Il Castello Templare di Roseto

E’ dal 2012 ormai che come associazione abbiamo aggiunto alle nostre ricerche quella storica, principalmente sulla storia del Sud Italia e della nostra Calabria in particolare. In questo percorso la nostra attenzione si è focalizzata sulla storia dei Templari e della loro presenza e sulle loro gesta avvenute nella nostra Regione.
Abbiamo incontrato molte persone e visto tanti luoghi, possiamo citare Castrovillari, Cosenza, Morano Calabro, Malvito, per citarne alcuni, l’ultima, per ora, tappa è stata al Castello di Roseto Capo Spulico.

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Sapevamo della bellezza del luogo, e sapevamo che avremmo trovato qualcosa di interessante. Ma in realtà per una giornata ci siamo completamente dimenticati di essere in Calabria e anzi sembrava di essere in un Castello in Scozia o nel Nord della Francia. A ricordarci dove eravamo è stato lo splendido sole. Perchè questo? Per la elegante e cortese accoglienza da parte della Famiglia Cosentino, di Michele in particolar modo, il quale ci ha guidato in maniera impeccabile tra le splendide stanze del castello, facendoci da cicerone.

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Ci ha colpito soprattutto la bellezza del posto, che inevitabilmente quando si vive e si calpesta, rende tutto un pò magico, per un’istante mi son sentito Cavaliere anche io.

Qui tutto parla di storia dalle lastre di pietra nel mare sottostante al più piccolo mattone. Sfiorare quelle mura insinuarsi nelle scale del castello ci avvicina a quella grande personalità che era Federico II.

Qui i misteri sono tangibili, non vi è bisogno di immaginarli, qui sembra di essere a Rosslyn o a Rennes le Chateau. Certo sono rimasti piccoli segni, ma abbastanza per far capire la grandezza e la magnificenza di questo piccolo avamposto. Il Castello di Roseto Capo Spulico, è un castello fortificato a difesa della costa dell’Alto Ionio Cosentino, risalente ad epoca normanna, ricostruito nel Duecento per volontà dell’imperatore e re di Sicilia Federico II di Svevia, rimaneggiato più volte fino al secolo XVI.

Nel XIII secolo fu requisito da Federico II ai Cavalieri Templari, per ritorsione verso il loro tradimento durante la VI crociata in Terra Santa, e divenne fortezza prettamente militare; dai registri angioini si conosce l’entità della guarnigione assegnata alla fortezza, che nel 1275 risulta composta dal castellano, uno scudiero e da dodici guardie. Già la sua pianta trapezoidale testimonia il riferimento al tempio di Gerusalemme e basti leggere nelle antiche mappe catastali, Foglio 34 del Comune di Roseto Capo Spulico, i nomi delle contrade che circondano il maniero per confermare detta ipotesi: a Nord del Tempio troviamo il fiume Giordano che poi scende verso Est; a Nord troviamo la terra Giordana con il primo paese di Montegiordano, confinante col maniero; a Sud leggiamo il nome di Piano d’Orlando, che richiama Re Artù ed i Cavalieri della Tavola Rotonda alla Ricerca del Sacro Graal; ad Ovest leggiamo il nome di Piano di Salomone, il re costruttore del Sacro Tempio di Gerusalemme; ad Est l’acqua dello Jonio, come a rappresentare l’acqua del Giordano che scende da Nord verso Est, rispetto alla Città Santa. A conferma rileviamo i seguenti segni esoterici inseriti su un imponente portale in stile gotico:

la rosa crociata, i petali di giglio,

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il cerchio di Salomone e lo stemma con grifone,
emblema del casato Svevo. Ed ancora: un onfale con sopra incisi i segni della Passione di Cristo con l’Agnus Dei,

il tetragramma di Heavè, una croce cristiana all’ingresso del piano terra e, sul cornicione di detto ingresso, i numeri romani che richiamano i versetti di inno ad Allah del Corano. Segno che Federico credeva nella unione delle tre religioni monoteiste.
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Il castello è di forma trapezoidale ed ha tre torri di avvistamento possenti, una delle quali più alta, merlata e a pianta quadrangolare. Il Castello è stato costruito su di un luogo che con molta probabilità ha o aveva una particolare energia se consideriamo che dapprima vi era un tempio dedicato a Venere, poi un monastero e infine una postazione Templare, prima di passare nelle mani di Federico II, il quale lo lasciò come unico castello in dote al suo unico figlio legittimo.

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Qui potrete vedere il Documentario realizzato con in dettaglio tutto quello che lì abbiamo trovato.

Credits:
Documentario:Aurelio Gioia
Foto:Alfonso Morelli

Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

I Miti e le Leggende più Interessanti della Calabria

Che la Calabria sia una terra intrisa di storia, è cosa ormai nota. Più di quanto si possa immaginare. In questo scorrere del tempo, la “Storia” si è imbevuta di tante leggende e miti. Questi spesso si intrecciano con la storia dei luoghi e il sottile tra storia e leggenda resta sottilissimo. Altre volte sono evidenti tracce mitiche che sono state tramandate nel tempo, ma che restano affascinanti e ci dovrebbero far capire, come la Calabria sia spot di se stessa semplicemente raccontandosi. Abbiamo trovato in giro per il web e su alcuni libri, di autori Calabresi diverse leggende e miti, ne citeremo solo alcuni da noi ritenuti interessanti.

Le bocche dell’inferno a Cessaniti

Nella periferia di Cessaniti in Provincia di Vibo Valenzia c’è una zona conosciuta dalla gente del luogo come “vucchi du ‘mpernu” (bocche dell’inferno). Un luogo misterioso, dove nel terreno accanto alle radici di giganteschi ulivi secolari ci sono delle grandi cavità dalla forma circolare quasi perfetta, profonde più di quaranta metri, delle buche da cui escono fortissime correnti d’aria. Secondo la leggenda il diavolo dimora lì sotto e le correnti sono il suo respiro; secondo un’altra leggenda ci vivono dei piccoli folletti vestiti di rosso, molto dispettosi. Una terza leggenda narra che in questo luogo si nasconde Lamia, un mostro donna che si nutre di sangue umano. Si narra che queste bocche un tempo ingurgitarono tutto il centro abitato.

Pietra Kappa in Aspromonte

Una leggenda legata a Gesù ed agli apostoli aleggia in prossimità di un monolite ai piedi dell’Aspromonte. Si narra che Gesù camminava insieme ai suoi apostoli e ad un certo punto avvertirono un senso di fame. Gesù propose di fare una penitenza, invitando gli apostoli a prendere una pietra ed a portarla fin su in montagna. Tutti gli apostoli presero pietre abbastanza pesanti e si incamminarono verso la vetta. Solo Pietro prese un piccolo ciottolo e si avviò. Arrivati in cima le pietre si trasformarono in pane e mentre gli altri apostoli si ritrovarono con delle belle pagnotte, Pietro si dovette accontentare di un misero pezzo di pane, grande quanto il ciottolo che aveva trasportato. Per ricordare l’episodio Pietro chiese a Gesù di lasciare lì quella pietra e sfiorandola essa diventò gigante, al punto da ricoprire tutto il terreno circostante. Successivamente Pietro decide di imprigionare in quel masso la guardia che schiaffeggiò Gesù al Sinedrio. La leggenda narra che la guardia sia stata condannata a schiaffeggiare le pareti della roccia e che chiunque passi da lì sente i suoi lamenti e le sue grida.

Fata Morgana

Una delle più belle e affascinanti leggende che vi sono in Calabria è sicuramente questa. Chi è riuscito a “vedere” questa magia ne è rimasto colpito. E’ la Fata Morgana, un fenomeno ottico simile a un miraggio che si può osservare dalla costa calabra quando aria e mare sono immobili. La leggenda racconta che anche Ruggero I d’Altavilla fu incantato dal sortilegio. Per indurlo a conquistare la Sicilia, con un colpo di bacchetta magica la Fata Morgana gliela fece apparire così vicina da poterla toccare con mano. Ma il re normanno, sdegnato, rifiutò di prendere l’isola con l’inganno. E così, senza l’aiuto della Fata, impiegò trent’anni per conquistarla. La costa siciliana, vista da quella calabrese, sembra distare pochi metri. Si possono distinguere molto bene le case, le auto e addirittura le persone che camminano nelle strade di Messina. Il tutto avviene quando sulla superficie del mare, minuscole goccioline di acqua rarefatta, fanno da lente di ingrandimento. Il fenomeno prende nome dalla Fata Morgana della mitologia celtica.
Questa è un’altra versione del mito della Fata Morgana. Era agosto, il cielo e il mare erano senza un alito di vento, e una leggera nebbiolina velava l’orizzonte, durante le invasioni barbariche dopo avere attraversato tutta la penisola, un’orda di conquistatori giunse alle rive del mare Jonio nella città di Reggio Calabria e si trovò davanti allo stretto che divide la Calabria dalla Sicilia. A pochi chilometri sull’altra sponda sorgeva un’isola con un gran monte fumante, l’Etna, ed il Re barbaro si chiedeva come fare a raggiungerla trovandosi sprovvisto di imbarcazioni quindi impotente davanti al mare. All’improvviso apparve una donna meravigliosamente bella, che offrì l’isola al conquistatore, e con un cenno la fece apparire a due passi da lui. Guardando nell’acqua egli vedeva nitidi, come se potesse toccarli con le mani, i monti dell’isola, le spiagge, le vie di campagna e le navi nel porto. Esultando il Re barbaro balzò giù da cavallo e si gettò in acqua, sicuro di poter raggiungere l’isola con due bracciate, ma l’incanto si ruppe e il Re affogò miseramente. Tutto infatti era un miraggio, un gioco di luce della bella e sconosciuta donna, che altri non era se non la Fata Morgana. Il fenomeno si ripete ancora oggi nei giorni calmi e limpidi d’estate, nelle acque della riva di Reggio.

Scilla e Cariddi

Cariddi, nella mitologia greca era un mostro marino, figlia di Poseidone e Gea, che formava un vortice marino, capace di inghiottire le navi di passaggio. La leggenda la situa presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all’antro del mostro Scilla. Le navi che imboccavano lo stretto erano costrette a passare vicino ad uno dei due mostri. In quel tratto di mare i vortici sono causati dall’incontro delle correnti marine, ma non sono di entità rilevanti. L’espressione «essere tra Scilla e Cariddi», indica il rischio di sfuggire ad un pericolo per correrne un altro. Secondo il mito, gli Argonauti riuscirono a scampare al pericolo, rappresentato dai due mostri, perché guidati da Teti madre di Achille, una delle Nereidi.Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell’Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo. Scilla è una figura della mitologia greca, era un mostro marino. La leggenda vuole che dimori sotto il promontorio di Scilla, da cui uscirebbe di tanto in tanto scatenando spaventose tempeste e terrorizzando i naviganti che possono solo sperare nell’intervento di Glauco, trasformatosi in un tritone marino per amore della ninfa, che emerge a placare i venti ogni volta che infuria la tempesta. Nell’Odissea, Omero la descrive come un’immortale, figlia della dea Crateis. La indica come un mostro con sei teste e dodici gambe, che strappava i marinai dalle loro navi, quando, per evitare i vortici di Cariddi, si avvicinavano alla sua tana. Altre tradizioni la indicano come figlia di Forci e di Ecate. La fanciulla era amata da Poseidone, Anfitrite ne era gelosa ed avvelenò l’acqua nella quale si bagnava e la trasformò in mostro. Scilla viene talvolta indicata come la personificazione della piovra che vive nelle acque del Mar Mediterraneo.

Il Mito di Ligea

Ligea è una figura della mitologia dell’antica Grecia e di Roma. Nell’arte greca, fin dal periodo arcaico, fu raffigurata con busto di donna dalle braccia nude e con corpo di uccello con coda e ampie ali. Compare in statue isolate e in rilievi ad ornamento di tombe, generalmente in atto di suonare la cetra, oppure in vasi dipinti, mosaici, pitture, sarcofagi romani. Considerate originariamente geni della morte, le sirene, capaci di ammaliare gli uomini, hanno avuto larga parte nell’Odissea di Omero quali tentatrici, con il loro canto, del re Ulisse.
La loro sede fu variamente localizzata nell’Italia meridionale, mentre il loro numero variò da due a quattro. Erano considerate figlie di Forci e di Ceto. La leggenda dice che, compagne di giochi di Persefone, per non aver salvato dal rapimento da parte di Plutone la figlia di Demetra, furono da questa trasformate in sirene.
Nel 1998 su Piazzetta S. Domenico, nel mio paese, a Nicastro (oggi Lamezia Terme), in Calabria, hanno inaugurato una statua, opera dell’artista napoletano Dalisi, dedicata alla sirena Ligea.
Secondo la leggenda Ligea, la più piccola delle sirene, come le sue consorelle, subì un tragico destino. Decisa a morire, si affidò al mare in tempesta da cui si fece trasportare senza opporre resistenza finché non arrivò al Golfo di Sant’Eufemia. Fu trovata morta dai marinai sulla riva dell’Ocinaro, dove fu sepolta. Su una piccola isola formata da materiale ghiaioso trasportato durante le alluvioni fu eretto un gran monumento a suo ricordo. Si ipotizza che l’Okinaros altro non fosse che il fiume Bagni, la cui foce a quell’epoca molto frastagliata era circondata da una vegetazione molto fitta.
“O viandante, se vorrai conoscere il percorso della sirena Ligea che sarà spinta dai flutti a Terina…I Faleri la seppelliranno nelle arene del lido contiguo ai vortici dell’Ocinaro dove era anche il sepolcro del Marte dalle corna di bue, dovrai attraversare la Via Traiana, raggiungere Terina dal Golfo Terineo o Lametino…”
Gli abitanti di Terina furono dispersi da Annibale nel 203 a.C., ma la vera fine di Terina fu opera dei Saraceni nel 950 circa, che, distruggendo Lamezia (oggi Sant’Eufemia) e Aiello, distrussero Terina che si trovava tra queste due.
L’interrogativo sull’esatta individuazione di Terina, città della Magna Grecia, fondata dai Crotoniati nel corso del VI secolo a. C., rimane ancora senza risposta e solo dopo che sarà trovata sarà anche possibile trovare il monumento sepolcrale eretto a Ligea.
Ligea è raffigurata in varie monete di Terina: in alcune è seduta su un cippo mentre gioca con una palla lanciata con la mano destra, in altre riempie un’anfora con l’acqua che esce dalla bocca di un leone.

L’assedio del castello Normanno di Stilo

Secondo una leggenda, nell’anno 982, il califfo arabo Ibrahim Ibn Ahmad partì dalla Sicilia per nuove conquiste nella Calabria bizantina. Quando giunse in prossimità di Stilo, fu avvistato dagli abitanti della zona che, per ordine del “granduca”, su suggerimento di San Giorgio, protettore di Stilo, tutta la popolazione si rifugiò all’interno del castello normanno. Il califfo turco considerando che era quasi inaccessibile raggiungere il castello, avendo una sola via di accesso stretta e angusta, percorribile da una persona alla volta, in fila indiana, decise di assediarlo e attendere di poterlo conquistare “per fame” quando le provviste si sarebbero esaurite. Arrivò il tempo che le provviste all’interno del castello cominciarono a scarseggiare, aumentava così la preoccupazione per una resa ormai prossima. Il granduca, nella disperazione del momento, astutamente, tentò uno stratagemma per far desistere il nemico dal suo intento di conquista. Fece raccogliere il latte delle donne che avevano avuto dei figli da poco e con lo stesso fece fare una grossa ricotta che sparò contro gli Arabi appostati fuori le mura. Gli invasori si convinsero così che nel castello avessero grandi riserve di cibo se si permettevano il lusso di usarlo come proiettile contro il nemico e quindi l’assedio si sarebbe protratto ancora per molto tempo. Tra l’altro il califfò mangiò la ricotta ammalandosi di dissenteria che, erroneamente curata con decotti di salvia dai suoi medici, peggiorarono ulteriormente la malattia. A prendere il comando dell’esercito musulmano fu il nipote del califfo, Gabir, che decise di togliere l’assedio al castello e ritarsi. Il luogo in cui la ricotta che permise di liberare il castello dall’assedio Arabo fu chiamato “Vinciguerra”, denominazione tutt’oggi esistente.

L’oracolo di Capo Vaticano

A lungo considerato luogo inaccessibile e sacro, Capo Vaticano, con il suo promontorio magico, si affaccia sul mar Tirreno nella provincia calabrese di Vibo Valentia. La magia salta agli occhi già dal nome: Vaticano deriverebbe infatti dal latino Vaticinium, che significa oracolo, responso, a rievocare una leggenda che vuole la punta estrema del promontorio abitata dalla profetessa Manto. A lei si sarebbero rivolti i naviganti prima di avventurarsi tra i vortici di Scilla e Cariddi e lo stesso Ulisse, scampato agli scogli del pericolo, avrebbe chiesto auspici a Manto circa la prosecuzione del suo viaggio. Ricorda le antiche origini di questo mito anche lo scoglio che sta davanti al capo e porta il nome di Mantineo, dal greco Manteuo, dò responsi. Sotto il promontorio si distendono spiagge di sabbia bianca e finissima, lambite da un’acqua cristallina. Tra le spiagge più suggestive Torre Ruffa, teatro di una triste e leggendaria vicenda. Rapita dai Saraceni, la bella e fedele vedova Donna Canfora si sarebbe gettata dalla loro nave al grido: “Le donne di questa terra preferiscono la morte al disonore!”. Proprio per onorarne il sacrificio il mare cangia colore ad ogni ora ad assumere tutte le sfumature dell’azzurro velo che ne cingeva il capo, mentre l’eco delle onde che s’infrangono contro la battigia altro non sarebbe che lo struggente lamento con cui Donna Canfora saluta ogni notte la sua amata terra.
Pagine piene d’amore furono invece dedicate a questa terra dal veneto Giuseppe Berto che scelse Capo Vaticano per dimora e definì questo tratto di litorale “Costabella”, molto contribuendo allo sviluppo turistico della zona. Un tempo arido e selvaggio, oggi il promontorio è un giardino incantevole, un affaccio naturale sul mare con una delle viste più sorprendenti sulle isole Eolie.

Il tesoro di Alarico


Cupi a notte canti suonano
da Cosenza su’l Busento,
cupo il fiume li rimormora
dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe ‘l fiume passano
e ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono
il gran morto di lor gente
(da “La tomba nel Busento” tradotta in italiano da Giosuè Carducci,
dalla poesia di August Graf Von Platen)

Narra le leggenda che, nel 410 d.c., l’esercito dei Goti guidati dal re Alarico, dopo aver saccheggiato indisturbato Roma, si mosse verso il sud Italia con l’intento di attraversare lo Stretto e spingersi verso l’Africa. Ma alle porte della città di Cosenza, la malaria colse improvvisamente il capo dei barbari che si congedò presto dal mondo e dai suoi soldati.
I Goti piansero sinceramente la sua scomparsa e decisero di rendergli onore secondo l’antica usanza che voleva che un condottiero venisse sepolto con il suo cavallo, l’armatura e i tesori raccolti nelle azioni di guerra. Non potendo permettere che l’immenso bottino frutto del sacco di Roma venisse ritrovato e che la tomba del loro re rimanesse in balia delle orde di predatori, i guerrieri Goti decisero di seppellire Alarico nel Busento, deviandone il corso. Utilizzarono centinaia fra schiavi e prigionieri per scavare la tomba del loro re in mezzo all’alveo del fiume e lo seppellirono nel suo grembo, abbigliato con l’armatura da parata, insieme al suo destriero e agli inestimabili ori e gioielli di Roma. Dopo di che, ricondussero le acque del fiume nel loro letto naturale e uccisero tutti gli schiavi e i prigionieri, in modo che nessun protagonista dell’ardua impresa potesse sopravvivere e far trapelare il segreto del sepolcro. Così, il luogo esatto della tomba di Alarico rimase per sempre un mistero e del leggendario tesoro nascosto tra le acque del Busento si favoleggiò per secoli, ispirando i versi di Dumas, Carducci e dei più grandi vati e dando origine ad una febbre che colpì, a più riprese, intellettuali, studiosi, politici e gente comune di tutti i tempi. Addirittura i Nazisti con Himmler si recarono qui alla ricerca del tesoro, senza ovviamente trovare nulla. Vi sono in ogni caso molte altre leggende che si sono intrecciate a quella principale. Fonti storiche ci dicono che nell’ XI sec Eremitani di Sant’ Agostino monaci Calabresi capeggiati dal vescovo Arnolfo II di San Lucido provenienti da San Martino di Pietrafitta trovano la tomba di Alarico e trovano dei documenti che avrebbero avuto a che fare la figura Gesù, e la Decima Legio Fretensis per intenderci la legione di cui faceva parte Longino, colui il quale trafisse il costato di Gesù sulla croce e il tempio di Salomone. Nel 1070 infatti si ha notizia di un gruppo di monaci calabresi nelle Ardenne ad Orval, esistono documenti storici che attestano il fatto. Ricevettero accoglienza e protezione oltre ad un vasto terreno sul quale venne costruita un abbazia. Quindi Storia o Leggenda? A queste latitudini le idee sono abbastanza chiare.

U Lupo Minaru

Fra tutti i popoli, contrariamente a quanto affermano oggi gli etologi, l’immagine del lupo è stata sempre quella di una bestia feroce e aggressiva.
Di questa triste fama approfittavano gli adulti per farci stare buoni e conciliarci il sonno durante la nostra infanzia.
L’idea che il lupo dovesse guidare le anime dei defunti nell’Oltretomba si perde nella notte dei tempi. Essendo infatti più abile e più forte dell’uomo, l’animale rivestiva un ruolo totemico e nei rituali sciamanici veniva imitato per propiziarsi lo spirito.
“Lykaion”, territorio del lupo, era invece ad Atene il bosco sacro attorno al tempio di Apollo dove il filosofo Aristotele teneva le sue lezioni, tanto che il termine “liceo” significò un luogo di sapere.
La “licantropìa” (dal greco “lykos”, lupo e “ànthropos”, uomo) è un disturbo mentale delirante di tipo somatico per cui i malati, solitamente isterici, si credono trasformati in belve.
Nelle leggende del nostro continente l’anomalia si collegava al mito del “lupo mannaro” e i soggetti colpiti vagavano di notte, urlando come detti animali.
Si poteva divenire lupi mannari per una maledizione scagliata da una persona timorata di Dio in seguito ad un cattivo comportamento di un individuo, per stregoneria, per infezione licantropica o vampirica, per un patto col demonio o per altri diversi motivi. La luna piena, che ha sempre esercitato una forte azione nella fervida fantasia dei romanzieri ed in quella popolare, col suo fascino singolare conduceva l’individuo alla violenza. La metamorfosi animalesca, il nostro satellite, i luoghi di sepoltura avvicinavano sempre più la mentalità degli avi a quella delle culture primitive.
L’influsso negativo venne anche descritto da noti moralisti, nonché storici greci e latini come Plutarco e Plinio il Vecchio.
Gli studiosi hanno riscontrato un’incidenza di crimini durante il plenilunio, molto più elevata rispetto agli altri periodi.
Essendo il corpo composto per circa due terzi di acqua, la luna determina l’incremento delle “onde di marea umana”.
Ai poteri malefici e magici del satellite si collega la licantropìa, già nota in Babilonia dove il re in persona, Nabucodonosor, si riteneva d’essere un lupo.
Anche presso i Romani, Gaio Petronio Arbitro nel “Satyricon” racconta di Nicerote che persuade un suo ospite ad accompagnarlo nel viaggio:
«Si trattava di un soldato coraggioso come un leone. Ci avviammo al canto del gallo: splendeva la luna che pareva giorno. Ma, arrivati a certe tombe, il mio uomo si nasconde a fare i suoi bisogni tra le pietre, mentre io continuo a camminare canticchiando e mi metto a contarle. Mi volto e che ti vedo? Il mio compagno si spogliava e buttava le vesti sul ciglio della strada. Mi sentii venir meno il respiro e cominciai a sudar freddo. Sennonché quello si mette a inzuppare di orina le vesti e divenne d’improvviso un lupo».
Numerosi episodi del genere vengono riportati da noti scrittori e da studiosi.
Nel romanzo postumo dello spagnolo Miguel de Cervantes, “Persiles y Sigismunda”, che nella dedica al conte di Lemos del 19 aprile 1916 reca la frase:
«Con il piede già nella staffa, nell’angoscia della morte…», s’incontrano isole di
lupi mannari e di streghe che si mutano in lupe onde allevare la prole.
Per secoli i “lupi mannari” e le “versiere” (donne malvagie e scarmigliate) costituirono il terrore delle foreste, poiché si riteneva che vi fosse nei medesimi l’influsso demoniaco.
Il diavolo poteva trasformare in lupi famelici ogni stregone.
Lo attestano Strabone, Dionisio Afro, Varrone e tanti altri.
Scrive Virgilio nelle “Egloghe”:

“His ego saepe lupum fieri et se condere silvis
Moerim, saepe animas imis excire sepulchris
atque satas alio vidi traducere messis”.

(“L’ho visto spesso trasformarsi in lupo e nascondersi nel bosco di Moerim, far uscire spesso le anime da profondi sepolcri e trasportare messi ben piantate altrove”).
L’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, figlio di Carlo IV, che conosciamo per aver costretto l’antipapa Giovanni XIII a convocare il Concilio di Costanza, fece discutere in sua presenza il problema dei lupi mannari. Fu stabilito che la trasformazione di questi animali costituiva un fatto positivo e qualunque scroccone poteva spacciarsi per una versiera onde mettere in fuga la gente.
Si riteneva che gli stregoni portassero, fra carne e pelle, pelo di lupo.
Al dire di Fincel, un giorno si prese al laccio un lupo mannaro che correva per le vie di Padova. Gli furono amputate le zampe e subito la bestia riprese le sembianze umane, ma con braccia e piedi tagliati.

Si legge ancora nel “Dizionario infernale”:

«L’anno 1588, in un villaggio distante due leghe da Apchon, nelle montagne d’Alvernia, un gentiluomo, trovandosi verso sera alla finestra, vide un cacciatore di sua conoscenza e lo pregò di recargli la cacciagione. Il cacciatore glielo promise, ed essendosi avanzato nella pianura, videsi un grosso lupo che gli veniva incontro. Egli prese la mira e gli vibrò un colpo che andò fallito. Il lupo gli si scagliò addosso e lo assalì vivamente. Ma l’altro difendendosi, gli tagliò una zampa col suo coltello da caccia, e il lupo storpiato si mise in fuga, né si lasciò più vedere. Siccome avvicinavasi la notte, il cacciatore giunse alla casa del suo amico, il quale gli domandò se aveva fatta buona caccia. Egli trasse la zampa che aveva tagliata al preteso lupo: ma fu meravigliatissimo di vedere quella zampa convertita in mano di donna, e ad un dito stava un anello d’oro, che il gentiluomo conobbe appartenere a sua moglie. Egli andò tosto a trovarla, e la vide seduta presso il fuoco che nascondeva il braccio destro sotto il grembiule. Siccome ricusava di farlo vedere, egli le mostrò la mano che il cacciatore aveva recata, e l’infelice così scoperta, confessò che ella lo aveva assalito in forma di lupo mannaro. Il marito sdegnato la pose in mano alla giustizia che la fece dare alle fiamme».
Un episodio riguardante la “licantropa di Nicastro”, venne pubblicato nel 1883 a Londra nella guida turistica: “Cities of Southern Italy and Sicily”.
Il Conte di Masano, appassionato di caccia, aveva sposato la bella figlia del Barone di Arena. Possedendo costui una vasta riserva, per tenere lontani i bracconieri la faceva controllare dai suoi fidati guardiani.
Uno di questi ultimi, tornando dal padrone, raccontò che un compagno durante la notte era stato aggredito da un branco di lupi e che per difendersi aveva ingaggiato un’aspra lotta. Il malcapitato, col coltello, era riuscito ad amputare una zampa ad uno di quei feroci animali. Ma quale non fu la sua sorpresa allorquando, nell’estrarre dal tascapane la zampa, la vide trasformata in una mano di donna che dall’anello il Conte riconobbe essere quella della sua consorte? Effettivamente, chiamata, la signora aveva un braccio fasciato; tolte le bende apparve il moncherino sanguinante. Per punizione la nobile donna, prima fu rinchiusa nel castello e poi venne condannata a morte.
Nei racconti, chiaramente, si lavorava molto di fantasia.
Pure nella nostra società agricola pastorale del passato s’immaginava che nelle notti di plenilunio il lupo mannaro (“marcalupu”, “lupu minàriu” o “lupupampinu”) andasse in giro urlando e depredando, alla ricerca di sorgenti d’acqua per sbrodolarsi. I peli diventavano ispidi, le unghie gli si allungavano e poteva sbranare chiunque incontrasse, compresi amici e familiari.

In Calabria i lupi mannari sono chiamati lupu pampanu o marcalupu, sgozzano pecore e capre senza divorarle, solo perché amano il sangue caldo. Sono detti anche lupi minariu e così sono citati in un racconto popolare calabrese, noto come “la prima notte di nozze”: presso San Giorgio Morgeto (RC), una ragazza aveva sposato un uomo, senza sapere che fosse un lupo. Durante la prima notte di nozze, comprendendo che stava per avere una crisi, l’uomo si allontanò, dicendo alla moglie di non venirlo a cercare, ma lei lo seguì ugualmente, trovandolo in piena crisi e venendo sbranata. Quando rinvenne, dal dispiacere per la sua morte, si uccise anch’egli.

Bermani ci ricorda che a Catanzaro si riteneva che il licantropo girasse accompagnato da cani:

“Anche a Satriano (Catanzaro) si riteneva […] che il lupo fosse seguito da cani: […] A volte di notte, dentro la casa, fuori si sentivano degli ululati, però c’erano cani, si sentivano cani abbaiare, ma non uno, dieci o venti cani. E di solito si pensa che quando c’è sto lupo manaro è contornato da venti o trenta cani che gli stanno dietro.”

In “Storia e Folklore calabrese”, Domenico Caruso cita interessanti esempi locali:

“a S. Martino di Taurianova (RC) si consigliava di pungere con una canna appuntita, da un posto sicuro (possibilmente dall’alto), il licantropo che, alla prima perdita di sangue, faceva ritorno alla dimensione umana. In altre località della Piana di Gioia Tauro, il lupo mannaro, appena uscito di casa, custodiva gli abiti in un posto segreto per scorrazzare nei campi e alla periferia del paese. Prima dell’alba, poi, riprendeva i vestiti e raspava alla sua porta, ma soltanto al terzo tentativo i familiari potevano aprirgli. Anzi, in qualche abitazione si praticava un foro nell’uscio per essere certi dell’avvenuta trasformazione del proprio congiunto da lupo a uomo. Il segno di croce incuteva paura al licantropo che evitava, perciò, di attraversare ogni quadrivio. Lo stesso motivo induceva i nostri antenati a tracciare a Natale con dei carboni accesi, per tre notti consecutive, una croce sotto la pianta dei piedi dei piccoli affinché venisse loro scongiurato da grandi l’eventuale grave disturbo.”
Non possono mancare le vicende di santi che compiono miracoli. Qua abbiamo San Martino che, una notte, ferma un giovane che aveva la sfortuna di diventare lupo mannaro da mezzanotte all’alba, vagando per il paese e la campagna, spaventando tutti. Il santo gli fa tre segni della croce, intimandolo di uscire dal corpo del cristiano. Dopo le sue parole, un terremoto scuote la terra e il demonio esce dal corpo del ragazzo, la cui anima innocente è adesso salva.

Fonti: Scoprilacalabria.com
Calabriaonline.com
ascienzairiggiu.com
Portalecalabria.com

Giuseppe Oliva – Team Mistery Hunters

RELATORI FANTASTICI E DOVE TROVARLI: TERRA OPERA ALIENA CON MAURO BIGLINO, ROBERTO PINOTTI, PIETRO BUFFA, MARIO CALIGIURI

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Sono Passate due settimane dal simposio terra opera aliena, e probabilmente scrivere di quella giornata adesso, non ha molto senso, soprattutto considerando che gli articoli a riguardo sono stati pubblicati nei giorni successivi. Che il video della conferenza viaggia a oltre 100 visite al giorno, che l’intervista agli ospiti stà rilanciando la web radio, e soprattutto si è affievolita l’onda di interesse nei giorni immediatamente successivi.
Ma come tutti i traguardi bramati e alla fine, con sacrificio raggiunti, non si riesce ad assaporarli se non quando il frastuono di ciò che si è fatto è ormai un bisbiglio lontano. Vi è un momento dove bisogna assaporare e ascoltare e un momento dove con tutta calma si possono tirare le somme.

http://www.spreaker.com/user/misteryhunters/speciale-onde-corte-intervista-a-roberto
Trovarsi davanti oltre 300 persone in una sala strapiena che è quasi rimasta tale per oltre 9 ore, andare a parlare di noi e dell’evento sulla TV Nazionale, assistere a delle relazioni di primissimo piano con un filo conduttore, non segnato, ma che ha toccato tutti gli aspetti possibili riguardanti l’Ufologia e non solo, di avere relatori come Mauro Biglino, Roberto Pinotti, Pietro Buffa, Mario Caligiuri, incuriosire decine di persone che decidono di seguirti, vedere i volti dei presenti che dopo 9 ore hanno ancora voglia di fare domande, che significa obbiettivo raggiunto, creare interesse. Può sembrare poco per chi fa questo come mestiere, ma può diventare straordinario se guardi indietro e rivedi un portatile su una lavatrice nel tentativo di creare un blog. La maggior parte dei non addetti ai lavori in tema di presentazione di ciò che riguarda l’associazione Mistery Hunters, mi rivolge costantemente la stesse domande credi agli UFO? A ma quindi gli UFO esistono? Mistery Hunters? Quindi andate a caccia di fantasmi, alieni?

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Purtroppo non sono una persona molto diplomatica, ma con il tempo ho imparato che c’è sempre una risposta giusta, e devi solo trovare quella che calza perfettamente al tuo interlocutore. E alla fine non rispondo mai anzi faccio io le domande. 1) In oltre settanta anni di Ufologia di migliaia di avvistamenti, di decine di testimoni, foto video, documenti top secret, credi sia possibile che tutto sia riconducibile ad una stronzata? 2) E’ possibile che le evidenze presenti in siti archeologici di tutto il mondo, non solo di civiltà antecedenti alle datazioni accademiche, ma di tecnologie non possibili se si pensa al livello di conoscenza dell’uomo in quel dato periodo possano essere tutte dei falsi? 3) Le moderne ricerche nel campo medico e genetico trovano spesso interazioni con quello che è scritto negli antichi testi, e stanno dimostrando come l’evoluzione “forse” ha dei lati oscuri da chiarire. Vi pare possibile che abbiamo ancora la concezione su alcune teorie del 1858? E’ possibile rimanere ancorati a questo senza provare a spingersi oltre? Alla fine degli anni ’70 non si sapeva dell’esistenza dell’ HCV o epatite C, oggi quasi 40 anni dopo esiste una cura, e così dunque assurdo provare a pensare una evoluzione alternativa dopo quasi 160 anni? Ecco sono tantissime altre le domande che mi capita di fare, ma credo che già solo queste mi fanno capire e ricevere sempre la stessa risposta. No effettivamente sono cose che andrebbero studiate, poi sai spesso sono argomenti tabù che però hanno sempre un fondo di verità, e poi i governi nascondono tutto chissà qual’ è la verità. Comunque prossima volta che vi riunite fammi sapere.
Ma come? Non erano tutte stronzate?

E allora capisci di aver fatto Bingo, nessuno ha la verità in tasca, tanto meno noi, ma è così difficile provare a guardare oltre, a sperimentare, a non essere solo una percentuale da audience televisiva? Noi siamo questo. La lente di Diogene che si guarda intorno, a partire dei luoghi a noi vicini ricchi di storia e di misteri. Siamo quelli che davanti alla foto di un presunto avvistamento riteniamo come prima ipotesi sia un moscone davanti ad uno smart phone, perché solo così si può creare interesse ed eventualmente fare ricerca in modo obbiettivo ed oggettivo. Il convegno Terra: Opera Aliena, in realtà ha cercato indirettamente di dare delle risposte alle domande che molti come me si pongono, una visuale da una diversa prospettiva, vi ricordate il film l’attimo fuggente, quando Robin Williams salì sulla cattedra consigliando di guardare le cose sempre da angolazioni diverse? E’ esattamente quello che è stato fatto, i relatori con le loro intuizioni ci hanno fatto salire sulla cattedra e la fila diventerà sempre più lunga statene certi. Carpe Diem

Giuseppe Oliva – Team Mistery HUnters

Intervista a Mauro Biglino

In attesa della pubblicazione del video integrale della Conferenza “TERRA ALIENA” Con Mauro Biglino e Roberto Pinotti, in anteprima l’intervista ESCLUSIVA ai microfoni della nostra web radio (RADIO MH) con Mauro Biglino che ci presenta il suo nuovo libro e i suoi prossimi appuntamenti.

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I TAROCCHI


I Tarocchi sono composti di 78 carte, divise in Arcani maggiori ( 22 carte), e Arcani minori ( 56 carte). La loro origine è controversa, ma sembra accertato che tutti i mazzi di carte da gioco conosciuti in Europa, derivino dai Tarocchi Lombardo-Veneziani, la cui origine rimane, però, un mistero. Pare che gli Arcani maggiori, detti anche Trionfi o Chiavi, fossero noti molto tempo prima della comparsa degli Arcani minori che, divisi in quattrro gruppi di 14 carte ciascuno, detti Semi ( Coppe, Spade, Bastoni e Denari), sono stati utilizzati quasi esclusivamente per il gioco. Oggi , nelle carte da gioco francesi, i quattro semi classici sono stati sostituiti come segue: Spade= Picche; Bastoni= Fiori; Coppe= Cuori; Denari = Quadri.


Se le cose sembrano abbastanza chiare per quanto riguarda gli A. Minori, si complicano molto nel caso dei Trionfi, che rappresenterebbero, con il loro simbolismo particolare, dei concetti esoterici attinenti alla sapienza degli antichi sacerdoti Egiziani di Khem. Le alte conoscenze detenute da costoro sarebbero state trasmesse, nel corso dei secoli, oralmente da maestro ad allievo, in tutta l’area che oggi è denominata Medio Oriente; in seguito sarebbero passate nel mondo Greco- Romano e, in epoca Alessandrina, sarebbero comparse le prime opere scritte che trattano di Filosofia Ermetica ( dal nome di Ermete Trismegisto, mitico fondatore della dottrina, detto ” tre volte grande”, perché in possesso delle tre parti della filofia: l’ Alchimia, la Magia e l’Astrologia). Tutte le dottrine esoteriche del passato, ed anche quelle che vanno per la maggiore ai giorni nostri, sono un derivato dell’antica Scienza Ermetica, introdotta nell’Occidente Cristiano dagli Arabi, durante il Medioevo. In questo particolare periodo storico, insieme ai primi testi di Alchimia, compaiono anche le prime versioni delle 22 carte degli Arcani maggiori dei Tarocchi, che, secondo alcuni studiosi di esoterismo dei secoli XIX e XX, contengono delle figure simboliche di chiara ispirazione Alchemica; esse rappresenterebbero una sintesi delle varie fasi della Grande Opera. Nell’ occultismo si attribuisce agli A. maggiori un’ importanza capitale,in quanto considerati un trattato di alta fiosofia, esposto per immagini. Una cosa è certa: queste carte particolarissime rimangono assolutamente mute per colui che non ha acquisito la facoltà di farle parlare; al contrario, esse possono dire molte cose a coloro che sanno interrogarle con sagacia. Il libro della Natura rimane, per noi, uomini moderni, chiuso da sette sigilli; le sue immagini ci sconcertano, poichè non comprendiamo più che le parole, la cui sonorità, purtroppo, ci stordisce completamente. Allo studioso di Scienze Ermetiche, gli Arcani maggiori dei Tarocchi appaiono come un’opera meravigliosa, in cui le figure, nella loro semplicità espressiva, nelle loro forme e nei loro colori, riescono a rivelare dei concetti universali, che possono essere espressi compiutamente solo mediante dei simboli, poichè il linguggio umano, diventato filosofico e preciso solo da poco tempo, è ancora inadatto ad esprimere dei concetti che appartengono ad un periodo particolare, in cui le parole si prestavano poco ad esprimere idee astratte.

Enrico Iaccino – Team Mistery Hunters