I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

Come promesso continuiamo la carrellata di personaggi importanti della nostra Calabria. Nelle puntate precedenti (da leggere con voce baritona), abbiamo parlato di Telesio, Barlaam, D’amico. Viste le reazioni dei lettori, è evidente che l’obiettivo è stato raggiunto, incuriosire e far conoscere nomi noti e meno noti. In questa seconda parte incontreremo personaggi di epoche diverse, che per molti sono fonte di ispirazione grazie al loro pensiero.

TOMMASO CAMPANELLA

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Tommaso Campanella, al secolo Giovan Domenico Campanella, nasce a Stilo in Calabria, il 5 settembre 1568, da povera famiglia. Entra in un convento domenicano a tredici anni prendendo il nome di fra Tommaso. La sua formazione è fortemente influenzata dal filosofo calabrese Bernardino Telesio (1509-1588), da cui riprende le posizioni antiaristoteliche e naturalistiche. Sulla sua scorta scrive un’opera in latino, Philosophia sensibus demonstrata [La filosofia dimostrata attraverso i sensi], che gli attira le persecuzioni della Chiesa. Arrestato a Napoli, dove frequentava Giambattista Della Porta, esperto in magia naturale e in arti occulte, Tommaso Campanella subisce un primo processo nel 1592. Fugge viaggiando da una città all’altra, ma a Padova, dove conosce Galileo Galilei, è nuovamente arrestato; portato a Roma, dove resta in prigione per alcuni mesi, viene costretto all’abiura e poi condannato a ritornare in un convento calabrese. Nel 1599, in Calabria, dove le masse contadine erano costrette a subire, in terribile miseria, l’oppressione della Spagna e della Chiesa, Tommaso Campanella organizza una rivolta popolare che avrebbe dovuto instaurare una società teocratica secondo il modello poi esposto nella Città del sole. La congiura viene scoperta. Tommaso Campanella, arrestato nel novembre 1599, può salvarsi solo fingendo di essere pazzo: i folli, infatti, non potevano essere condannati a morte. Nonostante venga torturato più volte, riesce a resistere alle sofferenze e a restare fedele alla propria finzione. Così viene condannato all’ergastolo, a Napoli, nel 1602.

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In carcere resta per 27 anni, dal 1599 al 1626. Qui scrive La Città del sole, le poesie e molte delle sue opere filosofiche, fra difficoltà incredibili di ordine materiale e intellettuale che lo costringono a venire a patti con le autorità: cosicché non è facile capire quanto, in questo periodo, risponda al suo effettivo pensiero e quanto, invece, alle esigenze di un compromesso con la Chiesa. Per l’intervento del papa Urbano VIII, Tommaso Campanella riottiene la libertà, dapprima condizionata e limitata, poi definitiva, vivendo a Roma, nella cerchia di intellettuali e di prelati che assistevano il pontefice. Ma nel 1633 la scoperta di una congiura antispagnola in cui è coinvolto un suo discepolo, lo pone di nuovo in una posizione di pericolo, cosicché l’anno successivo si rifugia in Francia, alla corte di Luigi XIII. Qui prepara un piano di pubblicazione delle sue opere in dieci volumi, ma riesce a pubblicarne solo tre, perché muore il 21 maggio 1639.

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Nella cultura di Tommaso Campanella confluiscono tendenze diverse: da quelle dei movimenti ereticali del Medioevo (si pensi a una figura come quella del monaco calabrese Gioacchino da Fiore, 1130-1202, la cui concezione religiosa era fondata sull’attesa della fine del mondo, profetizzata per l’anno 1260, e dell’avvento successivo di un nuovo “millennio”, in cui Dio e il Bene avrebbero governato la vita umana) a quelle del naturalismo, del magismo e dell’ermetismo che avevano caratterizzato la cultura platonica rinascimentale; dalla cultura popolare calabrese, con la sua concezione magica e animistica della natura, alla teologia della Controriforma, che mirava a unire potere politico e potere religioso (programma ripreso infatti da Tommaso Campanella). Della cultura rinascimentale egli riprende la tendenza alla magia, non il metodo scientifico e razionalistico; la spregiudicatezza intellettuale, non l’individualismo né la fiducia nell’azione del singolo; egli privilegia invece l’aspetto comunitario, sociale, collettivo spingendosi fino a ipotizzare una società comunistica nella Città del sole.

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Tommaso Campanella scrisse le sue poesie perlopiù in carcere. Un gruppo di 89 venne pubblicato nel 1622 in Germania, per interessamento dell’amico Tobia Adami, con il titolo Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla (pseudonimo di Tommaso Campanella), accompagnate dal commento dell’autore. Sono sonetti, madrigali, odi e tre elegie «fatte con misura latina» (è uno dei primi tentativi di rendere nella metrica italiana quella latina), tutti componimenti scritti fra l’inizio del secolo e il 1613.
Le poesie di Tommaso Campanella partono spesso da temi autobiografici (anzitutto quello del carcere) per innalzarsi sino all’esaltazione della superiore missione del poeta, alla condanna dei vizi e delle ipocrisie dominanti, alla riproposizione dei motivi politici che parallelamente confluiscono nella Città del sole.
Accanto alle opere in latino (come la Philosophia realis [Filosofia reale], la Theologia e la Metaphysica) spicca il trattato in volgare, scritto nel 1604, Del senso delle cose e della magia. Il mondo vi è immaginato come un animale, come un organismo vivente i cui vari aspetti sono tutti dotati di sensibilità. Tutta la natura dunque è pervasa da un’unica vita, da un’anima comune: la morte è solo un momento necessario alla continuazione di questa vita perpetua. La magia permette di intervenirvi così come l’astrologia concede di prevederne gli sviluppi. Dio si identifica con il processo naturale guidandolo verso una complessiva conciliazione di tutte le cose, verso un’armonia universale che si realizza progressivamente nel flusso stesso dell’esistenza. Il progetto politico si inserisce appunto in questa fiducia. Si tratta di portare a compimento quanto è già previsto dal piano di Dio. Il teorico della politica è dunque anche un profeta.

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Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all’esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea (materia).
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Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all’azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l’America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l’uomo e pertanto afferma l’esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di autocoscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus’, che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus’ che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d’Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus’ sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito’: io penso quindi esisto (cogito ergo sum).
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In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l’ordine universale dell’universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il cristianesimo è l’unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma al contempo coincide con l’ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.
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Campanella fu autore anche di un’importante opera di carattere utopico, ovvero La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all’Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell’utopismo campanelliano è da annoverare anche La nuova Atlantide di Ruggero Bacone. L’utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere. L’incertezza è già evidente nell’interpretazione della critica idealistica, che nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell’opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale.

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Per Silvio Spaventa, Campanella è il “filosofo della restaurazione cattolica”, in quanto, la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: “Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo”. È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi “sono vani se non hanno per base l’istruzione e la felicità delle classi più numerose”. Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo.

PASQUALE GALLUPPI

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Pasquale Galluppi nacque a Tropea il 2 aprile del 1770 da un’antica casata nobiliare e possidente terriera. Formato al cattolicesimo, dopo i primi studi incentrati soprattutto sulla filosofia e sulla matematica, nel 1788 fu mandato a Napoli a studiare giurisprudenza. Egli tuttavia disattese il volere paterno: apprese il greco con Pasquale Baffi, seguì le lezioni di teologia (passione nata già ai tempi di Tropea grazie alla Teodicea di Gottfried Wilhelm von Leibniz e alle opere di Christian Wolff) di Francesco Conforti e si dedicò a una lettura attenta dei testi biblici e dei Padri della Chiesa, dalla quale fin da subito emerse un interesse peculiare per gli scritti e la figura di sant’Agostino. Dopo il suo ritorno nella città natale, nel 1794, egli proseguì gli studi filosofici, approfondendo in particolare testi appartenenti alla scuola cartesiana. Al 1795 risale il deferimento da parte del Sant’Uffizio di Roma a causa di una dissertazione di teologia tenuta presso la Regia accademia degli Affaticati di Tropea circa l’idea che le «supposte virtù dei pagani […] mancanti della vera carità debbono dirsi vizi» (L. Meligrana, prefazione a P. Galluppi, Memoria apologetica, a cura di L. Meligrana, 2004, p. XXIX). Per difendersi dall’accusa di eresia egli compose una Memoria apologetica ispirata a sant’Agostino, il cui pensiero ritenne essere la difesa più efficace della propria innocenza. L’introduzione a tale scritto fu redatta da monsignor Carlo Santacolomba, le cui teorie gianseniste, cariche di ferrea intransigenza morale e caratterizzate da salde «tendenze anticurialiste e antitemporaliste»  sono ben riconoscibili.

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Al 1799 è datato invece il coinvolgimento nei fatti della Repubblica partenopea. Alcuni anni più tardi ricoprì la carica di Controllore delle contribuzioni dirette per diciassette anni, dunque sia sotto i Napoleonidi che sotto il governo dei Borboni. Intorno al 1800 scoprì Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), un autore che egli non solo ritenne importante, ma addirittura un punto di svolta di tutto il suo percorso di studio e di pensiero. Il sensismo dell’abate francese, insieme all’empirismo dell’Essay concerning human understanding di John Locke (1632-1704), fu infatti il viatico per uno scandaglio filosofico di tipo analitico-fondativo precedente ogni ricerca metafisica su Dio e sull’universo. Pur essendo per indole lontano da ogni estremismo, dunque, tra i due schieramenti – dei giacobini e dei sanfedisti – il pensatore tropeano non solo fu vicino per formazione intellettuale alla causa giacobina, ma si adoperò anche, tramite la traduzione di fogli propagandistici in favore delle truppe del generale francese Championnet, perché questa potesse diffondersi. L’episodio fu causa del suo imprigionamento nella fortezza di Pizzo quando la città di Tropea si assoggettò alle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, contro il quale il nostro si scagliò duramente nel primo scritto politico intitolato Pensieri filosofici sulla libertà individuale compatibile con qualunque forma di governo, risalente al 1805, che tuttavia, forse per prudenza, non diede alle stampe e che rimase inedito fino alla pubblicazione nel 1865. Tale scelta di comodo non deve tuttavia far dimenticare il valore delle parole, queste sì non ambigue, rivolte contro un clero che svilisce «il vero spirito del Cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo» e che ha permesso a «un Cardinale di comandare delle masse di ribaldi e di fanatici» e di «innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e di ogni sorta d’iniquità» (Tulelli 1865, pp. 111-12).

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Il 1820 è l’anno dei moti carbonari in Piemonte e nel Regno di Napoli: questo nuovo fervore gli ispirò, tra l’altro, la composizione degli Opuscoli politico-filosofici sulla libertà. In questi libelli troviamo interventi a favore “della eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni e della propria industria”, oltre che della libertà di stampa e di culto, interventi stimolati tra l’altro da avvenimenti come la promulgazione della legge sulla libertà di stampa nel Regno di Napoli, risalente al 26 luglio 1820, e dalle discussioni sui principi costituzionali e sulle libertà civili che avevano luogo all’interno del Parlamento del Regno. La difesa di un liberalismo monarchico-costituzionale può spiegare anche la presa di posizione a favore del re Ferdinando I, contenuta nello scritto intitolato Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli, che appare a tutti gli effetti non solo una valutazione storica errata, ma anche una triste contraddizione rispetto alla memoria dei martiri del 1799, considerato che il re aveva fatto massacrare buona parte dell’avanzata intellighenzia illuminista napoletana, tra cui anche i maestri del filosofo Conforti e Baffi. Essa, infatti, potrebbe rientrare in un orizzonte più ampio, finalizzato a salvaguardare in ogni modo l’identità di uno Stato, che egli chiama già «nazione» (Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, cit., p. 85), delineando una posizione netta contro l’ingerenza straniera nel territorio italiano.  Il cambiamento di prospettiva sarebbe dovuto quindi proprio alla necessità di perseguire con la maggiore efficacia possibile un progetto nazionale di autonomia per gli Stati italiani. È per questo che «nel nome del filosofo di Tropea» si è inteso evocare la rinascita speculativa della Nazione Italiana, quale simbolo e auspicio di quello che sarebbe stato, più tardi, l’agognato risorgimento politico della nostra terra.

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Con i suoi scritti egli pone al centro una questione politico-civile fondamentale: quale è quella libertà civile, di cui deve godere il cittadino, in rapporto al potere politico in generale, prescindendo da qualunque forma di governo? In primo luogo vi è per Galluppi la libertà di pensare, che nessun errore o eccesso può limitare, e di seguito la libertà di stampa, di cui tuttavia sono ammessi alcuni vincoli rispetto alla religione. Egli sostiene la possibilità per ciascuno di non uniformarsi alla religione di Stato e l’illegittimità di azioni da parte dello Stato stesso che forzino in qualche modo scelte e libertà dell’individuo in questo campo: si tratta però appunto di libertà di coscienza, e non di libertà di culto, rispetto alla quale la decisione è invece rimessa allo Stato. Questa limitazione è connaturata a un concetto stesso di libertà di ispirazione essenzialmente giusnaturalistica, intesa come un diritto naturale precedente ogni ordinamento positivo.

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Lungimirante e all’avanguardia per i tempi resta tuttavia la sua posizione a favore del matrimonio civile, il cui significato di principio in termini legislativi e sociali è evidente quanto innegabile: in forza della libertà di coscienza già riconosciuta, la legislazione non può più riguardare il matrimonio se non come un contratto civile; altrimenti il cittadino non avrebbe la libertà di essere non conformista. «La libertà di essere non conformista»: in questa espressione si racchiude l’essenza del Galluppi teorico e filosofo della libertà. Le sue istanze e spinte liberali, pur se mediate sovente da una distanza di comodo, indicano tuttavia un elemento centrale della sua dimensione politico-civile destinato a riversarsi in maniera coerente e sentita nell’opera filosofica, ovvero il primato della coscienza. La “filosofia dell’esperienza” galluppiana è a tutti gli effetti un tentativo di riscrittura e di oltrepassamento del criticismo gnoseologico kantiano. Una gnoseologia elaborata per superare sia gli eccessi dogmatico-soggettivi del razionalismo sia quelli scettico-oggettivi dell’empirismo in una conciliazione teorica che neanche nelle tre Critiche sarebbe stata raggiunta. Secondo Galluppi, il discorso kantiano è messo in crisi in maniera decisiva proprio dalla constatazione che un fenomeno suppone necessariamente due realtà; quella del soggetto, a cui qualche cosa apparisce; quella della cosa che al soggetto si mostra. L’accesso al fenomeno dunque non è solo mera espressione o proiezione di un soggetto, ma è sempre interazione di soggetto e oggetto; ciò induce a individuare una dimensione che garantisca proprio tale interazione: la coscienza: «io percepisco il me, il quale percepisce un fuor di me». Giungiamo così al cuore della filosofia morale del filosofo tropeano: i precetti morali non sono né massime né imperativi, ma verità primitive che si fondano sull’esperienza, pur se prescritti dalla ragione: «l’esistenza de’ doveri, e perciò del bene e del male morale è una verità primitiva, che la Coscienza ci manifesta».

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Nel 1831 si insediò con successo presso la cattedra di logica e metafisica dell’Università di Napoli. Intanto la sua fama di studioso si diffondeva non solo in Italia (dove fu insignito di molte onorificenze), ma anche all’estero. Una testimonianza di siffatta considerazione proviene dal privilegiato rapporto con l’ambiente culturale francese, che fu suggellato nel 1838 con la nomina a socio corrispondente estero dell’Académie des sciences de l’Institut de France e nel 1841 con il conferimento della Legion d’onore. Galluppi morì a Napoli, al suo tavolo di lavoro, il 13 dicembre 1846.

 

LUIGI GIGLIO (LILIO)

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Luigi Giglio, in latino Aloysius Lilius, nacque intorno al 1510 a Cirò, presso Crotone, in Calabria, da una famiglia di modeste condizioni. Delle vicende della sua vita ben poco si sa, tanto che in passato ne è stata persino messa in dubbio l’origine calabrese e il nome di battesimo è stato indicato nella forma di Alvise Baldassarre. Luigi Lilio, medico e astronomo, ideò la riforma del calendario, promulgata da Papa Gregorio XIII (da cui prese il nome) nel 1582. Fu una delle piu’ importanti riforme del Rinascimento italiano, ideata da Lilio e portata avanti a Roma, nella seconda meta’ del XVI secolo, da un gruppo di calabresi guidati dal Cardinale Guglielmo Sirleto.  Insieme al fratello Antonio, frequento’ l’Universita’ di Napoli dove si laureo’ in medicina, non tralasciando pero’ di coltivare la passione per la matematica e l’astronomia. Nella città partenopea era agli stipendi della famiglia Carafa, feudatari di Cirò, non essendo sufficienti le magre sostanze paterne per potere attendere agli studi. Dopo una permanenza presso l’Universita’ di Perugia, quale docenti di medicina nel 1552, i fratelli Lilio frequentarono un influente gruppo di intellettuali che facevano capo all’Accademia delle Notti Vaticane, fondata a Roma dal Cardinale Sirleto e dal Cardinale Carlo Borromeo.  A quanto sembra Giglio dedicò l’ultimo decennio della vita a perfezionare la sua proposta di riforma del calendario, ma morì prima che questa fosse presentata al papa.

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Il grande problema astronomico-confessionale che Lilio si trovo’ ad affrontare era stato posto quando il Concilio di Nicea stabili’ che la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima domenica dopo il plenilunio di primavera. In epoca successiva pero’ era stato evidenziato che l’anno solare risultava piu’ lungo di 11 minuti e 14 secondi, per cui ogni 128 anni si sommava un giorno in piu’ (13 giorni nel 1500). Nel tentativo di risolvere il rompicapo, tutti i piu’ grandi astronomi e matematici di varie epoche si erano cimentati inutilmente. Fu Lilio a proporre di calcolare l’anno solare in base alle Tavole Alfonsine: in questo modo la durata dell’anno solare risulto’ essere di 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 12 secondi. La proposta di ricondurre l’equinozio di primavera al 21 marzo, eliminando dieci giorni e sopprimendo il bisesto a tutti gli anni centenari non multipli di 400 (gli anni centenari venivano cosi’ calcolati normalmente ad eccezione di quelli le cui prime cifre erano divisibili per quattro – 1700, 1800, 1900 – mentre il 2000 era considerato a cadenza normale), alla fine risulto’ vincente. L’anno di 366 giorni fu detto bisestile, perché quel giorno complementare doveva cadere sei giorni prima delle calende di marzo (facendo raddoppiare il 23 febbraio), e chiamarsi così bis sexto die ante Kalendas Martias (nel doppio sesto giorno prima delle calende di marzo). Inoltre, al fine di una più corretta misurazione delle lunazioni, essenziale per indicare il termine pasquale, il Giglio propose di sostituire al sistema del ciclo metonico (che prevedeva l’intercalazione, in un periodo di 19 anni composti ciascuno di 12 mesi, di altri sette mesi) un nuovo metodo basato sul calcolo delle epatte, di cui redasse delle tabulae.

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Sfortunatamente Lilio non pote’ seguirne il destino perche’ mori’, nel 1576, dopo una grave malattia. Nel 1577 Antonio Lilio presento’ pero’ il lavoro del fratello a Papa Gregorio XIII che lo accolse con molta gratitudine. Nello stesso anno venne stampato un volumetto che riportava le osservazioni di Luigi Lilio con i passaggi piu’ significativi, i calcoli e le tavole del nuovo calendario. La stampa venne eseguita a cura del Cardinale Sirleto, sorta di ‘deus ex machina’ dell’impresa, e curata da Pietro Ciaconio, esperto in Storia della Chiesa per le implicazioni civili ed ecclesiastiche, e Cristoforo Clavio, gesuita di Bamberga, astronomo e matematico, direttore dell’Osservatorio Vaticano. Nell’ultima pagina era possibile leggere la proibizione, da parte di Sirleto, pena la scomunica, di vendere o ristampare il volume.Dopo innumerevoli polemiche e veleni, il 14 settembre 1580, la Congregazione voluta da Gregorio XIII presento’ la relazione conclusiva dal titolo “Ratio corrigendi festes confirmata et nomine omnium qui ad calendarii correctionem delecti sunt oblata SS.mo D.N. Gregori XIII”. Di questo testo esistono due copie: l’una conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’altra presso la Biblioteca Casanatense di Roma. Il 24 febbraio 1582 il documento venne poi firmato e promulgato dal pontefice che, in data 5 marzo 1582, lo fece pubblicare, per affissione, sulla porta della Basilica di San Pietro.

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Un’intuizione che, in breve tempo, divento’ oggetto di discussione tra esperti di matematica ed astronomia. Astronomi e matematici, come Giuseppe Giusto Scaligero, Georgius Germanus e François Viète non approvarono la riforma liliana e cercarono in tutti i modi di creare calendari alternativi senza però riuscirci. James Heerbrand, professore di teologia a Tubinga, presentò le sue obiezioni nel Disputatio de adiaphoris et calendario gregoriano, tanto che accusò il papa, da lui definito “Il Calendarista”, di essere “l’Anticristo” che aveva creduto di poter mutare il tempo, ingannando i veri cristiani a celebrare le festività religiose in giorni volutamente sbagliati. In un altro scritto polemico, i cui principali autori furono Maestlin e il teologo Osiander, si argomentava che il papa avesse rubato dieci giorni dalla vita di ciascuno, i contadini non sapevano più quando arare o seminare i campi e gli uccelli smarriti non sapevano più quando cantare o emigrare. La prima difesa del calendario fu pubblicata nel 1585 ad opera del gesuita Johannes Busaeus, le cui argomentazioni, dirette principalmente contro le posizioni del teologo Heerbrand, vertono sulla correttezza scientifica e soprattutto interpretativa della riforma rispetto alle direttive del Concilio di Nicea. Tycho Brahe e Giovanni Keplero, gli astronomi più autorevoli del tempo, nonostante fossero protestanti, fattore che indubbiamente limitava le loro pubbliche dichiarazioni, considerarono la riforma elaborata da Lilio perfetta da un punto di vista scientifico. Keplero lasciò un articolo, pubblicato dopo la sua morte, nel quale presenta le sue argomentazioni in forma di dialogo tra un cancelliere protestante, un predicatore cattolico e un esperto matematico. La frase finale di questo dialogo è illuminante: ”La Pasqua è una festa e non un pianeta. Tu non puoi determinarla con giorni, ore, minuti e secondi.” L’opinione di Brahe è nota grazie a due lettere nelle quali l’autore afferma che le critiche mosse dagli astronomi contrari alla riforma erano dettate non da rigore scientifico ma da avversione verso il pontefice.

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Egidio Mezzi, storico di Lilio, afferma: ‘Matematici ed astronomi italiani e stranieri non danno il giusto rilievo a questa straordinaria figura  che riusci’ ad elaborare un calendario che ancora oggi, nonostante i ritmi vertiginosi raggiunti dalla scienza, non e’ stato superato”. Il fisico Antonio Zichichi in un’intervisse disse del Giglio: “Il mio interesse per Luigi Lilio nasce dal fatto che se fosse stato un inglese, un tedesco o una persona non italiana a scoprire il calendario perfetto lo saprebbero tutti, invece nessuno sa che e’ stato un italiano. Nessuno sa che e’ stato Aloysius Lilius, nato a Ciro’ in Calabria, a elaborare questo calendario passato alla storia con la benedizione di Papa Gregorio XIII, un bolognese. Bologna e’ la mia citta’ universitaria. Penso sia corretto rendere omaggio a questi due grandi personaggi della storia d’Italia e del mondo”. Il Calendario Gregoriano elaborato da Aloysius Lilius, ha detto Papa Giovanni Paolo II agli scienziati della World Federation of Scientists è: «… un contributo tra i più significativi e duraturi offerto dalla Cultura Cattolica sin dal lontano 1582 a tutti i popoli del mondo».

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Il Calendario Gregoriano venne man mano adottato nei diversi Paesi del mondo: in Italia, Portogallo e Spagna nell’ottobre del 1582; nel dicembre dello stesso anno in Francia e nei Paesi Bassi di Fede Cattolica. Diciotto anni dopo, nel 1600, venne adottato in Scozia. Bisogna attendere il 1700 per vederlo in uso nei Paesi di Fede Protestante: Danimarca e Norvegia. E addirittura il 1752 per vederlo in uso nel Regno Unito d’Inghilterra. Nei paesi di Fede Ortodossa andò in vigore tra il 1916 e il 1923. In Russia fu introdotto nel 1917. In Cina il governo repubblicano adottò il Calendario Gregoriano il 20 novembre 1911. Negli usi comuni però rimase in vigore il vecchio Calendario finché il governo di Nanking stabilì che col 1º gennaio 1930 il solo Calendario valido a tutti gli effetti giuridici dovesse essere quello Gregoriano di Aloysius Lilius. È attraverso queste diverse fasi che oggi, per la prima volta nella storia del mondo, tutte le Nazioni si trovano ad avere lo stesso Calendario.

Nel 2012 la Regione Calabria ha istituito la Giornata del Calendario in memoria di Luigi Lilio fissandola per il 21 marzo di ogni anno.

Il cratere Lilius sulla Luna prende il suo nome.

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Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria, adnkronos, eccellenzecalabresi, treccani.

 

 

 

 

 

 

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (1° Parte)

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Iniziamo quest’altra rubrica sulla Calabria, dopo aver evidenziato bellissimi castelli, aree archeologiche, miti e leggende, o Città fantasma. Questa volta vogliamo parlarvi di personaggi noti e meno noti, da Filosofi a Scienziati o Letterati, di cui tutti conoscono il nome, ma non hanno la benché minima idea della loro influenza nel mondo. Parliamo di personaggi storici di diverse epoche, i quali con la loro saggezza e genialità hanno ispirato personaggi più noti, ma non per questo superiori. Siamo sempre più consapevoli che per portare il nome della nostra Regione oltre i confini locali è necessario prendere coscienza, noi per primi, dei nostri tesori e della nostra storia. Ma altrettanto importante è conoscere le opere e le attività, e non solo i nomi, dei nostri figli più illustri. Quanti di voi hanno parcheggiato la loro auto in una via che per molti è un nome, hanno trascorso del tempo in una piazza, senza sapere a chi fosse dedicata? Alcune hanno nomi altisonanti Kennedy, Mazzini che difficilmente possono non essere conosciute, ma altre hanno nomi di uguale se non addirittura maggiore importanza, ma spesso ignoriamo di chi stiamo parlando. L’idea di questo articolo in realtà nasce qualche anno fa quando per trovare un negozio nella mia città (Cosenza) ho dovuto usare il tom tom, che ovviamente mi indicava tutte le vie e piazze che avrei dovuto attraversare. Proprio lì mi sono reso conto di quanti nomi trascuravo l’origine. E’ nata da lì una curiosità e quindi una ricerca e uno studio su questi personaggi. Oggi spero di fare cosa gradita iniziando con questi primi nomi, in realtà sono tantissimi, concentrandomi principalmente su personaggi Calabresi.
Avendo citato la mia “diletta” città non posso che iniziare dal grande Filosofo Bernardino Telesio. Vi indicherò quindi per lui come per gli altri alcuni cenni principali sperando di accendere la curiosità e la voglia di bramare altro. Sono tutti dati facilmente reperibili sul web, ma la speranza è che leggendo delle loro vite e dei loro pensieri,in questa carrellata, si possa generare la volontà di riscoprire i loro studi.

BERNARDINO TELESIO

Nato a Cosenza nel 1509 da famiglia nobile, riceve una buona formazione classica sotto la guida dello zio Antonio, umanista e poeta, che il giovane Bernardino seguirà, a partire dal 1517, anche nei suoi spostamenti verso Milano, Roma (dove avrà modo di stabilire contatti e legami con esponenti del mondo ecclesiastico e della stessa curia papale) e Venezia. Dopo un probabile passaggio nell’ambiente universitario padovano e un periodo di meditazione solitaria in un convento benedettino sulla Sila, sposa Diana Sersale. Nel 1563 è a Brescia, per incontrare un autorevole aristotelico, Vincenzo Maggi, professore a Padova e a Ferrara, e sottoporre al suo giudizio le tesi filosofiche che ha ormai intenzione di divulgare. Incoraggiato dal parere positivo di Maggi, nel 1565 pubblica a Roma, presso Antonio Blado, il De natura iuxta propria principia, in due libri. Dopo un prolungato soggiorno romano, Telesio torna stabilmente a vivere a Cosenza, pur mantenendo legami molto forti con la città di Napoli, e in modo particolare con la casa di Ferrante Carafa, dove troverà costante ospitalità e protezione. E proprio a Napoli, nel 1570, vede la luce la seconda versione del De natura, ancora in due libri, ma ampiamente corretta e rielaborata e con un titolo lievemente modificato: De rerum natura iuxta propria principia. Contestualmente, presso il medesimo stampatore napoletano Giuseppe Cacchi, Telesio fa uscire anche tre opuscoli: il De colorum generatione, il De mari e il De his quae in aëre fiunt et de terraemotibus. Nel 1586, ancora a Napoli, viene pubblicata l’ultima (e definitiva) rielaborazione del De rerum natura, in nove libri. In questo giro di anni Telesio compone o riordina pure diversi opuscoli di argomento fisico e medico-fisiologico, spesso polemici nei confronti dell’Aristotele dei Meteorologica e di Galeno. Dopo la sua morte, avvenuta a Cosenza nel 1588, nove di essi saranno pubblicati dall’allievo Antonio Persio sotto il titolo di Varii de rebus naturalibus libelli(Venezia 1590). Nel 1596 il De rerum natura e gli opuscoli Quod animal universum ab unica animae substantia gubernatur e De somno (entrambi inclusi nella silloge del 1590) saranno inseriti, sia pure con la clausola attenuante donec expurgentur, nell’Indice dei libri proibiti promulgato da Clemente VIII. Ma l’expurgatio sarà presto liquidata dagli organismi censori come impossibilis, trasformando la condanna condizionata in un divieto integrale, destinato a soffocare bruscamente, come nel caso delle tante proibizioni di quegli anni, un dibattito culturale tutt’altro che periferico o irrilevante.


Principi e forze del mondo naturale
Il laboratorio degli scritti telesiani è particolarmente complesso e intricato. Perennemente insoddisfatto delle soluzioni via via individuate e fermate nelle edizioni a stampa e, insieme, preoccupato per le reazioni degli avversari e delle autorità ecclesiastiche, il filosofo sottopone i suoi scritti a una revisione continua, instancabile. E questo è vero soprattutto nel caso dell’opera maggiore, con le sue tre stesure a stampa, le redazioni intermedie, il costante movimento di varianti. Riarticolata senza posa, la posizione telesiana resta tuttavia sostanzialmente immutata nei suoi tratti distintivi e nelle linee di fondo.L’obiettivo principale del filosofo è quello di superare l’immagine aristotelica del mondo. L’esercizio della sensibilità rivela che quel che agisce in natura non sono le forme sostanziali, le cause o le qualità aristoteliche, ma piuttosto due principi attivi o forze fondamentali, creati da Dio all’inizio del mondo. Questi principi sono il calore e il freddo. Il calore ha la sua sede nel Sole, il freddo nella Terra.Il Sole e i cieli, in quanto corpi ignei e caldi, si muovono per virtù propria, per un moto naturale che non necessita, per essere spiegato, del ricorso al primo motore o alle intelligenze motrici della tradizione aristotelica. Mentre la Terra, principio del freddo, rimane necessariamente immobile e inerte al centro dell’universo (di conseguenza, nessuna apertura, nella filosofia telesiana, a suggestioni copernicane).Le due forze universali, incorporee, necessitano di un sostrato fisico su cui esercitare la propria attività. Telesio identifica questo supporto o principio passivo nella materia o mole corporea, la quale, di per sé inerte, subisce innumerevoli trasformazioni indotte dal calore e dal freddo, nel loro contrasto perenne per il predominio e la reciproca assimilazione, in cui gioca un ruolo fondamentale il principio di autoconservazione. Il caldo è forza che illumina, riscalda, alleggerisce, dilata la materia e la mette in movimento; mentre il freddo la condensa, ispessisce, appesantisce e immobilizza.E proprio da questo rapporto, ed equilibrio, fra contrari la natura trae la spinta al divenire e la possibilità stessa della vita: il calore celeste si diffonde sulla Terra e dalla tensione, dalla polarità fra i due principi si originano tutti i fenomeni e i processi, compresa la generazione degli esseri viventi, la cui diversità, complessione e grado di vitalità è correlata alla quantità di calore e movimento da essi recepita.In natura si dà quindi una sostanziale unità e continuità: fra cielo e terra, dato che i corpi celesti sono ignei, e dunque né eterei, né impassibili, né inalterabili; e fra i diversi enti, dato che la differenza tra esseri inorganici, animali e uomo appare legata a una differenza di grado e non di natura.
L’uomo fra spiritus e anima
Anche l’uomo, che Telesio colloca al vertice degli enti mondani superiori, è immerso in questa dimensione squisitamente naturale. La sua complessione fisica, ma anche i meccanismi della conoscenza e della vita morale sono il prodotto e l’espressione di un processo cosmico più generale: come per ogni altro ente, anche nell’uomo il calore celeste si concentra e si caratterizza in una porzione di materia terrena, pervadendola e in certo modo strutturandola come organismo vivente. A partire da questo presupposto, Telesio individua il criterio ultimo di spiegazione dei processi conoscitivi umani nel concetto di spiritus. Lo spiritus è il luogo in cui, nei corpi animati, si specifica e si manifesta al suo livello più alto e acuto la sensibilità (cioè la capacità di percepire modificazioni o alterazioni) di cui ogni ente, nella natura telesiana, è dotato. “Simile e parente del cielo”, vale a dire espressione della vita universale del cosmo, lo spiritus è una sostanza materiale estremamente sottile e rarefatta, generata dal principio del calore, capace di movimento, coestensiva ai corpi e quindi mortale. Nella psicologia e nella gnoseologia telesiana lo spiritus presiede alle funzioni vitali dell’uomo e, in quanto organo e strumento non solo della sensazione, ma di ogni possibile attività conoscitiva (dall’immaginazione alla memoria, allo stesso esercizio dell’intelligere), assorbe e riassume in sé le funzioni tradizionalmente proprie dell’anima.

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Preoccupato di annullare in questo modo ogni tratto di specificità umana, Telesio accosterà successivamente al concetto di anima/spiritus, “generata dal seme” e quindi materiale e mortale, l’immagine di una mens superaddita, vale a dire un’anima superiore e immortale, infusa direttamente da Dio (substantia a Deo immissa). Questa seconda anima, tuttavia, non sembra esercitare alcuna funzione conoscitiva specifica; il suo ruolo, e il suo senso, attengono piuttosto alla dimensione pratico-morale: essa si pone all’origine dell’aspirazione dell’uomo a valori soprasensibili ed eterni, trascendenti la semplice dimensione della vita naturale. E proprio in base a questo ordine di considerazioni, è motivo di discussione fra gli interpreti se questa duplicazione di anime sia frutto di una effettiva evoluzione della riflessione telesiana oppure una misura meramente prudenziale, una concessione all’ortodossia metafisica e teologica.

Dalla conoscenza alla morale
Nonostante le cautele (o i compromessi), anche sul terreno delicato e scivoloso dell’etica Telesio non rinuncia al suo deciso naturalismo. Nell’ultimo libro del De rerum natura (1586) egli declina e sviluppa i presupposti della sua gnoseologia sul piano della morale, delineando una fenomenologia dei vizi e delle virtù dominata dall’azione dello spiritus, e ancora una volta ispirata al concetto chiave di autoconservazione. Nel contatto con le cose, lo spiritus prova sensazioni piacevoli oppure dolorose. Ciascun ente percepisce con piacere (e tende quindi a ricercare) eventi e fenomeni volti a perfezionare e tutelare il proprio essere, mentre percepisce con dolore (e tende a rifuggire) quanto può danneggiarlo o distruggerlo. Questa disposizione dello spirito a perpetuarsi e dispiegarsi liberamente, in quanto capace di orientare le azioni e le scelte degli uomini, si identifica con la virtù: al fondo, un calcolo o una previsione corretta dell’utile e del vantaggioso che Telesio interpreta di conseguenza come realtà naturale, non culturale. Polemizzando con le soluzioni dell’Etica Nicomachea, egli sottolinea che la virtù non si costruisce né si esplica attraverso l’educazione, l’esperienza, la ricerca e la costruzione di una misura. È piuttosto la maggiore o minore perfezione e purezza dello spirito di ciascun individuo a determinare il suo temperamento, la qualità della sua azione morale, e, per estensione, perfino i costumi e gli ordinamenti dei diversi popoli.
Se gli ideali dell’etica telesiana sono improntati alla moderazione, alla temperanza, alla costruzione di mutui legami fra uomini, il bene che lo spiritus è in grado di conseguire, “secondo natura e secondo le proprie forze”, necessariamente “momentaneo” e talora “incerto”, appare peraltro in armonia con il “vero bene” dell’uomo, garantito dalla promessa divina di salvezza e di immortalità.
Del resto, in tutta la filosofia telesiana il finalismo del mondo naturale e gli stessi meccanismi di conservazione sembrano trovare la loro ultima ragione di essere nel perfetto, e ordinatissimo, atto creatore di Dio. Una sapienza creatrice e ordinatrice che l’uomo può celebrare e contemplare, ma mai penetrare. All’interno di questa filosofia non è di fatto possibile, né sul piano epistemologico, né su quello etico, forzare i confini della conoscenza sensibile per cogliere il disegno nascosto dell’artefice del mondo.

Ricezione e influenza delle dottrine telesiane
L’eversivo naturalismo telesiano suscita negli ambienti filosofici italiani immediato interesse, dibattiti spesso vivaci e non poche polemiche (la più nota e significativa è quella con Francesco Patrizi da Cherso). Ma non mancano pure avversari più insidiosi e pericolosi: nel mondo delle università, nei circoli romani e nella stessa città di Cosenza, come rivela la lettera inviata da Telesio nell’aprile 1570 al cardinale Flavio Orsini, arcivescovo della città, ove si registrano con preoccupazione le “proposizioni contra la religione” individuate nei suoi scritti da alcuni concittadini: “ch’io metto l’anima mortale, et che negho ‘l Cielo sia mosso dall’intelligentie” (Girolamo De Miranda, Una lettera inedita di Telesio al cardinale Flavio Orsini, “Giornale critico della filosofia italiana”, 72, 1993, fasc. 3, p. 374).
E nonostante il gran lavoro di riscrittura e la costante volontà di negoziato con avversari e autorità ecclesiastiche, negli anni Novanta anche la sua opera sarà investita dal severo intento di normalizzazione e dalle rigidissime chiusure filoaristoteliche e filotomiste che caratterizzano il papato di Clemente VIII. Ormai consolidati e sempre più consapevoli e selettivi, gli organismi inquisitoriali ampliano il proprio perimetro di azione e di controllo, puntando a colpire non soltanto l’eresia religiosa e dottrinale, ma ogni forma di dissenso culturale. Si apre così una fase di verifica minuziosa dell’ortodossia di filosofi, naturalisti e scienziati, al fine di attenuare o ridurre a formulazioni consone al dettato scritturale, alla norma teologica o al precetto scolastico anche il pensiero dei novatores e le formulazioni della nuova fisica. In questa prospettiva, l’iscrizione all’Indice dei testi telesiani appare ascrivibile non solo a un generico antiaristotelismo, ma anche e soprattutto al carattere materialistico e immanentistico della sua filosofia (certo non incrinato dal dispositivo un po’ forzato dell’anima a Deo immissa), unito a una cosmologia che insiste sull’unità e omogeneità di mondo celeste e mondo sublunare.
Ma, al di là delle resistenze e dei divieti, il richiamo alla concretezza dei processi naturali e il rifiuto del principio di autorità sono elementi destinati a esercitare una suggestione indiscutibile e potente sui contemporanei. Già i primi lettori del De rerum natura percepiscono e interpretano le dottrine telesiane, costruite con lessico e immagini volutamente arcaizzanti, come un palese recupero della filosofia naturale presocratica. Così, il nesso – istituito in modo particolare da Patrizi – fra Telesio e Parmenide innesca una riflessione sui caratteri della materia e della corporeità i cui echi arriveranno fino a Francis Bacon (sua è la definizione di Telesio come “riformatore di non poche opinioni e primo degli uomini nuovi”) e Pierre Gassendi.
E anche Bruno e Campanella si confronteranno con le sue dottrine e non mancheranno di attribuirgli una funzione di rilievo nella sovversione dell’auctoritas aristotelica, premessa ineludibile per la costruzione di una filosofia della natura davvero nuova e libera da ipoteche secolari. La lettura del De rerum natura, con la sua dottrina della sensibilità universale, avrà per Campanella i caratteri di una vera e propria rivelazione, celebrata sia nella Philosophia sensibus demonstrata che nel celebre sonetto dedicato al “gran Telesio”. Mentre Bruno, pensatore mai particolarmente prodigo di elogi, nel De la causa, principio et uno ricorderà con dichiarato rispetto l’“ingegno” del “giudiciosissimo Telesio” e la sua “onorata guerra” contro Aristotele, giustamente combattuta alla luce di una concezione positiva e vitale della natura e delle forze che operano in essa. Ma non basta: perché l’immagine, tracciata in primo luogo da Campanella, di Telesio come capostipite della genealogia dei novatores sarà destinata a una lunga fortuna, soprattutto nell’Italia meridionale. Qui, infatti, fino alle soglie dell’Illuminismo, il filosofo cosentino, pur letto in misura sempre minore, sarà regolarmente evocato come maestro esemplare di un processo di rinnovamento culturale ancora in atto, e simbolo di una declinazione squisitamente italiana della libertas philosophandi.

 

GIOVAN BATTISTA D’AMICO

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Nome tornato agli onori della cronaca proprio in questi ultimi giorni, per le vicende inerenti il nuovo planetario che si appresta ad aprire i battenti a Cosenza, ma a differenza del precedente noto davvero solo a pochi.
Astronomo, Filosofo, matematico è nato a Cosenza nel 1511 ed è morto a Padova nel 1538, autore dell’operetta De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis, pubblicata a Venezia nel 1536 e nel 1537 e a Parigi nel 1549.Le sue osservazioni furono una delle fonti per il lavoro di Niccolò Copernico. Da (wikipedia) Contemporaneo di Bernardino Telesio, frequentò lo Studium dei Domenicani, università aperta a tutti e non solo all’ordine dei Padri Predicatori. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non quanto trapela dalla sua maggiore opera, il De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis et epicyclis, pubblicato nel 1536 a Venezia per i tipi di Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli. Dalla sua opera si traggono le uniche scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato nell’opera, che Amico fosse cosentino di nascita e che all’epoca della pubblicazione avesse la giovane età di 24 anni. Questo farebbe collocare la nascita dell’Amico a Cosenza forse nell’anno 1512, seppure alcuni studiosi propendano per il 1511. Tuttavia la nascita dell’astronomo risulta di difficile datazione non essendo noto in quale mese del 1536 il De motibus fu pubblicato e in quale periodo esso venne compilato dall’autore.Sempre all’interno del De motibus, nel proemio, l’Amico riferisce di essere stato allievo di Vincenzo Maggi (1498-1564), Marco Antonio Passeri detto il Gènua (1491-1563) e di Federico Delfino (1477-1547), professori all’Ateneo di Padova negli anni precedenti la pubblicazione del De motibus e anche professori del Telesio; queste informazioni porrebbero l’Amico nel filone di pensiero dell’aristotelismo padovano rinascimentale e dimostra che l’astronomo cosentino avesse frequentato l’Università di Padova, una delle più prestigiose dell’epoca, dalla quale tuttavia non si ha certezza se si fosse licenziato con una laurea, dato che il suo nome non risulta in nessuna lista di laureati di quell’ateneo. Dopo la frequentazione dei corsi di Padova parrebbe, ma anche qui non vi è certezza alcuna, che l’Amico fosse stato ammesso all’Accademia Cosentina forse nell’anno 1537, ovvero un anno dopo la prima pubblicazione a stampa del De motibus e un anno prima della morte del giovane astronomo che avrebbe avuto fra i 26 e i 27 anni. Va detto che il De motibus fu la prima operetta a mettere in discussione il modello tolemaico e che l’opera si concludeva anticipando per sommi capi alcuni dati oggetto di una futura pubblicazione e che promettevano di essere assolutamente rivoluzionari. L’Amico considerò due ordini di obbiezioni che erano state mosse al sistema esposto da Aristotele: da una parte le combinazioni di movimenti circolari che egli aveva supposto non spiegavano tutte le particolarità del percorso degli astri, dall’altra la variazione dei diametri apparenti della Luna e del Sole escludeva che essi si trovassero sempre ad ugual distanza dalla Terra. L’Amico aumentò quindi considerevolmente il numero delle sfere deferenti (e delle relative reagenti) attribuite a ciascun pianeta. La variazione, poi, dei diametri apparenti del Sole e della Luna, se pur la sua rilevazione non fosse dovuta a difetto degli strumenti, era spiegata dall’Amico, con cause geometriche. Da questa considerazione gli studiosi tendono a pensare che la prematura morte per assassinio di Amico fosse stata provocata dall’invidia della sua dottrina, così come suggerito da un anonimo che compose l’epitaffio del giovane astronomo nel quale si leggeva:
« IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut putatur, virtutisque, invidia, interfectus est MDXXXVIII. »
(Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11)
ovvero “ammazzato da ignoto sicario si pensa per invidia della sua scienza e delle sue virtù”.

Nel 1538 Amici venne assalito, derubato e ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che seguì accertò che era scomparsa una borsa contenente alcuni documenti, che forse erano proprio le carte con quelle rivoluzionarie osservazioni che aveva promesso l’autore, o almeno così sembrava credere l’Inquisizione nel processo postumo per eresia che subito dopo istituì contro lo studioso defunto. Dell’Amico fa menzione nella sua orazione in morte di Telesio, Giovanni Paolo d’Aquino, filosofo e oratore calabrese nato a Cosenza e morto intorno al 1612, che definisce l’Amico “così grande astrologo e filosofo” e nulla aggiunge alla sua biografia rispetto a quanto già noto. Un mistero impossibile da risolvere, visti i secoli trascorsi. Quel che resta certo è che, pochi anni dopo, le intuizioni del cosentino si rivelarono meritevoli di considerazione. Sembra che fossero note  anche al grande Niccolò Copernico, che pubblicò la sua teoria, nel De revolutionibus orbium coelestium appena cinque anni dopo la morte di Amico. E secondo alcuni non fu solo un caso.

 

BARLAAM

Così il Petrarca:
La morte mi ha privato del mio Barlaam. Ma, a dir vero, io stesso me ne ero privato. Non mi accorsi che l’onore si sarebbe risolto in un mio grave danno. Difatti, aiutandolo a diventare vescovo, persi il maestro con il quale avevo cominciato a studiare con fiduciosa speranza (Familiares, XII, 2.7).
Barlaam Calabro, al secolo Bernardo Massari, conosciuto anche come Barlaam di Seminara o Barlaam di Calabria (Seminara, 1290 ca.; † Avignone giugno[1], 1348), è stato un monaco, vescovo, matematico, filosofo, teologo e studioso della musica bizantino. Uomo di vasta cultura, fu maestro di lingua e di letteratura greca di Francesco Petrarca e di Giovanni Boccaccio, rivoluzionò l’aritmetica, scrisse di musica; ma fu anche profondo teologo, che si oppose alla dottrina dell’esicasmo dei monaci della Chiesa d’Oriente.
Nacque a Seminara, nei pressi di Reggio di Calabria, verso la fine del XIII secolo, e tradizionalmente si riporta l’opinione di Ferdinando Ughelli[2], non documentalmente provata, che il nome di battesimo fosse Bernardo.Le notizie certe sulla sua formazione si ricavano dalla bolla con cui papa Clemente VI lo nominò vescovo di Gerace: il documento informa che Barlaam fece il percorso monastico e sacerdotale in Calabria, nel monastero basiliano di Sant’Elia di Capasino (diocesi di Mileto).Dagli scritti di Barlaam stesso apprendiamo anche che egli fu formato nella fede nell’ambito della Chiesa Ortodossa, che in quegli anni era ancora molto diffusa nell’Italia meridionale[3]. Al contrario, non abbiamo evidenze sulla formazione culturale: tuttavia, emerge dai suoi scritti una profonda conoscenza dei filosofi greci, specialmente di Platone e Aristotele, ma anche di San Tommaso d’Aquino e della Scolastica, per cui si devono presupporre contatti con le maggiori scuole di filosofia e teologia dell’Italia meridionale e centrale.
Nella seconda metà degli anni Venti del XIV secolo si mise in viaggio, verso l’Etolia e Tessalonica, per poi giungere a Costantinopoli (approssimativamente nel 1326 o 1327) dove regnava Andronico III Paleologo, e dove il dotto Barlaam guadagnò i favori dell’imperatrice Anna di Savoia. Divenne igumeno dell’importante convento di San Salvatore; nel frattempo scrisse con successo trattati di logica e di astronomia (ne è sopravvissuto sino a noi uno sull’etica stoica) che lo resero famoso; ottenne una cattedra nell’università. Il suo successo come filosofo lo portò però anche allo scontro con l’intellighenzia della capitale e scatenò la gelosia dell’umanista bizantino Gregorio Niceforo, un professore nel monastero di Chora che in un suo libello narrò della sfida accademica tenutasi fra i due eruditi nel 1331 su tutti gli argomenti dello scibile umano di quei tempi. Dopo la sfida, Barlaam divenne stimato professore nel secondo centro culturale dell’impero, Tessalonica, dove ebbe fra i suoi allievi alcuni dei migliori futuri teologi e dotti bizantini: Gregorio Acindino, Nilo Cavasila, Demetrio Cidone.

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Nel 1333-1334, nell’ambito delle trattative per la riunificazione tra le due Chiese di Oriente e di Occidente, giunsero a Costantinopoli i domenicani Francesco da Camerino, arcivescovo di Vosprum, e Riccardo, vescovo di Cherson, incaricati dal papa Giovanni XXII.Grazie al suo prestigio e alla stima di cui continuava a godere presso gli ambienti di corte, Barlaam fu scelto dal patriarca Giovanni Caleca come portavoce della Chiesa ortodossa.Il punto di divisione, come noto, era principalmente il dogma della processione dello Spirito Santo: in tale occasione Barlaam sviluppò le sue argomentazioni teologiche e filosofiche, sulla base delle posizioni del volontarismo di Duns Scoto e Guglielmo di Occam, in opposizione alle tesi domenicane basate sul realismo di San Tommaso d’Aquino.
Le posizioni delle due parti rimasero inconciliabili e le trattative non ebbero alcun risultato; ma Barlaam, nelle sue dissertazioni, sviluppò anche critiche verso l’esicasmo e sottolineò la differenza di valore tra la teologia scolastica e la contemplazione mistica; con ciò divenne inevitabilmente protagonista di una violenta polemica contro le concezioni ascetiche e mistiche dei monaci del Monte Athos nella persona soprattutto di Gregorio Palamas.Nei confronti del monaci athoniti Barlaam ebbe parole dure, accusandoli di eresia gnostica e deridendoli col nomignolo di umbilicamini (omphalopsychoi). Il dibattito divenne uno scontro, che sfociò in una denuncia di eresia mossa da Barlaam contro Palamas davanti al patriarca Giovanni Caleca con lo scritto “Contro i Massaliani.La controversia, non vista di buon occhio dalle autorità che desideravano mantenere la pace religiosa, fu risolta nel Concilio di Costantinopoli (1341). Il discorso finale tenuto da Andronico, che celebrò una generale riconciliazione, non rispecchiò la realtà dei fatti: Barlaam, perdente, vide la condanna delle proprie dottrine e fu costretto a scusarsi formalmente con gli esicasti e a sospendere ogni futuro attacco verso di loro.Addirittura Giovanni Caleca, con un’enciclica, condannò le tesi di Barlaam e impose la distruzione dei suoi scritti.
Nel frattempo, nel 1339 era stato inviato da Andronico III ad Avignone come delegato in missione diplomatica in Europa, alla quale l’imperatore intendeva sollecitare un intervento per una crociata contro l’avanzata dei Turchi ottomani.
Barlaam si era recato a Napoli, insieme a Stefano Dandolo, presso Roberto d’Angiò e poi a Parigi da Filippo VI di Valois per chiedere aiuti militari; infine i due erano andati presso la Curia di Avignone di papa Benedetto XII per ottenere la sua approvazione alla crociata (in cambio Barlaam aveva prospettato un concilio ecumenico per la riunione delle due grandi Chiese).La missione non aveva avuto buon esito, a causa della situazione politica europea, ma nell’occasione Barlaam aveva costruito delle importanti relazioni personali.
Nel 1341, dopo il fallimento del concilio di Costantinopoli e la morte di Andronico III (15 giugno), Barlaam nel mese di luglio tornò in Calabria e da lì raggiunse a Napoli l’umanista Paolo da Perugia con cui collaborò nella compilazione delle Collectiones e nel riordinamento della libreria angioina.Tra l’agosto di quell’anno e il novembre del successivo fu ad Avignone da papa Clemente VI.Questo soggiorno fu particolarmente importante, perché Barlaam conobbe Francesco Petrarca, al quale insegnò il greco e dal quale fu avviato alla conoscenza del latino, con cui aveva poca dimestichezza; ma ancor più importante fu il definitivo passaggio di Barlaam alla fede cattolica.

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Grazie alla nuova obbedienza al papa, alle sue qualità personali e all’intercessione dei buoni uffici di Petrarca, gli fu assegnata la diocesi di Gerace, di cui Barlaam fu nominato vescovo il 2 ottobre dello stesso 1342, consacrato dal cardinale Bertrando del Poggetto.A Gerace non ebbe vita facile, a causa dei contrasti con la curia di Reggio.
L’ultima missione diplomatica
Nel 1346 fu nuovamente inviato in missione diplomatica dal papa a Costantinopoli in un rinnovato tentativo ecumenico.Tuttavia la situazione nella capitale bizantina era sempre molto tesa: sul trono sedeva Anna di Savoia reggente in nome del figlio Giovanni V; nel 1343 Palamas era stato arrestato e scomunicato.Giovanni Caleca, diventato nemico degli esicasti, fu deposto il 2 febbraio 1347 e il giorno stesso Giovanni Cantacuzeno, favorevole agli esicasti e appoggiato da Palamas tornato in auge, si autonominò coimperatore accanto a Giovanni V.Barlaam, già compromesso dalle sue precedenti posizioni, non poté far altro che tornare in Occidente.
In primavera fece ritorno ad Avignone, dove rimase fino alla morte avvenuta probabilmente agli inizi di giugno 1348.In effetti, non conosciamo la data certa della morte, ma la bolla di nomina di Simone Atumano, suo successore a Gerace, datata 23 giugno 1348, descrive l’evento come recente.
La copiosa produzione di Barlaam è andata in parte perduta e di quella sopravvissuta la maggior parte è ancora inedita. Ce ne è giunto un elenco con gli incipit nella Biblioteca graeca di Johann Albert Fabricius. Si contano opere teologiche, fra cui:
opuscoli contro la processione dello Spirito Santo Filioque;
scritti sul primato del papa;
il progetto di unione delle Chiese elaborato per la prima missione ad Avignone (in greco);
un discorso per il sinodo di Costantinopoli (in greco);
due discorsi in latino tenuti al cospetto di papa Benedetto XII;
varie lettere e scritti in latino successivi alla conversione;
otto lettere relative allo scontro con gli esicasti;
l’opera Contro i Messaliani è perduta in quanto fu distrutta a seguito della sconfitta di Barlaam nella disputa; ci restano solo alcune citazioni in altre fonti.
Opere filosofiche:
Ethica secundum Stoicos ex pluribus voluminibus eorumdem Stoicorum sub compendio composita, che espone l’etica stoica (mostra un’ottima conoscenza di Platone);
Le soluzioni dei dubbi proposti da Giorgio Lapita:
opere scientifiche:
Arithmetica demonstratio eorum quae in secundo libro elementorum sunt in lineis et figuris planis demonstrata, che è un corfimentario al secondo libro di Euclide;
un’opera in sei libri di algebra e aritmetica;
Logistica nunc primum latine reddita et scholiis illustrata, che è un trattato di calcolo con frazioni ordinarie e sessagesimali con applicazioni all’astronomia. L’opera fu pubblicata a Strasburgo nel 1592 e a Parigi nel 1600, insieme ad una sua traduzione in latino;
un commentario alla teoria dell’eclissi solare dell’Ahnagesto di Tolomeo;
una regola per la datazione della Pasqua;
commentari su tre capitoli degli Armonici di Tolomeo; questi capitoli trattano la relazione fra i numeri primi del Sistema Perfetto greco e le sfere celesti, come le consonanze musicali e il movimento dei pianeti si debbano trovare attraverso i numeri, e come le qualità delle sfere si accordino con quelle dei suoni musicali.
Sino ai tempi più recenti le opere teologiche e legate all’attività diplomatica sono state più studiate, mentre ultimamente si è rivalutata l’opera di Barlaam anche come acutissimo e brillante scienziato, versatile e innovativo, oltre che come significativo contributore nella reintroduzione del greco in Occidente, attraverso l’insegnamento della lingua a personalità come Paolo da Perugia e Petrarca e anche Boccaccio.

La novella di Barlaam
L’ENIGMATICO ZOO DELL’ANTELAMI SCOLPITO SUL BATTISTERO DI PARMA

Il complesso ha tre portali. Uno si apre sul lato settentrionale ed è chiamato della Vergine. Il secondo, che guarda a occidente, è detto del Giudizio e, per le regole liturgiche, costituisce l’ingresso principale. Il terzo, definito della Vita, è senza dubbio il più semplice. Evocano rispettivamente la nascita di Cristo, il suo ritorno per giudicare gli uomini e la possibilità di salvezza dalle tentazioni demoniache. L’ultimo, tuttavia, si differenzia dagli altri per la straordinarietà del contenuto. Nella lunetta c’è un bassorilievo che contiene una rappresentazione allegorica dell’esistenza umana. Al centro, tra i rami di un albero, siede un giovinetto con i piedi appoggiati al tronco.

La mano mancina estrae del miele da un alveare e l’altra lo porta alla bocca. Intanto, però, due roditori non facilmente definibili cercano di recidere le radici della pianta, mentre in basso un drago che sputa fiamme attende minaccioso che il ragazzo precipiti giù. Ai lati della pianta si vedono 4 tondi. L’inferiore a sinistra mostra il carro del sole trainato da due cavalli. Apollo impugna una frusta e punta verso la notte, quasi a voler fugare le ultime tenebre. Il superiore ritrae un profilo maschile che rappresenta il giorno. Nel medaglione in basso a destra si nota il cocchio della luna mosso da due tori, che Diana stimola con un pungolo. Intorno sono disposti due fanciulli nudi che suonano delle trombe e due bimbetti vestiti che cercano con dei bastoni di frenare la veloce corsa della biga. In quello più in alto si scorge la notte con una fiaccola e dietro la testa di un toro.


Il tessuto simbolico sembra quasi scontato e ricorda che l’esilio terreno è incessantemente consunto dall’implacabile incalzare del tempo, mentre le fauci dell’inferno attendono chi ha preferito la dolcezza dei piaceri effimeri al vero bene. In ogni modo i protagonisti del quadro non sono un’invenzione dell’artista. Prescindendo dai miti pescati tra i tesori della civiltà classica, lo scorcio ricalca fedelmente il succo d’un romanzo conosciuto nell’Europa occidentale a partire almeno dal X secolo. Si tratta dell’adattamento ellenico d’una leggenda popolare che parla di Josafat, figlio del re indiano Abenner. Costui decide di tenere il figlio nella bambagia, o meglio in un luogo di delizie, per evitare che subisca le sofferenze del mondo. Ma, nonostante tutte le precauzioni del padre, a un certo punto il principe incontra le cruciali testimonianze dell’infermità, della vecchiaia e della morte. E, incalzato dagli interrogativi che sorgono spontanei di fronte alle prove del dolore, sotto la guida dell’eremita Barlaam scopre la vita non edulcorata abbracciando la verità evangelica.


Un brano del libro, narrato dal maestro spirituale al nobile, racconta d’un uomo che, alla vista d’un unicorno imbizzarrito, fugge via a gambe levate ma finisce sul ciglio d’un burrone. Si aggrappa a un fuscello e pensa che da quel momento in poi può stare tranquillo. Ma, guardando bene, vede due sorci che stanno rosicchiando le radici dell’arbusto al quale è sospeso. Anzi, sono proprio sul punto di troncarle di netto. Allora scruta in fondo al burrone e scorge un mostro orribile, che spira fuoco dalle narici. Ha un aspetto torvo e minaccioso, spalanca ferocemente le fauci e non vede l’ora di divorarlo. A quel punto aguzza lo sguardo per esaminare la base d’appoggio su cui tiene puntellati i piedi. Nota quattro teste d’aspidi che si protendono fuori dalla parete rocciosa cui si tiene avvinghiato. Levando però gli occhi in alto, scopre che dai ramoscelli della pianta stilla qualche goccia di nettare. Allora cessa di preoccuparsi dei pericoli che lo circondano e si gusta in santa pace la zuccherata ghiottoneria. Orbene, l’aristocratico al quale la vicenda viene riportata non è altri che Siddharta. In sostanza, si è al cospetto della trasposizione in chiave cristiana della religione buddista.

Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria

L’Ordine del Drago in Calabria?

 

Sono anni ormai che grazie alla caparbietà e alla collaborazione della Prof.ssa Ines Ferrante dell’Associazione Culturale Mystica Calabria, abbiamo costantemente sotto la nostra lente di ingrandimento una città indagando su i suoi  misteri. Leggende e storie tramandate oralmente, ma anche documenti storici, simboli e prove concrete, toponimi che descrivono antichi territori percorsi da leggendarie gesta.  Parliamo di Castrovillari. Città antichissima al Nord della Calabria. Qui abbiamo riscontrato la presenza Templare in maniera distinta ed evidente, qui il video del nostro primo documentario:

sembra però che più passa il tempo, più le cose da verificare e da studiare aumentino. Avevamo iniziato questa ricerca già da un po, ma senza la possibilità di mostrare delle vere e proprie prove. Prove che invece sono adesso tangibili, vi raccontiamo quindi questa incredibile storia, in attesa di poter realizzare la continuazione del documentario su questa affascinante città, ricca di misteri e di intrighi. Che sempre più mostra incredibili collegamenti con personaggi e storie, mai nemmeno per scherzo accostate alla Calabria. 

Durante lavori di ristrutturazione di un’antica stalla, probabilmente l’unica che si può ancora vedere all’interno di in un palazzo nobiliare a Castrovillari, precisamente palazzo Baratta, è stata messa in luce, forse facente parte di una scala o di un muro realizzato con materiali di risulta, una pietra calcarea di tipo locale che mostrava alcuni strani segni incisi. Gli operai addetti ai lavori l’hanno sottoposta all’attenzione del proprietario, N.H.Paolo Baratta il quale ha notato che quei segni erano in effetti un chiaro disegno riproducente una sorta di serpente con la coda attorno al collo. Si tratta in realtà di un simbolo molto noto, utilizzato dall’Ordine del Drago o del Dragone, un ordine cavalleresco – militare fondato nel XV secolo e che tra i suo membri vantava il fior fiore della nobiltà europea ed alcune teste coronate, tra cui Re Alfonso V d’Aragona e suo figlio Ferrante, Giorgio Castriota Skanderbeg e Vlad II Basarab, voivoda di Valacchia e padre del ben più celebre Vlad III, Tepes cioè l’Impalatore, giunto sino a noi con il nomignolo di Dracula che in romeno significa “figlio del drago”. Il simbolo si trova inciso in una porzione della pietra che in qualche modo sembrerebbe essersi preservata poiché protetta dalla stessa muratura in cui si trovava. Potrebbe trattarsi di un gradino in pietra ricavato e scolpito da una lastra più grande, lisciato dall’utilizzo nel corso dei secoli e poi reimpiegato insieme ad altro materiale durante lavori di risistemazione della stessa stalla, forse per obliterare un vano di accesso. Non essendo possibile fornire una datazione precisa usando il metodo al radiocarbonio che si applica soltanto alla materia organica,  le analisi non ci possono dire molto sull’epoca in cui è stata realizzata l’ incisione che tuttavia, ad una prima analisi,  non sembra opera recente.  L’ enigma lapideo si infittisce quando si apprende che la storia stessa dell’ordine del Drago è ancora avvolta nel mistero.  L’atto di fondazione recitava: «Per segno ossia effigie scegliamo e accettiamo quella del Drago ricurvo a modo di circolo, girante su se stesso, con la coda attorcigliata al collo, diviso nel dorso in due parti, dalla sommità del capo e dal naso fino all’estremità della coda da un flusso di sangue uscente dalla spaccatura profonda di una ferita, bianca e priva di sangue, e sul davanti porteremo pubblicamente una croce rossa allo stesso modo di coloro che, militando sotto il vessillo del glorioso martire Giorgio, usano portare una croce rossa in campo bianco». Il drago agonizzante rovesciato su se stesso con una croce al centro indicava vittoria dell’Ortodossia Cattolica sull’Eresia e sul Male e la sconfitta di infedeli ed eretici. I suoi membri portavano al collo l’emblema a guisa di pendaglio e indossavano sull’ armatura una lunga tunica scarlatta e un mantello verde (a simboleggiare la pelle del drago ed il suo ventre insanguinato) fermato da una fibbia. Le insegne autentiche dell’Ordine oggi sono esposte all’Ehemals Staatliches Museum di Berlino e al Bayerisches National Museum di Monaco di Baviera. La fraternitas dei  “Draghi”  non fu un ordine cavalleresco come gli altri e il titolo di cavaliere non figurava tra i requisiti per l’ammissione nell’ordine. L’ordine del Dragone non aveva santi patroni né un quartier generale o assemblee periodiche. La vita dell’Ordine fu comunque breve e dei condottieri che ne hanno fatto parte si narra che abbiano sempre vinto le proprie battaglie,  salvo essere colti da morte improvvisa per malattia o essere stati traditi da altri membri dell’Ordine. Per quanto riguarda la storia locale ci si chiede cosa ci facesse un simbolo del genere a Castrovillari? A parte il legame con i “proprietari” del  castello aragonese, Alfonso d’Aragona e il figlio Ferrante (Re Alfonso V di Aragona creò un ramo parallelo dell’Ordine per combattere i pirati saraceni e Ferrante I per celebrare la vittoria del 1485 sui baroni del Regno fece coniare il famoso “coronato” con il drago dal volto umano, oggi moneta rarissima e di grandissimo fascino), non si conoscono altri personaggi del territorio che appartenessero all’ordine. Plausibile, invece, potrebbe essere che qualche nobiluomo della famiglia Baratta conoscesse le antiche vicende dell’Ordine e ne volesse reiterare la simbologia presente anche nel nome del casato, Dragone-Baratta. 

L’antica e nobile famiglia Baratta, protagonista indiscussa delle vicende sociali, economiche e culturali della città di Castrovillari, vantava tra i suoi appartenenti intellettuali, scrittori, politici, patrioti, medici (alchimisti?) e soprattutto massoni. Imparentati con gli Angioini e con i principi Sanseverino, la famiglia Baratta Dragone giunse a Castrovillari al seguito dei Normanni già nel XI secolo. Membri della prima loggia massonica e della prima setta liberale di stampo carbonaro  chiamata “Chiesa del Lagano” o “Chiesa di Lagaria”.  Inoltre, essendo in famiglia quel Dionisio Baratta senior, nato nella prima metà del XVIII secolo,  dottissimo medico, esoterico, fautore dell’alchimia operativa, massone, molto esperto anche in astrologia, «conoscitore di tutti i sistemi di medicina antichi e moderni», è probabile ch’egli stesso abbia fatto incidere quel simbolo molto significativo anche nel linguaggio alchemico ed esoterico: il drago è il «guardiano della soglia», custode del tesoro spirituale iniziatico che il neofita deve affrontare e vincere per compiere il proprio percorso iniziatico.  Tante le congetture e tante le ipotesi ancora tutte da verificare, resta il fatto che di questo simbolo  se ne possono ammirare soltanto pochissimi esempi in tutta l’Europa.

 

Ines Ferrante Mystica Calabria – Team Mistery Hunters

 

Un piacevole inganno, le Sirene

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QUI, PRESTO, VIENI, O GLORIOSO ODISSEO, GRANDE VANTO DEGLI ACHEI, FERMA LA NAVE, LA NOSTRA VOCE A SENTIRE. […]” ODISSEA, LIBRO XII, VV. 185-186

Da sempre le Sirene hanno affascinato l’immaginario collettivo dell’essere umano: donne meravigliose dalla voce incantevole, col potere di ammaliare le loro prede senza che esse se ne possano accorgere.

L’immaginario comune la descrive con testa e corpo di donna per poi assumere le sembianze di pesce: in realtà questa è la rappresentazione nordica di tale “mostro”, in Grecia il resto del corpo ha l’aspetto da uccello a causa dell’influenza egiziana, che identificavano in questi esseri le anime umane che hanno fallito il loro obiettivo e per tale motivo ritornano in questo mondo per divorare le anime sventurate che incappano in loro. Nelle leggende nordiche, invece, troviamo le Ondine: donne seducenti dai capelli azzurri che ammaliano le vittime sulle sponde degli specchi d’acqua. Diversamente dalle sirene greche, le ondine si mostrano ingannevolmente cortesi nello scortare i viandanti tra boschi e paludi per poi divorarli nelle profondità delle acque.

Il significato di questi mostri è chiaro: sono un avvertimento a non cedere alle tentazioni nei momenti più duri della propria esistenza. Sono tranelli posti dal desiderio e dalle passioni dal nostro inconscio, che viene rappresentato dalla seduzione a cui ci si abbandona senza alcun controllo. Rappresenta l’autodistruzione dell’essere umano nei momenti di difficoltà a cui ci vuole abbandonare per timore di un fallimento delle proprie capacità o per scegliere una via più rapida ma ingannevole e che porta esattamente alla vera distruzione.

Proprio come Ulisse legato all’albero maestro sofferente, dovremmo appigliarci saldamente alla realtà dei fatti e non distogliere l’attenzione dai nostri obiettivi, sebbene le tentazioni siano sempre in agguato.

Marco “DOC” Florio – Radio MH, Mistery Hunter

ALCHIMIA E SCIENZA MODERNA : ESEMPI DI LINGUAGGIO ERMETICO

Il principio fondamentale dell’Alchimia, cioè il concetto dell’UNITA’ della MATERIA (DA UNO IL TUTTO-IL TUTTO IN UNO),sul quale si fonda la possibilità di trasmutazione degli elementi, è la più sudata conquista della scienza nella nostra epoca. Durante il sec.XIX si pensava che essa fosse ormai uscita per sempre dal dominio nebuloso dell’Alchimia a causa della scoperta dell’immutabilità
e indivisibilità degli elementi che, in tutte le reazioni chimiche, dimostravano l’invariabilità dei pesi delle sostanze reagenti all’inizio e poi alla fine della reazione.
Nel sec.XX, con le nuove scoperte della fisica atomica, si comprende che l’atomo non è INDIVISIBILE nè IMMUTABILE e,quindi, la trasmutazione metallica è possibile, come asserivano gli antichi filosofi. Ciò ha portato ad una rivalutazione dell’Alchimia,anche se non ammessa ancora in via ufficiale,perché negli ambienti scientifici è sempre difficile ammettere i propri errori.
Tante sarebbero ancora le cose da scoprire e da imparare da uno studio serio, senza preconcetti, delle antiche scienze ermetiche,alla luce delle ultime scoperte della Fisica, della Chimica e dell’Astronomia, se la scienza attuale fosse capace di un po’ di umiltà e di rivedere le proprie certezze con spirito critico,perchè la finalità è la stessa(il potere sulla materia),ma lo scopo è diverso:mentre al filosofo ciò serve per comprendere il mondo, allo scienziato serve per dominarlo.

Tavola di Smeraldo.(E’ il cardine dell’Achimia)
E’ vero, senza menzogna,certo e verissimo: ciò che sta in basso è come ciò che sta in alto,
e ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso; mediante queste cose si compiono i miracoli
d’una sola cosa.
E poichè tutte le sono e provengono da UNA con la mediazione di UNA, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica per adattamento.
Il Sole è suo padre e la Luna sua madre. Il vento l’ha portata nel suo ventre.
La terra è la sua nutrice e il suo rifugio. Il Padre di ogni cosa, il Telesma del mondo è qui.
La sua forza o la sua potenza restano intatte, se essa è cambiata in Terra. Tu separerai il sottile dal grossolano, la terra dal fuoco, piano piano, con grande industria. Sale dalla terra e discende dal cielo e riceve la forza delle cose superiori e delle cose inferiori. Tu possederai con questo mezzo la gloria del mondo e tutta l’oscurità si allontanerà da te.
E’ la forza più forte d’ogni forza, perchè essa vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida.
In tal modo è stato creato il mondo. Da ciò deriveranno dei mirabili adattamenti, dei quali qui si indica il metodo.
Per questa ragione io sono stato chiamato ERMETE TRISMEGISTO,perchè posseggo le tre parti della filosofia universale.
Ciò che ho detto dll’OPERA è completo.

Dal testo ” La Turba dei filosofi”
Voi parlate assai oscuramente e troppo. Ma io voglio indicare completamente la Materia, senza tanti discorsi oscuri. Io ve lo ordino, o Figli della Dottrina: congelate l’Argento vivo.
Di più cose, fatene due, tre e di tre una.Una con tre è quattro. 4,3,2,1; da 4 a 3 vi è 1; da 3 a 4 vi è 1,
dunque 1 e 1, 3 e 4. Da 3 a 1 vi è 2, da 2 a 3 vi è 1; da 3 a 2 vi è 1. 1, 2 e 3 e 1, 2 di 2 e 1, 1.
Da 1 a 2, vi è 1; dunque 1. Vi ho detto tutto.

I TAROCCHI


I Tarocchi sono composti di 78 carte, divise in Arcani maggiori ( 22 carte), e Arcani minori ( 56 carte). La loro origine è controversa, ma sembra accertato che tutti i mazzi di carte da gioco conosciuti in Europa, derivino dai Tarocchi Lombardo-Veneziani, la cui origine rimane, però, un mistero. Pare che gli Arcani maggiori, detti anche Trionfi o Chiavi, fossero noti molto tempo prima della comparsa degli Arcani minori che, divisi in quattrro gruppi di 14 carte ciascuno, detti Semi ( Coppe, Spade, Bastoni e Denari), sono stati utilizzati quasi esclusivamente per il gioco. Oggi , nelle carte da gioco francesi, i quattro semi classici sono stati sostituiti come segue: Spade= Picche; Bastoni= Fiori; Coppe= Cuori; Denari = Quadri.


Se le cose sembrano abbastanza chiare per quanto riguarda gli A. Minori, si complicano molto nel caso dei Trionfi, che rappresenterebbero, con il loro simbolismo particolare, dei concetti esoterici attinenti alla sapienza degli antichi sacerdoti Egiziani di Khem. Le alte conoscenze detenute da costoro sarebbero state trasmesse, nel corso dei secoli, oralmente da maestro ad allievo, in tutta l’area che oggi è denominata Medio Oriente; in seguito sarebbero passate nel mondo Greco- Romano e, in epoca Alessandrina, sarebbero comparse le prime opere scritte che trattano di Filosofia Ermetica ( dal nome di Ermete Trismegisto, mitico fondatore della dottrina, detto ” tre volte grande”, perché in possesso delle tre parti della filofia: l’ Alchimia, la Magia e l’Astrologia). Tutte le dottrine esoteriche del passato, ed anche quelle che vanno per la maggiore ai giorni nostri, sono un derivato dell’antica Scienza Ermetica, introdotta nell’Occidente Cristiano dagli Arabi, durante il Medioevo. In questo particolare periodo storico, insieme ai primi testi di Alchimia, compaiono anche le prime versioni delle 22 carte degli Arcani maggiori dei Tarocchi, che, secondo alcuni studiosi di esoterismo dei secoli XIX e XX, contengono delle figure simboliche di chiara ispirazione Alchemica; esse rappresenterebbero una sintesi delle varie fasi della Grande Opera. Nell’ occultismo si attribuisce agli A. maggiori un’ importanza capitale,in quanto considerati un trattato di alta fiosofia, esposto per immagini. Una cosa è certa: queste carte particolarissime rimangono assolutamente mute per colui che non ha acquisito la facoltà di farle parlare; al contrario, esse possono dire molte cose a coloro che sanno interrogarle con sagacia. Il libro della Natura rimane, per noi, uomini moderni, chiuso da sette sigilli; le sue immagini ci sconcertano, poichè non comprendiamo più che le parole, la cui sonorità, purtroppo, ci stordisce completamente. Allo studioso di Scienze Ermetiche, gli Arcani maggiori dei Tarocchi appaiono come un’opera meravigliosa, in cui le figure, nella loro semplicità espressiva, nelle loro forme e nei loro colori, riescono a rivelare dei concetti universali, che possono essere espressi compiutamente solo mediante dei simboli, poichè il linguggio umano, diventato filosofico e preciso solo da poco tempo, è ancora inadatto ad esprimere dei concetti che appartengono ad un periodo particolare, in cui le parole si prestavano poco ad esprimere idee astratte.

Enrico Iaccino – Team Mistery Hunters

L’ALCHIMIA NEL MEDIOEVO

Tralasciando le leggende, possiamo affermare che le origini storiche dell’Alchimia occidentale si collocano in Egitto nei primi secoli della nostra era. Come già detto, all’Egitto riconduce il nome dell’Arte ( da KEME) e quello del suo mitico fondatore, Ermete Toth oltre a documenti attendibili che confermano la tradizione.
Con il passare degli anni il filone egiziano-alessandrino si arricchisce di elementi ellenistici e continua con il nome di Ermetismo nella letteratura gnostica pagana e cristiana. Dal V sec. d.C.
da Alessandria l’Arte passa a Bisanzio, ma è con gli Arabi, nel mondo Islamico, che l’Alchimia raggiunge il suo massimo sviluppo grazie all’opera di GEBER (VIII sec. d.C.), AL-RAZI e AL-FARABI(X sec. d.C.) per poi passare in Europa,sia attraverso la Spagna,sia in seguito a contatti diretti fra Oriente ed Occidente attraverso le Crociate.

Nell’alto medioevo, a partire dalla fine del sec.XI, inizia in Occidente il periodo d’oro dell’Alchimia,che si protrarrà fino al Rinascimento: re, papi, principi,mercanti,scienziati,gente comune,si avvicinano a questa dottrina: molti con il miraggio di riuscire a realizzare la trasmutazione metallica,pochi con l’intento di esplorare e comprendere i segreti della natura.
Nell’ambito della cultura cristiana (S. Alberto Magno,XII-XIII sec,S. Tommaso d’Aquino, Ruggero Bacone, Arnaldo di Villanova, Raimondo Lullo, Nicola Flamel,Basilio Valentino, Bernardo Trevisano) l’Alchimia si presenta come una filosofia della Natura, contrassegnata da due aspetti fondamentali: la SEGRETEZZA e la presenza costante di un Momento Operativo, accanto a quello Teoretico. Essa era e rimane, nei secoli successivi, un’Arte di carattere squisitamente esoterico, con un linguaggio ed un simbolismo particolari.

In questo particolare periodo (inizio del sec. XII) nasce l’Ordine dei TEMPLARI; nell’arte compare lo stile GOTICO e si sviluppa la FRANCA MASSONERIA, elementi,questi, che meritano un discorso a parte per la loro importanza nell’ambito della scienza alchemica.

Altro elemento importante è la nascita di una nuova scienza, parallelamente all’Alchimia, destinata ad evolversi in modo autonomo: la CHIMICA. Essa incomincia a svilupparsi ad opera dei cosiddetti
Spagiristi o Soffiatori,cioè degli aiutanti di laboratorio dei Filosofi che, basandosi sul significato letterale dei termini usati dai loro maestri(zolfo, sale, mercurio,antimonio, magnesia, etc.) presero
ad operare autonomamente con queste sostanze, facendole reagire fra di loro e realizzando, così,
molti dei composti chimici che oggi conosciamo e a cui nessuno nega una loro importantissima utilità. Ma l’Alchimia è una cosa diversa!

Enrico Iaccino – Team Mistery Hunters

Le Fate Tessitrici

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La figura della fata la ritroviamo come rappresentazione di un essere femminile spirituale, immerso nella natura, fra boschi e fiumi. La sua visione nell’immaginario collettivo, è quella di una creatura protagonista unicamente di racconti fiabeschi, ma basterà fare qualche semplice ricerca un po’ più approfondita per trovare la vera origine di questa figura mitologica. Questa infatti, sembra ereditare tutte le caratteristiche dalla ninfa, divinità minore della mitologia greca, dall’aspetto di bellissima fanciulla eternamente giovane. Il termine greco νύμφη (nýmphe, “fanciulla”) ha la stessa radice del verbo latino nubere, “prendere marito” (da cui la nostra “nubile”). Sono benefattrici e rendono fertile la natura. Proteggono i fidanzati che vanno a bagnarsi nelle loro sorgenti, ispirano gli esseri umani, sono guaritrici di mali e di ferite ma a volte possono diventare malevole e capricciose. Amanti di dei e di comuni mortali, le ninfe cantano felici nel luogo a loro consacrato. Dalle loro unioni con mortali nacquero molti semidei.
Proprio questa particolare figura leggendaria della fata, la si può ritrovare presente nel folklore calabrese, fra storie di streghe, santi, draghi e tesori, in un misto di elementi medievali, celtici e di mitologia greca.
Una dei primi racconti che presi in considerazione in un mio precedente articolo riguardante le fate, era una leggenda originaria del paese di Jonadi nel vibonese “La Fata dei Campi”; ma di fate non si parla solo a Jonadi ma anche a Cetraro (CS) dove “una fata benevola fa immancabilmente trovare tutti i giorni un tesoro sulla spiaggia”; a Guardia Piemontese (CS); Nel Pollino, dove si parla di “fate invisibili”; ed in alcune leggende che invece riguardano il territorio di Reggio. Ma sorpresa più grande fu per me, quando fra i commenti del mio articolo sulla fata di Jonadi, un mio lettore abitudinale nonché caro amico, mi fece notare che di queste misteriose creature ve ne era traccia anche negli antichi racconti del mio paese: Petilia Policastro (KR).

Questi incontri avvenivano, raccontano i nostri anziani, in un luogo già di per sé avvolto nel mistero: trattasi di un antico ponte “Il Ponte Gallina”.

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Ponte Gallina, Petilia Policastro KR, foto di Francesco Ierardi (2015)

Dunque riscontriamo ancora una volta la caratteristica delle fate: ovvero quella di girovagare presso i corsi di fiume. Ancora dalla stessa fonte, ne riportiamo altre informazioni molto particolari: tanti anni fa quando la gente era più buona e più sincera, sotto il Ponte Gallina c’erano delle fate che tessevano, ed ogni tanto si sentivano gli strumenti usati.

Erano delle donne alate, bionde dai capelli lunghi, che filavano e che si facevano vedere solo dai puri di animo, dalla gente senza malizia, e che alcune volte anche se non le si vedevano, si sentivano i rumori attinenti al lavoro della tessitura.

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Dunque, in questa trascrizione sulle fate del Ponte Gallina si fa un appunto molto importante: nessuno ha mai realmente visto queste creature tessere fisicamente al telaio, ma che nelle loro vicinanze era solito udire un rumore attinente al lavoro di tessitura. Quale potesse essere la
reale natura di questi rumori rimane per noi un totale mistero.

Ma la figura della “fata tessitrice” non è un’esclusiva dei racconti di Petilia Policastro; spostandoci nelle montagne della Sila (Altopiano che si estende in Calabria, tra le province di Cosenza, Crotone e Catanzaro) ritroviamo una curiosa leggenda che recita così:

In cima al “Colle dei fiori” c’è un enorme macigno perfettamente squadrato, dentro cui dimorano fate industriose che dall’alba al tramonto tessono drappi di seta a telai fatti coi rami di un pioppo tutto speciale. Si dirà: è vero che sono fate, ma come riescono a tessere col buio pesto che certamente regna all’interno del macigno? Caratteristica del pioppo in questione è quella d’avere delle foglie giallo-oro che, specie d’estate emanano una luce vivissima e sembrano luminarie: quindi… E nei giorni quieti, senza vento, a poggiare l’orecchio al macigno si può udire al suo interno il fruscio della seta, il tricche-tracche-tra dei telai, ed il bisbiglio delle fate che mentre tessono si raccontano le storie, per loro fantastiche, degli uomini.

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Megaliti di Nardodipace (VV)

Ebbene, anche in questa leggenda della Sila, come abbiamo potuto leggere poco sopra, si realizza questo particolare accostamento della figura fantastica, poi vedremo quanto, delle fate, al rumore del lavoro al telaio.

Ma la mia ricerca per scoprire la natura di questi misteri legati alle fate continuò, così presi in considerazione la possibile lettura di un qualche libro sul mondo celtico, che per primo balzò nel mio interesse come possibile fonte dove attingere altro materiale di approfondimento a riguardo; mai scelta fu più azzeccata! mi feci capitare fra le mie mani il libro: “Il Regno Segreto” di Robert Kirk, ministro di culto presbiteriano del 1600, che si addentrò in una affascinante indagine raccontando di questi misteriosi esseri (Spiriti, Fate, Folletti) e delle facoltà di coloro che possiedono la seconda vista e sono in grado di vederli, basandosi soprattutto su testimonianze di prima mano.

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Sconcertati le analogie tra le trascrizioni di Kirk e i racconti calabresi;
ed altrettanto sconcertanti le altre caratteristiche associate a queste misteriose presenze.

Ma leggiamo ora il testo di nostro interesse:

“Li Chiamano il buon popolo, di natura intermedia fra l’uomo e l’angelo e li si ode, qualche volta, battere materiali a fare altri lavori del genere entro le piccole colline che essi abitano.”

“Le loro case sono grandi e belle, come le nuvole, con illuminazione di lampade e fuochi perpetui senza alcun combustibile per mantenerli.”

“Talvolta nei loro mondi sotterranei, si dice, che le loro donne filano e tessano molto, cose materiali, raffinate simili a strane ragnatele, con strumenti adatti e solidi.”

“Hanno libri misteriosi stile rosacrociano; Hanno armi sovraumane, come di pietra simile alla selce gialla, della natura del folgore e che feriscono anche mortalmente ma senza tagliare la pelle”

Ed ecco che le fate che abitano i boschi calabresi sembrano essere proprio le stesse donne di questo misterioso “buon popolo” di cui ci parla R. Kirk nella sua opera; popolo con armi sovraumane ed altri strani congegni, che ancora una volta ci riportano a pensare a delle reali capacità di matrice tecnologica di esseri evoluti venuti a visitare il nostro pianeta in tempi remoti.

E se qualcuno ancora non fosse contento di queste sorprendenti e inesplicabili analogie, provando magari a spiegare il tutto come un semplice retaggio tratto dalle antiche popolazioni indoeuropee, possiamo menzionare alcune fondamentali righe del testo della leggenda: “La Donna Ragno” leggenda originaria della tribù dei nativi americani “Navajo”:

“Poiché la Donna Ragno aiutava le persone, i Dine (altro modo di chiamare la tribù dei Navajo) la considerarono tra i più importanti ed onorati Dei. Essa scelse la Roccia del Ragno come dimora e fu lei stessa che insegnò agli avi dei Navajo l’arte di tessere con il telaio.”

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Spider Rock, dimora della Donna Ragno

di Francesco Ierardi – Team Mistery Hunters

Templari ed Alchimia

Denominato BEAUCEANT ( bello dentro?), era costituito da una croce patente ROSSA, in campo diviso in due parti uguali, di cui una NERA ed una BIANCA. E’ una chiara allusione alle tre fasi della Grande Opera ( Nigredo o opera al nero; Albedo o opera al bianco; Rubedo o opera al Rosso).

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LA CROCE PATENTE.
La croce greca (a bracci uguali), diversa dalla croce Cristiana,è un simbolo antichissimo ed era stata adottata dai Templari che l’avevano posta sulle loro bandiere, sugli scudi, sui vestiti e nei luoghi di culto. La sua forma particolare( i bracci si allargano,a partire dal centro, verso le estremità) ed il colore rosso, hanno fatto di questo tipo la Croce Templare per antonomasia.
In Alchimia la croce greca ( +) e la croce di S. Andrea ( X) hanno lo stesso significato: Rappresentano il crogiolo nel quale la materia, l’Amalgama o Rebis, si trasforma. Più in generale, rappresentano il geroglifico, ridotto alla più semplice espressione, delle radiazioni luminose e divergenti, emanate da un’unica sorgente.

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L’OTTAGONO
In diverse costruzioni e simboli inerenti direttamente ai Templari, o in cui è evidente la loro influenza ( Castel del Monte), compare la figura dell’Ottagono. Come simbolo Ermetico, esso nasce dalla fusione della croce greca con la croce di S, Andrea; la prima rappresenta la Luce-energia ; la seconda, la Luce-forma. Dalla figura dell’ottagono i Templari ricavarono la Croce delle Beatitudini,
che in seguito fu adottata dai Cavalieri di Malta, ed il loro alfabeto segreto. La fusione delle due
croci, racchiusa da una circonferenza, costituisce la ruota ad otto raggi, che in Alchimia è il
simbolo del Fuoco di Ruota; un fuoco duplice, animatore del Rebis,”che fa girare la ruota e
muovere il perno”.

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IL FIORE DELLA VITA. E’ un simbolo Celtico che oggi viene chiamato anche”Sole delle Alpi”, ed è ricavato dall’ esagono o stella a sei punte, che in alchimia è il simbolo dell’unione dei Quattro Elementi.

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LA TRIPLICE CINTA.
E’ un simbolo che si trova in varie versioni nelle Cattedrali Gotiche, ed in diversi edifici di culto che
nel Medioevo hanno visto la presenza dei Templari o dei Cistercensi, oppure hanno sentito la loro influenza. E’ anche questo un simbolo molto antico, risalente alla cultura Celtica. Nel simbolismo ermetico, la terra è rappresentata da un quadrato, ed i tre quadrati,legati fra di loro, potrebbero indicare un luogo di particolare sacralità, in cui sono più intense le energie magnetiche,telluriche e cosmiche, necessarie per la realizzazione della Grande Opera.

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IL CENTRO SACRO.
E’ l’unione delle due croci (+ e X) racchiuse da un quadrato ed è presente in alcuni luoghi, insieme alla Triplice Cinta. Il centro della figura è rappresentato da un punto, posto in evidenza, o da un piccolo cerchio. La X nella dottrina Ermetica è anche l’emblema della Misura (metron),presa con tutte le sue accezioni: dimenzioni, superficie, spazio, durata, regole, legge, confine o limite. Tutti i corpi della natura, tutti gli esseri, sia nella loro struttura, sia nel loro aspetto, obbediscono alla legge fondamentale dell’ IRRAGGIAMENTO ; tutti sono sottoposti a questa misura.
Sottomessa all’azione coordinatrice del quaternario degli elementi, la sostanza caotica indfifferenziata ( O ), rappresentata dal punto o dal piccolo cerchio al centro della due croci, si trasforma in materia suscettibile di essere percepita dai sensi, rappresentata dal quadrato (assume forma, qualità e misura).

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LE CATTEDRALI GOTICHE.
Definite da Fulcanelli “libri esoterici di pietra”, furono costruite improvvisamente in Europa a partire dal 1128, proprio dopo il ritorno dei cavalieri Templari dalla Terrasanta, con una maestria costruttiva tecnica ed architettonica completamente diversa dalle precedenti chiese Romaniche.
Sens, Evreux, Rouen, Reims, Amiens, Bayeux, Parigi, Chartres sono le più importanti. La loro costruzione materiale fu affidata a tre Corporazioni di muratori che agivano alle dirette dipendenze dell’ Ordine del Tempio: gli Enfants de Salomon; gli Enfants du Maitre Jaques e gli Enfants du Père Soubise. I costruttori materiali delle Cattedrali ed i conoscitori delle tecniche necessarie ( Maestri) godevano di particolari privilegi, accordati loro dai Templari e per questo presero il nome di
Franc- Maçons ( Liberi Muratori o Frammassoni), in inglese Free-Maçons. I piani di costruzione e tutti i progetti originari non furono mai trovati. Le Cattedrali sono poste tutte allo stesso modo come orientamento ( si entra da Ovest e si procede, lungo la navata centrale, verso Est; dall’oscurità alla luce); sono tutte dedicate a Notre Dame, cioè alla Vergine Maria e sono state costruite su alcuni luoghi già considerati Sacri e dedicati al culto della “Grande Madre”, diffuso prima del Cristianesimo. La pianta di questi edifici è quella della croce latina, formata dalla navata e dal transetto; se ad essa aggiungiamo l’abside, si ha la Croce Ansata Egizia, detta ANK, simbolo ermetico dell’ Energia universale, nascosta nelle cose. L’orientamento delle Cattedrali sul territorio è tale che tutta la struttura diventa un simbolo della Grande Opera Alchemica. Il rosone del transetto esposto a N-E, non è mai illuminato dal sole (Opera al Nero); quello esposto a S-O, è illuminato dal sole brillante di mezzogiorno ( Opera al Bianco); quello centrale, sopra il portale della navata, esposto a N-O, è illuminato dal sole rosso del tramonto ( Opera al Rosso).

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IL LABIRINTO.
Nelle cattedrali, all’incrocio della navata con il transetto, si trova una figura misteriosa, tracciata sul
pavimento e denominata Labirinto. Si compone di una serie di cerchi concentrici che si ripiegano gli uni sugli altri con una grande varietà di combinazioni. Un tempo al centro di questa figura si trovava il duello tra Teseo ed il Minotauro. Esso è l’ emblema dell’intero lavoro dell’Opera, con le sue maggiori difficoltà: quella della strada da seguire, per raggiungere il centro,( nel quale si scatena il duello tra le due nature) e quella della strada che bisogna seguire, per uscirne; cosa, questa, che si riesce a fare solo con l’aiuto del filo di Arianna.

labirinto di alatri

LE MADONNE NERE.
Le Cattedrali Gotiche sono adornate da un gran numero di statue e bassorilievi che racchiudono un significato simbolico di difficile interpretazione. Inoltre, sono dotate quasi sempre di una cripta,
in cui si trova la statua di una Vergine Nera (Madonna Nera). Un tempo i sotterranei dei templi servivano come dimora delle statue di Iside, ed esse diventarono, al tempo dell’introduzione del Cristianesimo, quelle Vergini nere che il popolo, ancora oggi, circonda di una venerazione tutta particolare. Il simbolismo tra le due raffigurazioni è lo stesso. Sul loro basamento c’è la stessa scritta
“Virgini pariturae”, ( alla vergine che deve partorire). Iside rappresentava “la terra prima di essere fecondata”, e questo è anche il senso esoterico delle nostre Madonne nere. Esse rappresentano,nella simbologia ermetica, la “terra primitiva”, quella che l’artista deve scegliere come soggetto della grande Opera.

IL BAPHOMET.
Il Baphomet, del quale non si posseggono che vaghe indicazioni e sul quale sono state fatte solo delle ipotesi, non fu mai un idolo venerato dai Templari al posto di Dio e di Gesù, come molti hanno creduto, ma soltanto un emblema completo delle tradizioni ermetiche dell’ Ordine. Usato come paradigma esoterico, sigillo della Cavalleria e segno di riconoscimento, veniva riprodotto sui gioielli, sul frontone delle commende e sui timpani delle cappelle. Immagine sintetica nella quale i Templari avevano raccolto tutti gli elementi dell’ Alta Scienza e della tradizione, costituì uno dei principali capi di imputazione nei processi intentati contro l’Ordine.
Baphomet-Fulcanelli

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I SIGILLI.
Il più importante e il più rappresentativo dell’ordine è quello in cui compaiono due cavalieri che montano lo stesso cavallo, interpretato dai più come simbolo di povertà o del dualismo monaco-soldato. Nell’ ermetismo, quando in un’immagine compare un cavallo, essa va intesa in modo cabalistico, per cui i due cavalieri possono anche rappresentare il Rebis ( cosa doppia) filosofico.
I templari adottarono, nei loro sigilli, anche il simbolo dell’ ABRAXAS, contornato dalla scritta
“segreto del tempio”; esso compare anche su pietre e manoscritti.

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Enrico Iaccino – Team Mistery Hunters