I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

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I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

Questa rubrica sta piacendo molto ai nostri lettori ed è un piacere per noi accontentarli con un altro articolo sulle personalità nostrane che con la loro calabresità hanno reso un contributo importante all’umanità. Molti personaggi hanno nomi altisonanti ma si conosce davvero la loro storia e ciò che li ha resi grandi? Molti invece non si conoscono proprio ma le loro gesta hanno cambiato il modo di vivere di tutti noi. E poi ci sono quelli che si conoscono ma non si sa che sono calabresi, e scoprirlo ci rende ancora più orgogliosi di essere nati nella loro stessa terra. Siete pronti ad inorgoglirvi, per l’ennesima volta, con questi nuovi pezzi da novanta “made in Calabria”?

GIOACCHINO DA FIORE

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Gioacchino da Fiore nacque intorno al 1130 a Célico, in provincia di Cosenza, da famiglia ricca e stimata infatti il padre Mauro era tabulario o notaio. Venerato come beato dalla Chiesa cattolica (da parte dei florensi e dei gesuiti Bollandisti), fu monaco, abate, teologo, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta e Dante Alighieri nel XII canto del Paradiso dice di lui: “…il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato…”. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza. Ben presto fu mandato dal padre a lavorare, sempre a Cosenza, presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la Corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, con i Notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo l’Arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano si allontanò definitivamente dalla Corte Reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta, dove ebbe il privilegio di visitare i luoghi della nascita e della predicazione di Cristo. Forse nel corso di questo viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re (Dio).

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Si fece monaco cistercense presso l’abbazia della Sambucina da cui però si allontanò per andare a predicare dall’altra parte della valle vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino Rende. Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove il Vescovo lo ordinò sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Poco tempo dopo si trasferirì proprio qui, dove divenne abate nel 1177. A Corazzo l’abate Gioacchino cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia. Durante questo periodo incontrò, nell’Abbazia di Casamari, il Papa Lucio III che gli concesse la “licentia scribendi”, scaturita dall’interpretazione di Gioacchino di una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Matteo d’Angers. Con l’aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca Campano, fututo Arcivescovo di Cosenza nonchè realizzatore del duomo, iniziò quindi la stesura delle sue opere principali: “La Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento” e “L’Esposizione dell’Apocalisse”.

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Al ritorno da un viaggio a Verona per incontrare Papa Urbano III, si ritirò a Pietralata, da lui ribattezzata Petra Olei, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell’Abbazia di Corazzo. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino, pertanto nell’autunno del 1188 Gioacchino salì in Sila con i suoi discepoli alla ricerca di un territorio abitabile e lo trovò nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. Dopo un complesso confronto tra Gioacchino e il re dei normanni Tancredi, l’asceta ebbe in dono un vasto tenimento posto nelle adiacenze del luogo scelto precedentemente, con l’aggiunta di 300 pecore e 30 some di grano, per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire il protomonastero di Fiore Vetere e successivamente nel 1194, dopo la morte di Tancredi, il nuovo regnante Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II, concesse a Gioacchino privilegi sovrani su tutta la Calabria.

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Gioacchino fondò molti monastreri e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma ricevendo da Papa Celestino III l’approvazione della “Congregazione Florense” e dei suoi Istituti il 25 agosto del 1196. I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e misero a coltura i terreni, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del “novus ordo”. Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale, ultima sua costruzione. Il suoi resti furono traslati nell’abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L’ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.

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I seguaci di Gioacchino subito dopo la sua morte raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditatogli ingiustamente. Il 20 luglio 1684 il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all’Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull’altare vicino al sepolcro dell’abate Gioacchino. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie. All’approssimarsi dell’VIII centenario della morte dell’Abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l’iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana.

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Gioacchino da Fiore ebbe tante interessanti e originali intuizioni tra le quali le più importanti sono:
– l’esistenza di diverse forme di concordia tra l’Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio e con questo concetto, noto come modello “binario della teologia della storia”, data la piena proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di “proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l’età apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro”;
– da questo concetto binario, Gioacchino elabora un “modello ternario”, connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l’analisi teologico-iconografica delle lettere “ALFA” e “OMEGA”;
– dallo sviluppo di queste due concezioni basilari Gioacchino approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle “Tre Età della Storia terrena”, sostenendo che se c’era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre (corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda (784-746)) e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio (appresentata dal Vangelo e compresa dall’avvento di Gesù, estesa nel tempo che va da Ozia fino al 1260), allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del “millennio sabbatico”, ovvero quel periodo in cui l’umanità attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. Un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l’uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e il ricongiungimento di cristiani ed ebrei.

02-gioachino-da-fiore-webNel suo “Monasterium” delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione della chiesa, della quale condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere, con la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un’età di perfezione.

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Oltre ad essere un punto di riferimento spirituale del tempo, infatti tra coloro che seguivano le sue idee c’erano regnanti e papi, le sue straordinarie intuizioni hanno cavalcato i secoli arrivando ai giorni nostri, influenzando sia alcuni movimenti religiosi, tra cui il più importante è senza dubbio l’ideologia dei Francescani spirituali francesi e italiani tra i quali esponenti ricordiamo Ubertino da Casale, Jacopone da Todi, Arnaldo de Villanova e moltissimi altri e addirittura l’apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi e la struttura urbanistica che i francescani diedero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc., e sia di molte personalità tra cui Roger Bacon (Bacone), Girolamo Savonarola, Celestino V, Michelangelo Buonarroti nella costruzione della struttura compositiva della Cappella Sistina, Dante Alighieri citandolo direttamente o indirettamente diverse volte nel Paradiso e Barack Obama che fece del pensiero di Gioacchino da Fiore, oltre che un punto di riferimento per la stesura della sua tesi di laurea, anche la base portante dei sui discorsi durante la sua campagna elettorale per le presidenziali e successivamente citandolo a più riprese nei discorsi alla nazione, definendolo come “maestro della civilta’ contemporanea” e “ispiratore di un mondo più giusto”, usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto “change we can”, per indicare la necessità di un cambiamento radicale della storia e proclamandolo il portabandiera di una società più equa e di un’epoca straordinaria, in cui lo spirito riuscirà a cambiare il cuore degli uomini.

MILONE DI CROTONE

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Tra i personaggi più illustri della Magna Grecia e certamente l’atleta più forte di tutti i tempi, il grande Milone fu pugile e lottatore imbattuto per oltre vent’anni. Nato e vissuto nell’antica Kroton (Crotone) del VI secolo a.C. grazie alle sue gesta sportive e non, divenne tra gli uomini più influenti del gruppo aristocratico che governava la città di Miscello. La sua prima vittoria sportiva la ottenne all’età di 15 anni (540 a.C.), partecipando e vincendo nella disciplina sportiva della lotta. Si dice infatti che, per allenarsi, era solito portare sulle spalle vitelli, così da potenziare maggiormente la sua massa muscolare. Può essere considerato a tutti gli effetti il prima culturista della storia. Nel corso della sua vita fu capace di sei vittorie olimpiche disputate fra il 540 a.C. e il 512 a.C. e di altre sei vittorie ai Giochi Pitici di Delfi che si tenevano in onore di Apollo, dieci ai Giochi Istmici presso Corinto e nove ai Giochi Nemei. In 28 anni di carriera, Milone vince 33 volte. La sua specialità era l’orthopale, un tipo di lotta. Per di più, quando partecipò alle olimpiadi per la settima volta e si scontrò con un suo concittadino, il diciottenne Timasiteo, il quale lo ammirava fin da piccolo e da cui imparò anche molte mosse, alla finale, il suo avversario si inchinò senza nemmeno iniziare a combattere, in segno di rispetto all’uomo a cui gli dei diedero in dono la forza e la disciplina. Forse siamo di fronte al primo caso nella storia delle Olimpiadi antiche in cui sappiamo il nome del secondo classificato, anch’esso calabrese, in quanto le liste tramandate sin dall’antichità hanno per protagonisti solo i primi classificati.

pancrazioUna leggenda vuole che in occasione dei giochi olimpici, prima di vincerli, corse da Crotone ad Olimpia con un toro sulle spalle provocando un grande clamore. Tanta gloria rese Milone uno dei personaggi più illustri e famosi del mondo antico, conosciuto ovunque per la sua proverbiale forza e considerato eroe leggendario appartenente alla stirpe degli Eraclidi, discendente diretto di Eracle, a sua volta ritenuto “ecista morale” della città di Crotone. Molte notizie ci vengono tramandate da storici come Diodoro Siculo che lo inserisce anche in alcuni scenari cittadini che ne hanno fatto di lui, eroe “nazionale”. Era noto, oltre che per la grande forza, anche per il grande appetito. Pare, infatti, che una volta avesse portato di peso un toro di 4 anni allo stadio, fatto un giro di campo con l’animale sulle spalle, che l’abbia ucciso con un colpo solo e che se lo sia mangiato tutto nello stesso giorno. Come se non bastasse, si racconta che egli fosse alto circa due metri e che era capace di sollevare anche un uomo con un dito della mano.

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Del resto, ad uno sportivo vincente come lui potevano essere portati solo onore e rispetto, tanto che un suo ammiratore di nome Dameas, come regalo, gli fece erigere una statua nello stadio di Olimpia in cui Milone era rappresentato ritto su un disco con i piedi uniti. Milone è noto anche per essere stato discepolo di Pitagora e sposo di sua figlia Myia. In occasione di un terremoto, che colse il gruppo dirigente aristocratico guidato da Pitagora mentre era in riunione proprio in casa del filosofo, Milone si sostituì ad una colonna spezzata dal sisma reggendo sulle sue spalle il soffitto dell’abitazione permettendo così alla struttura di non crollare e di far scappare tutti in tempo. Mito o realtà storica? Sta di fatto che quando si tramandano le gesta e le imprese di certi affascinanti personaggi, tutto ciò che li riguarda viene molto romanzato, per far risaltare ancora di più le imprese. Milone fu comandante dell’esercito crotoniate in occasione della famosa battaglia di Trionto contro i sibariti del 510 a.C. che sancì la sconfitta e la distruzione dell’opulenta colonia di Sybaris. Milone vestito come Eracle, con la clava e la pelle di leone sulle spalle, guidò il suo esercito verso una delle vittorie più schiaccianti della storia antica. Persino Democede, crotoniate e medico personale del re Dario di Persia, per tornare a casa contro il parere del re persiano, sposò in tutta fretta una figlia di Milone, costringendo Dario a desistere dai suoi piani.

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La data della morte di Milone è sconosciuta ma, come per la maggior parte degli antichi greci famosi, la dinamica del decesso è divenuta un mito. Secondo Strabone e Pausania, l’ormai vecchio Milone stava attraversando un bosco quando s’imbatté in un ulivo secolare sacro alla dea Hera, antistante appunto al tempio Crotonese di Hera Lacina, dal tronco cavo. Il lottatore inserì le mani nella fenditura per spezzare in due il tronco in un’ultima dimostrazione di forza, ma vi rimase incastrato e divenne preda di un branco di lupi.

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Il mito della forza e dalla vita di Milone ha alimentato la fantasia di diversi artisti, facendo del lottatore celebre soggetto di opere d’arte e di letteratura. Già nel 1590 il bronzista veneziano Alessandro Vittoria fuse una statua raffigurante Milone. La morte del lottatore divenne poi un soggetto ricorrente nella produzione artistica del XVIII secolo ma, per onorare il personaggio, si ricorse spesso alla raffigurazione dei leoni invece che dei lupi quali responsabili della sua morte. Nella scultura “Milone di Crotone” del francese Pierre Puget (1682), l’artista predilesse invece una rilettura del mito in chiave barocca, focalizzando come soggetti la vittoria dell’età sulla forza del lottatore e la vana gloria del trofeo olimpico. L’originale si trova nel museo del Louvre a Parigi ma esistono anche delle copie che si trovano nel Parque Buenos Aires di San Paolo in Brasile, in Cours Estienne d’Orves a Marsiglia in Francia e nel piazzale antistante il PalaMilone a Crotone. Il “Milone di Crotone” di Étienne-Maurice Falconet (1754) permise all’artista di ottenere l’accesso alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di Parigi. Sempre nel Settecento, il pittore Joseph-Benoît Suvée realizzò l’olio su tela “La morte di Milone”. Nel XIX secolo, uno sconosciuto artista realizzò una statua bronzea di Milone ora in Holland Park, a Londra e il pittore irlandese James Barry tornò a raffigurare su tela la morte del lottatore.

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Una statua di Milone si trova allo stadio dei Marmi di Roma. François Rabelais citò Milone di Crotone nel suo “Gargantua”, Shakespeare fece lo stesso nel secondo atto dell’opera “Troilo e Cressida” e Alexandre Dumas descrive brevemente la figura di Milone in “Vent’anni dopo” e lo cita nel “Visconte di Bragelonne”. La Nestlè produce bevande e prodotti ispirati al famoso Milo di Crotone. La Coca Cola dedica una cartolina ai più grandi campioni Olimpici e tra di essi Milone di Crotone. Nel Maine, negli Stati Uniti, esiste una città, Milo, che prende il nome da Milone di Crotone.

RENATO DULBECCO

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Renato Dulbecco nacque a Catanzaro il 22 Febbraio 1914 da Leonardo, ingegnere ligure del Genio Civile, e da Maria Virdia, proveniente da una famiglia di professionisti originari di Tropea. Fin da bambino fu educato dai genitori al sacrificio e allo studio, era ateo e fortemente antireligioso. All’età di cinque anni, dopo la fine della prima guerra mondiale, si trasferì in Liguria con la sua famiglia, nella casa paterna di una frazione di Imperia: trascorse un’infanzia serena che favorì la sua curiosità e la sua vocazione per la ricerca scientifica. Qui visse anche alcune esperienze, fra cui la morte dell’amico Peppino, che furono decisive per la scelta della sua carriera futura, dal momento che si accese in lui la consapevolezza dell’impotenza della medicina dinanzi a malattie molto gravi. Qui Dulbecco compì gli studi secondari, presso il Regio Liceo ginnasio Edmondo De Amicis ed il suo tempo libero lo trascorreva presso l’Osservatorio Meteorologico e Sismico della sua città dove iniziò a mostrare una spiccata propensione per le materie scientifiche e una notevole manualità tecnica che lo portarono a costruire strumenti all’avanguardia grazie a quanto aveva appreso dalla lettura di alcune riviste scientifiche del tempo come il primo sismografo elettronico, poi usato da Herlitska per registrare le contrazioni dei muscoli.

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Seguendo le orme di uno zio materno, nel 1930, a soli sedici anni, fece il proprio ingresso nella facoltà di medicina dell’Università di Torino, nello stesso anno di Rita Levi Montalcini e un anno dopo l’iscrizione di Salvador Luria, compagni con cui condividerà negli anni a venire il magistero di Giuseppe Levi, l’emigrazione negli Stati uniti e il premio Nobel. Fra i primi del corso, al secondo anno venne ammesso come interno nel laboratorio di Giuseppe Levi, anatomista di fama internazionale, nonché pioniere della coltura dei tessuti in vitro. Nell’Istituto di anatomia normale umana ebbe la possibilità di disporre «di un laboratorio e di un banco per poter lavorare» ai propri esperimenti, ma fu anche un’occasione per conoscere meglio la personalità carismatica del maestro, un docente che si era imposto alla sua attenzione per il rigore scientifico e l’«esplicito antifascismo». Dopo qualche anno, il giovane Renato lasciò il laboratorio di Levi e si trasferì presso quello di Anatomia Patologica di Ferruccio Vanzetti, divenendo anche interno all’ospedale Mauriziano, spinto dall’interesse per la clinica. Si laureò a soli 22 anni, nel 1936, con una tesi sulle alterazioni del fegato dovute al blocco nell’efflusso della bile e ricevette in quest’occasione diversi premi, essendo stato riconosciuto come il migliore laureato dell’università con la migliore tesi.

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Partì per il servizio militare come ufficiale medico fino al 1938. Un anno dopo é richiamato per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e inviato prima sul fronte francese e quindi in Russia. Fu una caduta sul ghiaccio e la lussazione di una spalla durante l’offensiva sul Don a garantirgli un provvidenziale periodo di congedo: una volta dimesso decise infatti di disertare le armi sino al giorno della liberazione per aiutare come medico i partigiani nascosti sulle colline torinesi e per un breve periodo fu membro del Comitati di Liberazione Nazionale. Successivamente avvia l’attività di ricerca e contemporaneamente si iscrive alla facoltà di Fisica, che frequenta e concluse dal 1945 al 1947. Su consiglio di Rita Levi Montalcini, si trasferisce negli Stati Uniti per lavorare con Salvador Luria, ormai docente all’università di Bloomington e scoprendo un mondo totalmente diverso dalla sua terra natia. Si imbarcano sulla stessa nave, la Montalcini andrà a St. Louis, lui alla Indiana University. Negli Usa Dulbecco studia certi virus che attaccano i batteri, per ciò chiamati batteriofagi. Fa la prima scoperta quasi per caso, quando si accorge che questi virus vengono riattivati dalla luce ultravioletta di un tubo al neon.

Renato Dulbecco

Il contratto di lavoro offertogli da Luria prevedeva una durata di due anni, ma date le dimostrazioni di grande capacità e acutezza dello scienziato, egli ebbe la possibilità di proseguire a Bloomington le sue ricerche, acquisendo definitivamente la cittadinanza americana. La stima da parte del suo “datore di lavoro” fu tale che nell’estate del 1948, lo invitò a lavorare con lui per alcuni mesi presso il Cold Spring Harbor, un prestigioso laboratorio in cui affluivano scienziati da tutte le parti del mondo. Intanto aveva conosciuto Max Delbruck, un collaboratore di Luria. Delbruck (Nobel 1969) lo invita al California Institute of Technology di Pasadena, più noto come Caltech, uno dei più importanti laboratori scientifici del mondo. Qui sviluppa ricerche sui virus animali che si dimostreranno utili a Sabin per la preparazione del vaccino per la poliomielite. A partire da questo momento, la fama dello scienziato accrebbe e tutta la ricerca sui virus fu rivoluzionata.

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Nel 1958 comincia ad interessarsi alla ricerca oncologica, studiando virus animali che provocano forme di alterazione nelle cellule. La scoperta più importante è la dimostrazione che il DNA del virus viene incorporato nel materiale genetico cellulare, per cui la cellula subisce un’alterazione permanente. Nel 1964 vince il premio Lasker per la ricerca medica e sempre per queste ricerche nel 1975 gli fu conferito il premio Nobel per la medicina con David Baltimore e Howard Temin. La sua sorpresa alla notizia di quest’ultimo riconoscimento si evince chiaramente da queste parole: « Il cuore mi saltò in gola. Avevo capito bene? […] Non osavo dirlo, ma facendomi coraggio mormorai: “il premio Nobel”». Alla cerimonia del Nobel, Renato Dulbecco, che era da sempre un alfiere della lotta contro il fumo, non perse l’occasione per lanciare una dichiarazione contro il tabagismo.

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Dal 1972 si trasferisce a Londra, all’Imperial Cancer Research Fund, dove ha la possibilità di lavorare nel campo dell’oncologia umana, e successivamente al Salk Institute di La Jolla (California). La personalità del grande scienziato, mai pago di conoscenza, lo portò ad immergere se stesso in un nuovo colosso della scienza moderna: il Progetto Genoma, con l’obiettivo di mappare l’intera sequenza del genoma umano, in modo da comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro. Conoscere tutti i geni dell’uomo era l’anello mancante di questa catena vitale, e l’unico modo per smuovere la titubante comunità scientifica fu quello di lanciare il progetto mediante una delle riviste scientifiche più autorevoli: Science. Nell’arco di pochi mesi, furono attuate numerose iniziative, la scintilla del nuovo “ordigno” della scienza era stata innescata. Nel 1993 rientra in Italia dove lavorò presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Milano, oltre a guidare la Commissione Oncologica Nazionale e a ricoprire l’incarico di presidente emerito del Salk Institute, completando, nel 2003, la mappatura del genoma.

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Renato Dulbecco è stato insignito della laurea honoris causa in Scienze dall’Università Yale ed è stato membro di diversi organismi scientifici internazionali, tra cui l’Accademia dei Lincei, la National Academy of Sciences statunitense, la Royal Society britannica e l’IPPNW (International Physicians for the Prevention of Nuclear War). Nel 1999 presenta il quarantanovesimo Festival di Sanremo insieme a Fabio Fazio e Laetitia Casta. Muore il 20 febbraio del 2012 a La Jolla, località nei pressi di San Diego dove risiedeva da anni, colpito da un infarto tre giorni prima del suo 98º compleanno.

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Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, treccani.it, calabriatours.org, mediterraneoantico.it, lastampa.it, biografieonline.it.

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (3° Parte)

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I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (3° Parte)

Continua il nostro excursus tra le personalità calabresi che, con la loro arte e la loro genialità, hanno cambiato le sorti della storia e della cultura italiana e mondiale. Queste pillole hanno interessato molto i nostri lettori e anche in questo articolo cercheremo  di conoscere alcuni personaggi che ci rendono orgogliosi di appartenere a questa fantastica terra chiamata Calabria.

GIOVANNI BARRACCO

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Il barone Giovanni Barracco nacque il 28 aprile 1829 a Isola Capo Rizzuto, nella Calabria ionica, ottavo di dodici figli, da Luigi Barracco e da Maria Chiara Lucifero dei marchesi di Aprigliano in una nobile e ricca famiglia del Regno delle Due Sicilie. Le fortune dei Barracco erano principalmente legate alle vaste proprietà terriere situate nell’odierna Calabria. L’apice della fortuna dei Barracco, che legano la loro storia a quella del latifondo calabrese, può essere stabilito al 1868 quando, dai documenti dell’archivio di famiglia, risulta che la proprietà aveva raggiunto i 30.000 ettari (una superficie di oltre 2250 chilometri quadrati), per oltre 100 chilometri di lunghezza, comprendendo un territorio che andava da Crotone, sede di un settecentesco Palazzo Barracco, fino al centro della Sila Grande. Questa proprietà faceva dei Barracco i più grandi proprietari terrieri d’Italia e la famiglia più ricca del Regno delle Due Sicilie e il padre Luigi era introdotto alla corte dei Borbone dove rivestiva cariche onorifiche (tra cui quello di Gentiluomo di Camera del Re). Giovanni Barracco trascorse i primi anni della sua vita in Calabria dove fu educato privatamente da Costantino Lopez, un erudito sacerdote originario di San Demetrio Corone. Alla morte del padre, nel 1849, Giovanni si trasferì a Napoli presso il fratello maggiore che aveva stabilito la sua residenza in un sontuoso palazzo a via Monte di Dio.La famiglia, ormai pienamente inserita negli ambienti aristocratici napoletani aveva scelto di aderire, dopo i moti del ’48, agli ideali liberali che animavano lo scenario politico dell’epoca. Erano gli anni della repressione e la famiglia prendeva le distanza dalla corte dei Borbone: mentre il primogenito Alfonso rifiutava il titolo di cavaliere dell’Ordine di S. Gennaro, anche Giovanni rispose negativamente alla proposta del giovane re Francesco II per una carica onorifica a corte e indusse la famiglia a finanziare con 10.000 ducati l’impresa garibaldina in Calabria.

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Intanto il nome che portava gli apriva le porte dell’alta società. Cominciò quindi a frequentare un circolo di intellettuali che si riuniva presso Leopoldo di Borbone, introdotto dal cognato Enrico d’Aquino principe di Caramanico (che ne aveva sposato la sorella Emilia Barracco), fratello del Re ma animato da ideali liberali. In quell’ambiente, frequentato da artisti e letterati, conobbe Giuseppe Fiorelli, il grande archeologo che divenne direttore degli scavi di Pompei e del Museo Archeologico di Napoli. Questa amicizia, che durò tutta la vita, lo introdusse all’amore per l’archeologia e l’arte antica. L’impegno politico di Barracco e le sue idee liberali lo portarono a partecipare attivamente all’organizzazione del Plebiscito e a ricoprire la carica di consigliere comunale a Napoli nel 1860, mentre nel 1861 il collegio di Crotone e quello di Spezzano Calabro lo fecero eleggere deputato nel primo parlamento dell’Italia unita come rappresentante della destra storica. In questa veste si trasferì a Torino, allora capitale del Regno, dove ritrovò l’antica passione dell’alpinismo diventando il primo Italiano ad arrivare in vetta al Monte Bianco ed al Monte Rosa, e nel 1863, primo tra gli italiani, insieme a Quintino Sella, a scalare il Monviso: da quell’avventura nacque il Club Alpino Italiano CAI che, ispirandosi ad analoghe associazioni esistenti in altri paesi europei, ha per scopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale.

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Tra i primi incarichi parlamentari Barracco fu chiamato a far parte della commissione che, su suggerimento di Cavour, conferì a Vittorio Emanuele II il titolo di re d’Italia. Dopo un breve passaggio a Firenze, legato allo spostamento della capitale, Giovanni Barracco giunse a Roma e scelse la città come sua patria d’elezione. Fu rieletto alla Camera dei deputati oltre che per l’VIII (quella del primo parlamento unitario) anche per la IX, l’XI e la XII legislatura, ricoprendo la carica di questore e poi di vicepresidente della Camera. In parlamento fu membro della Commissione bilancio e relatore in quella degli esteri. La sua intensa attività parlamentare di meridionalista sempre teso al progresso morale ed economico del Mezzogiorno d’Italia è ben documentata. Si prodigò con passione per sottolineare l’urgente necessità di strutture adeguate per lo sviluppo del Meridione, per favorire l’incremento dei trasporti e gli scambi commerciali, per la salvaguardia e il potenziamento del porto di Crotone, per la tutela della montagna e della collina tramite l’istituzione di una politica forestale e di rimboschimento, per l’irregimentazione delle acque, per la diffusione dell’edilizia rurale, per l’introduzione di colture più redditizie in agricoltura. Promosse e difese, assieme al conterraneo Bruno Chimirri, la Legge Speciale Pro Calabria “Provvedimenti a favore della Calabria”, per cercare di risolvere, con avanzate idee economiche e sociali, l’arretratezza della sua terra. Dal 1875, fece parte della Commissione che doveva approvare le “opere idrauliche per preservare la città di Roma dalle inondazioni del Tevere”. Nel 1886, su proposta di Agostino Depretis, Barracco fu nominato Senatore del Regno: anche al Senato ricoprì la carica di questore occupandosi attivamente e con passione dei lavori di restauro e di abbellimento di Palazzo Madama, impegno che ricordò in un volumetto edito nel 1904. In quegli anni si occupò attivamente dei provvedimenti relativi al patrimonio artistico: nel 1888 intervenne sulla creazione della Passeggiata Archeologica e sulla redazione della Legge Coppino “per la conservazione dei monumenti e degli oggetti di arte e di antichità”.

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Ma non dimenticò mai la Calabria: memorabile rimase un suo intervento del 1906 sui “provvedimenti a favore delle Calabrie dopo il terremoto del 1905”. Alla fine della sua vita, nel 1911 si ricorda il suo ultimo intervento di rilievo al Senato: Barracco scrisse la relazione sul disegno di legge “per la sovranità piena ed intera del Regno d’Italia sulla Tripolitania e sulla Cirenaica”, ispirata ad alti sensi patriottici. Nello stesso anno partecipò all’inaugurazione del Monumento a Vittorio Emanuele II e alle celebrazioni per il cinquantenario del Regno d’Italia: con grande commozione ricevette il caloroso applauso dell’intera aula del Senato, tributato all’ultimo rappresentante ancora vivente della commissione che nominò Vittorio Emanuele II Re d’Italia. Fu accolto nel circolo della Regina Margherita, alla quale dedicò una raccolta di poesie intitolata Regalia, con cui strinse un’intensa amicizia cementata da comuni interessi intellettuali e dalla passione per la montagna che entrambi condividevano. E fu Barracco che, a nome del Senato, porse alla Regina le condoglianze in occasione dell’uccisione del Re Umberto I.

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La sua passione culturale fu tuttavia sempre preponderante sugli altri interessi ed attività. Questa lo portò a costituire sin dalla giovinezza una vasta biblioteca, donata poi al Comune di Roma assieme alla collezione archeologica, e comprendente l’opera omnia di autori quali Omero, Euripide, Tucidide e Senofonte, nonché testi di archeologia classica ed egizia, di cui Barracco fu grande conoscitore (fu insignito per questo della cittadinanza onoraria di Roma). Alla morte di Barracco, la collezione comprendeva oltre 380 pezzi di arte egizia, sumera, assira, etrusca, cipriota, fenicia, greca, ellenistica, italica, romana e medievale.
Giovanni Barracco morì il 14 gennaio 1914.

ALFONSO RENDANO

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Alfonso Rendano fu uno dei musicisti italiani più significativi della tradizione tardo-romantica sviluppatasi fra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Compositore versatile e originale, fu anche un pianista straordinario. Esponente della grande scuola pianistica napoletana, è poco conosciuto in Italia, ancor meno in Calabria, che pur gli ha dedicato il suo principale teatro a Cosenza. Era un musicista dalla personalità spiccata, peraltro riconosciuta dalla critica musicale del suo tempo, ma oggi la sua conoscenza è limitata a un pubblico d’essai e affidata a qualche rara incisione discografica. La critica musicale attuale ha avviato una profonda rivalutazione critica della sua opera, riconoscendogli una propria originalità stilistica ed espressiva nel panorama musicale italiano fra Otto e Novecento. Nacque a Carolei (Cosenza) il 5 aprile 1853, da Antonio e da Giuseppina Bruno. Si avvicinò precocemente alla musica, da autodidatta, suonando fin da bambino l’organo di una chiesa del suo paese. Il padre, resosi conto delle sue doti non comuni, gli fece compiere dapprima studi di pianoforte a Cosenza, e nel 1863 decise di fargli sostenere l’esame di ammissione al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, superato tanto brillantemente da sollecitare l’attenzione del direttore, Saverio Mercadante. Rimasto studente del Conservatorio napoletano per soli sei mesi, studiò poi privatamente con Nicola Nacciarone e Giorgio Miceli, il quale lo fece esordire nel 1866 al Circolo Bonamici di Napoli e fin da subito fu giudicato un raro talento musicale. Fu per breve tempo anche allievo di Sigismund Thalberg, che nel capoluogo campano aveva preso stabile dimora. Nel 1867 proprio Thalberg gli propiziò un incontro con Gioacchino Rossini a Parigi, il quale procurò al ragazzo una borsa di studio del governo italiano per poter seguire le lezioni di Georges Mathias, illustre allievo di Fryderyk Chopin. Rimasto nella capitale francese dal 1867 al 1870, Rendano mieté consensi come pianista in diversi salotti aristocratici e in alcuni concerti pubblici. Partito nel 1870 per una tournée in Inghilterra, da Londra si diresse alla volta di Lipsia, dove perfezionò gli studi con Carl Reinecke ed Ernst Richter. Le esibizioni al Gewandhaus lo rivelarono alla critica tedesca e lo misero nella condizione di intensificare l’attività pianistica. Rientrato in patria nel 1874, Rendano diede concerti in varie città italiane, non senza intraprendere altri viaggi Oltralpe.

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Conobbe Anton Rubinstein in Germania, dove si esibì sotto la direzione di Bottesini, e sarà proprio il celebre compositore e pianista russo a diffondere le musiche di Rendano in Russia. Nel 1880 a Vienna conobbe Hans von Bülow e strinse amicizia con Franz Liszt, che lo invitò a Weimar, dove Rendano si trattenne per tre mesi: qui, grazie all’intercessione dello stesso Liszt, ebbero luogo le prime esecuzioni delle due composizioni strumentali di maggior respiro concepite dal pianista italiano negli anni precedenti, il Concerto per pianoforte e orchestra e il Quintetto per pianoforte e archi. Eseguito alla corte granducale insieme a Liszt nella trascrizione per due pianoforti, il Concerto di Rendano (finito di comporre entro il 1875) aveva un carattere pionieristico in un contesto, quello italiano, dove fino ad allora mancavano quasi del tutto esempi significativi di concerti per pianoforte; per quanto scarsa sia poi stata la fortuna esecutiva, esso aprì la strada alle analoghe composizioni di Giovanni Sgambati (1880) e Giuseppe Martucci (1878 e 1885). Sorte simile ebbe il Quintetto, composto intorno al 1873, uno dei primissimi esemplari della discreta fioritura di tale genere cameristico nell’Italia dell’ultimo quarto di secolo. Al rientro da Weimar, nel settembre del 1880, Rendano sposò la pianista milanese Antonietta Trucco, dalla quale ebbe tre figli: Fausto, morto in giovane età, Franz, battezzato da Liszt, e Maria. Dopo avere suonato ancora in varie città europee, nel 1883 tornò definitivamente in Italia, producendosi più volte in pubblico e affermandosi con scelte di repertorio che lo ponevano in linea con l’impegno interpretativo di Martucci e Sgambati. Negli stessi anni compose anche un buon numero di brani pianistici oscillanti tra il pezzo caratteristico (Barcarola, Valse fantastique), lo ‘stile antico’ (Tre sonatine in stile antico), e i richiami al folclore calabrese (Il montanaro calabro, Variazioni sopra un tema calabrese).

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Quella di Rendano fu vera gloria, e ciò indusse il Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli a conferirgli nel 1883 la cattedra di pianoforte, che tuttavia tenne per poco tempo: a causa dell’ostilità con cui fu accolta la sua proposta di riforma degli studi musicali, imperniata sull’idea di organizzare le cattedre secondo un sistema graduale anziché parallelo, si dimise dall’incarico nell’aprile 1886. In un suo opuscolo, “In proposito dell’insegnamento musicale” (Napoli 1889), portò a sostegno delle sue idee le testimonianze e le lettere inviategli da famosi didatti come Mathias, Bülow, Reinecke e Salomon Jadassohn. Nel frattempo fondò sempre a Napoli una propria scuola di pianoforte, nella quale chiamò a insegnare Alessandro Longo e Francesco Cilea. Dal 1889 divenne direttore artistico e pianista principale della Società del Quartetto, ruolo ricoperto fino allo scioglimento dell’associazione (1891). Nel 1892 Rendano fece ritorno a Cosenza, dove rimase circa un decennio per far fronte alle difficoltà generate dal tracollo economico della famiglia. In quel periodo, ritiratosi dall’attività concertistica, si dedicò a comporre il dramma lirico Consuelo, libretto di Francesco Cimmino (tratto dal noto romanzo di George Sand, che ha tra i personaggi Nicola Porpora, insegnante di canto della zingarella eponima). La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Regio di Torino il 24 marzo 1902: lontano dal linguaggio verista, questo unicum teatrale di Rendano riscosse un certo interesse nella critica che ravvisò nella partitura una «copiosa vena melodica» e una «padronanza assoluta della tecnica armonica e strumentale» (Valetta, 1902, p. 743).

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Tornato a Napoli nel 1901, poco dopo Rendano si stabilì definitivamente a Roma, riprendendo anche l’attività concertistica. Fra il 1904 e il 1909 ebbero una certa risonanza i grandi cicli di concerti intitolati “Letture ed interpretazioni musicali”, tenuti a Napoli, Roma e Milano: sviluppando gli esempi dei ‘concerti storici’ di Anton Rubinstein, Rendano propose serie di esecuzioni integrali di capisaldi della letteratura per tastiera dal Settecento fino al tardo Ottocento, includendo le 32 Sonate di Beethoven e tutti gli Studi di Chopin. Negli anni intorno al primo conflitto mondiale Rendano diradò sempre di più le apparizioni pubbliche fino all’ultimo concerto, dato al Teatro Valle di Roma nel 1925. Si dedicò allora in prevalenza all’insegnamento privato e a ricerche sulla meccanica del pianoforte. Introdusse in quel tempo un terzo pedale allo scopo di aumentare l’espressività e la possibilità di estensione di un suono o un accordo determinato indipendentemente dagli altri suoni: quest’innovazione, brevettata nel 1919 come “pedale indipendente” o “pedale Rendano”, costituì un passo avanti rispetto al pedale tonale (introdotto nei pianoforti Steinway nel 1874). La sua produzione comprende circa settanta brani per solo pianoforte, un Concerto per pianoforte e orchestra, un Quintetto per pianoforte e archi, un Allegro in La minore per due pianoforti, l’opera Consuelo ed alcune composizioni d’insieme, fra le quali la Marcia funebre in morte di un pettirosso per piccola orchestra. In particolare, il citato Quintetto per pianoforte e archi, riassume in modo emblematico lo stile e la poetica del maestro Rendano, sospeso fra il Romanticismo di matrice tedesca e una certa musicalità tipica della tradizione popolare calabrese. Significativo, in tal senso, il movimento centrale Trio “alla calabrese”, che ripropone il tema di un antico canto popolare calabro che filosofeggia sulla morte. Morì a Roma il 10 settembre 1931.

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Nel 1935 gli fu intitolato il teatro di tradizione Comunale di Cosenza, fulcro delle attività artistiche dell’intera Regione. Di stile neoclassico ottocentesco, dove spiccano belle decorazioni pittoriche e in stucco, ha forma a ferro di cavallo con tre ordini di palchi e una galleria e con una capienza di 800 posti.

RINO BARILLARI

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Saverio Barillari detto Rino è nato a Limbadi nel 1945 e per le sue doti da fotografo dei vip è soprannominato “The King of Paparazzi” (il re dei paparazzi). Le sue parole esprimono al meglio i suoi inizi: «Conoscevo tutti i personaggi dello spettacolo perché aiutavo mio zio, titolare della sala cinematografica del paese in cui sono nato, Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. Poi decisi di andare a vederlo dal vivo, quel mondo. Arrivai a Roma con due amici. Loro non hanno resistito, e dopo un po’ sono tornati a casa. Io sono rimasto, e sono ancora qui. È stata dura. Dovevo cercarmi da mangiare e da dormire. Ho fatto sacrifici perché non ero raccomandato. E dovevo pure stare attento a non fare casino, sennò la polizia mi rimpatriava. In un certo senso ero un po’ come un immigrato clandestino». Trova lavoro aiutando gli “scattini”, accompagnandoli nei loro appostamenti venatori non autorizzati fra piazza di Spagna e piazza del Popolo, Fontana di Trevi e, soprattutto, a via Veneto. Di lì a poco, compra una macchina fotografica, una Comet Bencini. Vende i negativi delle foto scattate di giorno ad agenzie giornalistiche come Associated Press, UPI e ANSA. Da mezzo secolo fa questa vita. Mai avrebbe immaginato di diventare lui stesso un pezzo di quella storia italiana che va raccontando col suo lavoro. Lui è un “fotografo per caso”: “Non sono andato a scuola. Ma ho avuto la grande fortuna di vivere accanto ai migliori fotoreporter del mondo. Loro mi hanno fatto capire la fotografia. Io sapevo a malapena cosa fosse una pellicola… All’inizio, per sbarcare il lunario, facevo il loro fattorino. Poi, senza che se ne accorgessero, ho imparato il mestiere. Apprendevo la tecnica senza rompergli le scatole. Facevo finta di sbagliare e dal modo in cui meccanicamente mi correggevano capivo e rubavo i trucchi del mestiere. Del resto, anch’io nel mio piccolo spesso risultavo molto utile alle loro eroiche performance di paparazzi, ad esempio quando mi usavano come “provocatore”. Nel momento in cui individuavano il vip, mi mandavano in avanscoperta come un minuscolo centravanti di sfondamento. Io creavo confusione poi loro arrivavano e colpivano la vittima famosa con mitragliate di scatti.”

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Il celebre fotoreporter della “dolce vita” capitolina, il ragazzo di Calabria approdato nella capitale alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, conosciuto in tutto il mondo, è un instancabile cacciatore di prede famose,ancora oggi attivissimo. Innumerevoli i suoi trofei, tra cui le celebri stars internazionali rimaste per sempre impigliate nelle sue pellicole come i Beatles, Marlon Brando, Audrey Hepburn, Jean Paul Belmondo, Kirk Douglas, Shirley McLaine, Richard Burton, Liz Taylor, Peter O’Toole, Frank Sinatra, Ingrid Bergman, Brigitte Bardot, per non parlare delle stars nostrane come Virna Lisi, Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Vittorio Gassmann, Anna Magnani, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, e ai vips più moderni come Robert De Niro, Sylvester Stallone, Al Pacino, Francis Ford Coppola, Michael Jackson, Demi Moore, Angelina Jolie, Elton John, Matt Damon, Madonna, Maradona e Lady Gaga. Inutile tentare di stilare l’elenco completo. Impossibile. Una rissa con Peter O’Toole in Via Veneto gli porta la notorietà. È il 1963, l’attore gli spacca un orecchio e il padre del giovane Barillari sporge denuncia perché minorenne. Durante 54 anni di carriera da paparazzo Rino Barillari ha collezionato 162 visite al pronto soccorso, 11 costole rotte, 1 coltellata, 76 macchine fotografiche fracassate, 40 flash divelti, numerose manganellate durante i tumulti di piazza e coinvolto in diverse sparatorie (terrorismo, rapine, rapimenti e fatti di cronaca nera). Dagli anni sessanta in poi Barillari si occupa di cinema, degli anni di piombo e di vari episodi di cronaca nera lavorando per Il Tempo e dal 1989 per Il Messaggero.”Sono stati tempi duri, in cui ho pianto e sofferto molto. Mi è capitato di fotografare amici stesi a terra, sul punto di morire: pochi minuti dopo non c’erano più, non facevano neppure in tempo ad arrivare in ospedale. In quei momenti molti mi hanno accusato di cinismo, ma poi si è compreso il valore di quello che stavo realizzando. Era doloroso, eppure bisognava rendere una testimonianza, bisognava fare la storia”.

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Il Re dei “paparazzi” è un epiteto di cui va fiero infatti racconta: “Lo portò alla ribalta Fellini nella “Dolce vita” e deriva proprio dalla Calabria infatti lo prese dal libro “Sulle rive dello Jonio” di George Gessing (Coriolano Paparazzo era un albergatore catanzarese che aveva ospitato lo scrittore inglese nel suo viaggio in Calabria), e oggi è il terzo vocabolo italiano più conosciuto nel mondo. Come non esserne fieri? Il problema è che è un mestiere in via di estinzione. Con la scusa degli scandali ne stanno distruggendo la credibilità. Oggi chiunque può improvvisarsi paparazzo. Basta un cellulare e si va all’arrembaggio, per sfornare tonnellate di foto postprodotte, finte. E poi dilagano i servizi anonimi costruiti. Questo crea un bel po’ di difficoltà a chi come me ci mette la firma e la faccia.” E continua: “Sono cambiate le tecnologie per la fotografia, adesso ci sono le macchine digitali e i grandi obiettivi. Ma soprattutto sono cambiati i personaggi. Oggi la star è costruita da un’équipe: c’è una produzione intera dietro a un personaggio, che di sé offre in ogni momento un’immagine studiata nei dettagli. Al reporter non rimane niente da documentare se non quello che la star stessa vuole mostrargli: non si può entrare nella sua vita privata, è tutta una finzione. Sono più stanchi, annoiati. Stufi anche della gente che li ferma per i selfie. Alcuni si autopromuovono pubblicando gli scatti sui propri siti. E il servizio se lo fanno da soli: l’attore rivela di essere innamorato, l’attrice di essere incinta. Che gusto c’è mostrare fotografie ritoccate e bellissime, di dive che appaiono lontane anni luce dalla gente comune?”. È stato nominato docente honoris causa in fotografia presso la Xi’an International University nell’ottobre 2011 e Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana il 2 giugno 1998. Molte sono state le mostre dei suoi scatti nel mondo tra cui le più importanti a Roma, Gerusalemme, Stoccarda, Mosca, Los Angeles, San Pietroburgo e Xi’an. Ha partecipato ad alcuni film dove per lo più ha rappresentato se stesso tra cui “Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica, “Stanno tutti bene” di Giuseppe Tornatore, “Paparazzi” di Neri Parenti, “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino e “Frank and Ava” di MIchael Oblowits per citarne qualcuno.

Ecco cosa pensa Barillari della fotografia: “La fotografia è la storia fissata e raccontata per immagini, il suo carattere fondamentale è la possibilità di immortalare l’istante: è questo che voglio fare con il mio lavoro. La mia idea è di fermare e comunicare l’importanza di un determinato momento, o di un particolare personaggio in quel momento; si può anche sbagliare lo scatto, ma ciò che conta per me, al di là del valore artistico di un’immagine, è documentare. Una volta che lo si è fotografato, si consacra l’istante alla storia. Quando ho iniziato a lavorare non pensavo che i miei scatti avrebbero assunto questo significato, me ne sono reso conto dopo. Hanno iniziato a parlare delle mie fotografie, sono stato anche molto criticato, ma si è riconosciuto che in quelle immagini c’era la storia del nostro Paese.”

 

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, eccellenzecalabresi, treccani, utopiecalabresi, italianways.com, libreriamo.it

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (1° Parte)

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Iniziamo quest’altra rubrica sulla Calabria, dopo aver evidenziato bellissimi castelli, aree archeologiche, miti e leggende, o Città fantasma. Questa volta vogliamo parlarvi di personaggi noti e meno noti, da Filosofi a Scienziati o Letterati, di cui tutti conoscono il nome, ma non hanno la benché minima idea della loro influenza nel mondo. Parliamo di personaggi storici di diverse epoche, i quali con la loro saggezza e genialità hanno ispirato personaggi più noti, ma non per questo superiori. Siamo sempre più consapevoli che per portare il nome della nostra Regione oltre i confini locali è necessario prendere coscienza, noi per primi, dei nostri tesori e della nostra storia. Ma altrettanto importante è conoscere le opere e le attività, e non solo i nomi, dei nostri figli più illustri. Quanti di voi hanno parcheggiato la loro auto in una via che per molti è un nome, hanno trascorso del tempo in una piazza, senza sapere a chi fosse dedicata? Alcune hanno nomi altisonanti Kennedy, Mazzini che difficilmente possono non essere conosciute, ma altre hanno nomi di uguale se non addirittura maggiore importanza, ma spesso ignoriamo di chi stiamo parlando. L’idea di questo articolo in realtà nasce qualche anno fa quando per trovare un negozio nella mia città (Cosenza) ho dovuto usare il tom tom, che ovviamente mi indicava tutte le vie e piazze che avrei dovuto attraversare. Proprio lì mi sono reso conto di quanti nomi trascuravo l’origine. E’ nata da lì una curiosità e quindi una ricerca e uno studio su questi personaggi. Oggi spero di fare cosa gradita iniziando con questi primi nomi, in realtà sono tantissimi, concentrandomi principalmente su personaggi Calabresi.
Avendo citato la mia “diletta” città non posso che iniziare dal grande Filosofo Bernardino Telesio. Vi indicherò quindi per lui come per gli altri alcuni cenni principali sperando di accendere la curiosità e la voglia di bramare altro. Sono tutti dati facilmente reperibili sul web, ma la speranza è che leggendo delle loro vite e dei loro pensieri,in questa carrellata, si possa generare la volontà di riscoprire i loro studi.

BERNARDINO TELESIO

Nato a Cosenza nel 1509 da famiglia nobile, riceve una buona formazione classica sotto la guida dello zio Antonio, umanista e poeta, che il giovane Bernardino seguirà, a partire dal 1517, anche nei suoi spostamenti verso Milano, Roma (dove avrà modo di stabilire contatti e legami con esponenti del mondo ecclesiastico e della stessa curia papale) e Venezia. Dopo un probabile passaggio nell’ambiente universitario padovano e un periodo di meditazione solitaria in un convento benedettino sulla Sila, sposa Diana Sersale. Nel 1563 è a Brescia, per incontrare un autorevole aristotelico, Vincenzo Maggi, professore a Padova e a Ferrara, e sottoporre al suo giudizio le tesi filosofiche che ha ormai intenzione di divulgare. Incoraggiato dal parere positivo di Maggi, nel 1565 pubblica a Roma, presso Antonio Blado, il De natura iuxta propria principia, in due libri. Dopo un prolungato soggiorno romano, Telesio torna stabilmente a vivere a Cosenza, pur mantenendo legami molto forti con la città di Napoli, e in modo particolare con la casa di Ferrante Carafa, dove troverà costante ospitalità e protezione. E proprio a Napoli, nel 1570, vede la luce la seconda versione del De natura, ancora in due libri, ma ampiamente corretta e rielaborata e con un titolo lievemente modificato: De rerum natura iuxta propria principia. Contestualmente, presso il medesimo stampatore napoletano Giuseppe Cacchi, Telesio fa uscire anche tre opuscoli: il De colorum generatione, il De mari e il De his quae in aëre fiunt et de terraemotibus. Nel 1586, ancora a Napoli, viene pubblicata l’ultima (e definitiva) rielaborazione del De rerum natura, in nove libri. In questo giro di anni Telesio compone o riordina pure diversi opuscoli di argomento fisico e medico-fisiologico, spesso polemici nei confronti dell’Aristotele dei Meteorologica e di Galeno. Dopo la sua morte, avvenuta a Cosenza nel 1588, nove di essi saranno pubblicati dall’allievo Antonio Persio sotto il titolo di Varii de rebus naturalibus libelli(Venezia 1590). Nel 1596 il De rerum natura e gli opuscoli Quod animal universum ab unica animae substantia gubernatur e De somno (entrambi inclusi nella silloge del 1590) saranno inseriti, sia pure con la clausola attenuante donec expurgentur, nell’Indice dei libri proibiti promulgato da Clemente VIII. Ma l’expurgatio sarà presto liquidata dagli organismi censori come impossibilis, trasformando la condanna condizionata in un divieto integrale, destinato a soffocare bruscamente, come nel caso delle tante proibizioni di quegli anni, un dibattito culturale tutt’altro che periferico o irrilevante.


Principi e forze del mondo naturale
Il laboratorio degli scritti telesiani è particolarmente complesso e intricato. Perennemente insoddisfatto delle soluzioni via via individuate e fermate nelle edizioni a stampa e, insieme, preoccupato per le reazioni degli avversari e delle autorità ecclesiastiche, il filosofo sottopone i suoi scritti a una revisione continua, instancabile. E questo è vero soprattutto nel caso dell’opera maggiore, con le sue tre stesure a stampa, le redazioni intermedie, il costante movimento di varianti. Riarticolata senza posa, la posizione telesiana resta tuttavia sostanzialmente immutata nei suoi tratti distintivi e nelle linee di fondo.L’obiettivo principale del filosofo è quello di superare l’immagine aristotelica del mondo. L’esercizio della sensibilità rivela che quel che agisce in natura non sono le forme sostanziali, le cause o le qualità aristoteliche, ma piuttosto due principi attivi o forze fondamentali, creati da Dio all’inizio del mondo. Questi principi sono il calore e il freddo. Il calore ha la sua sede nel Sole, il freddo nella Terra.Il Sole e i cieli, in quanto corpi ignei e caldi, si muovono per virtù propria, per un moto naturale che non necessita, per essere spiegato, del ricorso al primo motore o alle intelligenze motrici della tradizione aristotelica. Mentre la Terra, principio del freddo, rimane necessariamente immobile e inerte al centro dell’universo (di conseguenza, nessuna apertura, nella filosofia telesiana, a suggestioni copernicane).Le due forze universali, incorporee, necessitano di un sostrato fisico su cui esercitare la propria attività. Telesio identifica questo supporto o principio passivo nella materia o mole corporea, la quale, di per sé inerte, subisce innumerevoli trasformazioni indotte dal calore e dal freddo, nel loro contrasto perenne per il predominio e la reciproca assimilazione, in cui gioca un ruolo fondamentale il principio di autoconservazione. Il caldo è forza che illumina, riscalda, alleggerisce, dilata la materia e la mette in movimento; mentre il freddo la condensa, ispessisce, appesantisce e immobilizza.E proprio da questo rapporto, ed equilibrio, fra contrari la natura trae la spinta al divenire e la possibilità stessa della vita: il calore celeste si diffonde sulla Terra e dalla tensione, dalla polarità fra i due principi si originano tutti i fenomeni e i processi, compresa la generazione degli esseri viventi, la cui diversità, complessione e grado di vitalità è correlata alla quantità di calore e movimento da essi recepita.In natura si dà quindi una sostanziale unità e continuità: fra cielo e terra, dato che i corpi celesti sono ignei, e dunque né eterei, né impassibili, né inalterabili; e fra i diversi enti, dato che la differenza tra esseri inorganici, animali e uomo appare legata a una differenza di grado e non di natura.
L’uomo fra spiritus e anima
Anche l’uomo, che Telesio colloca al vertice degli enti mondani superiori, è immerso in questa dimensione squisitamente naturale. La sua complessione fisica, ma anche i meccanismi della conoscenza e della vita morale sono il prodotto e l’espressione di un processo cosmico più generale: come per ogni altro ente, anche nell’uomo il calore celeste si concentra e si caratterizza in una porzione di materia terrena, pervadendola e in certo modo strutturandola come organismo vivente. A partire da questo presupposto, Telesio individua il criterio ultimo di spiegazione dei processi conoscitivi umani nel concetto di spiritus. Lo spiritus è il luogo in cui, nei corpi animati, si specifica e si manifesta al suo livello più alto e acuto la sensibilità (cioè la capacità di percepire modificazioni o alterazioni) di cui ogni ente, nella natura telesiana, è dotato. “Simile e parente del cielo”, vale a dire espressione della vita universale del cosmo, lo spiritus è una sostanza materiale estremamente sottile e rarefatta, generata dal principio del calore, capace di movimento, coestensiva ai corpi e quindi mortale. Nella psicologia e nella gnoseologia telesiana lo spiritus presiede alle funzioni vitali dell’uomo e, in quanto organo e strumento non solo della sensazione, ma di ogni possibile attività conoscitiva (dall’immaginazione alla memoria, allo stesso esercizio dell’intelligere), assorbe e riassume in sé le funzioni tradizionalmente proprie dell’anima.

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Preoccupato di annullare in questo modo ogni tratto di specificità umana, Telesio accosterà successivamente al concetto di anima/spiritus, “generata dal seme” e quindi materiale e mortale, l’immagine di una mens superaddita, vale a dire un’anima superiore e immortale, infusa direttamente da Dio (substantia a Deo immissa). Questa seconda anima, tuttavia, non sembra esercitare alcuna funzione conoscitiva specifica; il suo ruolo, e il suo senso, attengono piuttosto alla dimensione pratico-morale: essa si pone all’origine dell’aspirazione dell’uomo a valori soprasensibili ed eterni, trascendenti la semplice dimensione della vita naturale. E proprio in base a questo ordine di considerazioni, è motivo di discussione fra gli interpreti se questa duplicazione di anime sia frutto di una effettiva evoluzione della riflessione telesiana oppure una misura meramente prudenziale, una concessione all’ortodossia metafisica e teologica.

Dalla conoscenza alla morale
Nonostante le cautele (o i compromessi), anche sul terreno delicato e scivoloso dell’etica Telesio non rinuncia al suo deciso naturalismo. Nell’ultimo libro del De rerum natura (1586) egli declina e sviluppa i presupposti della sua gnoseologia sul piano della morale, delineando una fenomenologia dei vizi e delle virtù dominata dall’azione dello spiritus, e ancora una volta ispirata al concetto chiave di autoconservazione. Nel contatto con le cose, lo spiritus prova sensazioni piacevoli oppure dolorose. Ciascun ente percepisce con piacere (e tende quindi a ricercare) eventi e fenomeni volti a perfezionare e tutelare il proprio essere, mentre percepisce con dolore (e tende a rifuggire) quanto può danneggiarlo o distruggerlo. Questa disposizione dello spirito a perpetuarsi e dispiegarsi liberamente, in quanto capace di orientare le azioni e le scelte degli uomini, si identifica con la virtù: al fondo, un calcolo o una previsione corretta dell’utile e del vantaggioso che Telesio interpreta di conseguenza come realtà naturale, non culturale. Polemizzando con le soluzioni dell’Etica Nicomachea, egli sottolinea che la virtù non si costruisce né si esplica attraverso l’educazione, l’esperienza, la ricerca e la costruzione di una misura. È piuttosto la maggiore o minore perfezione e purezza dello spirito di ciascun individuo a determinare il suo temperamento, la qualità della sua azione morale, e, per estensione, perfino i costumi e gli ordinamenti dei diversi popoli.
Se gli ideali dell’etica telesiana sono improntati alla moderazione, alla temperanza, alla costruzione di mutui legami fra uomini, il bene che lo spiritus è in grado di conseguire, “secondo natura e secondo le proprie forze”, necessariamente “momentaneo” e talora “incerto”, appare peraltro in armonia con il “vero bene” dell’uomo, garantito dalla promessa divina di salvezza e di immortalità.
Del resto, in tutta la filosofia telesiana il finalismo del mondo naturale e gli stessi meccanismi di conservazione sembrano trovare la loro ultima ragione di essere nel perfetto, e ordinatissimo, atto creatore di Dio. Una sapienza creatrice e ordinatrice che l’uomo può celebrare e contemplare, ma mai penetrare. All’interno di questa filosofia non è di fatto possibile, né sul piano epistemologico, né su quello etico, forzare i confini della conoscenza sensibile per cogliere il disegno nascosto dell’artefice del mondo.

Ricezione e influenza delle dottrine telesiane
L’eversivo naturalismo telesiano suscita negli ambienti filosofici italiani immediato interesse, dibattiti spesso vivaci e non poche polemiche (la più nota e significativa è quella con Francesco Patrizi da Cherso). Ma non mancano pure avversari più insidiosi e pericolosi: nel mondo delle università, nei circoli romani e nella stessa città di Cosenza, come rivela la lettera inviata da Telesio nell’aprile 1570 al cardinale Flavio Orsini, arcivescovo della città, ove si registrano con preoccupazione le “proposizioni contra la religione” individuate nei suoi scritti da alcuni concittadini: “ch’io metto l’anima mortale, et che negho ‘l Cielo sia mosso dall’intelligentie” (Girolamo De Miranda, Una lettera inedita di Telesio al cardinale Flavio Orsini, “Giornale critico della filosofia italiana”, 72, 1993, fasc. 3, p. 374).
E nonostante il gran lavoro di riscrittura e la costante volontà di negoziato con avversari e autorità ecclesiastiche, negli anni Novanta anche la sua opera sarà investita dal severo intento di normalizzazione e dalle rigidissime chiusure filoaristoteliche e filotomiste che caratterizzano il papato di Clemente VIII. Ormai consolidati e sempre più consapevoli e selettivi, gli organismi inquisitoriali ampliano il proprio perimetro di azione e di controllo, puntando a colpire non soltanto l’eresia religiosa e dottrinale, ma ogni forma di dissenso culturale. Si apre così una fase di verifica minuziosa dell’ortodossia di filosofi, naturalisti e scienziati, al fine di attenuare o ridurre a formulazioni consone al dettato scritturale, alla norma teologica o al precetto scolastico anche il pensiero dei novatores e le formulazioni della nuova fisica. In questa prospettiva, l’iscrizione all’Indice dei testi telesiani appare ascrivibile non solo a un generico antiaristotelismo, ma anche e soprattutto al carattere materialistico e immanentistico della sua filosofia (certo non incrinato dal dispositivo un po’ forzato dell’anima a Deo immissa), unito a una cosmologia che insiste sull’unità e omogeneità di mondo celeste e mondo sublunare.
Ma, al di là delle resistenze e dei divieti, il richiamo alla concretezza dei processi naturali e il rifiuto del principio di autorità sono elementi destinati a esercitare una suggestione indiscutibile e potente sui contemporanei. Già i primi lettori del De rerum natura percepiscono e interpretano le dottrine telesiane, costruite con lessico e immagini volutamente arcaizzanti, come un palese recupero della filosofia naturale presocratica. Così, il nesso – istituito in modo particolare da Patrizi – fra Telesio e Parmenide innesca una riflessione sui caratteri della materia e della corporeità i cui echi arriveranno fino a Francis Bacon (sua è la definizione di Telesio come “riformatore di non poche opinioni e primo degli uomini nuovi”) e Pierre Gassendi.
E anche Bruno e Campanella si confronteranno con le sue dottrine e non mancheranno di attribuirgli una funzione di rilievo nella sovversione dell’auctoritas aristotelica, premessa ineludibile per la costruzione di una filosofia della natura davvero nuova e libera da ipoteche secolari. La lettura del De rerum natura, con la sua dottrina della sensibilità universale, avrà per Campanella i caratteri di una vera e propria rivelazione, celebrata sia nella Philosophia sensibus demonstrata che nel celebre sonetto dedicato al “gran Telesio”. Mentre Bruno, pensatore mai particolarmente prodigo di elogi, nel De la causa, principio et uno ricorderà con dichiarato rispetto l’“ingegno” del “giudiciosissimo Telesio” e la sua “onorata guerra” contro Aristotele, giustamente combattuta alla luce di una concezione positiva e vitale della natura e delle forze che operano in essa. Ma non basta: perché l’immagine, tracciata in primo luogo da Campanella, di Telesio come capostipite della genealogia dei novatores sarà destinata a una lunga fortuna, soprattutto nell’Italia meridionale. Qui, infatti, fino alle soglie dell’Illuminismo, il filosofo cosentino, pur letto in misura sempre minore, sarà regolarmente evocato come maestro esemplare di un processo di rinnovamento culturale ancora in atto, e simbolo di una declinazione squisitamente italiana della libertas philosophandi.

 

GIOVAN BATTISTA D’AMICO

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Nome tornato agli onori della cronaca proprio in questi ultimi giorni, per le vicende inerenti il nuovo planetario che si appresta ad aprire i battenti a Cosenza, ma a differenza del precedente noto davvero solo a pochi.
Astronomo, Filosofo, matematico è nato a Cosenza nel 1511 ed è morto a Padova nel 1538, autore dell’operetta De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis, pubblicata a Venezia nel 1536 e nel 1537 e a Parigi nel 1549.Le sue osservazioni furono una delle fonti per il lavoro di Niccolò Copernico. Da (wikipedia) Contemporaneo di Bernardino Telesio, frequentò lo Studium dei Domenicani, università aperta a tutti e non solo all’ordine dei Padri Predicatori. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non quanto trapela dalla sua maggiore opera, il De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis et epicyclis, pubblicato nel 1536 a Venezia per i tipi di Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli. Dalla sua opera si traggono le uniche scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato nell’opera, che Amico fosse cosentino di nascita e che all’epoca della pubblicazione avesse la giovane età di 24 anni. Questo farebbe collocare la nascita dell’Amico a Cosenza forse nell’anno 1512, seppure alcuni studiosi propendano per il 1511. Tuttavia la nascita dell’astronomo risulta di difficile datazione non essendo noto in quale mese del 1536 il De motibus fu pubblicato e in quale periodo esso venne compilato dall’autore.Sempre all’interno del De motibus, nel proemio, l’Amico riferisce di essere stato allievo di Vincenzo Maggi (1498-1564), Marco Antonio Passeri detto il Gènua (1491-1563) e di Federico Delfino (1477-1547), professori all’Ateneo di Padova negli anni precedenti la pubblicazione del De motibus e anche professori del Telesio; queste informazioni porrebbero l’Amico nel filone di pensiero dell’aristotelismo padovano rinascimentale e dimostra che l’astronomo cosentino avesse frequentato l’Università di Padova, una delle più prestigiose dell’epoca, dalla quale tuttavia non si ha certezza se si fosse licenziato con una laurea, dato che il suo nome non risulta in nessuna lista di laureati di quell’ateneo. Dopo la frequentazione dei corsi di Padova parrebbe, ma anche qui non vi è certezza alcuna, che l’Amico fosse stato ammesso all’Accademia Cosentina forse nell’anno 1537, ovvero un anno dopo la prima pubblicazione a stampa del De motibus e un anno prima della morte del giovane astronomo che avrebbe avuto fra i 26 e i 27 anni. Va detto che il De motibus fu la prima operetta a mettere in discussione il modello tolemaico e che l’opera si concludeva anticipando per sommi capi alcuni dati oggetto di una futura pubblicazione e che promettevano di essere assolutamente rivoluzionari. L’Amico considerò due ordini di obbiezioni che erano state mosse al sistema esposto da Aristotele: da una parte le combinazioni di movimenti circolari che egli aveva supposto non spiegavano tutte le particolarità del percorso degli astri, dall’altra la variazione dei diametri apparenti della Luna e del Sole escludeva che essi si trovassero sempre ad ugual distanza dalla Terra. L’Amico aumentò quindi considerevolmente il numero delle sfere deferenti (e delle relative reagenti) attribuite a ciascun pianeta. La variazione, poi, dei diametri apparenti del Sole e della Luna, se pur la sua rilevazione non fosse dovuta a difetto degli strumenti, era spiegata dall’Amico, con cause geometriche. Da questa considerazione gli studiosi tendono a pensare che la prematura morte per assassinio di Amico fosse stata provocata dall’invidia della sua dottrina, così come suggerito da un anonimo che compose l’epitaffio del giovane astronomo nel quale si leggeva:
« IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut putatur, virtutisque, invidia, interfectus est MDXXXVIII. »
(Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11)
ovvero “ammazzato da ignoto sicario si pensa per invidia della sua scienza e delle sue virtù”.

Nel 1538 Amici venne assalito, derubato e ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che seguì accertò che era scomparsa una borsa contenente alcuni documenti, che forse erano proprio le carte con quelle rivoluzionarie osservazioni che aveva promesso l’autore, o almeno così sembrava credere l’Inquisizione nel processo postumo per eresia che subito dopo istituì contro lo studioso defunto. Dell’Amico fa menzione nella sua orazione in morte di Telesio, Giovanni Paolo d’Aquino, filosofo e oratore calabrese nato a Cosenza e morto intorno al 1612, che definisce l’Amico “così grande astrologo e filosofo” e nulla aggiunge alla sua biografia rispetto a quanto già noto. Un mistero impossibile da risolvere, visti i secoli trascorsi. Quel che resta certo è che, pochi anni dopo, le intuizioni del cosentino si rivelarono meritevoli di considerazione. Sembra che fossero note  anche al grande Niccolò Copernico, che pubblicò la sua teoria, nel De revolutionibus orbium coelestium appena cinque anni dopo la morte di Amico. E secondo alcuni non fu solo un caso.

 

BARLAAM

Così il Petrarca:
La morte mi ha privato del mio Barlaam. Ma, a dir vero, io stesso me ne ero privato. Non mi accorsi che l’onore si sarebbe risolto in un mio grave danno. Difatti, aiutandolo a diventare vescovo, persi il maestro con il quale avevo cominciato a studiare con fiduciosa speranza (Familiares, XII, 2.7).
Barlaam Calabro, al secolo Bernardo Massari, conosciuto anche come Barlaam di Seminara o Barlaam di Calabria (Seminara, 1290 ca.; † Avignone giugno[1], 1348), è stato un monaco, vescovo, matematico, filosofo, teologo e studioso della musica bizantino. Uomo di vasta cultura, fu maestro di lingua e di letteratura greca di Francesco Petrarca e di Giovanni Boccaccio, rivoluzionò l’aritmetica, scrisse di musica; ma fu anche profondo teologo, che si oppose alla dottrina dell’esicasmo dei monaci della Chiesa d’Oriente.
Nacque a Seminara, nei pressi di Reggio di Calabria, verso la fine del XIII secolo, e tradizionalmente si riporta l’opinione di Ferdinando Ughelli[2], non documentalmente provata, che il nome di battesimo fosse Bernardo.Le notizie certe sulla sua formazione si ricavano dalla bolla con cui papa Clemente VI lo nominò vescovo di Gerace: il documento informa che Barlaam fece il percorso monastico e sacerdotale in Calabria, nel monastero basiliano di Sant’Elia di Capasino (diocesi di Mileto).Dagli scritti di Barlaam stesso apprendiamo anche che egli fu formato nella fede nell’ambito della Chiesa Ortodossa, che in quegli anni era ancora molto diffusa nell’Italia meridionale[3]. Al contrario, non abbiamo evidenze sulla formazione culturale: tuttavia, emerge dai suoi scritti una profonda conoscenza dei filosofi greci, specialmente di Platone e Aristotele, ma anche di San Tommaso d’Aquino e della Scolastica, per cui si devono presupporre contatti con le maggiori scuole di filosofia e teologia dell’Italia meridionale e centrale.
Nella seconda metà degli anni Venti del XIV secolo si mise in viaggio, verso l’Etolia e Tessalonica, per poi giungere a Costantinopoli (approssimativamente nel 1326 o 1327) dove regnava Andronico III Paleologo, e dove il dotto Barlaam guadagnò i favori dell’imperatrice Anna di Savoia. Divenne igumeno dell’importante convento di San Salvatore; nel frattempo scrisse con successo trattati di logica e di astronomia (ne è sopravvissuto sino a noi uno sull’etica stoica) che lo resero famoso; ottenne una cattedra nell’università. Il suo successo come filosofo lo portò però anche allo scontro con l’intellighenzia della capitale e scatenò la gelosia dell’umanista bizantino Gregorio Niceforo, un professore nel monastero di Chora che in un suo libello narrò della sfida accademica tenutasi fra i due eruditi nel 1331 su tutti gli argomenti dello scibile umano di quei tempi. Dopo la sfida, Barlaam divenne stimato professore nel secondo centro culturale dell’impero, Tessalonica, dove ebbe fra i suoi allievi alcuni dei migliori futuri teologi e dotti bizantini: Gregorio Acindino, Nilo Cavasila, Demetrio Cidone.

barlaam

Nel 1333-1334, nell’ambito delle trattative per la riunificazione tra le due Chiese di Oriente e di Occidente, giunsero a Costantinopoli i domenicani Francesco da Camerino, arcivescovo di Vosprum, e Riccardo, vescovo di Cherson, incaricati dal papa Giovanni XXII.Grazie al suo prestigio e alla stima di cui continuava a godere presso gli ambienti di corte, Barlaam fu scelto dal patriarca Giovanni Caleca come portavoce della Chiesa ortodossa.Il punto di divisione, come noto, era principalmente il dogma della processione dello Spirito Santo: in tale occasione Barlaam sviluppò le sue argomentazioni teologiche e filosofiche, sulla base delle posizioni del volontarismo di Duns Scoto e Guglielmo di Occam, in opposizione alle tesi domenicane basate sul realismo di San Tommaso d’Aquino.
Le posizioni delle due parti rimasero inconciliabili e le trattative non ebbero alcun risultato; ma Barlaam, nelle sue dissertazioni, sviluppò anche critiche verso l’esicasmo e sottolineò la differenza di valore tra la teologia scolastica e la contemplazione mistica; con ciò divenne inevitabilmente protagonista di una violenta polemica contro le concezioni ascetiche e mistiche dei monaci del Monte Athos nella persona soprattutto di Gregorio Palamas.Nei confronti del monaci athoniti Barlaam ebbe parole dure, accusandoli di eresia gnostica e deridendoli col nomignolo di umbilicamini (omphalopsychoi). Il dibattito divenne uno scontro, che sfociò in una denuncia di eresia mossa da Barlaam contro Palamas davanti al patriarca Giovanni Caleca con lo scritto “Contro i Massaliani.La controversia, non vista di buon occhio dalle autorità che desideravano mantenere la pace religiosa, fu risolta nel Concilio di Costantinopoli (1341). Il discorso finale tenuto da Andronico, che celebrò una generale riconciliazione, non rispecchiò la realtà dei fatti: Barlaam, perdente, vide la condanna delle proprie dottrine e fu costretto a scusarsi formalmente con gli esicasti e a sospendere ogni futuro attacco verso di loro.Addirittura Giovanni Caleca, con un’enciclica, condannò le tesi di Barlaam e impose la distruzione dei suoi scritti.
Nel frattempo, nel 1339 era stato inviato da Andronico III ad Avignone come delegato in missione diplomatica in Europa, alla quale l’imperatore intendeva sollecitare un intervento per una crociata contro l’avanzata dei Turchi ottomani.
Barlaam si era recato a Napoli, insieme a Stefano Dandolo, presso Roberto d’Angiò e poi a Parigi da Filippo VI di Valois per chiedere aiuti militari; infine i due erano andati presso la Curia di Avignone di papa Benedetto XII per ottenere la sua approvazione alla crociata (in cambio Barlaam aveva prospettato un concilio ecumenico per la riunione delle due grandi Chiese).La missione non aveva avuto buon esito, a causa della situazione politica europea, ma nell’occasione Barlaam aveva costruito delle importanti relazioni personali.
Nel 1341, dopo il fallimento del concilio di Costantinopoli e la morte di Andronico III (15 giugno), Barlaam nel mese di luglio tornò in Calabria e da lì raggiunse a Napoli l’umanista Paolo da Perugia con cui collaborò nella compilazione delle Collectiones e nel riordinamento della libreria angioina.Tra l’agosto di quell’anno e il novembre del successivo fu ad Avignone da papa Clemente VI.Questo soggiorno fu particolarmente importante, perché Barlaam conobbe Francesco Petrarca, al quale insegnò il greco e dal quale fu avviato alla conoscenza del latino, con cui aveva poca dimestichezza; ma ancor più importante fu il definitivo passaggio di Barlaam alla fede cattolica.

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Grazie alla nuova obbedienza al papa, alle sue qualità personali e all’intercessione dei buoni uffici di Petrarca, gli fu assegnata la diocesi di Gerace, di cui Barlaam fu nominato vescovo il 2 ottobre dello stesso 1342, consacrato dal cardinale Bertrando del Poggetto.A Gerace non ebbe vita facile, a causa dei contrasti con la curia di Reggio.
L’ultima missione diplomatica
Nel 1346 fu nuovamente inviato in missione diplomatica dal papa a Costantinopoli in un rinnovato tentativo ecumenico.Tuttavia la situazione nella capitale bizantina era sempre molto tesa: sul trono sedeva Anna di Savoia reggente in nome del figlio Giovanni V; nel 1343 Palamas era stato arrestato e scomunicato.Giovanni Caleca, diventato nemico degli esicasti, fu deposto il 2 febbraio 1347 e il giorno stesso Giovanni Cantacuzeno, favorevole agli esicasti e appoggiato da Palamas tornato in auge, si autonominò coimperatore accanto a Giovanni V.Barlaam, già compromesso dalle sue precedenti posizioni, non poté far altro che tornare in Occidente.
In primavera fece ritorno ad Avignone, dove rimase fino alla morte avvenuta probabilmente agli inizi di giugno 1348.In effetti, non conosciamo la data certa della morte, ma la bolla di nomina di Simone Atumano, suo successore a Gerace, datata 23 giugno 1348, descrive l’evento come recente.
La copiosa produzione di Barlaam è andata in parte perduta e di quella sopravvissuta la maggior parte è ancora inedita. Ce ne è giunto un elenco con gli incipit nella Biblioteca graeca di Johann Albert Fabricius. Si contano opere teologiche, fra cui:
opuscoli contro la processione dello Spirito Santo Filioque;
scritti sul primato del papa;
il progetto di unione delle Chiese elaborato per la prima missione ad Avignone (in greco);
un discorso per il sinodo di Costantinopoli (in greco);
due discorsi in latino tenuti al cospetto di papa Benedetto XII;
varie lettere e scritti in latino successivi alla conversione;
otto lettere relative allo scontro con gli esicasti;
l’opera Contro i Messaliani è perduta in quanto fu distrutta a seguito della sconfitta di Barlaam nella disputa; ci restano solo alcune citazioni in altre fonti.
Opere filosofiche:
Ethica secundum Stoicos ex pluribus voluminibus eorumdem Stoicorum sub compendio composita, che espone l’etica stoica (mostra un’ottima conoscenza di Platone);
Le soluzioni dei dubbi proposti da Giorgio Lapita:
opere scientifiche:
Arithmetica demonstratio eorum quae in secundo libro elementorum sunt in lineis et figuris planis demonstrata, che è un corfimentario al secondo libro di Euclide;
un’opera in sei libri di algebra e aritmetica;
Logistica nunc primum latine reddita et scholiis illustrata, che è un trattato di calcolo con frazioni ordinarie e sessagesimali con applicazioni all’astronomia. L’opera fu pubblicata a Strasburgo nel 1592 e a Parigi nel 1600, insieme ad una sua traduzione in latino;
un commentario alla teoria dell’eclissi solare dell’Ahnagesto di Tolomeo;
una regola per la datazione della Pasqua;
commentari su tre capitoli degli Armonici di Tolomeo; questi capitoli trattano la relazione fra i numeri primi del Sistema Perfetto greco e le sfere celesti, come le consonanze musicali e il movimento dei pianeti si debbano trovare attraverso i numeri, e come le qualità delle sfere si accordino con quelle dei suoni musicali.
Sino ai tempi più recenti le opere teologiche e legate all’attività diplomatica sono state più studiate, mentre ultimamente si è rivalutata l’opera di Barlaam anche come acutissimo e brillante scienziato, versatile e innovativo, oltre che come significativo contributore nella reintroduzione del greco in Occidente, attraverso l’insegnamento della lingua a personalità come Paolo da Perugia e Petrarca e anche Boccaccio.

La novella di Barlaam
L’ENIGMATICO ZOO DELL’ANTELAMI SCOLPITO SUL BATTISTERO DI PARMA

Il complesso ha tre portali. Uno si apre sul lato settentrionale ed è chiamato della Vergine. Il secondo, che guarda a occidente, è detto del Giudizio e, per le regole liturgiche, costituisce l’ingresso principale. Il terzo, definito della Vita, è senza dubbio il più semplice. Evocano rispettivamente la nascita di Cristo, il suo ritorno per giudicare gli uomini e la possibilità di salvezza dalle tentazioni demoniache. L’ultimo, tuttavia, si differenzia dagli altri per la straordinarietà del contenuto. Nella lunetta c’è un bassorilievo che contiene una rappresentazione allegorica dell’esistenza umana. Al centro, tra i rami di un albero, siede un giovinetto con i piedi appoggiati al tronco.

La mano mancina estrae del miele da un alveare e l’altra lo porta alla bocca. Intanto, però, due roditori non facilmente definibili cercano di recidere le radici della pianta, mentre in basso un drago che sputa fiamme attende minaccioso che il ragazzo precipiti giù. Ai lati della pianta si vedono 4 tondi. L’inferiore a sinistra mostra il carro del sole trainato da due cavalli. Apollo impugna una frusta e punta verso la notte, quasi a voler fugare le ultime tenebre. Il superiore ritrae un profilo maschile che rappresenta il giorno. Nel medaglione in basso a destra si nota il cocchio della luna mosso da due tori, che Diana stimola con un pungolo. Intorno sono disposti due fanciulli nudi che suonano delle trombe e due bimbetti vestiti che cercano con dei bastoni di frenare la veloce corsa della biga. In quello più in alto si scorge la notte con una fiaccola e dietro la testa di un toro.


Il tessuto simbolico sembra quasi scontato e ricorda che l’esilio terreno è incessantemente consunto dall’implacabile incalzare del tempo, mentre le fauci dell’inferno attendono chi ha preferito la dolcezza dei piaceri effimeri al vero bene. In ogni modo i protagonisti del quadro non sono un’invenzione dell’artista. Prescindendo dai miti pescati tra i tesori della civiltà classica, lo scorcio ricalca fedelmente il succo d’un romanzo conosciuto nell’Europa occidentale a partire almeno dal X secolo. Si tratta dell’adattamento ellenico d’una leggenda popolare che parla di Josafat, figlio del re indiano Abenner. Costui decide di tenere il figlio nella bambagia, o meglio in un luogo di delizie, per evitare che subisca le sofferenze del mondo. Ma, nonostante tutte le precauzioni del padre, a un certo punto il principe incontra le cruciali testimonianze dell’infermità, della vecchiaia e della morte. E, incalzato dagli interrogativi che sorgono spontanei di fronte alle prove del dolore, sotto la guida dell’eremita Barlaam scopre la vita non edulcorata abbracciando la verità evangelica.


Un brano del libro, narrato dal maestro spirituale al nobile, racconta d’un uomo che, alla vista d’un unicorno imbizzarrito, fugge via a gambe levate ma finisce sul ciglio d’un burrone. Si aggrappa a un fuscello e pensa che da quel momento in poi può stare tranquillo. Ma, guardando bene, vede due sorci che stanno rosicchiando le radici dell’arbusto al quale è sospeso. Anzi, sono proprio sul punto di troncarle di netto. Allora scruta in fondo al burrone e scorge un mostro orribile, che spira fuoco dalle narici. Ha un aspetto torvo e minaccioso, spalanca ferocemente le fauci e non vede l’ora di divorarlo. A quel punto aguzza lo sguardo per esaminare la base d’appoggio su cui tiene puntellati i piedi. Nota quattro teste d’aspidi che si protendono fuori dalla parete rocciosa cui si tiene avvinghiato. Levando però gli occhi in alto, scopre che dai ramoscelli della pianta stilla qualche goccia di nettare. Allora cessa di preoccuparsi dei pericoli che lo circondano e si gusta in santa pace la zuccherata ghiottoneria. Orbene, l’aristocratico al quale la vicenda viene riportata non è altri che Siddharta. In sostanza, si è al cospetto della trasposizione in chiave cristiana della religione buddista.

Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria