I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

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I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

Questa rubrica sta piacendo molto ai nostri lettori ed è un piacere per noi accontentarli con un altro articolo sulle personalità nostrane che con la loro calabresità hanno reso un contributo importante all’umanità. Molti personaggi hanno nomi altisonanti ma si conosce davvero la loro storia e ciò che li ha resi grandi? Molti invece non si conoscono proprio ma le loro gesta hanno cambiato il modo di vivere di tutti noi. E poi ci sono quelli che si conoscono ma non si sa che sono calabresi, e scoprirlo ci rende ancora più orgogliosi di essere nati nella loro stessa terra. Siete pronti ad inorgoglirvi, per l’ennesima volta, con questi nuovi pezzi da novanta “made in Calabria”?

GIOACCHINO DA FIORE

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Gioacchino da Fiore nacque intorno al 1130 a Célico, in provincia di Cosenza, da famiglia ricca e stimata infatti il padre Mauro era tabulario o notaio. Venerato come beato dalla Chiesa cattolica (da parte dei florensi e dei gesuiti Bollandisti), fu monaco, abate, teologo, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta e Dante Alighieri nel XII canto del Paradiso dice di lui: “…il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato…”. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza. Ben presto fu mandato dal padre a lavorare, sempre a Cosenza, presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la Corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, con i Notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo l’Arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano si allontanò definitivamente dalla Corte Reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta, dove ebbe il privilegio di visitare i luoghi della nascita e della predicazione di Cristo. Forse nel corso di questo viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re (Dio).

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Si fece monaco cistercense presso l’abbazia della Sambucina da cui però si allontanò per andare a predicare dall’altra parte della valle vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino Rende. Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove il Vescovo lo ordinò sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Poco tempo dopo si trasferirì proprio qui, dove divenne abate nel 1177. A Corazzo l’abate Gioacchino cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia. Durante questo periodo incontrò, nell’Abbazia di Casamari, il Papa Lucio III che gli concesse la “licentia scribendi”, scaturita dall’interpretazione di Gioacchino di una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Matteo d’Angers. Con l’aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca Campano, fututo Arcivescovo di Cosenza nonchè realizzatore del duomo, iniziò quindi la stesura delle sue opere principali: “La Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento” e “L’Esposizione dell’Apocalisse”.

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Al ritorno da un viaggio a Verona per incontrare Papa Urbano III, si ritirò a Pietralata, da lui ribattezzata Petra Olei, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell’Abbazia di Corazzo. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino, pertanto nell’autunno del 1188 Gioacchino salì in Sila con i suoi discepoli alla ricerca di un territorio abitabile e lo trovò nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. Dopo un complesso confronto tra Gioacchino e il re dei normanni Tancredi, l’asceta ebbe in dono un vasto tenimento posto nelle adiacenze del luogo scelto precedentemente, con l’aggiunta di 300 pecore e 30 some di grano, per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire il protomonastero di Fiore Vetere e successivamente nel 1194, dopo la morte di Tancredi, il nuovo regnante Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II, concesse a Gioacchino privilegi sovrani su tutta la Calabria.

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Gioacchino fondò molti monastreri e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma ricevendo da Papa Celestino III l’approvazione della “Congregazione Florense” e dei suoi Istituti il 25 agosto del 1196. I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e misero a coltura i terreni, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del “novus ordo”. Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale, ultima sua costruzione. Il suoi resti furono traslati nell’abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L’ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.

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I seguaci di Gioacchino subito dopo la sua morte raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditatogli ingiustamente. Il 20 luglio 1684 il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all’Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull’altare vicino al sepolcro dell’abate Gioacchino. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie. All’approssimarsi dell’VIII centenario della morte dell’Abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l’iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana.

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Gioacchino da Fiore ebbe tante interessanti e originali intuizioni tra le quali le più importanti sono:
– l’esistenza di diverse forme di concordia tra l’Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio e con questo concetto, noto come modello “binario della teologia della storia”, data la piena proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di “proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l’età apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro”;
– da questo concetto binario, Gioacchino elabora un “modello ternario”, connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l’analisi teologico-iconografica delle lettere “ALFA” e “OMEGA”;
– dallo sviluppo di queste due concezioni basilari Gioacchino approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle “Tre Età della Storia terrena”, sostenendo che se c’era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre (corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda (784-746)) e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio (appresentata dal Vangelo e compresa dall’avvento di Gesù, estesa nel tempo che va da Ozia fino al 1260), allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del “millennio sabbatico”, ovvero quel periodo in cui l’umanità attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. Un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l’uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e il ricongiungimento di cristiani ed ebrei.

02-gioachino-da-fiore-webNel suo “Monasterium” delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione della chiesa, della quale condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere, con la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un’età di perfezione.

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Oltre ad essere un punto di riferimento spirituale del tempo, infatti tra coloro che seguivano le sue idee c’erano regnanti e papi, le sue straordinarie intuizioni hanno cavalcato i secoli arrivando ai giorni nostri, influenzando sia alcuni movimenti religiosi, tra cui il più importante è senza dubbio l’ideologia dei Francescani spirituali francesi e italiani tra i quali esponenti ricordiamo Ubertino da Casale, Jacopone da Todi, Arnaldo de Villanova e moltissimi altri e addirittura l’apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi e la struttura urbanistica che i francescani diedero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc., e sia di molte personalità tra cui Roger Bacon (Bacone), Girolamo Savonarola, Celestino V, Michelangelo Buonarroti nella costruzione della struttura compositiva della Cappella Sistina, Dante Alighieri citandolo direttamente o indirettamente diverse volte nel Paradiso e Barack Obama che fece del pensiero di Gioacchino da Fiore, oltre che un punto di riferimento per la stesura della sua tesi di laurea, anche la base portante dei sui discorsi durante la sua campagna elettorale per le presidenziali e successivamente citandolo a più riprese nei discorsi alla nazione, definendolo come “maestro della civilta’ contemporanea” e “ispiratore di un mondo più giusto”, usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto “change we can”, per indicare la necessità di un cambiamento radicale della storia e proclamandolo il portabandiera di una società più equa e di un’epoca straordinaria, in cui lo spirito riuscirà a cambiare il cuore degli uomini.

MILONE DI CROTONE

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Tra i personaggi più illustri della Magna Grecia e certamente l’atleta più forte di tutti i tempi, il grande Milone fu pugile e lottatore imbattuto per oltre vent’anni. Nato e vissuto nell’antica Kroton (Crotone) del VI secolo a.C. grazie alle sue gesta sportive e non, divenne tra gli uomini più influenti del gruppo aristocratico che governava la città di Miscello. La sua prima vittoria sportiva la ottenne all’età di 15 anni (540 a.C.), partecipando e vincendo nella disciplina sportiva della lotta. Si dice infatti che, per allenarsi, era solito portare sulle spalle vitelli, così da potenziare maggiormente la sua massa muscolare. Può essere considerato a tutti gli effetti il prima culturista della storia. Nel corso della sua vita fu capace di sei vittorie olimpiche disputate fra il 540 a.C. e il 512 a.C. e di altre sei vittorie ai Giochi Pitici di Delfi che si tenevano in onore di Apollo, dieci ai Giochi Istmici presso Corinto e nove ai Giochi Nemei. In 28 anni di carriera, Milone vince 33 volte. La sua specialità era l’orthopale, un tipo di lotta. Per di più, quando partecipò alle olimpiadi per la settima volta e si scontrò con un suo concittadino, il diciottenne Timasiteo, il quale lo ammirava fin da piccolo e da cui imparò anche molte mosse, alla finale, il suo avversario si inchinò senza nemmeno iniziare a combattere, in segno di rispetto all’uomo a cui gli dei diedero in dono la forza e la disciplina. Forse siamo di fronte al primo caso nella storia delle Olimpiadi antiche in cui sappiamo il nome del secondo classificato, anch’esso calabrese, in quanto le liste tramandate sin dall’antichità hanno per protagonisti solo i primi classificati.

pancrazioUna leggenda vuole che in occasione dei giochi olimpici, prima di vincerli, corse da Crotone ad Olimpia con un toro sulle spalle provocando un grande clamore. Tanta gloria rese Milone uno dei personaggi più illustri e famosi del mondo antico, conosciuto ovunque per la sua proverbiale forza e considerato eroe leggendario appartenente alla stirpe degli Eraclidi, discendente diretto di Eracle, a sua volta ritenuto “ecista morale” della città di Crotone. Molte notizie ci vengono tramandate da storici come Diodoro Siculo che lo inserisce anche in alcuni scenari cittadini che ne hanno fatto di lui, eroe “nazionale”. Era noto, oltre che per la grande forza, anche per il grande appetito. Pare, infatti, che una volta avesse portato di peso un toro di 4 anni allo stadio, fatto un giro di campo con l’animale sulle spalle, che l’abbia ucciso con un colpo solo e che se lo sia mangiato tutto nello stesso giorno. Come se non bastasse, si racconta che egli fosse alto circa due metri e che era capace di sollevare anche un uomo con un dito della mano.

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Del resto, ad uno sportivo vincente come lui potevano essere portati solo onore e rispetto, tanto che un suo ammiratore di nome Dameas, come regalo, gli fece erigere una statua nello stadio di Olimpia in cui Milone era rappresentato ritto su un disco con i piedi uniti. Milone è noto anche per essere stato discepolo di Pitagora e sposo di sua figlia Myia. In occasione di un terremoto, che colse il gruppo dirigente aristocratico guidato da Pitagora mentre era in riunione proprio in casa del filosofo, Milone si sostituì ad una colonna spezzata dal sisma reggendo sulle sue spalle il soffitto dell’abitazione permettendo così alla struttura di non crollare e di far scappare tutti in tempo. Mito o realtà storica? Sta di fatto che quando si tramandano le gesta e le imprese di certi affascinanti personaggi, tutto ciò che li riguarda viene molto romanzato, per far risaltare ancora di più le imprese. Milone fu comandante dell’esercito crotoniate in occasione della famosa battaglia di Trionto contro i sibariti del 510 a.C. che sancì la sconfitta e la distruzione dell’opulenta colonia di Sybaris. Milone vestito come Eracle, con la clava e la pelle di leone sulle spalle, guidò il suo esercito verso una delle vittorie più schiaccianti della storia antica. Persino Democede, crotoniate e medico personale del re Dario di Persia, per tornare a casa contro il parere del re persiano, sposò in tutta fretta una figlia di Milone, costringendo Dario a desistere dai suoi piani.

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La data della morte di Milone è sconosciuta ma, come per la maggior parte degli antichi greci famosi, la dinamica del decesso è divenuta un mito. Secondo Strabone e Pausania, l’ormai vecchio Milone stava attraversando un bosco quando s’imbatté in un ulivo secolare sacro alla dea Hera, antistante appunto al tempio Crotonese di Hera Lacina, dal tronco cavo. Il lottatore inserì le mani nella fenditura per spezzare in due il tronco in un’ultima dimostrazione di forza, ma vi rimase incastrato e divenne preda di un branco di lupi.

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Il mito della forza e dalla vita di Milone ha alimentato la fantasia di diversi artisti, facendo del lottatore celebre soggetto di opere d’arte e di letteratura. Già nel 1590 il bronzista veneziano Alessandro Vittoria fuse una statua raffigurante Milone. La morte del lottatore divenne poi un soggetto ricorrente nella produzione artistica del XVIII secolo ma, per onorare il personaggio, si ricorse spesso alla raffigurazione dei leoni invece che dei lupi quali responsabili della sua morte. Nella scultura “Milone di Crotone” del francese Pierre Puget (1682), l’artista predilesse invece una rilettura del mito in chiave barocca, focalizzando come soggetti la vittoria dell’età sulla forza del lottatore e la vana gloria del trofeo olimpico. L’originale si trova nel museo del Louvre a Parigi ma esistono anche delle copie che si trovano nel Parque Buenos Aires di San Paolo in Brasile, in Cours Estienne d’Orves a Marsiglia in Francia e nel piazzale antistante il PalaMilone a Crotone. Il “Milone di Crotone” di Étienne-Maurice Falconet (1754) permise all’artista di ottenere l’accesso alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di Parigi. Sempre nel Settecento, il pittore Joseph-Benoît Suvée realizzò l’olio su tela “La morte di Milone”. Nel XIX secolo, uno sconosciuto artista realizzò una statua bronzea di Milone ora in Holland Park, a Londra e il pittore irlandese James Barry tornò a raffigurare su tela la morte del lottatore.

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Una statua di Milone si trova allo stadio dei Marmi di Roma. François Rabelais citò Milone di Crotone nel suo “Gargantua”, Shakespeare fece lo stesso nel secondo atto dell’opera “Troilo e Cressida” e Alexandre Dumas descrive brevemente la figura di Milone in “Vent’anni dopo” e lo cita nel “Visconte di Bragelonne”. La Nestlè produce bevande e prodotti ispirati al famoso Milo di Crotone. La Coca Cola dedica una cartolina ai più grandi campioni Olimpici e tra di essi Milone di Crotone. Nel Maine, negli Stati Uniti, esiste una città, Milo, che prende il nome da Milone di Crotone.

RENATO DULBECCO

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Renato Dulbecco nacque a Catanzaro il 22 Febbraio 1914 da Leonardo, ingegnere ligure del Genio Civile, e da Maria Virdia, proveniente da una famiglia di professionisti originari di Tropea. Fin da bambino fu educato dai genitori al sacrificio e allo studio, era ateo e fortemente antireligioso. All’età di cinque anni, dopo la fine della prima guerra mondiale, si trasferì in Liguria con la sua famiglia, nella casa paterna di una frazione di Imperia: trascorse un’infanzia serena che favorì la sua curiosità e la sua vocazione per la ricerca scientifica. Qui visse anche alcune esperienze, fra cui la morte dell’amico Peppino, che furono decisive per la scelta della sua carriera futura, dal momento che si accese in lui la consapevolezza dell’impotenza della medicina dinanzi a malattie molto gravi. Qui Dulbecco compì gli studi secondari, presso il Regio Liceo ginnasio Edmondo De Amicis ed il suo tempo libero lo trascorreva presso l’Osservatorio Meteorologico e Sismico della sua città dove iniziò a mostrare una spiccata propensione per le materie scientifiche e una notevole manualità tecnica che lo portarono a costruire strumenti all’avanguardia grazie a quanto aveva appreso dalla lettura di alcune riviste scientifiche del tempo come il primo sismografo elettronico, poi usato da Herlitska per registrare le contrazioni dei muscoli.

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Seguendo le orme di uno zio materno, nel 1930, a soli sedici anni, fece il proprio ingresso nella facoltà di medicina dell’Università di Torino, nello stesso anno di Rita Levi Montalcini e un anno dopo l’iscrizione di Salvador Luria, compagni con cui condividerà negli anni a venire il magistero di Giuseppe Levi, l’emigrazione negli Stati uniti e il premio Nobel. Fra i primi del corso, al secondo anno venne ammesso come interno nel laboratorio di Giuseppe Levi, anatomista di fama internazionale, nonché pioniere della coltura dei tessuti in vitro. Nell’Istituto di anatomia normale umana ebbe la possibilità di disporre «di un laboratorio e di un banco per poter lavorare» ai propri esperimenti, ma fu anche un’occasione per conoscere meglio la personalità carismatica del maestro, un docente che si era imposto alla sua attenzione per il rigore scientifico e l’«esplicito antifascismo». Dopo qualche anno, il giovane Renato lasciò il laboratorio di Levi e si trasferì presso quello di Anatomia Patologica di Ferruccio Vanzetti, divenendo anche interno all’ospedale Mauriziano, spinto dall’interesse per la clinica. Si laureò a soli 22 anni, nel 1936, con una tesi sulle alterazioni del fegato dovute al blocco nell’efflusso della bile e ricevette in quest’occasione diversi premi, essendo stato riconosciuto come il migliore laureato dell’università con la migliore tesi.

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Partì per il servizio militare come ufficiale medico fino al 1938. Un anno dopo é richiamato per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e inviato prima sul fronte francese e quindi in Russia. Fu una caduta sul ghiaccio e la lussazione di una spalla durante l’offensiva sul Don a garantirgli un provvidenziale periodo di congedo: una volta dimesso decise infatti di disertare le armi sino al giorno della liberazione per aiutare come medico i partigiani nascosti sulle colline torinesi e per un breve periodo fu membro del Comitati di Liberazione Nazionale. Successivamente avvia l’attività di ricerca e contemporaneamente si iscrive alla facoltà di Fisica, che frequenta e concluse dal 1945 al 1947. Su consiglio di Rita Levi Montalcini, si trasferisce negli Stati Uniti per lavorare con Salvador Luria, ormai docente all’università di Bloomington e scoprendo un mondo totalmente diverso dalla sua terra natia. Si imbarcano sulla stessa nave, la Montalcini andrà a St. Louis, lui alla Indiana University. Negli Usa Dulbecco studia certi virus che attaccano i batteri, per ciò chiamati batteriofagi. Fa la prima scoperta quasi per caso, quando si accorge che questi virus vengono riattivati dalla luce ultravioletta di un tubo al neon.

Renato Dulbecco

Il contratto di lavoro offertogli da Luria prevedeva una durata di due anni, ma date le dimostrazioni di grande capacità e acutezza dello scienziato, egli ebbe la possibilità di proseguire a Bloomington le sue ricerche, acquisendo definitivamente la cittadinanza americana. La stima da parte del suo “datore di lavoro” fu tale che nell’estate del 1948, lo invitò a lavorare con lui per alcuni mesi presso il Cold Spring Harbor, un prestigioso laboratorio in cui affluivano scienziati da tutte le parti del mondo. Intanto aveva conosciuto Max Delbruck, un collaboratore di Luria. Delbruck (Nobel 1969) lo invita al California Institute of Technology di Pasadena, più noto come Caltech, uno dei più importanti laboratori scientifici del mondo. Qui sviluppa ricerche sui virus animali che si dimostreranno utili a Sabin per la preparazione del vaccino per la poliomielite. A partire da questo momento, la fama dello scienziato accrebbe e tutta la ricerca sui virus fu rivoluzionata.

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Nel 1958 comincia ad interessarsi alla ricerca oncologica, studiando virus animali che provocano forme di alterazione nelle cellule. La scoperta più importante è la dimostrazione che il DNA del virus viene incorporato nel materiale genetico cellulare, per cui la cellula subisce un’alterazione permanente. Nel 1964 vince il premio Lasker per la ricerca medica e sempre per queste ricerche nel 1975 gli fu conferito il premio Nobel per la medicina con David Baltimore e Howard Temin. La sua sorpresa alla notizia di quest’ultimo riconoscimento si evince chiaramente da queste parole: « Il cuore mi saltò in gola. Avevo capito bene? […] Non osavo dirlo, ma facendomi coraggio mormorai: “il premio Nobel”». Alla cerimonia del Nobel, Renato Dulbecco, che era da sempre un alfiere della lotta contro il fumo, non perse l’occasione per lanciare una dichiarazione contro il tabagismo.

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Dal 1972 si trasferisce a Londra, all’Imperial Cancer Research Fund, dove ha la possibilità di lavorare nel campo dell’oncologia umana, e successivamente al Salk Institute di La Jolla (California). La personalità del grande scienziato, mai pago di conoscenza, lo portò ad immergere se stesso in un nuovo colosso della scienza moderna: il Progetto Genoma, con l’obiettivo di mappare l’intera sequenza del genoma umano, in modo da comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro. Conoscere tutti i geni dell’uomo era l’anello mancante di questa catena vitale, e l’unico modo per smuovere la titubante comunità scientifica fu quello di lanciare il progetto mediante una delle riviste scientifiche più autorevoli: Science. Nell’arco di pochi mesi, furono attuate numerose iniziative, la scintilla del nuovo “ordigno” della scienza era stata innescata. Nel 1993 rientra in Italia dove lavorò presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Milano, oltre a guidare la Commissione Oncologica Nazionale e a ricoprire l’incarico di presidente emerito del Salk Institute, completando, nel 2003, la mappatura del genoma.

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Renato Dulbecco è stato insignito della laurea honoris causa in Scienze dall’Università Yale ed è stato membro di diversi organismi scientifici internazionali, tra cui l’Accademia dei Lincei, la National Academy of Sciences statunitense, la Royal Society britannica e l’IPPNW (International Physicians for the Prevention of Nuclear War). Nel 1999 presenta il quarantanovesimo Festival di Sanremo insieme a Fabio Fazio e Laetitia Casta. Muore il 20 febbraio del 2012 a La Jolla, località nei pressi di San Diego dove risiedeva da anni, colpito da un infarto tre giorni prima del suo 98º compleanno.

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Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, treccani.it, calabriatours.org, mediterraneoantico.it, lastampa.it, biografieonline.it.

Segnalazione UFO 20/05/2017 – Parte 1

Dal 19 di maggio sono giunte nella nostra redazione innumerevoli segnalazioni di un presunto U.F.O. sorvolare Cosenza seguiti da due aerei militari. Questi ultimi volavano effettivamente troppo bassi per essere un esercitazione; si sa che devono rispettare delle altitudini precise per non creare allarmismo ma soprattutto per evitare situazioni spiacevoli. La comunita` cosentina quel giorno si e` scossa parecchio e tutti pronti con il proprio cellulare hanno immortalato cio` che e` accaduto.
Prima di scendere nei particolari pero`, tengo a fare una piccola precisazione su cosa sia effettivamente un U.F.O..
Il termine deriva dall’inglese: Unidentified Flying Object che letteralmente tradotto significa Oggetto Volante non Identificato (da qui il termine OVNI usato raramente in italia, molto nei paesi ispanofoni) molto spesso associato per condizioni di causa alle navicelle aliene che sembrerebbero manifestarsi per tutto il globo ma che in realta` significa semplicemente qualcosa che non conosciamo. Si prenda ad esempio che 10 anni fa un drone (militare), che oggi sempre piu` persone si stanno procurando per motivi lavorativi e non, era tecnicamente considerato un U.F.O. semplicemente perche` non avendo mai visto nulla di simile, etichettarlo come oggetto volante non identificato e` una prassi comune.

Che questo semplice chiarimento serva a fare piu` chiarezza sul fenomeno U.F.O. per evitare di inflazionare erroneamente il termine.

Ma cosa e` successo Venerdi` 19 maggio 2017 a Cosenza? E` ancora presto per dirlo. Sapete tutti che a noi non piace il sensazionalismo ma al contrario vogliamo darvi notizie quanto piu` accurate possibili. Noi vi diremo al massimo cosa non e`, ma cosa sia lo si scoprira` insieme grazie alla continua ricerca che stiamo facendo. Sul web possiamo trovare qualche video dalla qualita` non eccezionale (la quale rallenta notevolmente la ricerca) ma con le testimonianze vocali (chiaramente non badate all’enfasi ed al modo di parlare dei testimoni, e` comunque un fatto emozionante cio` a cui hanno assistito) che descrivono un terzo veivolo scambiato da alcuni per elicottero, da altri per sfera bianca vista ad occhio nudo.

In questo video ad esempio compare una sfera luminosa dai movimenti apparentemente irregolari ma che in realta` segue la luce del sole e si colloca chiaramente su ogni oggetto la telecamera riprende (e` sempre sopra le nuvole) e scompare quando la telecamera non riprende il sole. Quando la telecamera si avvicina troppo al sole, inizia a crearsi un alone di rifrazione. Con ogni probabilita` credo di poter smentire questo video.

Nei video di seguito e possible intravedere una sfera bianca schizzare a gran velocita`. La letteratura ufologica sostiene che possano essere delle sentinelle inviate dalla nave madre come droni da monitoraggio. Ribadisco che ad oggi, la redazione di Mistery Hunters sta ancora studiando il caso, quindi non possiamo dirvi cosa sia, per adesso. 

Di seguito troverete altri video per darvi un’idea e rimanete connessi perche` presto aggiorneremo questo articolo con maggiori risposte e novita`.

 

Caccia Militari sopra Cosenza …ed anche altro

Sfera bianca sopra Cosenza

Ancora video della sfera bianca che passa tra i caccia a Cosenza

Sui cieli di Rende 19 05 2017

Ringraziamo Cosenza 2.0 e tutti i testimoni che hanno ripreso quanto accaduto.
Se anche tu hai qualche video o foto, contribuisci invandoci i tuoi contenuti a redazione.misteryhunter@gmail.com. Darai anche tu il tuo contributo alla ricerca!

Marco “DOC” Florio

Wormhole Superconduttore

wormhole-warp-lines2Il wormhole non è più fantascienza ma un progetto reale, portato alla vita da un’equipe di studiosi italiani. Il team che ha realizzato il sogno di Albert Einstein nei laboratori dell’Università di Napoli Federico II, è capitanato dal fisico Salvatore Capozziello, docente all’Università Federico II di Napoli e ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) nonché presidente delle Società italiana di Relatività Generale e Fisica della Gravitazione (Sigrav). Lo studio è stato postato online su ArXiv (clicca qui per vedere lo studio) ed è in via di pubblicazione sulla rivista International Journal of Modern Physics D; il progetto è in via di definizione con il gruppo di Francesco Tafuri, del dipartimento di Fisica della Federico II.

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Vengono comunemente definiti cunicoli spazio-temporali in grado di collegare un punto con un altro di uno stesso universo o, ancor più suggestivamente, di stabilire una connessione fra un universo ed un altro presumibilmente parallelo al primo. Sono i wormhole (letteralmente ‘buchi di vermi’), sorta di ‘scorciatoie’ che permetterebbero di passare da un punto all’altro di uno o molteplici universi più velocemente di quanto impiegherebbe la luce a percorrere la distanza attraverso lo spazio normale, consentendo al tempo stesso veri e propri viaggi nel tempo. E’ questa la traduzione in pochissime parole di concetti molto complessi propri della fisica più avanzata, sebbene elaborati sulla base di teorie che scienziati come Albert Einstein e Nathan Rosen enunciarono già negli anni ’30 del Novecento ipotizzando l’esistenza di gigantesche strutture cosmiche poi definite appunto ‘ponti di Einstein-Rosen’. A tal proposito la metafora del verme non è affatto casuale: il termine wormhole deriva appunto dall’immaginare che l’universo sia come una specie di mela sulla cui superficie si muova un verme. Ebbene, se questo continuerà a strisciare sulla superficie, la distanza tra due punti opposti della mela sarà pari a metà della sua circonferenza, ma se invece esso scava un foro direttamente attraverso la mela, la distanza da percorrere per giungere a destinazione sarà inferiore. Il cunicolo spazio-temporale di cui gli scienziati ipotizzano l’esistenza in natura, presumibilmente generato da una immane forza gravitazionale che deformerebbe lo spazio-tempo, è idealmente paragonabile proprio a quel buco scavato dal verme nella mela.

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Ha spiegato Capozziello: “Il problema di partenza era spiegare l’esistenza di strutture che, come i buchi neri, assorbono tutta l’energia di un sistema senza restituirla: in pratica ci si trovava di fronte ad una violazione del principio di conservazione dell’energia”. E continua: “La nostra idea era quella di riuscire a simulare gli effetti gravitazionali a energie più basse e dato che è impossibile riprodurre in laboratorio strutture gravitazionali estremamente energetiche e massicce, ci siamo posti la domanda se esistono strutture simili, ma alle dimensioni e alle energie di laboratorio”. Una delle probabili spiegazioni ipotizza che lo spazio-tempo sia bucato.  A questo fine è stato realizzato il minuscolo prototipo ottenuto collegando due foglietti di grafene, una struttura purissima di atomi di carbonio, materiale sottile come uno strato di atomi, resistente come un diamante, flessibile come la plastica e richiestissimo sul mercato delle nanotecnologie, di cui dal giugno del 2014 il più grande centro di produzione europeo è a Como, con legami molecolari e un nanotubo.

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La struttura ottenuta è neutra e stabile, nel senso che al suo interno non entra nulla e nulla fuoriesce, ma quando si introducono dei difetti (perturbazioni) vengono generate delle correnti. “Ci siamo accorti che ‘drogando’ il grafene, cioè mettendo al suo interno degli atomi penta o eptavalenti, cioè con 5 o 7 legami anziché i sei a nido d’ape del grafene puro, succede una cosa interessante: il sistema si ‘attiva’ e si generano correnti entranti e correnti uscenti nel grafene. Nel caso di un legame in meno rispetto al grafene standard otteniamo una corrente elettrica entrante. Con un legame in più la corrente è uscente. Se proiettiamo questo risultato alle scale astrofisiche, allora abbiamo trovato il modo per far passare informazione attraverso il wormhole. In altre parole, controllando i difetti del grafene possiamo controllare il segno dell’informazione: possiamo cioè comunicare con un osservatore che si trova dall’altra parte. Questo passaggio di energia elettrica è importante perché la corrente passa da una parte all’altra del wormhole a resistenza nulla, il passaggio è cioè istantaneo, mentre normalmente all’interno di un materiale si incontrano resistenze e rallentamenti”. Ha quindi aggiunto lo scienziato: “Spostandoci su dimensioni cosmiche, potremmo considerare un osservatore che con la sua navetta si avvicina a un wormhole come un elemento capace di perturbare la struttura: in questo caso sarebbe possibile passare da una parte all’altra del cunicolo spaziotemporale, così come trasmettere segnali da una parte all’altra”.

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Un’ipotesi che senza dubbio fa volare con la fantasia.  Il Principio di Relatività di Einstein stabilisce che non si può viaggiare più veloci della luce, fatto che renderebbe impossibile qualsiasi contatto con altre civiltà extraterrestri, proprio per l’immensa distanza spazio-tempo che ci separa. La produzione del wormhole significa per molti la vittoria sugli scettici di chi crede agli extraterrestri, ora ancor più di prima, in quanto questi cunicoli potrebbero essere delle vere e proprie scorciatoie per spostarsi in poco tempo nell’Universo o addirittura fare viaggi nel tempo.

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Il cinema e la TV sono pieni di esempi in cui si parla dei wormhole:

1) Stargate, scritto e diretto nel 1994 da Roland Emmerich, dove la“porta delle stelle” è costituita da antichi congegni costruiti da una razza aliena e disseminati nelle galassie per favorire viaggi rapidi, anzi istantanei. Primo di una trilogia mai completata generò 3 serie tv: Stargate SG-1, Stargate Atlantis e Stargate Universe.

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2) L’ambientazione della serie tv Star Trek: Deep Space Nine (176 puntate fra il 1993 e il ’99) non è l’astronave ma una stazione spaziale collocata vicino a un wormhole, popolato da misteriose entità extradimensionali venerate dal popolo dei Bajoriani.

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3) Sliders: I viaggiatori (1995-2000) dove si usavano i ponte di Einstein-Rozsen per collegare universi paralleli. Presumendo che la realtà esista come parte di un multiverso, si ci chiede cosa sarebbe successo se grandi o piccoli eventi della storia si fossero svolti in maniera differente (ucronia).

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4) Nel film Sfera di Barry Levinson del 1998, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Crichton,  i protagonisti scoprono che la presunta nave aliena situata a 300 metri sotto l’Oceano Pacifico non è altro che un’astronave americana di circa metà del XXI secolo che si era addentrata in un wormhole ed era ritornata indietro nel tempo di circa 300 anni, precisamente nel 1709, precipitando nel fondo dell’oceano.

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5) Nel film Contact delle intelligenze aliene inviano sulla terra i piani di costruzione di un artefatto che genera un wormhole per raggiungere la stella Vega.

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6) Nel film Thor (Marvel Studios/Paramount-2011) gli dei asgardiani usano il Ponte Bifröst per spostarsi tra i 9 regni che governano: sulla Terra la scienziata Jane Foster pensa che questo mezzo di trasporto sia un possibile Ponte di Einstein-Rosen.

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7) Se la Terra diventa inabitabile speriamo gli alieni ci regalino un wormhole per cercare una nuova casa come nel film Interstellar di Christopher Nolan, Oscar nel 2015 per gli effetti speciali.

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8) Nel film Jumper – Senza confini, i cosiddetti Jumper usano i wormhole per teletrasportarsi in qualsiasi parte del mondo.

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Con questo primo prototipo, costruito in scala microscopica, per il momento si possono solo ipotizzare viaggi di quel tipo. Alla domanda su quali sono gli obiettivi di questo studio Capozziello risponde: “Sono due. Il primo è creare a Napoli o altrove un centro di eccellenza in cui mettere insieme nanotecnologia e cosmologia, quindi l’infintamente piccolo e l’infinitamente grande. Il secondo è accedere a fondi europei, in modo da strutturare il lavoro e dare occasioni di ricerca a giovani studiosi. Vanno messi a punto anche gli aspetti teorici, ad esempio passando in rassegna tutte le soluzioni di wormhole analoghe alla nostra. Diciamo che c’è una sinergia fra gli aspetti puramente speculativi di fisica fondamentale e l’aspetto tecnologico e applicativo di fisica della materia. Sono ottimista. Si è già fatto avanti un importante centro svedese specializzato nelle nanotecnologie. Siamo solo ai primi passi”.

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Pur rimanendo ad ogni modo con i piedi per terra, le implicazioni tecnologiche di quanto osservato dai ricercatori sono importantissime, perché consentirebbero di trasmettere segnali elettrici in maniera estremamente precisa, rapidissima grazie alla superconduttività e a livello atomico. Le applicazioni di tale tecnologia sarebbero pressoché infinite, e al momento la realizzazione di un primo prototipo su scala industriale è lo scopo più immediato: “Il fatto che abbiamo a che fare con correnti autoindotte, quindi generate dalla geometria del sistema, potrebbe dar luogo a molteplici sviluppi. Intanto possiamo ottenere un sistema superconduttore con trasmissione di corrente a resistenza zero, contrariamente a quanto accade nei sistemi elettronici attuali e si potrebbero ottenere, ad esempio, nanostrutture capaci di trasmettere segnali in modo istantaneo poiché la corrente elettrica passerebbe nel vuoto. Un altro vantaggio è che stiamo usando carbonio, un elemento reperibilissimo in natura”. In altre parole, un wormhole superconduttore. Niente male, in attesa di quello gravitazionale.

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E per concludere, alla domanda se finalmente siamo arrivati a costruire la macchina del tempo il professore chiude: “L’unica certezza è che questo è un wormhole che permette il passaggio di corrente elettrica con estrema precisione, non è una macchina del tempo. Da qui a costruirne una potrebbero passare 100 anni ma la scoperta è comunque di quelle che possono avere ripercussioni tecnologiche significative nella nostra vita. La ricerca scientifica non è mai esercizio vano. Detto questo è bello e umano sognare e continuare a cercare di capire chi, dove siamo e il perché?”.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Gobekli Tepe. La Culla dell’Umanità

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Göbekli Tepe (traduzione: collina panciuta – ombelico) è un sito archeologico a circa 18 km a nordest dalla città di Şanlıurfa nell’odierna Turchia, presso il confine con la Siria, tra la catena del Tauro e il Karaca Dağ e la valle dove si trova la città biblica di Harran. Si trova su una collina artificiale alta circa 15m, con un diametro di circa 300m, posizionata sul punto più alto di un’elevazione di forma allungata, che domina la regione circostante. Da quanto c’è stato insegnato, l’evoluzione umana ha avuto un andamento lineare. I nostri antenati, più o meno 12000 anni fa vivevano da nomadi, sostentandosi con ciò che raccoglievano e cacciavano. Successivamente hanno iniziato a lavorare la terra, diventando da migranti a stanziali e da lì è iniziato il lungo viaggio che ha portato l’umanità a tutte le meraviglie odierne. Di indizi di una possibile fallacia di questa teoria è però letteralmente pieno il mondo. Da tempo sempre più persone ritengono questi “adattamenti temporali” delle vere e proprie forzature, che sfidano non solo la logica, ma a volte la stessa scienza. Ma per gli archeologi gli indizi, le deduzioni, le intuizioni o le vere e proprie anomalie non sono mai state sufficienti ad affrontare una possibile realtà ben diversa da quella da loro costruita. Con Gobekli Tepe, però, da ora e per sempre cambia tutto. Da oggi, infatti, parlare di civilizzazioni umane di 12000 anni fa non sarà più considerata un’eresia. Anzi, saranno gli stessi archeologi (e non solo loro…) a dover cambiare molte “interpretazioni” che, sino a prima della scoperta in Turchia, sono state invece considerate prove scientifiche.

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Nel 1995 un pastore curdo, Savak Yildiz, si imbatte in una strana pietra lavorata che fuoriusce dal terriccio. Incuriosito dal ritrovamento contatta subito le autorità della vicina cittadina di Sanliurfa: è l’inizio di una delle più grandi scoperte archeologiche di sempre.

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Gli scavi, condotti da Klaus Schmidt dell’Istituto Archeologico Germanico, porteranno alla luce una realtà stupefacente: la pietra di Gobekli Tepe è la sommità del tempio più vecchio del mondo risalente a quasi 12.000 anni fa. Perfino le piramidi di Giza o le ziqqurat sumere sono strutture “moderne” al confronto, datate almeno 5000 anni più tardi. E’ così vecchio che precede la vita sedentaria dell’uomo, prima della ceramica, della scrittura, prima di tutto. Gobekli Tepe proviene da una parte della storia umana che è incredibilmente lontana, nel profondo passato dei cacciatori-raccoglitori. Quando Schmidt raggiunse il sito di Gobekli Tepe per iniziare gli scavi affermò: “Non appena vidi le pietre, seppi che, se non me ne andavo immediatamente, sarei rimasto qui per il resto della mia vita.” E  così fu, dato che purtroppo ci ha lasciati nel 2014.

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Gli scavi portarono alla luce un santuario monumentale megalitico, costituito da una collina artificiale delimitata da mura in pietra grezza a secco. Furono inoltre rinvenuti sei recinti circolari comunicanti tra loro, di cui due ancora non dissotterrati, delimitati da enormi pilastri in calcare pesanti oltre 15 tonnellate ciascuno, probabilmente cavati con l’utilizzo di strumenti in pietra. Secondo il direttore dello scavo le pietre, drizzate in piedi e disposte in circolo, simboleggerebbero assemblee di uomini, infatti la particolare forma a T allude alla figura umana, come è possibile notare dalla presenza di braccia scolpite distese lungo i lati brevi, e delle teste realizzate tramite l’ampliamento della parte superiore del pilastro. Sono stati scoperti circa 40 grandi lastre di calcare a forma di T, che raggiungono i 5 metri di altezza, che furono portati nel sito da una cava vicina anche se le popolazioni dell’epoca non conoscevano la ruota né avevano ancora addomesticato le bestie da soma. Indagini geomagnetiche hanno indicato la presenza di altre 250 pietre ancora sepolte nel terreno. A circa 1 km dal sito è stata inoltre rinvenuta un’altra pietra a forma di T di circa 9 metri, probabilmente destinata al santuario, ma una rottura costrinse i costruttori ad abbandonare il lavoro. Su di esse sono riprodotte diverse specie di animali, come formiche, scorpioni, serpenti, uccelli, gru, tori, volpi, leoni, cinghiali. E pare che alcune di queste raffigurazioni vennero volontariamente cancellate forse per preparare la pietra a riceverne di nuove. Sono inoltre presenti elementi decorativi, come insiemi di punti e motivi geometrici e vi sono anche disegni di natura sessuale, con forme falliche.  La sua costruzione, probabilmente, si protrasse per qualche secolo e dovette interessare centinaia di uomini. Göbekli Tepe, ricorda vagamente Stonehenge, costruita 7000 anni dopo, ma non con blocchi di pietra tagliata grossolanamente bensì con pilastri di calcare finemente scolpiti a bassorilievo.

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Ecco una ricostruzione di come doveva essere in passato.

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Il recinto A, la prima struttura circolare ad essere stata scavata, è detta “l’edificio a colonne di serpente”, perché le rappresentazioni del serpente prevalgono nelle sculture sui pilastri a T, infatti oltre alle figure proprie di serpenti, si trova pilastri con una decorazione formata da rombi accostati che richiama molto da vicino le squame dei rettili. Un altro pilastro, tuttavia, rappresenta una “triade” il toro, la volpe e la gru, posti uno sull’altro.

Il recinto B misura nove metri di diametro e su entrambi i pilastri centrali si trova la figura di una volpe in atto di compiere un balzo. È il solo complesso scavato sino al livello del pavimento che rivela la superficie del terrazzamento. Il complesso è stato chiaramente concepito per ospitare questi pilastri monolitici, il che prova che i nostri antenati si trovavano a loro agio nel lavorare pietre gigantesche, e non soltanto nello scavo di cave ma anche nell’elaborazione e la decorazione.

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Il recinto C è chiamato “il cerchio del cinghiale”, perché descrive alcuni maiali selvatici. Restano nove pilastri intorno il muro, ma alcuni sono stati rimossi ad un certo momento in passato. Un pilastro mostra una rete di uccelli. Il complesso C è interessante perché una pietra a forma di U è stata trovata lì, e si ritiene che essa possa essere stata la pietra d’accesso. Questa pietra ha un passaggio centrale di 70 centimetri di larghezza, ed un lato della U è sormontata da una rappresentazione di un cinghiale; l’altro lato è purtroppo mancante. Caratteristica invece è la figura di un felino realizzata ad altissimo rilievo, quasi a tutto tondo.

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Il recinto D è chiamato “lo zoo dell’Età della Pietra”, è il più grande e si trova inoltre in un migliore stato di conservazione. Ha 2 pilastri principali e 12 alle pareti. Qui le figure più comuni sono quelle della volpe e del serpente, ma è possibile vedere anche arieti, gazzelle, scorpioni, asini e cinghiali, e non mancano i predatori ed i volatili. Qui si trova inoltre il pilastro con il maggior numero di immagini. Altre immagini sono quelle del crescente lunare, di bucrani, di uomini col fallo eretto e donna dai tratti sessuali ben evidenziati, di una croce, di una H normale e di una ruotata di 90°. Il pilastro n° 33 è il protagonista del complesso. Schmidt dichiara che le forme su questo pilastro rappresentano un linguaggio pittografico vicino ai geroglifici egizi e quindi ciò sia la prova che l’origine della scrittura è probabilmente molto più antica di quanto si pensi, il decimo millennio a. C.

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Sempre nel recinto D è molto importante la pietra dei “3 canestri”. Nella cosmologia spirituale, il paniere è il simbolo delle stagioni e le offerte della frutta, della fertilità e della santità. Nel Pentateuco (Torah) i tre canestri sono definiti come “tre giorni” e quindi forse simboleggiano tre giorni specifici dell’anno che potrebbero riguardare i due solstizi e il punto dell’equinozio. Il pilastro con questo simbolo guarda in direzione est ed è inciso anche il sole . Molti invece pensano che sia la rappresentazione stilizzata di una porzione di cielo di 12000 anni fa.

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Da un’altra parte sul sito, sul versante nord della collina, vi è una costruzione rettangolare chiamata “la costruzione con la colonna di leone”. I suoi quattro pilastri hanno delle rappresentazioni di esseri leonini, che potrebbero anche essere delle tigri o dei leopardi. In più un pilastro ha un graffito di 30 centimetri di altezza che rappresenta una donna rannicchiata che sembra partorire.

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Nello scavo Nord-Ovest è stato ritrovato una enorme pietra di 3 metri quadri con due entrate molto particolare e riccamente decorata con tre lunghe sculture quadrupedi (toro, montone e un gatto selvatico), un serpente lungo 1,5 m in altorilievo e una fila di fori a tazza. Purtroppo sembra che la pietra non è nel contesto architettonico originale ma le decorazioni mostrano chiaramente che era parte di un edificio importante.

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Si crede che presto l’area si allargherà ulteriormente: rilievi geomagnetici e sistemi radar hanno identificato altri 16 antichi anelli megalitici nelle vicinanze. Parrebbe così che solo il 5% del tempio sia stato portato alla luce. Oltre alle strutture megalitiche, sono state scoperte figure e sculture raffiguranti animali selvatici, figure umane stilizzate raffiguranti una un busto umano con le due braccia distese, prive di testa e su cui furono scolpiti alcuni particolari umanoidi, una testa e una statuetta che rappresenta una donna accovacciata chiamata la “signora di Gobekli Tepe”. Al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, il Doğuş Group turco ha annunciato che spenderanno 15 milioni di dollari nei prossimi 20 anni sul progetto, in collaborazione con la National Geographic Society. «Göbekli Tepe è il nostro punto zero», ha detto Ferit F. Şahenk, presidente del Doğuş Group, in un comunicato stampa.

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A Göbekli Tepe le coppie centrali di pilastri di ogni recinto presentano generalmente un orientamento in direzione Sud-Est e sembrano costituire un immaginario canale di osservazione verso il cielo. In generale l’orientamento delle colonne centrali dei differenti recinti è: nel recinto D, il più antico, i pilastri centrali sono orientati a circa 7° Est, Sud-Est, mentre quelli dei recinti C, B, A sono orientati rispettivamente a 13°, 20° e 35° est, sud-est. Secondo Robert Schoch, professore di Scienze Naturali presso l’Università di Boston, questa differente angolazione suggerisce che i costruttori realizzarono nuovi circoli orientati progressivamente verso est affinché fosse possibile seguire il movimento degli astri che si spostavano continuamente a causa della “precessione”. Più precisamente quali stelle stavano osservano i costruttori? La mattina dell’equinozio di primavera del 10.000 a.C., prima che il sole sorgesse ad est, un antico sacerdote-astronomo che si apprestasse ad osservare il cielo dal canale immaginario costituito dai due pilastri centrali del recinto D, poteva vedere chiaramente le sette stelle più brillanti caratterizzanti le Pleiadi, o Sette Sorelle, nonché la parte superiore della costellazione di Orione, il cacciatore celeste, la cui cintura era visibile poco sopra l’orizzonte alle prime luci dell’alba. Uno scenario simile si ripresentò anche in relazione alle pietre centrali del recinto C nel 9.500 e del recinto B nel 9.000 a.C. Dal recinto A è possibile osservare il medesimo spettacolo solo all’equinozio di primavera dell’8.500 a.C.  Da questi dati appare del tutto evidente come i nostri antenati osservassero attentamente la porzione di cielo nella quale era visibile Orione e la costellazione delle Pleiadi. Sebbene ad un primo impatto quest’ipotesi possa sembrare assurda, è doveroso evidenziare come da un lato la costellazione di Orione, facilmente riconoscibile in cielo per le sue importanti stelle caratterizzanti la cintura, è raffigurata come un torso umano senza testa. “Sulla base di queste considerazioni mi sembra lecito ipotizzare come i pilastri a T presenti a Göbekli Tepe fossero una rappresentazione terrena del busto di Orione, il cacciatore celeste, che i nostri antenati potevano osservare in quel preciso punto del cielo i determinati momenti dell’anno. Molto probabilmente nella figura di Orione si riconoscevano essi stessi in quanto popolo di cacciatori-raccoglitori ed in questo senso ulteriori conferme sembrano provenire dalle numerose decorazioni e sculture raffiguranti animali di ogni tipo”. In tal senso appare significativo quanto affermato dall’archeologo Schmidt secondo cui: «I pilastri non hanno né occhi né bocca, ma hanno le armi e le mani». Nello specifico del recinto D, sulla superficie di uno dei pilastri centrali sono scolpite le braccia, la cintura – un rimando alle stelle della cintura di Orione – e perizomi di pelle di volpe che possono rappresentare la Nebulosa di Orione in quanto di forma trapezoidale.

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Comprensibili le reazioni degli archeologi che da quasi 15 anni stanno lavorando sul campo e che hanno visto le loro credenze sciogliersi come neve al sole. “Gobekli Tepe cambia tutto”, spiega Ian Hodder, della Stanford University. David Lewis-Williams, docente di archeologia presso l’Università Witwatersrand a Johannesburg, dice: “Gobekli Tepe è il più importante sito archeologico del mondo”. Il professore universitario Steve Mithen dice: “Gobekli Tepe è troppo straordinario per la mia mente”.

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In un’intervista di Sabrina Pieragostini per Panorama, Linda Moulton-Howe, giornalista investigativa e ufologa, afferma: “Quando sei a Göbekli Tepe, è tutto così strano, manca un’umana comprensione di quello che è, del perchè sia così vasto”. E non ha dubbi dicendo che: “Quando ne discuti con gli archeologi, i geologi, gli scienziati che sono stati qui, quello che ne ricavi è l’idea che intelligenze provenienti da altri luoghi nell’Universo siano venute sul nostro pianeta, per migliaia e migliaia di anni, e abbiano costruito mezzi di comunicazione e fonti di energia, realizzando un processo di terraformazione.” Insomma, non saremmo stati noi a dare alla Terra il suo aspetto attuale, ma dei visitatori spaziali. Una teoria ampiamente esposta da vari ricercatori internazionali e nota come la “teoria degli Antichi Astronauti”, fortemente contestata negli ambienti della storiografia ufficiale. E continua: “Se si immagina la Terra come una sorta di giardino o di laboratorio, ci si avvicina ad una grande verità. Il nostro pianeta e probabilmente centinaia di altri pianeti sono stati visitati e trasformati. Le piramidi, i cerchi di pietra, i megaliti forse servivano per produrre energia gratis con una tecnologia che noi ancora non comprendiamo. Questo è il motivo che mi spinge a continuare la mia ricerca, per tentare di capire quale sia la relazione esistita, nel passato, con i non umani, quale sia il rapporto attuale e quale quello futuro.” E conclude: “Come mai i Governi e le strutture di potere, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno deciso di portare avanti una politica di menzogna, per negare qualcosa di fondamentale, ovvero la conoscenza che noi umani non siamo soli in questo universo e che altre intelligenze sono andate e venute per milioni di anni? La nostra archeologia, quella che compie scavi in Turchia e ovunque nel mondo, trova testimonianze straordinarie che non possono essere spiegate come opera di una civiltà di contadini ed allevatori di migliaia di anni fa”.

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Gobekli Tepe proviene da una parte della storia umana che è incredibilmente lontana, come poterono gli uomini delle caverne costruire qualcosa di così ambizioso?  “La risposta è già a nostra disposizione, e la conosciamo da tempo se non fossimo ancora legati agli antichi pregiudizi a noi spesso tramandati come certezze scientifiche e cioe’ che non erano certo uomini delle caverne quelli che avevano simili conoscenze di ingegneria, matematica e lavorazione della pietra, o che potevano conoscere la scrittura, inventata millenni dopo” dice Schmidt e tutto ciò viene descritto nel suo libro “Sie bauten di ersten  Tempel”, edito in Germania da Beck e tradotto in italiano per “Oltre Edizioni” da Umberto Tecchiati, col titolo “Costruirono i primi templi. 7000 anni prima delle Piramidi”. Molto si è favoleggiato su questo complesso archeologico. Alcuni hanno addirittura scomodato gli scritti biblici, rivedendo in Gobekli Tepe la paradisiaca valle dell’Eden di cui si parla nel libro della Genesi. A detta di Klaus Schmidt: “Gobekli Tepe è un tempio dell’Eden e quanto ritrovato in questo sito rivoluzionerebbe l’archeologia moderna e rivaluterebbe le conoscenze sulle società del mesolitico. Un’ipotesi recente è che il sito fosse un luogo di raccoglimento religioso. Si trova in cima a una vetta, con una vista dominante sulle montagne circostanti e sulle pianure a sud. «All’epoca le persone si sarebbero incontrate regolarmente per tenere fresco il pool genico e scambiare informazioni», dice Jens Notroff, archeologo presso l’Istituto Archeologico Germanico che lavora sul sito. «È un punto di riferimento. Non si incontravano qua per caso». Ma come poterono gli uomini delle caverne costruire qualcosa di così ambizioso? Schmidt pensa che bande di cacciatori si riunissero sporadicamente nel sito, durante i decenni di costruzione, vivessero in tende di pelle di animali e uccidessero la selvaggina locale per nutrirsi e le molte frecce di selce trovate giocano a sostegno di questa tesi e sostengono anche la datazione del sito. Tutto ciò mostra che la vita degli antichi cacciatori-raccoglitori, in questa regione della Turchia, era di gran lunga più progredita e incredibilmente sofisticata di quanto si sia mai concepito. La storia dell’Eden, nella Genesi, parla di un’umanità innocente e di un passato di uomini semplici che potevano nutrirsi con la raccolta delle frutta dagli alberi, la caccia e la pesca nei fiumi, e trascorrere il resto del tempo in attività di piacere. Poi l’uomo “precipitò” in una vita più dura, con la produzione agricola, con la fatica incessante e quotidiana. Quando avvenne la transizione dalla caccia e dalla raccolta all’agricoltura stanziale, gli scheletri mutarono – per un certo tempo crebbero più piccoli e meno sani, perché il corpo umano si doveva adattare a una dieta più povera di proteine e ad uno stile di vita più faticoso. Allo stesso modo, gli animali da poco addomesticati diventano più piccoli di taglia. Ciò solleva la questione: perché l’agricoltura fu adottata da tutti? Molte teorie sono state proposte a partire dalle concorrenze tribali, la pressione della popolazione, l’estinzione di specie animali selvatiche. Ma Schmidt ritiene che il tempio di Gobekli Tepe riveli un’altra possibile causa. “Per costruire un posto come questo, i cacciatori devono essersi riuniti in gran numero. Dopo avere finito l’edificio, probabilmente rimasero riuniti per il culto. Ma poi scoprirono che non potevano alimentare tante persone con una regolare attività di caccia e raccolta. Penso, quindi, che abbiano iniziato la coltivazione di erbe selvatiche sulle colline. La religione spinse la gente ad adottare l’agricoltura.” La ragione per cui tali teorie hanno uno speciale peso è che il passaggio alla produzione agricola è accaduto prima proprio in questa regione. Queste pianure dell’Anatolia sono state la culla dell’agricoltura. Il primo allevamento di suini addomesticati del mondo era a Cayonu, a sole 60 miglia di distanza. Anche ovini, bovini e caprini sono stati addomesticati per la prima volta nella Turchia orientale. Il frumento di tutto il mondo discende da una specie di Farro – prima coltivata sulle colline vicino a Gobekli Tepe. La coltivazione di altri cereali domestici come segale e avena è iniziata qui.

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Hanno anche conosciuto una crisi ecologica. In questi giorni il paesaggio che circonda le misteriose pietre di Gobekli Tepe è arido e brullo, ma non è stato sempre così. Come le incisioni sulle pietre mostrano, e come resti archeologici rivelano, questa era una volta una ricca regione pastorale. C’erano mandrie di selvaggina, fiumi ricchi di pesce, e stormi d’uccelli; verdi prati erano inanellati da boschi e frutteti selvatici. Circa 12000 anni fa, il deserto curdo era un “luogo paradisiaco”, come dice Schmidt. Quindi, che cosa ha distrutto l’ambiente?

La risposta è: l’uomo.
Quando abbiamo iniziato l’agricoltura, abbiamo cambiato il paesaggio e il clima. Quando gli alberi sono stati tagliati, il suolo è stato dilavato via; tutto ciò che l’aratura e la mietitura hanno lasciato era il terreno eroso e nudo. Ciò che era una volta una piacevole oasi è diventata una terra di stress, fatica e rendimenti decrescenti. E così, il paradiso era perduto. Adamo il cacciatore è stato costretto ad allontanarsi dal suo glorioso Eden, come dice la Bibbia. Naturalmente, tali teorie potrebbero essere respinte in quanto speculazioni. Tuttavia, vi è abbondanza di prove storiche per dimostrare che gli scrittori della Bibbia, quando parlavano dell’Eden, descriveva questo angolo di Anatolia abitato dai Curdi. Nel Libro della Genesi, è indicato che l’Eden è a ovest dell’Assiria. Gobekli si trova in tale posizione. La stessa parola ‘Eden’ deriva dal sumerico e significa ‘pianura’; Gobekli si trova nella pianura di Harran Così, quando si mette tutto insieme, la prova è convincente. Gobekli Tepe, infatti, è un ‘tempio nell’Eden’, costruito dai nostri fortunati e felici antenati – persone che avevano il tempo di coltivare l’arte, l’architettura e il complesso rituale, prima che il trauma dell’agricoltura rovinasse il loro stile di vita, e devastasse il loro paradiso. E ‘una splendida e seducente idea. Eppure, ha un sinistro epilogo, dato che la perdita del paradiso sembra aver avuto un effetto strano e abbrutente sulla mente umana. . Intorno al 8000 a.C., i creatori di Gobekli seppellirono la loro realizzazione e il loro glorioso tempio sotto migliaia di tonnellate di terra, creando le colline artificiali sulle quali il pastore curdo camminava nel 1995. Nessuno sa perché Gobekli fu sepolto. Forse fu una sorta di penitenza: un sacrificio alla divinità della collera, che aveva gettato via il paradiso dei cacciatori. Forse fu per la vergogna della violenza e dello spargimento di sangue che il culto della pietra aveva contribuito a provocare. In una zona vicino a Gobekli Tepe infatti è stata ritrovata la prima pietra sacrificale che nascondeva anche teschi umani. Qualunque sia la risposta, i parallelismi con la nostra epoca sono notevoli. Quando contempliamo una nuova era di turbolenza ecologica, pensiamo che forse le silenziose pietre, vecchie di 12000 anni di Tepe Gobekli, stanno cercando di parlare con noi per metterci in guardia, perché stanno proprio dove abbiamo distrutto il primo Eden.

E probabilmente molto altro deve essere ancora raccontato.

Alfonso Morelli Team – Mistery Hunters

 

 

 

 

 

I PRIMI NEANDERTHAL ERANO ROMANI

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Viveva a Roma la più antica comunità di Neanderthal di cui sia mai stata trovata traccia diretta in Europa. Lo dimostra uno studio condotto dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), in collaborazione con i paleontologi delle Università della Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, e dell’Università americana del Wisconsin-Madison, su resti di ossa animali, su alcuni strumenti litici e su due crani appartenenti all’uomo di Neanderthal, il primo rinvenuto nel 1929 dal duca Mario Grazioli, proprietario della cava di ghiaia di Sacco Pastore, località della campagna romana sulla riva sinistra del fiume Aniene, il secondo nel 1935, nella stessa località, dai paleoantropologi Alberto Carlo Blanc e Henri Breuil, conservati presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma.

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Alberto Carlo Blanc e Henri Breuil.

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Crani di Sacco Pastore

I risultati, pubblicati sulla rivista Plos One (clicca qui per leggere l’intero studio), aprono nuovi scenari sulle tappe dell’evoluzione dell’uomo e sui flussi migratori attraverso il Vecchio Continente.  La conferma è venuta dal riesame dei resti fossili di daini, ritrovati insieme ai resti umani, appartenenti alla sottospecie Dama dama tiberina, caratteristici dello stadio isotopico tra 8.5 e 7, che equivale ad un intervallo di tempo ben definito tra 295mila e 245mila anni fa. I dati faunistici, uniti agli strumenti in selce dell’industria litica preistorica ritrovati in quattro località vicine a Sacco Pastore (Ponte Mammolo, Sedia del Diavolo, Casal de’ Pazzi e Monte delle Gioie), confermano che quel territorio non può essere più giovane di 200mila anni, in sostanziale accordo con la stima geologica, di un’età di circa 250mila. La scoperta è importante se si considera che la stessa età di 295mila anni è stata ipotizzata dai paletnologi inglesi per gli strumenti in selce ritrovati sui terrazzi fluviali del Solent river, poco a sud di Londra, che sono attribuiti alle prime presenze dell’uomo di Neanderthal in Europa.

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“Sono più vecchi di oltre 100.000 anni rispetto a quanto sinora ritenuto, portando l’età del Neanderthal in Italia a 250.000 anni fa”, rileva il responsabile dello studio, Fabrizio Marra, dell’INGV. E continua: “il lavoro è partito dal punto in cui i ricercatori erano giunti un anno e mezzo fa, quando avevano dimostrato, attraverso la correlazione tra cicli sedimentari e variazioni globali del livello del mare, che i terreni in cui erano stati ritrovati i due crani erano molto più antichi di quanto sino allora ritenuto. Si è evidenziato che nessuno di questi reperti presenta caratteri tali da implicare un’età di 125.000 anni, come ipotizzato negli studi precedenti, mentre risultano del tutto compatibili e oltremodo simili ai sedimenti attribuiti e datati 250.000 anni”. “I resti della Valle dell’Aniene costituiscono la più antica evidenza diretta della presenza dell’uomo di Neanderthal sul continente europeo”, precisa Marra. “Gli uomini di Neanderthal potrebbero essere stati pertanto i protagonisti di una nuova antropizzazione dell’Europa avvenuta più di 250.000 anni fa: anche allora passando attraverso un’Italia ospitale, almeno dal punto di vista climatico, dove proprio nella sua capitale avrebbero stabilito una delle prime comunità”.

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I resti portati alla luce in Italia non sono molto numerosi rispetto all’Europa continentale. Prima di questo studio, l’esemplare di Neanderthal più antico ritrovato in Italia era l’Uomo di Altamura, scoperto in Puglia, incastonato in una cava di calcare nel 1993. Le analisi dei depositi di calcio sullo scheletro datano il reperto dai 128.000 ai 187.000 anni fa. Lo scheletro è rinomato per aver fornito il più antico campione di DNA estratto da sempre da un uomo di Neanderthal.

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Anche in Calabria sono stati ritrovati alcuni di questi rarissimi resti: una porzione cranica a Nicotera (Vibo Valentia) in Contrada Ianni di San Calogero e una mandibola a Reggio Calabria nel quartiere Archi.

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Le ultime tracce dei Neanderthal si perdono in Crimea sul massiccio Ak-Kaya. Qui Neanderthal e Sapiens vissero insieme per un certo periodo di tempo, nelle stesse condizioni climatiche e ambientali.

I Neanderthal prendono il nome dalla valle di Neander presso Düsseldorf, in Germania, dove vennero ritrovati i primi resti fossili. Erano simili agli esseri umani in apparenza, anche se erano più bassi e tarchiati. I loro volti generalmente presentavano un naso largo, una arcata sopraccigliare prominente e zigomi angolati. Sono i nostri parenti estinti più stretti. Fiorenti in Europa per gran parte del Pleistocene, i resti dei Neanderthal sono stati trovati in tutto il continente, dalla costa del Mar Nero della Russia alla costa atlantica della Spagna. Fu un “Homo” molto evoluto, in possesso di tecnologie litiche elevate e dal comportamento sociale piuttosto avanzato, al pari dei Sapiens di diversi periodi paleolitici. Convissuto nell’ultimo periodo della sua esistenza con lo stesso Homo Sapiens, l’Homo Neanderthalensis scomparve in un tempo relativamente breve, evento che costituisce un enigma scientifico oggi attivamente studiato. Le presunte teorie vanno dagli effetti dei Sapiens, attraverso una maggiore competizione violenta per il cibo e per le risorse, dalla trasmissione involontaria di fatali malattie o dalla selezione sessuale,  al cambiamento climatico o anche ad una importante eruzione vulcanica. L’analisi del DNA ha rivelato che il genoma dell’Homo Sapiens e dell’Homo Neanderthalensis è identico al 99,84% e che hanno meno di 100 proteine che differiscono nella loro sequenza amminoacidica. Tuttavia, nonostante la strabiliante somiglianza genetica, le due specie contano differenze fondamentali. In altre parole, le differenze tra le due specie potrebbero essere valutate con una serie di interruttori on/off che attivano o meno parti del DNA.

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Sapiens e Neanderthal si incrociarono più volte nell’Europa di 50 mila anni fa, ma non furono in grado di generare prole sana, in particolare, figli maschi in grado di perpetuare un nuovo mix umano. Lo rivela uno studio di Michael Barton, archeologo della School of Human Evolution and Social Change dell’Arizona State University, sulla genetica dei nostri lontani “cugini” effettuato non sul DNA mitocondriale (quello trasmesso dalla madre), ma sul cromosoma Y di un maschio Neanderthal vissuto a El Sidrón (Spagna) 49 mila anni fa. Le analisi dimostrano che quel cromosoma sessuale è completamente diverso da quello dell’uomo moderno: in pratica, del cromosoma Y dei Neanderthal non c’è più traccia nel DNA dei maschi Sapiens. E questo, nonostante europei ed asiatici abbiano ereditato dall’1 al 3% del patrimonio genetico (si parla di un 20%, forse di un 30%, se invece si considera complessivamente tutto il materiale genetico) dei vicini ominidi come afferma uno studio di Svante Pääbo dell’Harvard Medical School di Boston, uno dei fondatori della paleogenetica. Il DNA del Neanderthal spagnolo presenta mutazioni in tre diversi geni immunitari, uno dei quali produce antigeni che scatenano una risposta immunitaria nelle donne incinte, causando l’aborto dei feti maschi recanti quel gene. In pratica, anche se Sapiens e Neanderthal si incrociarono, anche in tempi relativamente recenti, furono incapaci di generare maschi sani: rimasero vicini, ma separati. Una distanza che avrebbe decretato il declino definitivo dei Neanderthal. Generazione dopo generazione, il DNA dei Neanderthal si sarebbe disperso, assorbito da quello delle popolazioni di Homo Sapiens, molto più numerose.

I Neanderthal comunque sono tra noi. Meglio, dentro di noi con una variante di un gene che regola le funzioni della cheratina, una proteina che aiuta la pelle, i capelli e le unghie che ci avrebbe avvantaggiato in un ambiente freddo. Ma anche con varianti correlate al diabete di tipo 2, alla malattia di Crohn, alla cirrosi biliare, al lupus. Sarebbe questa l’eredità dei Neanderthal che noi Sapiens ci portiamo dietro da almeno 40 mila anni.

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 Il businessman della valle di Neander che veste Armani al Neanderthal Museum di Mettmann in Germania.

 

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

LA NASA ANNULLA LA MISSIONE UMANA SU MARTE

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E’ uno dei più grandi sogni dell’intera umanità, uno di quei progetti che un giorno riusciremo a realizzare, ma il tempo non è ancora giunto come abbiamo pensato negli ultimi anni. Da diverso tempo si vociferava di una prima missione con equipaggio umano sul pianeta che più di ogni altro suscita la nostra morbosa curiosità, ovvero Marte. Le cosiddette “voci di corridoio” vicine agli ambienti ufficiali diedero anche una data per la missione, approssimativamente tra il 2020 e il 2025.
Questa fuga di notizie ha portato inevitabilmente ad una attenzione ed un interesse sempre maggiore verso il pianeta rosso; il mondo del web scatenato nella ricerca di notizie ed aggiornamenti sulle sonde che si trovano sul suolo marziano, schiere di complottisti che cercano di convincere l’opinione pubblica della presenza di canali artificiali e piramidi (vestige di una antica civiltà aliena) sul suolo marziano, la prova definitiva dell’esistenza nell’universo di civiltà extraterrestri…

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Ora, però, è giunto forse il momento in cui la realtà pone una pietra tombale sulle nostre fantasie e sui nostri viaggi “mentali” alla scoperta del nostro vicino planetario. Secondo alcune indiscrezioni, l’ente spaziale americano avrebbe preso in esame alcuni parametri che rendono impossibile la missione umana sul pianeta rosso, almeno per il momento. Prima o poi l’uomo poggerà il suo piede su Marte, ma non sarà nel 2020 e neanche nel 2025, probabilmente quello storico giorno è ancora più lontano nel futuro.
Il problema che rende inattuabile in tempi relativamente brevi il viaggio umano su Marte è l’altissimo livello di radiazioni a cui gli astronauti sarebbero soggetti nel lungo viaggio fino alla destinazione (un tempo quantificabile in nove mesi). Queste radiazioni sono un serio rischio per la salute degli astronauti, che avrebbero grandi probabilità di contrarre il cancro o malattie gravissime.

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Gli scienziati della Nasa hanno esaminato i dati ricevuti dalla sonda Curiosity sul livello di radiazioni su Marte, riuscendo cosi ad elaborare uno schema sui raggi cosmici che gli astronauti dovrebbero subire una volta partiti nel loro lungo viaggio verso il pianeta rosso. Le misurazioni fatte danno risultati allarmanti: gli astronauti riceverebbero un livello di radiazioni di circa 660 millisieverts durante il viaggio, una quantità che farebbe aumentare oltre il 5% la possibilità di contrarre forme gravi di cancro, mentre la Nasa ha stabilito come limite accettabile una soglia al di sotto del 3% per gli abitanti della stazione spaziale internazionale.
Un rischio troppo grande, una missione per ora inattuabile per limiti umani a cui non possiamo non dar conto. Ma la discesa sul suolo marziano è solo rinviata, in un futuro non molto lontano l’uomo riuscirà a compiere questo viaggio sognato ormai da secoli, un passo decisivo verso una nuova Era.

Vincenzo Abate