codice intorno alla metà del secolo VI. La legatura, in pelle scura, risale invece al secolo  XVII o XVIII. Le pergamene, contrariamente a quanto si credeva non sono state trattate con il murice, un mollusco gasteropode (conchiglia) da cui si ricavava la porpora reale (diffusa dai fenici), ma utilizzando l’oricello, un colorante di origine vegetale. Colorante, evidentemente a disposizione dell’antico laboratorio che trattò le pergamene. Tale importante esito si è ottenuto confrontando i risultati ottenuti su campioni appositamente preparati nel laboratorio di chimica con quelli forniti dagli originali, analizzati in spettroscopia di riflettanza con fibre ottiche (FORS). Le analisi di laboratorio, eseguite in micro-Raman, micro-Infrarosso in Trasformata di Fourier (FTIR) e in Fluorescenza da Raggi X (XRF), su alcuni pigmenti originali e altri appositamente preparati in laboratorio, hanno permesso di approfondire le conoscenze sui materiali pittorici impiegati nell’alto medioevo e forniscono la prima evidenza sperimentale dell’uso della lacca di sambuco in un manoscritto così antico.

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Inoltre, l’assenza nel manoscritto di ogni tipo di preparazione delle miniature conferma l’origine Bizantina del codice. Una tavolozza pittorica, composta da molti colori (bianco, nero, rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco, viola, rosa, malva, oro), è stata usata nel prezioso manoscritto. Inoltre, l’oro puro e l’argento sono stati utilizzati per la scrittura dei Vangeli, così come è stato utilizzato inchiostro nero per i titoli. Alcune parti sbiadite dei testi in argento, in epoca sconosciuta, sono state sovrascritte con inchiostro nero. Fortunatamente, per i tecnici incaricati a svolgere le analisi, il miniaturista (o miniaturisti) non ha macinato finemente i pigmenti utilizzati per le miniature. Così è stato possibile analizzare spettroscopicamente ogni singolo pigmento, anche quando applicati in miscela, favorendo così l’identificazione delle materie coloranti.

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Per il professor Cavallo: “La carica di spiritualità che vi è insita è restituita, innanzi tutto, dal colore della pergamena e dalle sue valenze simboliche. Il nesso tra porpora e sangue richiamava il sangue versato da Cristo sulla Croce, e da quanti per il trionfo della Croce avevano dato la vita. Purpurei sono dunque i martiri. Altresì la porpora non era solo correlata al simbolismo del sangue espiatorio versato sulla Croce, ma anche al colore della tunica fatta indossare a Cristo per irriderne la regalità che, insieme alla corona di spine, quel colore evocava. Con Costantino e in epoca successiva, la porpora, come simbolo congiunto del potere imperiale e della sacralità divina, una volta proiettata sul libro sacro, ne faceva oggetto di adoratio e di pompa liturgica in occasione di cerimonie sacre.”

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Il 2 luglio 2016 il Codex è stato riportato a Rossano da Roma, e per la città e la regione è stato un giorno di festa. Disse Umberto Broccoli, famoso archeologo: “L’arrivo del Codice a Rossano è paragonabile a quando si tolsero i ponteggi alla Cappella Sistina a Roma”. Il Monsignor Satriano invece commentò così:” Sta risorgendo una comunità di uomini e donne che sta producendo benessere non in termini economici ma inteso come crescita spirituale dunque bene dell’essere. Questo è il frutto maturo di un albero che è cresciuto bene”. Per Sgarbi il Codex “rappresenta, seppur nelle difficoltà di godimento di poche pagine, una testimonianza fondamentale del mondo cristiano e dell’Occidente bizantino che ha a Rossano un suo rifugio e la sua fortezza”.

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Sul futuro del Codex, la responsabile delle comunicazioni per il restauro del manoscritto, Rosi Fontana affermò: “Il Codice appartiene a Rossano e Rossano sicuramente è il suo Codice Purpureo: possiamo immaginargli ancora altri 1.500 anni di vita. Oggi è in una super teca, super climatizzata, monitorata 24 ore su 24. Quindi è tenuto nel migliore dei modi possibili e la sua musealizzazione continuerà per lunghissimo tempo ed è certamente il monumento più importante dell’Italia Bizantina del Sud.”

Un pezzo di storia che da solo vale il viaggio in Calabria.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

CONNESSIONE U.F.O.-FATIMA ?

Santuario di Fatima

Appena di ritorno dalla ridente cittadina di Fatima (Portogallo) scrivo questo articolo premettendo di essere un credente cristiano, ma essendo anche un credente ricercatore ritengo doveroso schierarmi dalla parte della scienza se le mie convinzioni scientifiche me lo impongono.

La storia delle sei apparizioni * della Madonna a tre umili pastorelli portoghesi (Lucia Jesus Dos Santos e i cugini Jacinta e Francisco), in località Cova da Iria, presso Fatima, il 13 Maggio 1917 comincia un anno prima circa da quella data conosciuta come “il primo incontro” e non è Fatima ma il piccolo paese di Aljustrel (a circa 2 chilometri da Fatima) il teatro di questo straordinario evento.

*[avvenute una volta al mese – ogni 13 del mese per sei mesi consecutivi a partire da Maggio – con la sola eccezione del 19 Agosto, in quanto il sindaco di Aljustrel aveva tenuto i bambini chiusi in casa proprio il 13 del mese per verificare se l’apparizione sarebbe avvenuta comunque : ma così non fu perché l’apparizione avvenne il giorno 19.* NOTA

Dunque, la prima visione dell’ “Angelo” avvenne nella primavera del 1916 in una grotta del colle del Cabeco, vicino ad Aljustrel, in un campo adiacente alla casa di Jacinta e Francisco (la casa di Lucia è comunque molto vicina);
la seconda avvenne nell’estate del 1916, sul pozzo di casa dei genitori di Lucia, presso cui i bambini stavano giocando;
la terza nell’autunno del 1916, di nuovo nella grotta del Cabeco.
Il luogo dove avvenne il miracolo del Sole

Il 13 Maggio 1917, nel luogo in cui ora sorge il Santuario di Fatima, un raggio di luce (Lucia lo descrisse come un fulmine) cadde vicino ai pastorelli che erano intenti a pascolare; impauriti, si “rifugiarono” sopra un albero. Quindi un secondo raggio accompagnò l’apparizione di un globo luminoso che si librò davanti a loro e che anticipò di alcuni attimi l’apparizione di una figura femminile “tutta vestita di bianco” che diffondeva una luce chiara e intensa, la quale cominciò a trasmettere ai tre bambini messaggi d’amore e di fratellanza.

SIMILITUDINI
Questa dinamica ricorda in maniera abbastanza sorprendente aspetti che si possono riscontrare nei racconti di alcune “abductions”: l’apparizione di un globo luminoso (oggi oggetto di studio scientifico) e il raggio di luce che accompagna la discesa della figura femminile (identificata dai pastorelli nella Madonna), sono fenomeni similari ai racconti riguardanti esseri discesi da dischi volanti per il tramite di un raggio di luce, o riguardanti il prelevamento di addotti dalle proprie camere e le visioni di globi di luce poco prima dell’abduction stessa.
Da quel giorno, tutti i 13 dei mesi successivi (ad eccezione del 19 Agosto) i pastorelli incontrarono la Madonna.
Durante la quinta apparizione e cioè il 13 Settembre 1917, Lucia chiese alla Madonna di dare un segnale esplicito della sua esistenza e presenza in modo che tutti i fedeli potessero crederle; ed infatti il 13 Ottobre 1917 a mezzogiorno circa, davanti a 60.000 fedeli presenti sul campo, accadde l’incredibile.
Nel cielo piovoso e completamente plumbeo, apparve ad un tratto un disco argenteo luminoso, ben definito nella sua forma ma non nei suoi contorni; era lucido ed emetteva una luce intensa ma non fortissima, tant’è che i devoti increduli lo fissarono per molti secondi senza troppa difficoltà. Tutti gridarono :<>.
Il Disco luminoso cominciò a “ballare” come una gigantesca ruota di fuoco e ad avvicinarsi pericolosamente alla folla che presa dal panico cominciò a pregare e a implorare Dio e, quasi ascoltando quelle preghiere, tornò in cielo e cambiò colore più volte.
Roteava su sé stessa e compiva rapidi scatti in tutte le direzioni emettendo getti di luce, mentre la folla era in preda al panico. L’oggetto emetteva un calore elevatissimo, tanto che asciugò gli indumenti dei presenti, fracidi per la forte pioggia; dopo poco tempo sparì in cielo.
Anche qui possiamo ipotizzare che l’oggetto che con tanto stupore la gente descrisse come un Sole, in realtà sembrava avere più le sembianze di un disco volante; i fedeli si trovarono i vestiti totalmente asciutti, quindi l’oggetto emanava un certo calore, ma non il calore del Sole che certamente li avrebbe inceneriti all’istante (Si pensi che la sola temperatura esterna del sole è valutata a 6000 K gradi!); in più i movimenti a scatti da destra a sinistra e dall’alto verso il basso sono tipici negli avvistamenti che continuamente vengono tutt’oggi segnalati.
Inoltre la luminosità dell’oggetto non doveva essere così accecante come quella del Sole, visto che tutti i fedeli (così dice la cronaca del tempo…) lo poterono guardare attentamente per diversi secondi.

LA TESTIMONIANZA
Io con il nipote di Jacinta e Francisco
In questo mio breve viaggio a Fatima, ho avuto la fortuna di parlare personalmente con il nipote di Francisco e Jacinta (in pratica egli oggi è il custode della casa degli zii), il quale nacque 10 anni dopo quegli eventi e non conobbe mai i suoi parenti perché morti prematuri di febbre spagnola dopo le apparizioni. Nonostante ciò egli ha conosciuto personalmente moltissimi fedeli presenti in quel famoso 13 Ottobre 1917 durante il “miracolo del Sole”, i quali gli raccontarono del “disco argenteo che roteava su sé stesso e che si muoveva a scatti in tutte le direzioni…”.
Più volte egli mi ha ripetuto:<>
Anche le cronache del tempo usano forzatamente il vocabolo “Sole”…
Ma è realmente possibile che quello di Fatima sia stata in realtà una manifestazione esplicita di un disco volante?
Quando si toccano argomenti di questo tipo bisogna sempre fare attenzione a non suscitare la sensibilità della gente, ma sarebbe, dal’altro canto, errato non cercare di avanzare altre ipotesi e spiegazioni possibili.
COME IN PASSATO…
Nel giorno del “miracolo del Sole” qualsiasi cosa fosse accaduta sarebbe stata imputata ad un fenomeno di natura religiosa, e ciò per almeno due motivi:
il primo legato alla richiesta di Lucia alla Madonna di mostrare un segno tangibile e visibile della sua esistenza e presenza;
il secondo collegato alla cultura del tempo e del luogo.
Nel 1917 un oggetto discoidale difficilmente sarebbe stato concepito come un veivolo alieno, soprattutto in un paesino come Fatima, molto religioso e sperduto del Portogallo. Se l’evento di allora fosse accaduto oggi, sarebbe stato ovvio pensare ad un veivolo e non al “Sole” e forse non avremmo gridato al miracolo, ma all’oggetto volante non identificato.
E’ un pò quello che probabilmente è accaduto anche in epoche passate: Sumeri, Incas, Aztechi, Maya, Egizi, Dogon e tanti altri ancora hanno “preferito” chiamare Dei i visitatori di altri mondi, non potendo ancora concepire nozioni di astronave, viaggio spaziale, universo ecc… .
Ma anche in epoca più tarda vengono spesso accostate figure religiose con OVNI. Numerose le testimonianze artistiche in cui vengono associate immagini religiose con oggetti volanti: tra i più famosi la Madonna con bambino del pratese Lippi (XV-XVI sec.) e l’ ”Annunciazione” del veneziano Carlo Crivelli (XV sec.).
Ma se oggi un U.f.o. si posasse in piazza San Pietro nessuno crederebbe ad un miracolo o ad un’apparizione a sfondo religioso; questo perché l’uomo ha raggiunto, una più avanzata cognizione scientifico-tecnologica…
In sostanza ciò che è mancato ai popoli passati è l’archetipo di stampo scientifico che l’uomo moderno ha acquisito attraverso il progresso…
Non esistono immagini di quel “miracolo” di Fatima, ma una cosa comunque è certa: in quel giorno è veramente accaduto qualcosa di incredibile e di inspiegabile…

FONTE: AREA-51
Gianluca Santaniello Redazione Mistery Hunters