Tra Grotte e Misteri: La Civiltà Rupestre in Calabria

cxy17soxuaaqjww-e1517352942785.jpgAncor prima della fondazione delle numerose città Magno-Greche in Calabria, risalenti al periodo che va dall’VIII al V secolo A.C., vi sono vestigia di agglomerati urbani che fanno pensare a più antichi centri abitati, ma non con tracce di città in muratura, bensì si fa riferimento a siti, ancora integri, di insediamenti rupestri. Sulle loro origini, che per tanti versi sembrano misteriose, è in corso da alcuni decenni una ricerca che dà ormai luogo ad interessanti scoperte. Il popolo che ha scavato tali grotte ha fondato la “Civiltà rupestre”. Ma in che epoca? Deduzioni logiche ci dicono che bisogna risalire ad una civiltà pre-ellenica: non bruzia, o latina, o greca non use ad abitare in siti rupestri, e nemmeno Enotra e Iapigia di cui è nota la tipologia degli insediamenti. Nè vi sono testimonianze letterarie che parlano di un popolo scavatore di insediamenti rupestri che già da sempre sono descritti come esistenti (Senofonte nell’Anabasi). Inoltre queste costruzioni se edificate in “periodo storico”, avrebbero dovuto lasciare memoria in numerosi riferimenti da commentari e da storici (il fenomeno non sarebbe sfuggito a Plinio, a Strabone, a Stefano Bizantino) mentre nulla permane. Ed allora bisogna risalire ad epoche precedenti, e, per deduzione, a popoli decisamente preistorici, anzi ad un unico popolo scavatore di grotte: questo popolo operò e visse sia da noi che nel Nord-Africa ed in Asia Minore e soprattutto nei paesi dell’Europa orientale. Una attenta ricerca archeologica, del resto mai operata, potrebbe indicarne il periodo originario con maggiore precisione. Fu primo il prof. Cosimo Damiano Fonseca ad aver detto che le grotte di tutto l’arco ionico ed altre d’oltremare sembrano edificate dalla mano di uno stesso popolo. Anzi ha precisato: “Quello che v’é da dire per un insediamento, vale per tutti gli altri!” L’asserzione convalida adeguatamente le ipotesi formulate su una unica civiltà preistorica che per libera scelta abitativa adottava insediamenti ipogei ed in tutto il bacino del Mediterraneo. Infatti si sono potute osservare delle caratteristiche architettoniche comuni in tutti gli insediamenti. Le analogie sono fondate su così sottili particolari che non vi é ombra di dubbio sulla loro unica matrice. Ne enumeriamo alcuni:

1) grotta di civile abitazione, alta in media m. 2,50, ad uso della famiglia troglodita, molto spesso divisa in due antri interni da colonna divisoria (Casabona, Matera, Massafra, Cappadocia);

2) piccole nicchie absidali alla base delle pareti e triangolari nella parete alta per riporvi orcioli di acqua, vino, miele, ecc. (Casabona, Matera Massafra);

3) fori alti per inserirvi la struttura di ripiani lignei, fori bassi per lettiere. (Matera, Casabona, Massafra, Petilia, Zungri)

4) criptoportico: intorno all’atrio spesso insistono una serie di grotte a raggera (Bari, Massafra, Casabona, Petilia);

4) sistemi di grotte caratterizzati talvolta da corridoio di ingresso (dromos), con distribuzione degli ambienti sui due lati (Bari, Matera, Casabona);

7) vasto camerone quale ” laboratorio ” che in periodo medievale ospitò, poi, trappeti o palmenti (a Casabona ancora oggi, Zungri).

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Sulle colline digradanti dalle pendici orientali della Sila, verso il mar Ionio, si concentra un gruppo consistente di aggrottamenti distribuiti in vari comuni della provincia di Cosenza e di Crotone. Questi centri più che mai si configurano come preistorici, e, siccome dalle caratteristiche appaiono coeve alle grotte materane, anch’esse sono da classificare d’origine del Paleolitico superiore con prosecuzione nel Neolitico. Le tipologie dell’habitat rupestre calabrese includono una vasta gamma di modelli di villaggi: si va dai grandi casali rupestri, quali Casabona, Verzino, Caccuri e Sbariati di Zungri ai piccoli nuclei insediativi composti da poche unità come Melissa e Rocca di Neto, fino alle dimore rupestri isolate, assimilabili all’insediamento sparso, come l’abitazione di Belvedere Spinelli. Un’analoga complessità si riscontra anche nella strutturazione urbanistica dei maggiori villaggi rupestri calabresi, riconducibili sostanzialmente a due categorie: la prima include unità disposte su più livelli ricavate nella roccia sfruttando gravine con pareti verticali ad andamento sinuoso o a gradoni lungo piste parallele, con accesso sia dalla sommità dell’altura che dal fondovalle, come ad esempio nei casi di Verzino, Casabona, Caccuri, Pietrapaola o, in parte Zungri, dove tuttavia la disposizione appare meno regolare; in altri casi le unità abitative si dispongono lungo un unico livello, come nel villaggio di Colle della Chiesa a Petilia Policastro o negli aggrottamenti di Rocca di Neto e Melissa. La sussistenza nei maggiori tra i casali rupestri considerati di un efficace impianto di viabilità interna, di raccordi tra i diversi livelli dell’insediamento realizzati con gradini ricavati nella roccia, di sistemi per la canalizzazione e la raccolta delle acque pluviali, costituisce l’indice di un embrionale ma efficace modello di ‘urbanesimo rupestre’, peraltro ancora sfuggente sotto molti aspetti. Così la stessa, diremmo, qualità della vita in relazione al materiale delle dimore rupestri risulta comparabile se non, per alcuni versi, superiore, rispetto a quanto si coglie dallo studio dei coevi villaggi epigei o di alcuni settori delle città medievali, dove abitazioni in materiale deperibile, di certo per tanti aspetti più precarie e meno salùbri delle dimore ricavate nella roccia, costituivano una costante del paesaggio. All’interno di alcuni villaggi si colgono altresì indizi di una seppur minima gerarchizzazione sociale, quali la maggiore raffinatezza di alcuni manufatti all’interno di uno stesso villaggio, come nel caso della cosidetta Grotta del Principe a Pietrapaola, o alcune abitazioni rupestri di Zungri che si distinguono per una ricercatezza estetica e per una certa complessità spaziale. La non infrequente attestazione, accanto a stalle, di strutture di lavorazione e trasformazione dei prodotti della terra quali i palmenti, l’individuazione di silos per la conservazione dei cerali, di vasche di lavorazione, e di forni, consente di scorgere, seppur in maniera ancora confusa, il rapporto tra i centri rupestri e il territorio circostante. Allo stesso modo la presenza di artigiani-intagliatori della pietra indica la capacità dei rupestri di disporre di saperi empirici non irrilevanti che potevano tornare utili in attività artigianali, come attestato a Petilia Policastro. Infine il collegamento, nella gran parte dei casi ad arterie viarie che connettevano tali nuclei demici (si pensi solo ai centri posti lungo le vie della valle del Neto, o Melissa e Verzino lungo l’itinerario della via Silara ricordata in una carta dell’imperatrice Costanza del 1196), fornisce la possibilità di postularne un rapporto con i fulcri economici principali dei rispettivi territori. Si tratta di elementi che concorrono nel delineare una situazione che inserire nella categoria socioeconomica della marginalità apparirebbe quantomeno azzardato.  Non usa mezzi termini Marilena De Sanctis, professoressa e autrice di un importante studio sull’urbanistica rupestre: “I monaci basiliani non scavarono nulla, semplicemente riutilizzarono qualcosa di preesistente”.

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Nella zona dello Ionio Cosentino sono presenti queste caratteristiche “città fatte di grotte” permeate da un alone di mistero riguardante le loro origini e dove poi successivamente furono trasformate, riadattate e modellate ad usi congrui per ogni epoca come per esempio Rossano con i monaci basiliani. Proseguendo verso mezzogiorno, nella provincia di Crotone, lungo la valle del Neto, un’importante arteria di penetrazione verso la Sila e il versante tirrenico (la Silara) agganciata alla via litoranea jonica traianea, la medievale via de Apulia, si snoda una serie di insediamenti che presentano le caratteristiche peculiari dei casali rupestri. E se Casabona era il centro propulsore di una civiltà, la città capoluogo, molti villaggi rupestri le ruotavano intorno: Caccuri e Cerenzia con oltre un centinaio di grotte, Petilia Policastro con un congruo villaggio rupestre, Cotronei con ben tredici siti ipogei, Mesoraca con la sua località “Grutti”, e poi a Nord i caratteristici Melissa e Verzino e a Sud Santa Severina, Rocca di Neto e Belvedere Spinelli; e tutti i siti sono disposti in piccole valli, ma a ridosso di percorsi transumanti per indicare la vocazione pastorale seminomade di quella antica popolazione. L’utilizzazione delle grotte a scopo abitativo sarà stata poi praticata, ma in tono del tutto trascurabile, durante l’Evo Antico, il Tardo Antico ed il periodo bizantino. Il Monachesimo italo-greco in alcuni di tali siti fu solo un fenomeno transitorio, come a Colle della Chiesa, a Santa Lucia, a Timpa dei Santi, da riferire ad epoca tra il VII e il XII secolo d.C. e più che aver scavato ha rimodellato alcune grotte. Presso il sito di Colle della Chiesa è stata rinvenuta un’ascia in pietra ed oggetti di selce e presso Timpa dei Santi delle asce dell’età del bronzo testimonianza che la zona era già abitata in epoche molto precedenti; non sembra affatto, infine, una coincidenza che le grotte di Casabona furono costruite in terreni del “Cenozoico” formati da calcareniti e da arenarie molto atte ad essere incise e soprattutto in strati geologici ricchi di selce che potrebbe essere stata la motivazione primaria della ubicazione, ma sicuramente lo è stata dello sviluppo della città rupestre preistorica. Scendendo poi più a Sud nel reggino abbiamo i casi isolati di Gerace e Sant’Ilario allo Jonio e Brancaleone e Vinco. Ancora più raro è invece il villaggio situato nel comune di Zungri che può considerarsi un unicum nel panorama dei villaggi rupestri in Calabria perché si affaccia sul mar Tirreno.

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ROSSANO

Gli insediamenti rupestri di Rossano risultano tra i più rilevanti e meglio studiati; qui, ad un consistente complesso all’interno del perimetro urbano con unità pluricellulari a pianta tendenzialmente rettangolare concentrate in tre nuclei principali, si affianca un secondo complesso in rupe nelle campagne circostanti. Un’identita scavata nel tufo da una comunità che viveva di pastorizia e agricoltura che ha dato vita ad un insediamento trogloditico. Le strutture sono scavate nell’arenaria e dislocate in quasi tutto il territorio; alcune sono inglobate in abitazioni e sono diventate magazzini. NeI rione “Pente” vi sono ventuno unità rupestri, di cui sette rilevate, oltre a quelle non più visibili perché andate distrutte. Un secondo nucleo omogeneo di undici unità, di cui sette rilevate, è situato nell’area Nord-Est del centro urbano, nella zona detta Conceríe, nella quale, come suggerisce il toponimo, era fiorente l’industria conciaria: ciò permette di ipotizzare che esse fossero opifici o magazzini. Sette, tre rilevate, sono ubicate nell’area denominata “Spuntone”, sei grotte al “Ciglio della Torre”. In Contrada Calamo si riscontrano quattro unità rupestri scavate in unico sperone roccioso e intercalate da una serie di gradini che consentono un facile accesso alla sovrastante spianata. Marilena De Sanctis commenta così i suoi studi su Rossano: ”Rossano presenta un centinaio tra grotte ed insediamenti rupestri. Di questi ne sono stati documentati trenta, con un accurato rilievo e documentazione, in sezioni e piante. Tanto da poter parlare di Rossano come città in rupe. Da qualsiasi parte si voglia raggiungere il centro storico, è facile vedere delle feritoie nella montagna, alternando ad abitazioni private del centro storico con un piano terra scavato. Una sorta di grotta palazzo sul modello pugliese. Rossano come Matera, come Casalrotto, come le Gravine di Puglia, come Massafra. Tutte zone in cui l’insediamento e la documentazione di una civiltà rupestre è parte integrata di un contesto, che fino agli anni ’50 non raccoglieva alcun interesse e che invece oggi, ha permesso a Matera di diventare capitale della cultura 2019. A Rossano si potrebbe fare altrettanto. Ogni casa di proprietà ha centinaia e centinaia di metri quadri di grotte, monocellulari e pluricellulari, scavati da pastori e contadini.”

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PIETRAPAOLA

Di grande interesse risultano gli aggrottamenti di Pietrapaola costituiti da un nucleo rupestre principale dispiegato lungo il costone della Timpa del castello, un massiccio bastione arenitico ospitante numerose unità rupestri, ricavate su livelli grossomodo paralleli, e da un secondo nucleo ricavato lungo un imponente costone prospiciente, della stessa natura geologica, la Roccia del Salvatore, dove spicca, sul punto più alto dell’insediamento, la cosiddeta Grotta del Principe, un esempio estremamente raffinato di architettura rupestre, individuato negli anni ’70 da Domenico Minuto: si tratta di un invaso tricellulare cui si accede attraverso una serie di gradini ricavati in roccia, al cui interno si rinviene un arco a tutto sesto e una serie di colonnine con capitelli a motivi floreali riprodotti nell’arenaria. Oggi molte delle grotte sono state chiuse da privati e adibite a stalle o cantine. Una dimensione rupestre che del resto trova riferimento già nel nome stesso del paese derivante, secondo alcuni studiosi, dalla combinazione fra il termine pietra e il nome proprio Paula (dal lat. Paulus) oppure da un termine osco arcaico “petrapa” col significato di ‘luogo della rupe’ riferibile alla grande rupe che lo sovrasta.

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CAMPANA

Altra comune interessato al fenomeno rupestre è senza dubbio Campana. Molto interessanti sono le centinaia di grotte in tutto il circondario del territorio di questo paese silano( ricordiamo anche quelle del comune vicino di Scala Coeli) e tra queste quelle più conosciute sono le “Grotte di Guardia”, un complesso di grotte scavate con grandissima cura nell’arenaria che hanno una larghezza e una profondità davvero notevole. Gli studiosi e gli storici parlano di abitanti del Neolitico, di guerrieri-pastori enotri e bruzi, di profughi fuggiti dalle invasioni arabe, di monaci bizantini, di eremiti che praticavano l’ascetismo e di contadini e briganti. Una lunga serie di gente che ha vissuto qui. Oggi le loro uniche tracce sono i segni di scalfittura, la patina di fuliggine sulle pareti e due grotte sono state murate con pietre e mattoni e usate come granai, magazzini e stalle. Ma forse quelle più importanti si trovano in località Incavallicata sotto le maestose e gigantesche “statue di pietra”, a tre metri l’una dall’altra, dell’Elefante e del Ciclope.  La prima figura è un elefante, precisamente un “elephans antiquus” antenato dei mammut, alto circa 5 metri, splendidamente scolpito, con le zampe posteriori in una flessione ponderale che lo fa sembrare in movimento e con gli occhi, la proboscide e le zanne ben marcati (i fossili di un intero elefante di questo esemplare sono stati ritrovati a pochi chilometri di distanza nel 2017 sul lago Cecita. Le misure del fossile coincidono con quello della statua). Dietro la zanna c’è un’altra protuberanza cilindrica mutilata che si protende verso il basso, e dà l’impressione della gamba di un uomo in groppa all’animale, ma la statua nella sua parte alta è incompleta. La seconda è alta sei metri ed è di interpretazione più difficile, ma forse rappresenta due gambe umane fino alle ginocchia, (poi la statua si interrompe poiché mutilata della sua parte superiore). Sarebbe stata nel complesso una figura davvero gigantesca. La posizione ricorda molto le statue di Memmone a Tebe e quelle di Ramses II nella facciata del Tempio di Abu Simbel in Egitto. I blocchi mancanti sono in parte andati perduti, in parte giacciono sul terreno circostante a qualche decina di metri di distanza.  Come dice lo scopritore del sito, l’architetto Domenico Canino: ”Se tali giganti fossero opera umana, saremmo di fronte alle sculture preistoriche più grandi d’Europa” e quindi ad una civiltà molto evoluta. Sotto le due figure nel blocco di roccia sottostante sono state scavate due piccole grotte, testimonianza di una civiltà cavernicola. La zona e’ particolarmente ricca di testimonianze preistoriche: il territorio di Campana, in base ai reperti rinvenuti negli anni e conservati all’ interno dei musei di Reggio Calabria e Crotone, risulta essere abitato sin dall’età del Ferro. Sono una testimonianza millenaria di una straordinaria civiltà preistorica della Calabria.

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CASABONA

Il complesso rupestre calabrese più esteso è costituito senza dubbio dall’insediamento di Casabona . Oggi piccolo centro di appena 3000 abitanti, si configura come il villaggio preistorico più popoloso dell’antica Calabria. Se si escludono le grotte scavate di recente, le altre presentano le caratteristiche tipiche delle grotte neolitiche, mentre numerose sono state inghiottire dalla moderna urbanizzazione, altre ritoccate, ingrandite. Dal numero di quelle arcaiche doveva contenere, approssimativamente, almeno 200 fuochi (una enormità per il Neolitico) e gli abitanti dediti soprattutto ad una economia piuttosto pastorale che agricola, quindi seminomade, come è considerata per esempio dai Materani la civiltà neolitica dei Sassi.  Il villaggio si distribuisce sui due versanti della forra di Vallecupa. Lungo il versante sinistro della valle, al di sotto dell’attuale abitato, il Casu Bonum delle fonti medievali, si distende il nucleo maggiore, distribuito a scacchiera su ben sette terrazze parallele degradanti a spirale, ad andamento sinuoso confluenti verso l’unico asse viario di fondovalle, come ancora appare, su ognuna delle quali si dispongono, lungo piste naturali decine di grotte scavate nell’arenaria.  Molte delle unità rupestri presentano le caratteristiche tipiche dell’abitazione e l’utilizzo di elementi in muratura, articolate in uno o più vani. In quest’ultimo caso la parte più interna risulta divisa in due ambienti da un setto ricavato nella stessa roccia. Alla base dei vani spesso si aprono piccole nicchie per la conservazione dei prodotti. Gli ambienti si caratterizzano per la presenza di numerosi fori funzionali all’alloggiamento di pali lignei: pertugi sulla parte bassa indicano la presenza di lettiere sulle quali si posizionava il materasso, altri fori, posti più in alto, costituiscono innesto per ripiani e mensole. Alcune abitazioni sono fornite anche di focolare, né mancano locali adibiti ad attività di trasformazione dei prodotti della terra, quali vasche di palmenti per la realizzazione del vino: quest’ultimo ambiente è parte di un’unità tricellulare organizzata intorno ad un atrio centrale. All’interno di alcune grotte si rinvengono nicchie archiacute, elemento che sembra poter indicare una cronologia tardo medievale. La dimora rupestre spazialmente più complessa di Casabona si articola in un corridoio lungo il quale si accede da un lato e dall’altro a 4 vani scavati nella roccia. Il complesso conserva le tracce di un efficace sistema di canalizzazioni esterne ricavate nella roccia funzionale al deflusso delle acque. La lunga durata di attività dell’insediamento antropico a Vallecupa è testimoniata dalla circostanza che ancora negli anni 40 quasi tutte le unità rupestri, circa 450, erano utilizzate dagli abitanti del luogo che le detenevano in fitto dall’ente comunale. Che sia stata in epoca successiva al Neolitico l’antica Cone o l’antica Pandosia, o abbia avuto altro nome non cambia l’importanza della sua presenza nella preistoria calabra.

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MELISSA e VERZINO

Nel territorio di Melissa si individua un gruppo di nuclei rupestri, alcuni fagocitati dalla conurbazione del borgo, almeno altri due ancora ben visibili nelle campagne; qui l’aggrottamento si sviluppa lungo una pista di fondovalle ai piedi del colle sulle cui pendici sono ricavate le unità rupestri, tutte monocellulari a pianta quadrangolare, di diversa estensione. Talvolta gli ingressi risultano tompagnati da pietre legate da malta mentre i soffitti sono piatti o a capanna. Non distante, nel territorio di Crucoli si individuano altre unità rupestri. Il villaggio rupestre di Verzino fu ricavato lungo i fianchi arenitici della collina Spiruni su cui sorge l’attuale borgo a circa 500 m s.l. m., pochi chilometri ad est di Melissa. L’insediamento si compone di oltre 70 unità rupestri disposte su 4 livelli di terrazze ad andamento spiraliforme, attualmente per lo più adibite a deposito per attrezzi agricoli. Le unità rupestri di Verzino presentano planimetrie differenti con articolazioni interne che vanno dal semplice vano, probabilmente depositi, alle più complesse strutturazioni tricellulari tra loro comunicanti, con tracce di sedili risparmiati e nicchie sulle pareti con funzioni di credenze e per l’appoggio di lucerne. All’interno delle unità si notano spesso buchi di palo che dovevano reggere sistemi di scaffalature per la conservazione dei prodotti. I diversi livelli sui quali si dispone il villaggio, risultano raccordati da piste che costeggiano le unità rupestri.

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CERENZIA e CACCURI

Non lontano da Casabona, nel comune di Cerenzia, nei pressi dell’antico centro è ancora visibile un piccolo nucleo abitativo rupestre composto da 9 unità ricavate lungo un costone di arenaria, al cui interno sono nicchie, incisioni cruciformi, forni in muratura e pilastri divisori ancora in muratura. Appena a sud di Casabona e Cerenzia, nel territorio di Caccuri, si individuano almeno 4 distinti centri demici rupestri. L’insediamento più consistente è posto lungo la parete meridionale dello spalto di arenaria sulla cui cima fu edificato il castello di Caccuri. Le unità rupestri attualmente rilevabili sono circa 50, disposte lungo terrazzamenti paralleli. Di particolare interesse un’abitazione con due ambienti comunicanti parzialmente divisi da un setto risparmiato nella roccia e un livello superiore. Il livello inferiore presenta una pianta rettangolare con soffitto a capanna; nella parete di sinistra si notano due nicchie e un’apertura per accedere alla quale furono realizzati gradini ricavati nella roccia; sulla destra è un foro praticato in corrispondenza dell’imposta della falda del soffitto. La porta conduce ad un secondo ambiente di pianta rettangolare irregolare, con soffitto a volta a botte irregolare e chiusa da un muro a secco sul lato meridionale. Attraverso una “botola” si accede ad un ambiente soprastante a pianta elissoidale. Si tratta di un tipo di abitazione rupestre che non trova confronti in Calabria. In genere le abitazioni rupestri di Caccuri risultano strutturate in ambienti monocellulari e dicellulari, con nicchie scavate lungo le pareti e, talvolta, con chiusure in muratura. Poco distante, in contrada Patia, nei pressi del monastero dei tre fanciulli, è presente un piccolo aggregato rupestre formato da almeno sette unità all’interno delle quali si scorgono nicchie e fori per travi, con ingressi in muratura. Sempre in territorio di Caccuri un nucleo di 5 grotte si rinviene nella località Vurdoi in prossimità dei ruderi di un’anonima chiesetta. Ancora lungo la valle del Neto, è l’insediamento rupestre di Timpa dei Santi: si tratta di un nucleo insediativo di cui oggi sussistono almeno 4 unità rupestri monocellulari gravitanti intorno ad una chiesa rupestre ricavata nella calcarenite con tre nicchie sul fondo affrescate.

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COTRONEI

Nel territorio di Cotronei si individua una costellazione di aggrottamenti, disposti lungo le vie di crinale che costituivano itinerari di risalita dallo Jonio in direzione della Sila sin dall’epoca preistorica. Tra questi i più consistenti e meglio conservati si rinvengono nelle contrade Rivioto, Santa Lucia e Favata. Quest’ultimo è costituito da almeno 20 unità rupestri visibili lungo un costone arenitico, mentre altre sono state inglobate in recenti edifici in muratura. Si tratta di unità per lo più monocellulari, di dimensioni variabili tra i 20 e i 30 mq, frequentemente tompagnate parzialmente da pareti in muratura. A poche centinania di metri si rinviene il piccolo nucleo rupestre di Santa Lucia, dove sussistono alcune unità, anche di notevoli dimensioni (fino a 100 mq), articolate in più vani, alcune comunicanti tra loro con solai a volta e a capanna, mentre altre sono state cancellate dalla conurbazione della zona. La vicinanza dei due complessi all’abitato medievale di Cotronei ne indica la natura di piccoli villaggi rupestri. Infine sei unità rupestri costituiscono il piccolo nucleo di località Rivioto, disposto su un unico livello: qui le grotte presentano una tipologia standardizzata, con intradossi voltati, nicchie interne e fori per mensole; in una delle unità si riscontra un raro caso, per la Calabria, di lettiera ricavata nella roccia di una foggia riconducibile alla tipologia ad arcosolio.

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PETILIA POLICASTRO

Il villaggio rupestre di Colle della Chiesa si articola in circa 30 unità, distribuite sui due livelli digradanti che caratterizzano il colle, 7 sulla terrazza superiore, almeno 23 sul costone inferiore. La tipologia degli ambienti rupestri di Colle della Chiesa risulta alquanto varia: le unità differiscono per dimensioni ( ve ne sono di monocellulari e bicellulari divise da setti risparmiati nella roccia, oltre a due esempi di ipogei con tre ambienti che si aprono lungo un portico esterno), per icnografia (tendenzialmente circolare o trapezoidale), per la forma dei tetti (a capanna e a volta), ma anche per i modi di realizzare i giacigli, che potevano essere ricavati nella roccia o con il già ricordato sistema delle lettiere lignee. Gli ingressi non presentano segni di chiusure in muratura. Singolare nel panorama rupestre policastrese risulta essere una grotta il cui ingresso è posizionato ad oltre tre metri dal piano di calpestio. Fori nella parete rocciosa testimoniano come l’accesso avvenisse attraverso una scala con pioli lignei. Alcune grotte presentano numerosi fori parietali su di una medesima parete, tracce in negativo di una complessa struttura di scaffalature, probabilmente per l’essiccazione dei formaggi o per la conservazione di altri prodotti. L’individuazione in uno di questi ambienti di una croce incisa nella roccia, con evidente funzione apotropaica, testimonia l’importanza che, nel contesto della loro economia, gli abitanti di quei casali attribuivano ai prodotti lì conservati.

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MESORACA

A Mesoraca, nel cui territorio ricadeva la celebre abbazia cistercense di Sant’Angelo de Frigillo, in località “Grutti”, nelle vicinanze dei ruderi di una chiesa medievale, si conserva un insediamento costituito da circa 20 unità rupestri disposte su un unico livello. All’interno delle grotte si scorgono nicchie ricavate nella roccia con funzioni di ripostigli, nicchiette laterali basse e triangolari, fori laterali alti per ripiani, e fori posti in basso per lettiere. Non mancano, in qualche caso, forni con volte realizzate in muratura utilizzando calcarenite e argille. In alcune unità rupestri, almeno in 5, si nota la presenza di intonaci dipinti e in un’altra si scorge un efficace sistema di raccolta interna delle acque. L’elemento icnografico e spaziale più notevole del complesso rupestre mesorachese si rinviene nella parte centrale dell’insediamento: qui, attorno ad un atrio, si distribuiscono a raggiera tre ambienti; partendo di qui altre tre unità risultano collegate da un cunicolo interno che si estende per una lunghezza totale di ben 40 metri.

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SANTA SEVERINA, ROCCA DI NETO, BELVEDERE SPINELLI

Anche il centro di Santa Severina conserva tracce di un insediamento rupestre lungo i fianchi rocciosi del colle, nel quartiere Grecìa qui alcune unità rupestri, già notate da Paolo Orsi, sembrano indicare l’esistenza di un nucleo demico consistente in rapporto con il borgo soprastante. Poco distante da questi casali, ancora nel territorio Marchesato lungo la riva destra del Neto, si rinvengono altri nuclei rupestri con caratteristiche analoghe. Nei pressi della confluenza del torrente Vitravo nel fiume Neto, a pochi km dalla costa jonica, il territorio di Rocca di Neto custodisce un casale rupestre composto da oltre 40 unità ricavate nell’arenaria, lungo le pareti di tre colli nelle vicinanze dell’antica Rocca di Neto. Le unità, monocellulari e bicellulari, si dispongono su di un unico livello e presentano schemi planimetrici quadrangolari, con soffitti piani e nicchie scavate lungo le pareti. Scendendo lungo la valle del Neto, in territorio di Belvedere Spinello, si conservano i ruderi di un piccolo oratorio rurale nelle cui immediate vicinanze si rinvengono tre unità rupestri scavate in una calcarenite molto compatta. La tipologia potrebbe far pensare ad un piccolo insediamento lavritico ma non è da escludere si tratti un minuscolo nucleo di casale rupestre.

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BRANCALEONE e VINCO

Il piccolo borgo di Brancaleone superiore, oggi abbandonato, sorge su di una collinetta a circa 300 m s.l.m. nei pressi della costa jonica. Il complesso ipogeo, individuato da Francesca Martorano, si posiziona nei pressi dell’abitato subdiale ed è costituito da una ventina di unità rupestri disposte in tre nuclei principali di aggrottamenti, in parte inglobati in abitazioni in muratura. I nuclei rupestri erano collegati alla viabilità maggiore attraverso un sistema di sentieri che conducevano al fondovalle da dove si accedeva agevolmente alla via litoranea jonica. Le unità abitative di Brancaleone si caratterizzano per le dimensioni ridotte con presenza di nicchie per lucerne e sedili ricavati nella roccia, una articolazione interna elementare (solo di rado si riscontrano suddivisioni interne) e per una planimetria tendente alla circolarità. In un caso si osserva la presenza di vasche per la lavorazione la cui funzione specifica non è possibile precisare. La strutturazione dei piccoli nuclei demici rupestri di Brancaleone si completava con la presenza di una chiesa rupestre a pianta elissoidale, la Madonna del Riposo, dove sono conservati affreschi databili al XVI secolo. La più famosa è sicuramente la “Grotta dell’Albero della vita”, famosa in tutta Europa perché unica nel suo genere per tipologia (si pensi che delle grotte simili si trovano soltanto in Cappadocia); essa attira ogni anno studiosi ed appassionati che si immergono in un atmosfera suggestiva che solo questo luogo riesce a trasmettere. Sono ancora visibili dei graffiti davvero incredibili, posti dove un tempo vi era l’altare, orientato secondo la tradizione verso levante, un pavone stilizzato ed una croce astile. Sebastiano Stranges (noto archeologo e ricercatore, attivo collaboratore nella gestione del Parco Archeologico Urbano di Brancaleone a cura della Pro-Loco di Brancaleone), dopo aver scoperto molte grotte nel 2016 nel comune di Brancaleone, ha dato notizia che, agli inizi del 2018, nella zona detta “Calvario”, sono state individuate delle grotte interrate da detriti di frana che non sono state mai censite dagli studiosi perché praticamente nascosti dalla vegetazione affermando che è un altro passo per la riscoperta dell’antica Sperlinga, dal Greco Spelingx che vuol dire caverna-spelonca-grotta, che secondo i suoi studi corrisponde proprio con Brancaleone. Alla punta estrema della Calabria, poco a nord della città di Reggio, è stata individuata una serie di insediamenti rupestri alla falde meridionali dell’Aspromonte nei pressi del centro di Vinco a pochi km da Reggio, 13 nuclei per un totale di circa 50 unità rupestri, che, a differenza di Brancaleone, appaiono totalmente isolati, privi di qualsiasi collegamento con la non lontana città sullo Stretto e con la viabilità maggiore della zona. Alcune delle unità rupestri identificate, tuttavia, presentano una organizzazione planimetrica relativamente complessa, articolandosi in diversi ambienti e, in un caso, strutturandosi intorno ad un piccolo vestibolo centrale avente la funzione di raccordo tra diversi ambienti, fornito di camino con fori d’areazione in alto.

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GERACE e SANT’ILARIO DELLO IONIO

Nei pressi del borgo, in contrada Stefanelli, è stato individuato un piccolo nucleo di villaggio, già attivo in età preistorica, dalla quale provengono ricche testimonianze archeologiche conservate nel Museo Civico della Città sito in Piazza Tribuna. Si pensa che la zona sia abitata da lungo tempo perché sono stati rinvenuti resti del periodo neolitico anche sull’acrocoro di Prestarona (dal greco”colombaia”) e nella grotta di Kau (dal greco baratro/voragine”) tra cui un’ascia bipenne in bronzo, dei coltellini in ossidiana e una testa di mazza a forma di virgola. Anche nella vicina grotta del Ponte sono stati rinvenuti ben 14 asce di bronzo che secondo il compianto scrittore Salvatore Gemelli appartenevano ad una popolazione preistorica che aveva contatti con la cultura egeo micenea. A Sant’Ilario ha fatto scalpore ultimamente il ritrovamento, fatto dell’Ingegnere Giuseppe Fausto Macrì insieme ad un gruppo di suoi amici, di un complesso rupestre di sensazionale bellezza composto da due ambienti. Il primo, a sezione pressoché quadrata, misurava approssimativamente 2.70 metri in larghezza e poco meno di 3 metri in altezza, per una profondità di circa 15 metri. La presenza di piccole stalattiti sul soffitto e di notevoli concrezioni calcaree sulle pareti concorre a far supporre un lunghissimo periodo di inutilizzazione della grotta se non come sorgente: il muro, ora crollato, all’imbocco della grotta serviva appunto a raccogliere l’acqua, che, poi, raggiunta l’altezza di un foro, fuoriusciva all’aperto. Per questo motivo, tra l’altro, il sito era conosciuto come sorgente (è anche così riportato in mappa catastale). Sul fondo di questo primo ambiente, parallelamente alla sezione di imbocco, persiste una parete perfettamente liscia, al centro della quale c’è un varco, della profondità di quasi 2 metri, che conduce ad un secondo ambiente: la particolarità di questo varco è data dalla forma ad arco a “sesto acuto” del traverso superiore, che denota ulteriormente la fattura antropica dell’intero complesso.  Questo secondo ambiente ha pianta circolare, con le pareti perimetrali che si innalzavano verticalmente per circa 2 metri, per poi assumere una conformazione a cupola, con un’altezza interna massima di circa 4.00-4.50 metri. In posizione fondale, perfettamente in linea con l’asse longitudinale dell’intero complesso e con il varco di collegamento, una piccola nicchia, anch’essa apparentemente sormontata da un arco a sesto acuto, delle dimensioni di circa 60 x 100 cm ed una profondità di circa 40. All’interno di questo, un altro incavo, di dimensioni molto ridotte (10 x 20 cm, per una profondità di un’altra decina di cm), che appariva essere la vera e propria bocca della sorgente, essendo in tal punto lo stillicidio un po’ più copioso e continuo. Alla base della “nicchia”, consistenti concrezioni minerali, bianchissimi, stratificati e declinanti verso il centro dell’ambiente. Parzialmente inglobati in questo ammasso di concrezioni, si intravedevano alcuni elementi litici (uno a forma concava, per metà emergente dalle concrezioni, apparentemente sbozzato a mano), e alcuni blocchi squadrati di circa 60 cm di lunghezza. Sulle pareti erano ancora a fatica visibili dei piccoli fori, di qualche cm di diametro e profondità, forse effettuati per l’alloggiamento di fiaccole. La presenza di due sorgenti, di cui la prima, in posizione defilata nella prima sala e caratterizzata dalla presenza di zolfo, mentre la seconda, pura e cristallina, in posizione più solenne, nella sala circolare, suggeriscono l’ipotesi che il complesso fosse destinato alla celebrazione di riti orfici in cui il divieto di bere alla prima fonte e l’importanza di bere alla seconda, la fonte della dea Memoria, risulta atto indispensabile per avviarsi alla via sacra.

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ZUNGRI

Nel panorama dei rarissimi villaggi rupestri individuati lungo il versante tirrenico calabrese, l’esempio più ragguardevole è costituito dal casale degli Sbariati di Zungri, località ricordata per la prima volta nelle Rationes decimarum del 1310. Il villaggio sorge sull’altopiano del monte Poro dominante il promontorio di Tropea, intorno ai 600 m.s.l. Posizionato nei pressi del tratto della via Popilia che collega le pianure di Sant’Eufemia e di Gioia Tauro, non lontano da Mileto, l’insediamento rupestre degli Sbariati si compone di circa 80 unità rupestri, disposte in maniera abbastanza caotica lungo una serie di terrazzamenti e piccole gole. L’impressione iniziale di casualità nella disposizione delle abitazioni rupestri di Zungri è fugata dalla presenza di un efficace sistema di raccordo dei vari nuclei del villaggio disposti su livelli diversi, costituito da una serie di scale scavate nella roccia, funzionali alle piste che percorrono il villaggio, così come notevole risulta la raccolta delle acque attraverso un sistema di canalette ricavate nella roccia. Le unità abitative, di pianta circolare e quadrangolare, risultano frequentemente articolate in più vani, talvolta su due livelli e il buono stato di conservazione permette di rilevarne le caratteristiche peculiari. Alcune abitazioni presentano accessi elaborati con archi sagomati e stipiti in rilievo o varchi di ingresso a prospetto rettangolare, con porte di legno i cui controtelai erano poggiati in apposite riseghe. Le finestre delle abitazioni hanno fogge circolari e rettangolari, con alto dente interno ricavato nella roccia come parapetto. I soffitti delle abitazioni possono essere piatti, voltati e, in un caso, cupolati con foro d’areazione. Le pareti delle abitazioni rupestri di Zungri presentano numerose incavi ricavati nella parete rocciosa con funzione di ripostiglio e nicchiette per lucerne; in alcuni casi le nicchie sono poste a livelli più elevati al di sotto di soppalchi per raggiungere i quali vi erano scale interne talvolta ricavate nella roccia. Nelle abitazioni si rinvengono letti ricavati nella roccia mentre serie di fori a circa 40 cm da terra costituiscono l’alloggiamento per le traverse lignee sulle quali veniva posto il materasso del giaciglio. Attività agricole condotte dagli abitanti del villaggio sono suggerite dalla presenza di un grande silos per la conservazione dei cereali, di un palmento costituito da una doppia vasca sovrapposta per la pigiatura e la raccolta del mosto, e di un forno in muratura, oltre alla presenza di un certo numero di vasche di lavorazione all’interno degli ipogei.

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Un’ultima considerazione scaturisce dalla distribuzione geografica dell’insediamento rupestre in Calabria, dalla quale risulta evidente come il versante jonico della regione si caratterizzi per una consistente presenza di villaggi rupestri, a fronte di una quasi totale assenza lungo il Tirreno, se si esclude il singolare episodio di Zungri, versante dove, come hanno mostrato numerosi studi, si rinvengono per lo più antri naturali trasformati in santuari. Anche in questo caso bisognerebbe capire se una tale circostanza sia riconducibile a fattori di carattere eminentemente pratico, quali la migliore lavorabilità della roccia nell’area jonica o a motivazioni di ordine più propriamente culturale, come sembrerebbe potersi dedurre dalla pletora di villaggi rupestri, spesso analoghi nella strutturazione agli episodi calabresi, che punteggiano la medesima costa tra il Salento e la Sicilia orientale. Rimane la questione del silenzio finora riscontrato nelle fonti su questi villaggi, circostanza che, peraltro, rende oltremodo rischioso avanzare cronologie assolute che solo indagini globali potranno fornire con una certa accuratezza.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: Alessandro di Muro:Il popolamento rupestre in Calabria, famedisud.it, radicicalabre.it, Nadia Lucisano ph., Andrea Martini ph.

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