I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

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I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

Questa rubrica sta piacendo molto ai nostri lettori ed è un piacere per noi accontentarli con un altro articolo sulle personalità nostrane che con la loro calabresità hanno reso un contributo importante all’umanità. Molti personaggi hanno nomi altisonanti ma si conosce davvero la loro storia e ciò che li ha resi grandi? Molti invece non si conoscono proprio ma le loro gesta hanno cambiato il modo di vivere di tutti noi. E poi ci sono quelli che si conoscono ma non si sa che sono calabresi, e scoprirlo ci rende ancora più orgogliosi di essere nati nella loro stessa terra. Siete pronti ad inorgoglirvi, per l’ennesima volta, con questi nuovi pezzi da novanta “made in Calabria”?

GIOACCHINO DA FIORE

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Gioacchino da Fiore nacque intorno al 1130 a Célico, in provincia di Cosenza, da famiglia ricca e stimata infatti il padre Mauro era tabulario o notaio. Venerato come beato dalla Chiesa cattolica (da parte dei florensi e dei gesuiti Bollandisti), fu monaco, abate, teologo, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta e Dante Alighieri nel XII canto del Paradiso dice di lui: “…il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato…”. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza. Ben presto fu mandato dal padre a lavorare, sempre a Cosenza, presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la Corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, con i Notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo l’Arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano si allontanò definitivamente dalla Corte Reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta, dove ebbe il privilegio di visitare i luoghi della nascita e della predicazione di Cristo. Forse nel corso di questo viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re (Dio).

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Si fece monaco cistercense presso l’abbazia della Sambucina da cui però si allontanò per andare a predicare dall’altra parte della valle vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino Rende. Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove il Vescovo lo ordinò sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Poco tempo dopo si trasferirì proprio qui, dove divenne abate nel 1177. A Corazzo l’abate Gioacchino cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia. Durante questo periodo incontrò, nell’Abbazia di Casamari, il Papa Lucio III che gli concesse la “licentia scribendi”, scaturita dall’interpretazione di Gioacchino di una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Matteo d’Angers. Con l’aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca Campano, fututo Arcivescovo di Cosenza nonchè realizzatore del duomo, iniziò quindi la stesura delle sue opere principali: “La Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento” e “L’Esposizione dell’Apocalisse”.

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Al ritorno da un viaggio a Verona per incontrare Papa Urbano III, si ritirò a Pietralata, da lui ribattezzata Petra Olei, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell’Abbazia di Corazzo. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino, pertanto nell’autunno del 1188 Gioacchino salì in Sila con i suoi discepoli alla ricerca di un territorio abitabile e lo trovò nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. Dopo un complesso confronto tra Gioacchino e il re dei normanni Tancredi, l’asceta ebbe in dono un vasto tenimento posto nelle adiacenze del luogo scelto precedentemente, con l’aggiunta di 300 pecore e 30 some di grano, per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire il protomonastero di Fiore Vetere e successivamente nel 1194, dopo la morte di Tancredi, il nuovo regnante Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II, concesse a Gioacchino privilegi sovrani su tutta la Calabria.

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Gioacchino fondò molti monastreri e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma ricevendo da Papa Celestino III l’approvazione della “Congregazione Florense” e dei suoi Istituti il 25 agosto del 1196. I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e misero a coltura i terreni, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del “novus ordo”. Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale, ultima sua costruzione. Il suoi resti furono traslati nell’abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L’ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.

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I seguaci di Gioacchino subito dopo la sua morte raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditatogli ingiustamente. Il 20 luglio 1684 il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all’Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull’altare vicino al sepolcro dell’abate Gioacchino. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie. All’approssimarsi dell’VIII centenario della morte dell’Abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l’iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana.

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Gioacchino da Fiore ebbe tante interessanti e originali intuizioni tra le quali le più importanti sono:
– l’esistenza di diverse forme di concordia tra l’Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio e con questo concetto, noto come modello “binario della teologia della storia”, data la piena proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di “proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l’età apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro”;
– da questo concetto binario, Gioacchino elabora un “modello ternario”, connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l’analisi teologico-iconografica delle lettere “ALFA” e “OMEGA”;
– dallo sviluppo di queste due concezioni basilari Gioacchino approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle “Tre Età della Storia terrena”, sostenendo che se c’era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre (corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda (784-746)) e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio (appresentata dal Vangelo e compresa dall’avvento di Gesù, estesa nel tempo che va da Ozia fino al 1260), allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del “millennio sabbatico”, ovvero quel periodo in cui l’umanità attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. Un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l’uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e il ricongiungimento di cristiani ed ebrei.

02-gioachino-da-fiore-webNel suo “Monasterium” delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione della chiesa, della quale condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere, con la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un’età di perfezione.

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Oltre ad essere un punto di riferimento spirituale del tempo, infatti tra coloro che seguivano le sue idee c’erano regnanti e papi, le sue straordinarie intuizioni hanno cavalcato i secoli arrivando ai giorni nostri, influenzando sia alcuni movimenti religiosi, tra cui il più importante è senza dubbio l’ideologia dei Francescani spirituali francesi e italiani tra i quali esponenti ricordiamo Ubertino da Casale, Jacopone da Todi, Arnaldo de Villanova e moltissimi altri e addirittura l’apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi e la struttura urbanistica che i francescani diedero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc., e sia di molte personalità tra cui Roger Bacon (Bacone), Girolamo Savonarola, Celestino V, Michelangelo Buonarroti nella costruzione della struttura compositiva della Cappella Sistina, Dante Alighieri citandolo direttamente o indirettamente diverse volte nel Paradiso e Barack Obama che fece del pensiero di Gioacchino da Fiore, oltre che un punto di riferimento per la stesura della sua tesi di laurea, anche la base portante dei sui discorsi durante la sua campagna elettorale per le presidenziali e successivamente citandolo a più riprese nei discorsi alla nazione, definendolo come “maestro della civilta’ contemporanea” e “ispiratore di un mondo più giusto”, usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto “change we can”, per indicare la necessità di un cambiamento radicale della storia e proclamandolo il portabandiera di una società più equa e di un’epoca straordinaria, in cui lo spirito riuscirà a cambiare il cuore degli uomini.

MILONE DI CROTONE

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Tra i personaggi più illustri della Magna Grecia e certamente l’atleta più forte di tutti i tempi, il grande Milone fu pugile e lottatore imbattuto per oltre vent’anni. Nato e vissuto nell’antica Kroton (Crotone) del VI secolo a.C. grazie alle sue gesta sportive e non, divenne tra gli uomini più influenti del gruppo aristocratico che governava la città di Miscello. La sua prima vittoria sportiva la ottenne all’età di 15 anni (540 a.C.), partecipando e vincendo nella disciplina sportiva della lotta. Si dice infatti che, per allenarsi, era solito portare sulle spalle vitelli, così da potenziare maggiormente la sua massa muscolare. Può essere considerato a tutti gli effetti il prima culturista della storia. Nel corso della sua vita fu capace di sei vittorie olimpiche disputate fra il 540 a.C. e il 512 a.C. e di altre sei vittorie ai Giochi Pitici di Delfi che si tenevano in onore di Apollo, dieci ai Giochi Istmici presso Corinto e nove ai Giochi Nemei. In 28 anni di carriera, Milone vince 33 volte. La sua specialità era l’orthopale, un tipo di lotta. Per di più, quando partecipò alle olimpiadi per la settima volta e si scontrò con un suo concittadino, il diciottenne Timasiteo, il quale lo ammirava fin da piccolo e da cui imparò anche molte mosse, alla finale, il suo avversario si inchinò senza nemmeno iniziare a combattere, in segno di rispetto all’uomo a cui gli dei diedero in dono la forza e la disciplina. Forse siamo di fronte al primo caso nella storia delle Olimpiadi antiche in cui sappiamo il nome del secondo classificato, anch’esso calabrese, in quanto le liste tramandate sin dall’antichità hanno per protagonisti solo i primi classificati.

pancrazioUna leggenda vuole che in occasione dei giochi olimpici, prima di vincerli, corse da Crotone ad Olimpia con un toro sulle spalle provocando un grande clamore. Tanta gloria rese Milone uno dei personaggi più illustri e famosi del mondo antico, conosciuto ovunque per la sua proverbiale forza e considerato eroe leggendario appartenente alla stirpe degli Eraclidi, discendente diretto di Eracle, a sua volta ritenuto “ecista morale” della città di Crotone. Molte notizie ci vengono tramandate da storici come Diodoro Siculo che lo inserisce anche in alcuni scenari cittadini che ne hanno fatto di lui, eroe “nazionale”. Era noto, oltre che per la grande forza, anche per il grande appetito. Pare, infatti, che una volta avesse portato di peso un toro di 4 anni allo stadio, fatto un giro di campo con l’animale sulle spalle, che l’abbia ucciso con un colpo solo e che se lo sia mangiato tutto nello stesso giorno. Come se non bastasse, si racconta che egli fosse alto circa due metri e che era capace di sollevare anche un uomo con un dito della mano.

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Del resto, ad uno sportivo vincente come lui potevano essere portati solo onore e rispetto, tanto che un suo ammiratore di nome Dameas, come regalo, gli fece erigere una statua nello stadio di Olimpia in cui Milone era rappresentato ritto su un disco con i piedi uniti. Milone è noto anche per essere stato discepolo di Pitagora e sposo di sua figlia Myia. In occasione di un terremoto, che colse il gruppo dirigente aristocratico guidato da Pitagora mentre era in riunione proprio in casa del filosofo, Milone si sostituì ad una colonna spezzata dal sisma reggendo sulle sue spalle il soffitto dell’abitazione permettendo così alla struttura di non crollare e di far scappare tutti in tempo. Mito o realtà storica? Sta di fatto che quando si tramandano le gesta e le imprese di certi affascinanti personaggi, tutto ciò che li riguarda viene molto romanzato, per far risaltare ancora di più le imprese. Milone fu comandante dell’esercito crotoniate in occasione della famosa battaglia di Trionto contro i sibariti del 510 a.C. che sancì la sconfitta e la distruzione dell’opulenta colonia di Sybaris. Milone vestito come Eracle, con la clava e la pelle di leone sulle spalle, guidò il suo esercito verso una delle vittorie più schiaccianti della storia antica. Persino Democede, crotoniate e medico personale del re Dario di Persia, per tornare a casa contro il parere del re persiano, sposò in tutta fretta una figlia di Milone, costringendo Dario a desistere dai suoi piani.

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La data della morte di Milone è sconosciuta ma, come per la maggior parte degli antichi greci famosi, la dinamica del decesso è divenuta un mito. Secondo Strabone e Pausania, l’ormai vecchio Milone stava attraversando un bosco quando s’imbatté in un ulivo secolare sacro alla dea Hera, antistante appunto al tempio Crotonese di Hera Lacina, dal tronco cavo. Il lottatore inserì le mani nella fenditura per spezzare in due il tronco in un’ultima dimostrazione di forza, ma vi rimase incastrato e divenne preda di un branco di lupi.

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Il mito della forza e dalla vita di Milone ha alimentato la fantasia di diversi artisti, facendo del lottatore celebre soggetto di opere d’arte e di letteratura. Già nel 1590 il bronzista veneziano Alessandro Vittoria fuse una statua raffigurante Milone. La morte del lottatore divenne poi un soggetto ricorrente nella produzione artistica del XVIII secolo ma, per onorare il personaggio, si ricorse spesso alla raffigurazione dei leoni invece che dei lupi quali responsabili della sua morte. Nella scultura “Milone di Crotone” del francese Pierre Puget (1682), l’artista predilesse invece una rilettura del mito in chiave barocca, focalizzando come soggetti la vittoria dell’età sulla forza del lottatore e la vana gloria del trofeo olimpico. L’originale si trova nel museo del Louvre a Parigi ma esistono anche delle copie che si trovano nel Parque Buenos Aires di San Paolo in Brasile, in Cours Estienne d’Orves a Marsiglia in Francia e nel piazzale antistante il PalaMilone a Crotone. Il “Milone di Crotone” di Étienne-Maurice Falconet (1754) permise all’artista di ottenere l’accesso alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di Parigi. Sempre nel Settecento, il pittore Joseph-Benoît Suvée realizzò l’olio su tela “La morte di Milone”. Nel XIX secolo, uno sconosciuto artista realizzò una statua bronzea di Milone ora in Holland Park, a Londra e il pittore irlandese James Barry tornò a raffigurare su tela la morte del lottatore.

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Una statua di Milone si trova allo stadio dei Marmi di Roma. François Rabelais citò Milone di Crotone nel suo “Gargantua”, Shakespeare fece lo stesso nel secondo atto dell’opera “Troilo e Cressida” e Alexandre Dumas descrive brevemente la figura di Milone in “Vent’anni dopo” e lo cita nel “Visconte di Bragelonne”. La Nestlè produce bevande e prodotti ispirati al famoso Milo di Crotone. La Coca Cola dedica una cartolina ai più grandi campioni Olimpici e tra di essi Milone di Crotone. Nel Maine, negli Stati Uniti, esiste una città, Milo, che prende il nome da Milone di Crotone.

RENATO DULBECCO

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Renato Dulbecco nacque a Catanzaro il 22 Febbraio 1914 da Leonardo, ingegnere ligure del Genio Civile, e da Maria Virdia, proveniente da una famiglia di professionisti originari di Tropea. Fin da bambino fu educato dai genitori al sacrificio e allo studio, era ateo e fortemente antireligioso. All’età di cinque anni, dopo la fine della prima guerra mondiale, si trasferì in Liguria con la sua famiglia, nella casa paterna di una frazione di Imperia: trascorse un’infanzia serena che favorì la sua curiosità e la sua vocazione per la ricerca scientifica. Qui visse anche alcune esperienze, fra cui la morte dell’amico Peppino, che furono decisive per la scelta della sua carriera futura, dal momento che si accese in lui la consapevolezza dell’impotenza della medicina dinanzi a malattie molto gravi. Qui Dulbecco compì gli studi secondari, presso il Regio Liceo ginnasio Edmondo De Amicis ed il suo tempo libero lo trascorreva presso l’Osservatorio Meteorologico e Sismico della sua città dove iniziò a mostrare una spiccata propensione per le materie scientifiche e una notevole manualità tecnica che lo portarono a costruire strumenti all’avanguardia grazie a quanto aveva appreso dalla lettura di alcune riviste scientifiche del tempo come il primo sismografo elettronico, poi usato da Herlitska per registrare le contrazioni dei muscoli.

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Seguendo le orme di uno zio materno, nel 1930, a soli sedici anni, fece il proprio ingresso nella facoltà di medicina dell’Università di Torino, nello stesso anno di Rita Levi Montalcini e un anno dopo l’iscrizione di Salvador Luria, compagni con cui condividerà negli anni a venire il magistero di Giuseppe Levi, l’emigrazione negli Stati uniti e il premio Nobel. Fra i primi del corso, al secondo anno venne ammesso come interno nel laboratorio di Giuseppe Levi, anatomista di fama internazionale, nonché pioniere della coltura dei tessuti in vitro. Nell’Istituto di anatomia normale umana ebbe la possibilità di disporre «di un laboratorio e di un banco per poter lavorare» ai propri esperimenti, ma fu anche un’occasione per conoscere meglio la personalità carismatica del maestro, un docente che si era imposto alla sua attenzione per il rigore scientifico e l’«esplicito antifascismo». Dopo qualche anno, il giovane Renato lasciò il laboratorio di Levi e si trasferì presso quello di Anatomia Patologica di Ferruccio Vanzetti, divenendo anche interno all’ospedale Mauriziano, spinto dall’interesse per la clinica. Si laureò a soli 22 anni, nel 1936, con una tesi sulle alterazioni del fegato dovute al blocco nell’efflusso della bile e ricevette in quest’occasione diversi premi, essendo stato riconosciuto come il migliore laureato dell’università con la migliore tesi.

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Partì per il servizio militare come ufficiale medico fino al 1938. Un anno dopo é richiamato per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e inviato prima sul fronte francese e quindi in Russia. Fu una caduta sul ghiaccio e la lussazione di una spalla durante l’offensiva sul Don a garantirgli un provvidenziale periodo di congedo: una volta dimesso decise infatti di disertare le armi sino al giorno della liberazione per aiutare come medico i partigiani nascosti sulle colline torinesi e per un breve periodo fu membro del Comitati di Liberazione Nazionale. Successivamente avvia l’attività di ricerca e contemporaneamente si iscrive alla facoltà di Fisica, che frequenta e concluse dal 1945 al 1947. Su consiglio di Rita Levi Montalcini, si trasferisce negli Stati Uniti per lavorare con Salvador Luria, ormai docente all’università di Bloomington e scoprendo un mondo totalmente diverso dalla sua terra natia. Si imbarcano sulla stessa nave, la Montalcini andrà a St. Louis, lui alla Indiana University. Negli Usa Dulbecco studia certi virus che attaccano i batteri, per ciò chiamati batteriofagi. Fa la prima scoperta quasi per caso, quando si accorge che questi virus vengono riattivati dalla luce ultravioletta di un tubo al neon.

Renato Dulbecco

Il contratto di lavoro offertogli da Luria prevedeva una durata di due anni, ma date le dimostrazioni di grande capacità e acutezza dello scienziato, egli ebbe la possibilità di proseguire a Bloomington le sue ricerche, acquisendo definitivamente la cittadinanza americana. La stima da parte del suo “datore di lavoro” fu tale che nell’estate del 1948, lo invitò a lavorare con lui per alcuni mesi presso il Cold Spring Harbor, un prestigioso laboratorio in cui affluivano scienziati da tutte le parti del mondo. Intanto aveva conosciuto Max Delbruck, un collaboratore di Luria. Delbruck (Nobel 1969) lo invita al California Institute of Technology di Pasadena, più noto come Caltech, uno dei più importanti laboratori scientifici del mondo. Qui sviluppa ricerche sui virus animali che si dimostreranno utili a Sabin per la preparazione del vaccino per la poliomielite. A partire da questo momento, la fama dello scienziato accrebbe e tutta la ricerca sui virus fu rivoluzionata.

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Nel 1958 comincia ad interessarsi alla ricerca oncologica, studiando virus animali che provocano forme di alterazione nelle cellule. La scoperta più importante è la dimostrazione che il DNA del virus viene incorporato nel materiale genetico cellulare, per cui la cellula subisce un’alterazione permanente. Nel 1964 vince il premio Lasker per la ricerca medica e sempre per queste ricerche nel 1975 gli fu conferito il premio Nobel per la medicina con David Baltimore e Howard Temin. La sua sorpresa alla notizia di quest’ultimo riconoscimento si evince chiaramente da queste parole: « Il cuore mi saltò in gola. Avevo capito bene? […] Non osavo dirlo, ma facendomi coraggio mormorai: “il premio Nobel”». Alla cerimonia del Nobel, Renato Dulbecco, che era da sempre un alfiere della lotta contro il fumo, non perse l’occasione per lanciare una dichiarazione contro il tabagismo.

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Dal 1972 si trasferisce a Londra, all’Imperial Cancer Research Fund, dove ha la possibilità di lavorare nel campo dell’oncologia umana, e successivamente al Salk Institute di La Jolla (California). La personalità del grande scienziato, mai pago di conoscenza, lo portò ad immergere se stesso in un nuovo colosso della scienza moderna: il Progetto Genoma, con l’obiettivo di mappare l’intera sequenza del genoma umano, in modo da comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro. Conoscere tutti i geni dell’uomo era l’anello mancante di questa catena vitale, e l’unico modo per smuovere la titubante comunità scientifica fu quello di lanciare il progetto mediante una delle riviste scientifiche più autorevoli: Science. Nell’arco di pochi mesi, furono attuate numerose iniziative, la scintilla del nuovo “ordigno” della scienza era stata innescata. Nel 1993 rientra in Italia dove lavorò presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Milano, oltre a guidare la Commissione Oncologica Nazionale e a ricoprire l’incarico di presidente emerito del Salk Institute, completando, nel 2003, la mappatura del genoma.

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Renato Dulbecco è stato insignito della laurea honoris causa in Scienze dall’Università Yale ed è stato membro di diversi organismi scientifici internazionali, tra cui l’Accademia dei Lincei, la National Academy of Sciences statunitense, la Royal Society britannica e l’IPPNW (International Physicians for the Prevention of Nuclear War). Nel 1999 presenta il quarantanovesimo Festival di Sanremo insieme a Fabio Fazio e Laetitia Casta. Muore il 20 febbraio del 2012 a La Jolla, località nei pressi di San Diego dove risiedeva da anni, colpito da un infarto tre giorni prima del suo 98º compleanno.

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Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, treccani.it, calabriatours.org, mediterraneoantico.it, lastampa.it, biografieonline.it.

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

Come promesso continuiamo la carrellata di personaggi importanti della nostra Calabria. Nelle puntate precedenti (da leggere con voce baritona), abbiamo parlato di Telesio, Barlaam, D’amico. Viste le reazioni dei lettori, è evidente che l’obiettivo è stato raggiunto, incuriosire e far conoscere nomi noti e meno noti. In questa seconda parte incontreremo personaggi di epoche diverse, che per molti sono fonte di ispirazione grazie al loro pensiero.

TOMMASO CAMPANELLA

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Tommaso Campanella, al secolo Giovan Domenico Campanella, nasce a Stilo in Calabria, il 5 settembre 1568, da povera famiglia. Entra in un convento domenicano a tredici anni prendendo il nome di fra Tommaso. La sua formazione è fortemente influenzata dal filosofo calabrese Bernardino Telesio (1509-1588), da cui riprende le posizioni antiaristoteliche e naturalistiche. Sulla sua scorta scrive un’opera in latino, Philosophia sensibus demonstrata [La filosofia dimostrata attraverso i sensi], che gli attira le persecuzioni della Chiesa. Arrestato a Napoli, dove frequentava Giambattista Della Porta, esperto in magia naturale e in arti occulte, Tommaso Campanella subisce un primo processo nel 1592. Fugge viaggiando da una città all’altra, ma a Padova, dove conosce Galileo Galilei, è nuovamente arrestato; portato a Roma, dove resta in prigione per alcuni mesi, viene costretto all’abiura e poi condannato a ritornare in un convento calabrese. Nel 1599, in Calabria, dove le masse contadine erano costrette a subire, in terribile miseria, l’oppressione della Spagna e della Chiesa, Tommaso Campanella organizza una rivolta popolare che avrebbe dovuto instaurare una società teocratica secondo il modello poi esposto nella Città del sole. La congiura viene scoperta. Tommaso Campanella, arrestato nel novembre 1599, può salvarsi solo fingendo di essere pazzo: i folli, infatti, non potevano essere condannati a morte. Nonostante venga torturato più volte, riesce a resistere alle sofferenze e a restare fedele alla propria finzione. Così viene condannato all’ergastolo, a Napoli, nel 1602.

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In carcere resta per 27 anni, dal 1599 al 1626. Qui scrive La Città del sole, le poesie e molte delle sue opere filosofiche, fra difficoltà incredibili di ordine materiale e intellettuale che lo costringono a venire a patti con le autorità: cosicché non è facile capire quanto, in questo periodo, risponda al suo effettivo pensiero e quanto, invece, alle esigenze di un compromesso con la Chiesa. Per l’intervento del papa Urbano VIII, Tommaso Campanella riottiene la libertà, dapprima condizionata e limitata, poi definitiva, vivendo a Roma, nella cerchia di intellettuali e di prelati che assistevano il pontefice. Ma nel 1633 la scoperta di una congiura antispagnola in cui è coinvolto un suo discepolo, lo pone di nuovo in una posizione di pericolo, cosicché l’anno successivo si rifugia in Francia, alla corte di Luigi XIII. Qui prepara un piano di pubblicazione delle sue opere in dieci volumi, ma riesce a pubblicarne solo tre, perché muore il 21 maggio 1639.

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Nella cultura di Tommaso Campanella confluiscono tendenze diverse: da quelle dei movimenti ereticali del Medioevo (si pensi a una figura come quella del monaco calabrese Gioacchino da Fiore, 1130-1202, la cui concezione religiosa era fondata sull’attesa della fine del mondo, profetizzata per l’anno 1260, e dell’avvento successivo di un nuovo “millennio”, in cui Dio e il Bene avrebbero governato la vita umana) a quelle del naturalismo, del magismo e dell’ermetismo che avevano caratterizzato la cultura platonica rinascimentale; dalla cultura popolare calabrese, con la sua concezione magica e animistica della natura, alla teologia della Controriforma, che mirava a unire potere politico e potere religioso (programma ripreso infatti da Tommaso Campanella). Della cultura rinascimentale egli riprende la tendenza alla magia, non il metodo scientifico e razionalistico; la spregiudicatezza intellettuale, non l’individualismo né la fiducia nell’azione del singolo; egli privilegia invece l’aspetto comunitario, sociale, collettivo spingendosi fino a ipotizzare una società comunistica nella Città del sole.

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Tommaso Campanella scrisse le sue poesie perlopiù in carcere. Un gruppo di 89 venne pubblicato nel 1622 in Germania, per interessamento dell’amico Tobia Adami, con il titolo Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla (pseudonimo di Tommaso Campanella), accompagnate dal commento dell’autore. Sono sonetti, madrigali, odi e tre elegie «fatte con misura latina» (è uno dei primi tentativi di rendere nella metrica italiana quella latina), tutti componimenti scritti fra l’inizio del secolo e il 1613.
Le poesie di Tommaso Campanella partono spesso da temi autobiografici (anzitutto quello del carcere) per innalzarsi sino all’esaltazione della superiore missione del poeta, alla condanna dei vizi e delle ipocrisie dominanti, alla riproposizione dei motivi politici che parallelamente confluiscono nella Città del sole.
Accanto alle opere in latino (come la Philosophia realis [Filosofia reale], la Theologia e la Metaphysica) spicca il trattato in volgare, scritto nel 1604, Del senso delle cose e della magia. Il mondo vi è immaginato come un animale, come un organismo vivente i cui vari aspetti sono tutti dotati di sensibilità. Tutta la natura dunque è pervasa da un’unica vita, da un’anima comune: la morte è solo un momento necessario alla continuazione di questa vita perpetua. La magia permette di intervenirvi così come l’astrologia concede di prevederne gli sviluppi. Dio si identifica con il processo naturale guidandolo verso una complessiva conciliazione di tutte le cose, verso un’armonia universale che si realizza progressivamente nel flusso stesso dell’esistenza. Il progetto politico si inserisce appunto in questa fiducia. Si tratta di portare a compimento quanto è già previsto dal piano di Dio. Il teorico della politica è dunque anche un profeta.

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Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all’esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea (materia).
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Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all’azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l’America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l’uomo e pertanto afferma l’esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di autocoscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus’, che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus’ che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d’Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus’ sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito’: io penso quindi esisto (cogito ergo sum).
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In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l’ordine universale dell’universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il cristianesimo è l’unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma al contempo coincide con l’ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.
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Campanella fu autore anche di un’importante opera di carattere utopico, ovvero La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all’Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell’utopismo campanelliano è da annoverare anche La nuova Atlantide di Ruggero Bacone. L’utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere. L’incertezza è già evidente nell’interpretazione della critica idealistica, che nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell’opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale.

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Per Silvio Spaventa, Campanella è il “filosofo della restaurazione cattolica”, in quanto, la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: “Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo”. È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi “sono vani se non hanno per base l’istruzione e la felicità delle classi più numerose”. Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo.

PASQUALE GALLUPPI

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Pasquale Galluppi nacque a Tropea il 2 aprile del 1770 da un’antica casata nobiliare e possidente terriera. Formato al cattolicesimo, dopo i primi studi incentrati soprattutto sulla filosofia e sulla matematica, nel 1788 fu mandato a Napoli a studiare giurisprudenza. Egli tuttavia disattese il volere paterno: apprese il greco con Pasquale Baffi, seguì le lezioni di teologia (passione nata già ai tempi di Tropea grazie alla Teodicea di Gottfried Wilhelm von Leibniz e alle opere di Christian Wolff) di Francesco Conforti e si dedicò a una lettura attenta dei testi biblici e dei Padri della Chiesa, dalla quale fin da subito emerse un interesse peculiare per gli scritti e la figura di sant’Agostino. Dopo il suo ritorno nella città natale, nel 1794, egli proseguì gli studi filosofici, approfondendo in particolare testi appartenenti alla scuola cartesiana. Al 1795 risale il deferimento da parte del Sant’Uffizio di Roma a causa di una dissertazione di teologia tenuta presso la Regia accademia degli Affaticati di Tropea circa l’idea che le «supposte virtù dei pagani […] mancanti della vera carità debbono dirsi vizi» (L. Meligrana, prefazione a P. Galluppi, Memoria apologetica, a cura di L. Meligrana, 2004, p. XXIX). Per difendersi dall’accusa di eresia egli compose una Memoria apologetica ispirata a sant’Agostino, il cui pensiero ritenne essere la difesa più efficace della propria innocenza. L’introduzione a tale scritto fu redatta da monsignor Carlo Santacolomba, le cui teorie gianseniste, cariche di ferrea intransigenza morale e caratterizzate da salde «tendenze anticurialiste e antitemporaliste»  sono ben riconoscibili.

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Al 1799 è datato invece il coinvolgimento nei fatti della Repubblica partenopea. Alcuni anni più tardi ricoprì la carica di Controllore delle contribuzioni dirette per diciassette anni, dunque sia sotto i Napoleonidi che sotto il governo dei Borboni. Intorno al 1800 scoprì Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), un autore che egli non solo ritenne importante, ma addirittura un punto di svolta di tutto il suo percorso di studio e di pensiero. Il sensismo dell’abate francese, insieme all’empirismo dell’Essay concerning human understanding di John Locke (1632-1704), fu infatti il viatico per uno scandaglio filosofico di tipo analitico-fondativo precedente ogni ricerca metafisica su Dio e sull’universo. Pur essendo per indole lontano da ogni estremismo, dunque, tra i due schieramenti – dei giacobini e dei sanfedisti – il pensatore tropeano non solo fu vicino per formazione intellettuale alla causa giacobina, ma si adoperò anche, tramite la traduzione di fogli propagandistici in favore delle truppe del generale francese Championnet, perché questa potesse diffondersi. L’episodio fu causa del suo imprigionamento nella fortezza di Pizzo quando la città di Tropea si assoggettò alle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, contro il quale il nostro si scagliò duramente nel primo scritto politico intitolato Pensieri filosofici sulla libertà individuale compatibile con qualunque forma di governo, risalente al 1805, che tuttavia, forse per prudenza, non diede alle stampe e che rimase inedito fino alla pubblicazione nel 1865. Tale scelta di comodo non deve tuttavia far dimenticare il valore delle parole, queste sì non ambigue, rivolte contro un clero che svilisce «il vero spirito del Cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo» e che ha permesso a «un Cardinale di comandare delle masse di ribaldi e di fanatici» e di «innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e di ogni sorta d’iniquità» (Tulelli 1865, pp. 111-12).

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Il 1820 è l’anno dei moti carbonari in Piemonte e nel Regno di Napoli: questo nuovo fervore gli ispirò, tra l’altro, la composizione degli Opuscoli politico-filosofici sulla libertà. In questi libelli troviamo interventi a favore “della eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni e della propria industria”, oltre che della libertà di stampa e di culto, interventi stimolati tra l’altro da avvenimenti come la promulgazione della legge sulla libertà di stampa nel Regno di Napoli, risalente al 26 luglio 1820, e dalle discussioni sui principi costituzionali e sulle libertà civili che avevano luogo all’interno del Parlamento del Regno. La difesa di un liberalismo monarchico-costituzionale può spiegare anche la presa di posizione a favore del re Ferdinando I, contenuta nello scritto intitolato Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli, che appare a tutti gli effetti non solo una valutazione storica errata, ma anche una triste contraddizione rispetto alla memoria dei martiri del 1799, considerato che il re aveva fatto massacrare buona parte dell’avanzata intellighenzia illuminista napoletana, tra cui anche i maestri del filosofo Conforti e Baffi. Essa, infatti, potrebbe rientrare in un orizzonte più ampio, finalizzato a salvaguardare in ogni modo l’identità di uno Stato, che egli chiama già «nazione» (Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, cit., p. 85), delineando una posizione netta contro l’ingerenza straniera nel territorio italiano.  Il cambiamento di prospettiva sarebbe dovuto quindi proprio alla necessità di perseguire con la maggiore efficacia possibile un progetto nazionale di autonomia per gli Stati italiani. È per questo che «nel nome del filosofo di Tropea» si è inteso evocare la rinascita speculativa della Nazione Italiana, quale simbolo e auspicio di quello che sarebbe stato, più tardi, l’agognato risorgimento politico della nostra terra.

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Con i suoi scritti egli pone al centro una questione politico-civile fondamentale: quale è quella libertà civile, di cui deve godere il cittadino, in rapporto al potere politico in generale, prescindendo da qualunque forma di governo? In primo luogo vi è per Galluppi la libertà di pensare, che nessun errore o eccesso può limitare, e di seguito la libertà di stampa, di cui tuttavia sono ammessi alcuni vincoli rispetto alla religione. Egli sostiene la possibilità per ciascuno di non uniformarsi alla religione di Stato e l’illegittimità di azioni da parte dello Stato stesso che forzino in qualche modo scelte e libertà dell’individuo in questo campo: si tratta però appunto di libertà di coscienza, e non di libertà di culto, rispetto alla quale la decisione è invece rimessa allo Stato. Questa limitazione è connaturata a un concetto stesso di libertà di ispirazione essenzialmente giusnaturalistica, intesa come un diritto naturale precedente ogni ordinamento positivo.

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Lungimirante e all’avanguardia per i tempi resta tuttavia la sua posizione a favore del matrimonio civile, il cui significato di principio in termini legislativi e sociali è evidente quanto innegabile: in forza della libertà di coscienza già riconosciuta, la legislazione non può più riguardare il matrimonio se non come un contratto civile; altrimenti il cittadino non avrebbe la libertà di essere non conformista. «La libertà di essere non conformista»: in questa espressione si racchiude l’essenza del Galluppi teorico e filosofo della libertà. Le sue istanze e spinte liberali, pur se mediate sovente da una distanza di comodo, indicano tuttavia un elemento centrale della sua dimensione politico-civile destinato a riversarsi in maniera coerente e sentita nell’opera filosofica, ovvero il primato della coscienza. La “filosofia dell’esperienza” galluppiana è a tutti gli effetti un tentativo di riscrittura e di oltrepassamento del criticismo gnoseologico kantiano. Una gnoseologia elaborata per superare sia gli eccessi dogmatico-soggettivi del razionalismo sia quelli scettico-oggettivi dell’empirismo in una conciliazione teorica che neanche nelle tre Critiche sarebbe stata raggiunta. Secondo Galluppi, il discorso kantiano è messo in crisi in maniera decisiva proprio dalla constatazione che un fenomeno suppone necessariamente due realtà; quella del soggetto, a cui qualche cosa apparisce; quella della cosa che al soggetto si mostra. L’accesso al fenomeno dunque non è solo mera espressione o proiezione di un soggetto, ma è sempre interazione di soggetto e oggetto; ciò induce a individuare una dimensione che garantisca proprio tale interazione: la coscienza: «io percepisco il me, il quale percepisce un fuor di me». Giungiamo così al cuore della filosofia morale del filosofo tropeano: i precetti morali non sono né massime né imperativi, ma verità primitive che si fondano sull’esperienza, pur se prescritti dalla ragione: «l’esistenza de’ doveri, e perciò del bene e del male morale è una verità primitiva, che la Coscienza ci manifesta».

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Nel 1831 si insediò con successo presso la cattedra di logica e metafisica dell’Università di Napoli. Intanto la sua fama di studioso si diffondeva non solo in Italia (dove fu insignito di molte onorificenze), ma anche all’estero. Una testimonianza di siffatta considerazione proviene dal privilegiato rapporto con l’ambiente culturale francese, che fu suggellato nel 1838 con la nomina a socio corrispondente estero dell’Académie des sciences de l’Institut de France e nel 1841 con il conferimento della Legion d’onore. Galluppi morì a Napoli, al suo tavolo di lavoro, il 13 dicembre 1846.

 

LUIGI GIGLIO (LILIO)

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Luigi Giglio, in latino Aloysius Lilius, nacque intorno al 1510 a Cirò, presso Crotone, in Calabria, da una famiglia di modeste condizioni. Delle vicende della sua vita ben poco si sa, tanto che in passato ne è stata persino messa in dubbio l’origine calabrese e il nome di battesimo è stato indicato nella forma di Alvise Baldassarre. Luigi Lilio, medico e astronomo, ideò la riforma del calendario, promulgata da Papa Gregorio XIII (da cui prese il nome) nel 1582. Fu una delle piu’ importanti riforme del Rinascimento italiano, ideata da Lilio e portata avanti a Roma, nella seconda meta’ del XVI secolo, da un gruppo di calabresi guidati dal Cardinale Guglielmo Sirleto.  Insieme al fratello Antonio, frequento’ l’Universita’ di Napoli dove si laureo’ in medicina, non tralasciando pero’ di coltivare la passione per la matematica e l’astronomia. Nella città partenopea era agli stipendi della famiglia Carafa, feudatari di Cirò, non essendo sufficienti le magre sostanze paterne per potere attendere agli studi. Dopo una permanenza presso l’Universita’ di Perugia, quale docenti di medicina nel 1552, i fratelli Lilio frequentarono un influente gruppo di intellettuali che facevano capo all’Accademia delle Notti Vaticane, fondata a Roma dal Cardinale Sirleto e dal Cardinale Carlo Borromeo.  A quanto sembra Giglio dedicò l’ultimo decennio della vita a perfezionare la sua proposta di riforma del calendario, ma morì prima che questa fosse presentata al papa.

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Il grande problema astronomico-confessionale che Lilio si trovo’ ad affrontare era stato posto quando il Concilio di Nicea stabili’ che la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima domenica dopo il plenilunio di primavera. In epoca successiva pero’ era stato evidenziato che l’anno solare risultava piu’ lungo di 11 minuti e 14 secondi, per cui ogni 128 anni si sommava un giorno in piu’ (13 giorni nel 1500). Nel tentativo di risolvere il rompicapo, tutti i piu’ grandi astronomi e matematici di varie epoche si erano cimentati inutilmente. Fu Lilio a proporre di calcolare l’anno solare in base alle Tavole Alfonsine: in questo modo la durata dell’anno solare risulto’ essere di 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 12 secondi. La proposta di ricondurre l’equinozio di primavera al 21 marzo, eliminando dieci giorni e sopprimendo il bisesto a tutti gli anni centenari non multipli di 400 (gli anni centenari venivano cosi’ calcolati normalmente ad eccezione di quelli le cui prime cifre erano divisibili per quattro – 1700, 1800, 1900 – mentre il 2000 era considerato a cadenza normale), alla fine risulto’ vincente. L’anno di 366 giorni fu detto bisestile, perché quel giorno complementare doveva cadere sei giorni prima delle calende di marzo (facendo raddoppiare il 23 febbraio), e chiamarsi così bis sexto die ante Kalendas Martias (nel doppio sesto giorno prima delle calende di marzo). Inoltre, al fine di una più corretta misurazione delle lunazioni, essenziale per indicare il termine pasquale, il Giglio propose di sostituire al sistema del ciclo metonico (che prevedeva l’intercalazione, in un periodo di 19 anni composti ciascuno di 12 mesi, di altri sette mesi) un nuovo metodo basato sul calcolo delle epatte, di cui redasse delle tabulae.

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Sfortunatamente Lilio non pote’ seguirne il destino perche’ mori’, nel 1576, dopo una grave malattia. Nel 1577 Antonio Lilio presento’ pero’ il lavoro del fratello a Papa Gregorio XIII che lo accolse con molta gratitudine. Nello stesso anno venne stampato un volumetto che riportava le osservazioni di Luigi Lilio con i passaggi piu’ significativi, i calcoli e le tavole del nuovo calendario. La stampa venne eseguita a cura del Cardinale Sirleto, sorta di ‘deus ex machina’ dell’impresa, e curata da Pietro Ciaconio, esperto in Storia della Chiesa per le implicazioni civili ed ecclesiastiche, e Cristoforo Clavio, gesuita di Bamberga, astronomo e matematico, direttore dell’Osservatorio Vaticano. Nell’ultima pagina era possibile leggere la proibizione, da parte di Sirleto, pena la scomunica, di vendere o ristampare il volume.Dopo innumerevoli polemiche e veleni, il 14 settembre 1580, la Congregazione voluta da Gregorio XIII presento’ la relazione conclusiva dal titolo “Ratio corrigendi festes confirmata et nomine omnium qui ad calendarii correctionem delecti sunt oblata SS.mo D.N. Gregori XIII”. Di questo testo esistono due copie: l’una conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’altra presso la Biblioteca Casanatense di Roma. Il 24 febbraio 1582 il documento venne poi firmato e promulgato dal pontefice che, in data 5 marzo 1582, lo fece pubblicare, per affissione, sulla porta della Basilica di San Pietro.

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Un’intuizione che, in breve tempo, divento’ oggetto di discussione tra esperti di matematica ed astronomia. Astronomi e matematici, come Giuseppe Giusto Scaligero, Georgius Germanus e François Viète non approvarono la riforma liliana e cercarono in tutti i modi di creare calendari alternativi senza però riuscirci. James Heerbrand, professore di teologia a Tubinga, presentò le sue obiezioni nel Disputatio de adiaphoris et calendario gregoriano, tanto che accusò il papa, da lui definito “Il Calendarista”, di essere “l’Anticristo” che aveva creduto di poter mutare il tempo, ingannando i veri cristiani a celebrare le festività religiose in giorni volutamente sbagliati. In un altro scritto polemico, i cui principali autori furono Maestlin e il teologo Osiander, si argomentava che il papa avesse rubato dieci giorni dalla vita di ciascuno, i contadini non sapevano più quando arare o seminare i campi e gli uccelli smarriti non sapevano più quando cantare o emigrare. La prima difesa del calendario fu pubblicata nel 1585 ad opera del gesuita Johannes Busaeus, le cui argomentazioni, dirette principalmente contro le posizioni del teologo Heerbrand, vertono sulla correttezza scientifica e soprattutto interpretativa della riforma rispetto alle direttive del Concilio di Nicea. Tycho Brahe e Giovanni Keplero, gli astronomi più autorevoli del tempo, nonostante fossero protestanti, fattore che indubbiamente limitava le loro pubbliche dichiarazioni, considerarono la riforma elaborata da Lilio perfetta da un punto di vista scientifico. Keplero lasciò un articolo, pubblicato dopo la sua morte, nel quale presenta le sue argomentazioni in forma di dialogo tra un cancelliere protestante, un predicatore cattolico e un esperto matematico. La frase finale di questo dialogo è illuminante: ”La Pasqua è una festa e non un pianeta. Tu non puoi determinarla con giorni, ore, minuti e secondi.” L’opinione di Brahe è nota grazie a due lettere nelle quali l’autore afferma che le critiche mosse dagli astronomi contrari alla riforma erano dettate non da rigore scientifico ma da avversione verso il pontefice.

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Egidio Mezzi, storico di Lilio, afferma: ‘Matematici ed astronomi italiani e stranieri non danno il giusto rilievo a questa straordinaria figura  che riusci’ ad elaborare un calendario che ancora oggi, nonostante i ritmi vertiginosi raggiunti dalla scienza, non e’ stato superato”. Il fisico Antonio Zichichi in un’intervisse disse del Giglio: “Il mio interesse per Luigi Lilio nasce dal fatto che se fosse stato un inglese, un tedesco o una persona non italiana a scoprire il calendario perfetto lo saprebbero tutti, invece nessuno sa che e’ stato un italiano. Nessuno sa che e’ stato Aloysius Lilius, nato a Ciro’ in Calabria, a elaborare questo calendario passato alla storia con la benedizione di Papa Gregorio XIII, un bolognese. Bologna e’ la mia citta’ universitaria. Penso sia corretto rendere omaggio a questi due grandi personaggi della storia d’Italia e del mondo”. Il Calendario Gregoriano elaborato da Aloysius Lilius, ha detto Papa Giovanni Paolo II agli scienziati della World Federation of Scientists è: «… un contributo tra i più significativi e duraturi offerto dalla Cultura Cattolica sin dal lontano 1582 a tutti i popoli del mondo».

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Il Calendario Gregoriano venne man mano adottato nei diversi Paesi del mondo: in Italia, Portogallo e Spagna nell’ottobre del 1582; nel dicembre dello stesso anno in Francia e nei Paesi Bassi di Fede Cattolica. Diciotto anni dopo, nel 1600, venne adottato in Scozia. Bisogna attendere il 1700 per vederlo in uso nei Paesi di Fede Protestante: Danimarca e Norvegia. E addirittura il 1752 per vederlo in uso nel Regno Unito d’Inghilterra. Nei paesi di Fede Ortodossa andò in vigore tra il 1916 e il 1923. In Russia fu introdotto nel 1917. In Cina il governo repubblicano adottò il Calendario Gregoriano il 20 novembre 1911. Negli usi comuni però rimase in vigore il vecchio Calendario finché il governo di Nanking stabilì che col 1º gennaio 1930 il solo Calendario valido a tutti gli effetti giuridici dovesse essere quello Gregoriano di Aloysius Lilius. È attraverso queste diverse fasi che oggi, per la prima volta nella storia del mondo, tutte le Nazioni si trovano ad avere lo stesso Calendario.

Nel 2012 la Regione Calabria ha istituito la Giornata del Calendario in memoria di Luigi Lilio fissandola per il 21 marzo di ogni anno.

Il cratere Lilius sulla Luna prende il suo nome.

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Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria, adnkronos, eccellenzecalabresi, treccani.