I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

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I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (4° Parte)

Questa rubrica sta piacendo molto ai nostri lettori ed è un piacere per noi accontentarli con un altro articolo sulle personalità nostrane che con la loro calabresità hanno reso un contributo importante all’umanità. Molti personaggi hanno nomi altisonanti ma si conosce davvero la loro storia e ciò che li ha resi grandi? Molti invece non si conoscono proprio ma le loro gesta hanno cambiato il modo di vivere di tutti noi. E poi ci sono quelli che si conoscono ma non si sa che sono calabresi, e scoprirlo ci rende ancora più orgogliosi di essere nati nella loro stessa terra. Siete pronti ad inorgoglirvi, per l’ennesima volta, con questi nuovi pezzi da novanta “made in Calabria”?

GIOACCHINO DA FIORE

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Gioacchino da Fiore nacque intorno al 1130 a Célico, in provincia di Cosenza, da famiglia ricca e stimata infatti il padre Mauro era tabulario o notaio. Venerato come beato dalla Chiesa cattolica (da parte dei florensi e dei gesuiti Bollandisti), fu monaco, abate, teologo, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta e Dante Alighieri nel XII canto del Paradiso dice di lui: “…il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato…”. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza. Ben presto fu mandato dal padre a lavorare, sempre a Cosenza, presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la Corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, con i Notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo l’Arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano si allontanò definitivamente dalla Corte Reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta, dove ebbe il privilegio di visitare i luoghi della nascita e della predicazione di Cristo. Forse nel corso di questo viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re (Dio).

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Si fece monaco cistercense presso l’abbazia della Sambucina da cui però si allontanò per andare a predicare dall’altra parte della valle vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino Rende. Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove il Vescovo lo ordinò sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Poco tempo dopo si trasferirì proprio qui, dove divenne abate nel 1177. A Corazzo l’abate Gioacchino cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia. Durante questo periodo incontrò, nell’Abbazia di Casamari, il Papa Lucio III che gli concesse la “licentia scribendi”, scaturita dall’interpretazione di Gioacchino di una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Matteo d’Angers. Con l’aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca Campano, fututo Arcivescovo di Cosenza nonchè realizzatore del duomo, iniziò quindi la stesura delle sue opere principali: “La Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento” e “L’Esposizione dell’Apocalisse”.

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Al ritorno da un viaggio a Verona per incontrare Papa Urbano III, si ritirò a Pietralata, da lui ribattezzata Petra Olei, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell’Abbazia di Corazzo. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino, pertanto nell’autunno del 1188 Gioacchino salì in Sila con i suoi discepoli alla ricerca di un territorio abitabile e lo trovò nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. Dopo un complesso confronto tra Gioacchino e il re dei normanni Tancredi, l’asceta ebbe in dono un vasto tenimento posto nelle adiacenze del luogo scelto precedentemente, con l’aggiunta di 300 pecore e 30 some di grano, per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire il protomonastero di Fiore Vetere e successivamente nel 1194, dopo la morte di Tancredi, il nuovo regnante Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II, concesse a Gioacchino privilegi sovrani su tutta la Calabria.

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Gioacchino fondò molti monastreri e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma ricevendo da Papa Celestino III l’approvazione della “Congregazione Florense” e dei suoi Istituti il 25 agosto del 1196. I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e misero a coltura i terreni, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del “novus ordo”. Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale, ultima sua costruzione. Il suoi resti furono traslati nell’abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L’ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.

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I seguaci di Gioacchino subito dopo la sua morte raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditatogli ingiustamente. Il 20 luglio 1684 il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all’Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull’altare vicino al sepolcro dell’abate Gioacchino. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie. All’approssimarsi dell’VIII centenario della morte dell’Abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l’iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana.

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Gioacchino da Fiore ebbe tante interessanti e originali intuizioni tra le quali le più importanti sono:
– l’esistenza di diverse forme di concordia tra l’Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio e con questo concetto, noto come modello “binario della teologia della storia”, data la piena proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di “proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l’età apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro”;
– da questo concetto binario, Gioacchino elabora un “modello ternario”, connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l’analisi teologico-iconografica delle lettere “ALFA” e “OMEGA”;
– dallo sviluppo di queste due concezioni basilari Gioacchino approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle “Tre Età della Storia terrena”, sostenendo che se c’era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre (corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda (784-746)) e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio (appresentata dal Vangelo e compresa dall’avvento di Gesù, estesa nel tempo che va da Ozia fino al 1260), allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del “millennio sabbatico”, ovvero quel periodo in cui l’umanità attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. Un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l’uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e il ricongiungimento di cristiani ed ebrei.

02-gioachino-da-fiore-webNel suo “Monasterium” delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione della chiesa, della quale condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere, con la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un’età di perfezione.

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Oltre ad essere un punto di riferimento spirituale del tempo, infatti tra coloro che seguivano le sue idee c’erano regnanti e papi, le sue straordinarie intuizioni hanno cavalcato i secoli arrivando ai giorni nostri, influenzando sia alcuni movimenti religiosi, tra cui il più importante è senza dubbio l’ideologia dei Francescani spirituali francesi e italiani tra i quali esponenti ricordiamo Ubertino da Casale, Jacopone da Todi, Arnaldo de Villanova e moltissimi altri e addirittura l’apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi e la struttura urbanistica che i francescani diedero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc., e sia di molte personalità tra cui Roger Bacon (Bacone), Girolamo Savonarola, Celestino V, Michelangelo Buonarroti nella costruzione della struttura compositiva della Cappella Sistina, Dante Alighieri citandolo direttamente o indirettamente diverse volte nel Paradiso e Barack Obama che fece del pensiero di Gioacchino da Fiore, oltre che un punto di riferimento per la stesura della sua tesi di laurea, anche la base portante dei sui discorsi durante la sua campagna elettorale per le presidenziali e successivamente citandolo a più riprese nei discorsi alla nazione, definendolo come “maestro della civilta’ contemporanea” e “ispiratore di un mondo più giusto”, usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto “change we can”, per indicare la necessità di un cambiamento radicale della storia e proclamandolo il portabandiera di una società più equa e di un’epoca straordinaria, in cui lo spirito riuscirà a cambiare il cuore degli uomini.

MILONE DI CROTONE

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Tra i personaggi più illustri della Magna Grecia e certamente l’atleta più forte di tutti i tempi, il grande Milone fu pugile e lottatore imbattuto per oltre vent’anni. Nato e vissuto nell’antica Kroton (Crotone) del VI secolo a.C. grazie alle sue gesta sportive e non, divenne tra gli uomini più influenti del gruppo aristocratico che governava la città di Miscello. La sua prima vittoria sportiva la ottenne all’età di 15 anni (540 a.C.), partecipando e vincendo nella disciplina sportiva della lotta. Si dice infatti che, per allenarsi, era solito portare sulle spalle vitelli, così da potenziare maggiormente la sua massa muscolare. Può essere considerato a tutti gli effetti il prima culturista della storia. Nel corso della sua vita fu capace di sei vittorie olimpiche disputate fra il 540 a.C. e il 512 a.C. e di altre sei vittorie ai Giochi Pitici di Delfi che si tenevano in onore di Apollo, dieci ai Giochi Istmici presso Corinto e nove ai Giochi Nemei. In 28 anni di carriera, Milone vince 33 volte. La sua specialità era l’orthopale, un tipo di lotta. Per di più, quando partecipò alle olimpiadi per la settima volta e si scontrò con un suo concittadino, il diciottenne Timasiteo, il quale lo ammirava fin da piccolo e da cui imparò anche molte mosse, alla finale, il suo avversario si inchinò senza nemmeno iniziare a combattere, in segno di rispetto all’uomo a cui gli dei diedero in dono la forza e la disciplina. Forse siamo di fronte al primo caso nella storia delle Olimpiadi antiche in cui sappiamo il nome del secondo classificato, anch’esso calabrese, in quanto le liste tramandate sin dall’antichità hanno per protagonisti solo i primi classificati.

pancrazioUna leggenda vuole che in occasione dei giochi olimpici, prima di vincerli, corse da Crotone ad Olimpia con un toro sulle spalle provocando un grande clamore. Tanta gloria rese Milone uno dei personaggi più illustri e famosi del mondo antico, conosciuto ovunque per la sua proverbiale forza e considerato eroe leggendario appartenente alla stirpe degli Eraclidi, discendente diretto di Eracle, a sua volta ritenuto “ecista morale” della città di Crotone. Molte notizie ci vengono tramandate da storici come Diodoro Siculo che lo inserisce anche in alcuni scenari cittadini che ne hanno fatto di lui, eroe “nazionale”. Era noto, oltre che per la grande forza, anche per il grande appetito. Pare, infatti, che una volta avesse portato di peso un toro di 4 anni allo stadio, fatto un giro di campo con l’animale sulle spalle, che l’abbia ucciso con un colpo solo e che se lo sia mangiato tutto nello stesso giorno. Come se non bastasse, si racconta che egli fosse alto circa due metri e che era capace di sollevare anche un uomo con un dito della mano.

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Del resto, ad uno sportivo vincente come lui potevano essere portati solo onore e rispetto, tanto che un suo ammiratore di nome Dameas, come regalo, gli fece erigere una statua nello stadio di Olimpia in cui Milone era rappresentato ritto su un disco con i piedi uniti. Milone è noto anche per essere stato discepolo di Pitagora e sposo di sua figlia Myia. In occasione di un terremoto, che colse il gruppo dirigente aristocratico guidato da Pitagora mentre era in riunione proprio in casa del filosofo, Milone si sostituì ad una colonna spezzata dal sisma reggendo sulle sue spalle il soffitto dell’abitazione permettendo così alla struttura di non crollare e di far scappare tutti in tempo. Mito o realtà storica? Sta di fatto che quando si tramandano le gesta e le imprese di certi affascinanti personaggi, tutto ciò che li riguarda viene molto romanzato, per far risaltare ancora di più le imprese. Milone fu comandante dell’esercito crotoniate in occasione della famosa battaglia di Trionto contro i sibariti del 510 a.C. che sancì la sconfitta e la distruzione dell’opulenta colonia di Sybaris. Milone vestito come Eracle, con la clava e la pelle di leone sulle spalle, guidò il suo esercito verso una delle vittorie più schiaccianti della storia antica. Persino Democede, crotoniate e medico personale del re Dario di Persia, per tornare a casa contro il parere del re persiano, sposò in tutta fretta una figlia di Milone, costringendo Dario a desistere dai suoi piani.

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La data della morte di Milone è sconosciuta ma, come per la maggior parte degli antichi greci famosi, la dinamica del decesso è divenuta un mito. Secondo Strabone e Pausania, l’ormai vecchio Milone stava attraversando un bosco quando s’imbatté in un ulivo secolare sacro alla dea Hera, antistante appunto al tempio Crotonese di Hera Lacina, dal tronco cavo. Il lottatore inserì le mani nella fenditura per spezzare in due il tronco in un’ultima dimostrazione di forza, ma vi rimase incastrato e divenne preda di un branco di lupi.

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Il mito della forza e dalla vita di Milone ha alimentato la fantasia di diversi artisti, facendo del lottatore celebre soggetto di opere d’arte e di letteratura. Già nel 1590 il bronzista veneziano Alessandro Vittoria fuse una statua raffigurante Milone. La morte del lottatore divenne poi un soggetto ricorrente nella produzione artistica del XVIII secolo ma, per onorare il personaggio, si ricorse spesso alla raffigurazione dei leoni invece che dei lupi quali responsabili della sua morte. Nella scultura “Milone di Crotone” del francese Pierre Puget (1682), l’artista predilesse invece una rilettura del mito in chiave barocca, focalizzando come soggetti la vittoria dell’età sulla forza del lottatore e la vana gloria del trofeo olimpico. L’originale si trova nel museo del Louvre a Parigi ma esistono anche delle copie che si trovano nel Parque Buenos Aires di San Paolo in Brasile, in Cours Estienne d’Orves a Marsiglia in Francia e nel piazzale antistante il PalaMilone a Crotone. Il “Milone di Crotone” di Étienne-Maurice Falconet (1754) permise all’artista di ottenere l’accesso alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di Parigi. Sempre nel Settecento, il pittore Joseph-Benoît Suvée realizzò l’olio su tela “La morte di Milone”. Nel XIX secolo, uno sconosciuto artista realizzò una statua bronzea di Milone ora in Holland Park, a Londra e il pittore irlandese James Barry tornò a raffigurare su tela la morte del lottatore.

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Una statua di Milone si trova allo stadio dei Marmi di Roma. François Rabelais citò Milone di Crotone nel suo “Gargantua”, Shakespeare fece lo stesso nel secondo atto dell’opera “Troilo e Cressida” e Alexandre Dumas descrive brevemente la figura di Milone in “Vent’anni dopo” e lo cita nel “Visconte di Bragelonne”. La Nestlè produce bevande e prodotti ispirati al famoso Milo di Crotone. La Coca Cola dedica una cartolina ai più grandi campioni Olimpici e tra di essi Milone di Crotone. Nel Maine, negli Stati Uniti, esiste una città, Milo, che prende il nome da Milone di Crotone.

RENATO DULBECCO

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Renato Dulbecco nacque a Catanzaro il 22 Febbraio 1914 da Leonardo, ingegnere ligure del Genio Civile, e da Maria Virdia, proveniente da una famiglia di professionisti originari di Tropea. Fin da bambino fu educato dai genitori al sacrificio e allo studio, era ateo e fortemente antireligioso. All’età di cinque anni, dopo la fine della prima guerra mondiale, si trasferì in Liguria con la sua famiglia, nella casa paterna di una frazione di Imperia: trascorse un’infanzia serena che favorì la sua curiosità e la sua vocazione per la ricerca scientifica. Qui visse anche alcune esperienze, fra cui la morte dell’amico Peppino, che furono decisive per la scelta della sua carriera futura, dal momento che si accese in lui la consapevolezza dell’impotenza della medicina dinanzi a malattie molto gravi. Qui Dulbecco compì gli studi secondari, presso il Regio Liceo ginnasio Edmondo De Amicis ed il suo tempo libero lo trascorreva presso l’Osservatorio Meteorologico e Sismico della sua città dove iniziò a mostrare una spiccata propensione per le materie scientifiche e una notevole manualità tecnica che lo portarono a costruire strumenti all’avanguardia grazie a quanto aveva appreso dalla lettura di alcune riviste scientifiche del tempo come il primo sismografo elettronico, poi usato da Herlitska per registrare le contrazioni dei muscoli.

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Seguendo le orme di uno zio materno, nel 1930, a soli sedici anni, fece il proprio ingresso nella facoltà di medicina dell’Università di Torino, nello stesso anno di Rita Levi Montalcini e un anno dopo l’iscrizione di Salvador Luria, compagni con cui condividerà negli anni a venire il magistero di Giuseppe Levi, l’emigrazione negli Stati uniti e il premio Nobel. Fra i primi del corso, al secondo anno venne ammesso come interno nel laboratorio di Giuseppe Levi, anatomista di fama internazionale, nonché pioniere della coltura dei tessuti in vitro. Nell’Istituto di anatomia normale umana ebbe la possibilità di disporre «di un laboratorio e di un banco per poter lavorare» ai propri esperimenti, ma fu anche un’occasione per conoscere meglio la personalità carismatica del maestro, un docente che si era imposto alla sua attenzione per il rigore scientifico e l’«esplicito antifascismo». Dopo qualche anno, il giovane Renato lasciò il laboratorio di Levi e si trasferì presso quello di Anatomia Patologica di Ferruccio Vanzetti, divenendo anche interno all’ospedale Mauriziano, spinto dall’interesse per la clinica. Si laureò a soli 22 anni, nel 1936, con una tesi sulle alterazioni del fegato dovute al blocco nell’efflusso della bile e ricevette in quest’occasione diversi premi, essendo stato riconosciuto come il migliore laureato dell’università con la migliore tesi.

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Partì per il servizio militare come ufficiale medico fino al 1938. Un anno dopo é richiamato per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e inviato prima sul fronte francese e quindi in Russia. Fu una caduta sul ghiaccio e la lussazione di una spalla durante l’offensiva sul Don a garantirgli un provvidenziale periodo di congedo: una volta dimesso decise infatti di disertare le armi sino al giorno della liberazione per aiutare come medico i partigiani nascosti sulle colline torinesi e per un breve periodo fu membro del Comitati di Liberazione Nazionale. Successivamente avvia l’attività di ricerca e contemporaneamente si iscrive alla facoltà di Fisica, che frequenta e concluse dal 1945 al 1947. Su consiglio di Rita Levi Montalcini, si trasferisce negli Stati Uniti per lavorare con Salvador Luria, ormai docente all’università di Bloomington e scoprendo un mondo totalmente diverso dalla sua terra natia. Si imbarcano sulla stessa nave, la Montalcini andrà a St. Louis, lui alla Indiana University. Negli Usa Dulbecco studia certi virus che attaccano i batteri, per ciò chiamati batteriofagi. Fa la prima scoperta quasi per caso, quando si accorge che questi virus vengono riattivati dalla luce ultravioletta di un tubo al neon.

Renato Dulbecco

Il contratto di lavoro offertogli da Luria prevedeva una durata di due anni, ma date le dimostrazioni di grande capacità e acutezza dello scienziato, egli ebbe la possibilità di proseguire a Bloomington le sue ricerche, acquisendo definitivamente la cittadinanza americana. La stima da parte del suo “datore di lavoro” fu tale che nell’estate del 1948, lo invitò a lavorare con lui per alcuni mesi presso il Cold Spring Harbor, un prestigioso laboratorio in cui affluivano scienziati da tutte le parti del mondo. Intanto aveva conosciuto Max Delbruck, un collaboratore di Luria. Delbruck (Nobel 1969) lo invita al California Institute of Technology di Pasadena, più noto come Caltech, uno dei più importanti laboratori scientifici del mondo. Qui sviluppa ricerche sui virus animali che si dimostreranno utili a Sabin per la preparazione del vaccino per la poliomielite. A partire da questo momento, la fama dello scienziato accrebbe e tutta la ricerca sui virus fu rivoluzionata.

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Nel 1958 comincia ad interessarsi alla ricerca oncologica, studiando virus animali che provocano forme di alterazione nelle cellule. La scoperta più importante è la dimostrazione che il DNA del virus viene incorporato nel materiale genetico cellulare, per cui la cellula subisce un’alterazione permanente. Nel 1964 vince il premio Lasker per la ricerca medica e sempre per queste ricerche nel 1975 gli fu conferito il premio Nobel per la medicina con David Baltimore e Howard Temin. La sua sorpresa alla notizia di quest’ultimo riconoscimento si evince chiaramente da queste parole: « Il cuore mi saltò in gola. Avevo capito bene? […] Non osavo dirlo, ma facendomi coraggio mormorai: “il premio Nobel”». Alla cerimonia del Nobel, Renato Dulbecco, che era da sempre un alfiere della lotta contro il fumo, non perse l’occasione per lanciare una dichiarazione contro il tabagismo.

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Dal 1972 si trasferisce a Londra, all’Imperial Cancer Research Fund, dove ha la possibilità di lavorare nel campo dell’oncologia umana, e successivamente al Salk Institute di La Jolla (California). La personalità del grande scienziato, mai pago di conoscenza, lo portò ad immergere se stesso in un nuovo colosso della scienza moderna: il Progetto Genoma, con l’obiettivo di mappare l’intera sequenza del genoma umano, in modo da comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro. Conoscere tutti i geni dell’uomo era l’anello mancante di questa catena vitale, e l’unico modo per smuovere la titubante comunità scientifica fu quello di lanciare il progetto mediante una delle riviste scientifiche più autorevoli: Science. Nell’arco di pochi mesi, furono attuate numerose iniziative, la scintilla del nuovo “ordigno” della scienza era stata innescata. Nel 1993 rientra in Italia dove lavorò presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Milano, oltre a guidare la Commissione Oncologica Nazionale e a ricoprire l’incarico di presidente emerito del Salk Institute, completando, nel 2003, la mappatura del genoma.

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Renato Dulbecco è stato insignito della laurea honoris causa in Scienze dall’Università Yale ed è stato membro di diversi organismi scientifici internazionali, tra cui l’Accademia dei Lincei, la National Academy of Sciences statunitense, la Royal Society britannica e l’IPPNW (International Physicians for the Prevention of Nuclear War). Nel 1999 presenta il quarantanovesimo Festival di Sanremo insieme a Fabio Fazio e Laetitia Casta. Muore il 20 febbraio del 2012 a La Jolla, località nei pressi di San Diego dove risiedeva da anni, colpito da un infarto tre giorni prima del suo 98º compleanno.

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Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, treccani.it, calabriatours.org, mediterraneoantico.it, lastampa.it, biografieonline.it.

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (3° Parte)

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I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (3° Parte)

Continua il nostro excursus tra le personalità calabresi che, con la loro arte e la loro genialità, hanno cambiato le sorti della storia e della cultura italiana e mondiale. Queste pillole hanno interessato molto i nostri lettori e anche in questo articolo cercheremo  di conoscere alcuni personaggi che ci rendono orgogliosi di appartenere a questa fantastica terra chiamata Calabria.

GIOVANNI BARRACCO

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Il barone Giovanni Barracco nacque il 28 aprile 1829 a Isola Capo Rizzuto, nella Calabria ionica, ottavo di dodici figli, da Luigi Barracco e da Maria Chiara Lucifero dei marchesi di Aprigliano in una nobile e ricca famiglia del Regno delle Due Sicilie. Le fortune dei Barracco erano principalmente legate alle vaste proprietà terriere situate nell’odierna Calabria. L’apice della fortuna dei Barracco, che legano la loro storia a quella del latifondo calabrese, può essere stabilito al 1868 quando, dai documenti dell’archivio di famiglia, risulta che la proprietà aveva raggiunto i 30.000 ettari (una superficie di oltre 2250 chilometri quadrati), per oltre 100 chilometri di lunghezza, comprendendo un territorio che andava da Crotone, sede di un settecentesco Palazzo Barracco, fino al centro della Sila Grande. Questa proprietà faceva dei Barracco i più grandi proprietari terrieri d’Italia e la famiglia più ricca del Regno delle Due Sicilie e il padre Luigi era introdotto alla corte dei Borbone dove rivestiva cariche onorifiche (tra cui quello di Gentiluomo di Camera del Re). Giovanni Barracco trascorse i primi anni della sua vita in Calabria dove fu educato privatamente da Costantino Lopez, un erudito sacerdote originario di San Demetrio Corone. Alla morte del padre, nel 1849, Giovanni si trasferì a Napoli presso il fratello maggiore che aveva stabilito la sua residenza in un sontuoso palazzo a via Monte di Dio.La famiglia, ormai pienamente inserita negli ambienti aristocratici napoletani aveva scelto di aderire, dopo i moti del ’48, agli ideali liberali che animavano lo scenario politico dell’epoca. Erano gli anni della repressione e la famiglia prendeva le distanza dalla corte dei Borbone: mentre il primogenito Alfonso rifiutava il titolo di cavaliere dell’Ordine di S. Gennaro, anche Giovanni rispose negativamente alla proposta del giovane re Francesco II per una carica onorifica a corte e indusse la famiglia a finanziare con 10.000 ducati l’impresa garibaldina in Calabria.

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Intanto il nome che portava gli apriva le porte dell’alta società. Cominciò quindi a frequentare un circolo di intellettuali che si riuniva presso Leopoldo di Borbone, introdotto dal cognato Enrico d’Aquino principe di Caramanico (che ne aveva sposato la sorella Emilia Barracco), fratello del Re ma animato da ideali liberali. In quell’ambiente, frequentato da artisti e letterati, conobbe Giuseppe Fiorelli, il grande archeologo che divenne direttore degli scavi di Pompei e del Museo Archeologico di Napoli. Questa amicizia, che durò tutta la vita, lo introdusse all’amore per l’archeologia e l’arte antica. L’impegno politico di Barracco e le sue idee liberali lo portarono a partecipare attivamente all’organizzazione del Plebiscito e a ricoprire la carica di consigliere comunale a Napoli nel 1860, mentre nel 1861 il collegio di Crotone e quello di Spezzano Calabro lo fecero eleggere deputato nel primo parlamento dell’Italia unita come rappresentante della destra storica. In questa veste si trasferì a Torino, allora capitale del Regno, dove ritrovò l’antica passione dell’alpinismo diventando il primo Italiano ad arrivare in vetta al Monte Bianco ed al Monte Rosa, e nel 1863, primo tra gli italiani, insieme a Quintino Sella, a scalare il Monviso: da quell’avventura nacque il Club Alpino Italiano CAI che, ispirandosi ad analoghe associazioni esistenti in altri paesi europei, ha per scopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale.

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Tra i primi incarichi parlamentari Barracco fu chiamato a far parte della commissione che, su suggerimento di Cavour, conferì a Vittorio Emanuele II il titolo di re d’Italia. Dopo un breve passaggio a Firenze, legato allo spostamento della capitale, Giovanni Barracco giunse a Roma e scelse la città come sua patria d’elezione. Fu rieletto alla Camera dei deputati oltre che per l’VIII (quella del primo parlamento unitario) anche per la IX, l’XI e la XII legislatura, ricoprendo la carica di questore e poi di vicepresidente della Camera. In parlamento fu membro della Commissione bilancio e relatore in quella degli esteri. La sua intensa attività parlamentare di meridionalista sempre teso al progresso morale ed economico del Mezzogiorno d’Italia è ben documentata. Si prodigò con passione per sottolineare l’urgente necessità di strutture adeguate per lo sviluppo del Meridione, per favorire l’incremento dei trasporti e gli scambi commerciali, per la salvaguardia e il potenziamento del porto di Crotone, per la tutela della montagna e della collina tramite l’istituzione di una politica forestale e di rimboschimento, per l’irregimentazione delle acque, per la diffusione dell’edilizia rurale, per l’introduzione di colture più redditizie in agricoltura. Promosse e difese, assieme al conterraneo Bruno Chimirri, la Legge Speciale Pro Calabria “Provvedimenti a favore della Calabria”, per cercare di risolvere, con avanzate idee economiche e sociali, l’arretratezza della sua terra. Dal 1875, fece parte della Commissione che doveva approvare le “opere idrauliche per preservare la città di Roma dalle inondazioni del Tevere”. Nel 1886, su proposta di Agostino Depretis, Barracco fu nominato Senatore del Regno: anche al Senato ricoprì la carica di questore occupandosi attivamente e con passione dei lavori di restauro e di abbellimento di Palazzo Madama, impegno che ricordò in un volumetto edito nel 1904. In quegli anni si occupò attivamente dei provvedimenti relativi al patrimonio artistico: nel 1888 intervenne sulla creazione della Passeggiata Archeologica e sulla redazione della Legge Coppino “per la conservazione dei monumenti e degli oggetti di arte e di antichità”.

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Ma non dimenticò mai la Calabria: memorabile rimase un suo intervento del 1906 sui “provvedimenti a favore delle Calabrie dopo il terremoto del 1905”. Alla fine della sua vita, nel 1911 si ricorda il suo ultimo intervento di rilievo al Senato: Barracco scrisse la relazione sul disegno di legge “per la sovranità piena ed intera del Regno d’Italia sulla Tripolitania e sulla Cirenaica”, ispirata ad alti sensi patriottici. Nello stesso anno partecipò all’inaugurazione del Monumento a Vittorio Emanuele II e alle celebrazioni per il cinquantenario del Regno d’Italia: con grande commozione ricevette il caloroso applauso dell’intera aula del Senato, tributato all’ultimo rappresentante ancora vivente della commissione che nominò Vittorio Emanuele II Re d’Italia. Fu accolto nel circolo della Regina Margherita, alla quale dedicò una raccolta di poesie intitolata Regalia, con cui strinse un’intensa amicizia cementata da comuni interessi intellettuali e dalla passione per la montagna che entrambi condividevano. E fu Barracco che, a nome del Senato, porse alla Regina le condoglianze in occasione dell’uccisione del Re Umberto I.

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La sua passione culturale fu tuttavia sempre preponderante sugli altri interessi ed attività. Questa lo portò a costituire sin dalla giovinezza una vasta biblioteca, donata poi al Comune di Roma assieme alla collezione archeologica, e comprendente l’opera omnia di autori quali Omero, Euripide, Tucidide e Senofonte, nonché testi di archeologia classica ed egizia, di cui Barracco fu grande conoscitore (fu insignito per questo della cittadinanza onoraria di Roma). Alla morte di Barracco, la collezione comprendeva oltre 380 pezzi di arte egizia, sumera, assira, etrusca, cipriota, fenicia, greca, ellenistica, italica, romana e medievale.
Giovanni Barracco morì il 14 gennaio 1914.

ALFONSO RENDANO

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Alfonso Rendano fu uno dei musicisti italiani più significativi della tradizione tardo-romantica sviluppatasi fra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Compositore versatile e originale, fu anche un pianista straordinario. Esponente della grande scuola pianistica napoletana, è poco conosciuto in Italia, ancor meno in Calabria, che pur gli ha dedicato il suo principale teatro a Cosenza. Era un musicista dalla personalità spiccata, peraltro riconosciuta dalla critica musicale del suo tempo, ma oggi la sua conoscenza è limitata a un pubblico d’essai e affidata a qualche rara incisione discografica. La critica musicale attuale ha avviato una profonda rivalutazione critica della sua opera, riconoscendogli una propria originalità stilistica ed espressiva nel panorama musicale italiano fra Otto e Novecento. Nacque a Carolei (Cosenza) il 5 aprile 1853, da Antonio e da Giuseppina Bruno. Si avvicinò precocemente alla musica, da autodidatta, suonando fin da bambino l’organo di una chiesa del suo paese. Il padre, resosi conto delle sue doti non comuni, gli fece compiere dapprima studi di pianoforte a Cosenza, e nel 1863 decise di fargli sostenere l’esame di ammissione al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, superato tanto brillantemente da sollecitare l’attenzione del direttore, Saverio Mercadante. Rimasto studente del Conservatorio napoletano per soli sei mesi, studiò poi privatamente con Nicola Nacciarone e Giorgio Miceli, il quale lo fece esordire nel 1866 al Circolo Bonamici di Napoli e fin da subito fu giudicato un raro talento musicale. Fu per breve tempo anche allievo di Sigismund Thalberg, che nel capoluogo campano aveva preso stabile dimora. Nel 1867 proprio Thalberg gli propiziò un incontro con Gioacchino Rossini a Parigi, il quale procurò al ragazzo una borsa di studio del governo italiano per poter seguire le lezioni di Georges Mathias, illustre allievo di Fryderyk Chopin. Rimasto nella capitale francese dal 1867 al 1870, Rendano mieté consensi come pianista in diversi salotti aristocratici e in alcuni concerti pubblici. Partito nel 1870 per una tournée in Inghilterra, da Londra si diresse alla volta di Lipsia, dove perfezionò gli studi con Carl Reinecke ed Ernst Richter. Le esibizioni al Gewandhaus lo rivelarono alla critica tedesca e lo misero nella condizione di intensificare l’attività pianistica. Rientrato in patria nel 1874, Rendano diede concerti in varie città italiane, non senza intraprendere altri viaggi Oltralpe.

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Conobbe Anton Rubinstein in Germania, dove si esibì sotto la direzione di Bottesini, e sarà proprio il celebre compositore e pianista russo a diffondere le musiche di Rendano in Russia. Nel 1880 a Vienna conobbe Hans von Bülow e strinse amicizia con Franz Liszt, che lo invitò a Weimar, dove Rendano si trattenne per tre mesi: qui, grazie all’intercessione dello stesso Liszt, ebbero luogo le prime esecuzioni delle due composizioni strumentali di maggior respiro concepite dal pianista italiano negli anni precedenti, il Concerto per pianoforte e orchestra e il Quintetto per pianoforte e archi. Eseguito alla corte granducale insieme a Liszt nella trascrizione per due pianoforti, il Concerto di Rendano (finito di comporre entro il 1875) aveva un carattere pionieristico in un contesto, quello italiano, dove fino ad allora mancavano quasi del tutto esempi significativi di concerti per pianoforte; per quanto scarsa sia poi stata la fortuna esecutiva, esso aprì la strada alle analoghe composizioni di Giovanni Sgambati (1880) e Giuseppe Martucci (1878 e 1885). Sorte simile ebbe il Quintetto, composto intorno al 1873, uno dei primissimi esemplari della discreta fioritura di tale genere cameristico nell’Italia dell’ultimo quarto di secolo. Al rientro da Weimar, nel settembre del 1880, Rendano sposò la pianista milanese Antonietta Trucco, dalla quale ebbe tre figli: Fausto, morto in giovane età, Franz, battezzato da Liszt, e Maria. Dopo avere suonato ancora in varie città europee, nel 1883 tornò definitivamente in Italia, producendosi più volte in pubblico e affermandosi con scelte di repertorio che lo ponevano in linea con l’impegno interpretativo di Martucci e Sgambati. Negli stessi anni compose anche un buon numero di brani pianistici oscillanti tra il pezzo caratteristico (Barcarola, Valse fantastique), lo ‘stile antico’ (Tre sonatine in stile antico), e i richiami al folclore calabrese (Il montanaro calabro, Variazioni sopra un tema calabrese).

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Quella di Rendano fu vera gloria, e ciò indusse il Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli a conferirgli nel 1883 la cattedra di pianoforte, che tuttavia tenne per poco tempo: a causa dell’ostilità con cui fu accolta la sua proposta di riforma degli studi musicali, imperniata sull’idea di organizzare le cattedre secondo un sistema graduale anziché parallelo, si dimise dall’incarico nell’aprile 1886. In un suo opuscolo, “In proposito dell’insegnamento musicale” (Napoli 1889), portò a sostegno delle sue idee le testimonianze e le lettere inviategli da famosi didatti come Mathias, Bülow, Reinecke e Salomon Jadassohn. Nel frattempo fondò sempre a Napoli una propria scuola di pianoforte, nella quale chiamò a insegnare Alessandro Longo e Francesco Cilea. Dal 1889 divenne direttore artistico e pianista principale della Società del Quartetto, ruolo ricoperto fino allo scioglimento dell’associazione (1891). Nel 1892 Rendano fece ritorno a Cosenza, dove rimase circa un decennio per far fronte alle difficoltà generate dal tracollo economico della famiglia. In quel periodo, ritiratosi dall’attività concertistica, si dedicò a comporre il dramma lirico Consuelo, libretto di Francesco Cimmino (tratto dal noto romanzo di George Sand, che ha tra i personaggi Nicola Porpora, insegnante di canto della zingarella eponima). La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Regio di Torino il 24 marzo 1902: lontano dal linguaggio verista, questo unicum teatrale di Rendano riscosse un certo interesse nella critica che ravvisò nella partitura una «copiosa vena melodica» e una «padronanza assoluta della tecnica armonica e strumentale» (Valetta, 1902, p. 743).

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Tornato a Napoli nel 1901, poco dopo Rendano si stabilì definitivamente a Roma, riprendendo anche l’attività concertistica. Fra il 1904 e il 1909 ebbero una certa risonanza i grandi cicli di concerti intitolati “Letture ed interpretazioni musicali”, tenuti a Napoli, Roma e Milano: sviluppando gli esempi dei ‘concerti storici’ di Anton Rubinstein, Rendano propose serie di esecuzioni integrali di capisaldi della letteratura per tastiera dal Settecento fino al tardo Ottocento, includendo le 32 Sonate di Beethoven e tutti gli Studi di Chopin. Negli anni intorno al primo conflitto mondiale Rendano diradò sempre di più le apparizioni pubbliche fino all’ultimo concerto, dato al Teatro Valle di Roma nel 1925. Si dedicò allora in prevalenza all’insegnamento privato e a ricerche sulla meccanica del pianoforte. Introdusse in quel tempo un terzo pedale allo scopo di aumentare l’espressività e la possibilità di estensione di un suono o un accordo determinato indipendentemente dagli altri suoni: quest’innovazione, brevettata nel 1919 come “pedale indipendente” o “pedale Rendano”, costituì un passo avanti rispetto al pedale tonale (introdotto nei pianoforti Steinway nel 1874). La sua produzione comprende circa settanta brani per solo pianoforte, un Concerto per pianoforte e orchestra, un Quintetto per pianoforte e archi, un Allegro in La minore per due pianoforti, l’opera Consuelo ed alcune composizioni d’insieme, fra le quali la Marcia funebre in morte di un pettirosso per piccola orchestra. In particolare, il citato Quintetto per pianoforte e archi, riassume in modo emblematico lo stile e la poetica del maestro Rendano, sospeso fra il Romanticismo di matrice tedesca e una certa musicalità tipica della tradizione popolare calabrese. Significativo, in tal senso, il movimento centrale Trio “alla calabrese”, che ripropone il tema di un antico canto popolare calabro che filosofeggia sulla morte. Morì a Roma il 10 settembre 1931.

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Nel 1935 gli fu intitolato il teatro di tradizione Comunale di Cosenza, fulcro delle attività artistiche dell’intera Regione. Di stile neoclassico ottocentesco, dove spiccano belle decorazioni pittoriche e in stucco, ha forma a ferro di cavallo con tre ordini di palchi e una galleria e con una capienza di 800 posti.

RINO BARILLARI

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Saverio Barillari detto Rino è nato a Limbadi nel 1945 e per le sue doti da fotografo dei vip è soprannominato “The King of Paparazzi” (il re dei paparazzi). Le sue parole esprimono al meglio i suoi inizi: «Conoscevo tutti i personaggi dello spettacolo perché aiutavo mio zio, titolare della sala cinematografica del paese in cui sono nato, Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. Poi decisi di andare a vederlo dal vivo, quel mondo. Arrivai a Roma con due amici. Loro non hanno resistito, e dopo un po’ sono tornati a casa. Io sono rimasto, e sono ancora qui. È stata dura. Dovevo cercarmi da mangiare e da dormire. Ho fatto sacrifici perché non ero raccomandato. E dovevo pure stare attento a non fare casino, sennò la polizia mi rimpatriava. In un certo senso ero un po’ come un immigrato clandestino». Trova lavoro aiutando gli “scattini”, accompagnandoli nei loro appostamenti venatori non autorizzati fra piazza di Spagna e piazza del Popolo, Fontana di Trevi e, soprattutto, a via Veneto. Di lì a poco, compra una macchina fotografica, una Comet Bencini. Vende i negativi delle foto scattate di giorno ad agenzie giornalistiche come Associated Press, UPI e ANSA. Da mezzo secolo fa questa vita. Mai avrebbe immaginato di diventare lui stesso un pezzo di quella storia italiana che va raccontando col suo lavoro. Lui è un “fotografo per caso”: “Non sono andato a scuola. Ma ho avuto la grande fortuna di vivere accanto ai migliori fotoreporter del mondo. Loro mi hanno fatto capire la fotografia. Io sapevo a malapena cosa fosse una pellicola… All’inizio, per sbarcare il lunario, facevo il loro fattorino. Poi, senza che se ne accorgessero, ho imparato il mestiere. Apprendevo la tecnica senza rompergli le scatole. Facevo finta di sbagliare e dal modo in cui meccanicamente mi correggevano capivo e rubavo i trucchi del mestiere. Del resto, anch’io nel mio piccolo spesso risultavo molto utile alle loro eroiche performance di paparazzi, ad esempio quando mi usavano come “provocatore”. Nel momento in cui individuavano il vip, mi mandavano in avanscoperta come un minuscolo centravanti di sfondamento. Io creavo confusione poi loro arrivavano e colpivano la vittima famosa con mitragliate di scatti.”

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Il celebre fotoreporter della “dolce vita” capitolina, il ragazzo di Calabria approdato nella capitale alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, conosciuto in tutto il mondo, è un instancabile cacciatore di prede famose,ancora oggi attivissimo. Innumerevoli i suoi trofei, tra cui le celebri stars internazionali rimaste per sempre impigliate nelle sue pellicole come i Beatles, Marlon Brando, Audrey Hepburn, Jean Paul Belmondo, Kirk Douglas, Shirley McLaine, Richard Burton, Liz Taylor, Peter O’Toole, Frank Sinatra, Ingrid Bergman, Brigitte Bardot, per non parlare delle stars nostrane come Virna Lisi, Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Vittorio Gassmann, Anna Magnani, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, e ai vips più moderni come Robert De Niro, Sylvester Stallone, Al Pacino, Francis Ford Coppola, Michael Jackson, Demi Moore, Angelina Jolie, Elton John, Matt Damon, Madonna, Maradona e Lady Gaga. Inutile tentare di stilare l’elenco completo. Impossibile. Una rissa con Peter O’Toole in Via Veneto gli porta la notorietà. È il 1963, l’attore gli spacca un orecchio e il padre del giovane Barillari sporge denuncia perché minorenne. Durante 54 anni di carriera da paparazzo Rino Barillari ha collezionato 162 visite al pronto soccorso, 11 costole rotte, 1 coltellata, 76 macchine fotografiche fracassate, 40 flash divelti, numerose manganellate durante i tumulti di piazza e coinvolto in diverse sparatorie (terrorismo, rapine, rapimenti e fatti di cronaca nera). Dagli anni sessanta in poi Barillari si occupa di cinema, degli anni di piombo e di vari episodi di cronaca nera lavorando per Il Tempo e dal 1989 per Il Messaggero.”Sono stati tempi duri, in cui ho pianto e sofferto molto. Mi è capitato di fotografare amici stesi a terra, sul punto di morire: pochi minuti dopo non c’erano più, non facevano neppure in tempo ad arrivare in ospedale. In quei momenti molti mi hanno accusato di cinismo, ma poi si è compreso il valore di quello che stavo realizzando. Era doloroso, eppure bisognava rendere una testimonianza, bisognava fare la storia”.

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Il Re dei “paparazzi” è un epiteto di cui va fiero infatti racconta: “Lo portò alla ribalta Fellini nella “Dolce vita” e deriva proprio dalla Calabria infatti lo prese dal libro “Sulle rive dello Jonio” di George Gessing (Coriolano Paparazzo era un albergatore catanzarese che aveva ospitato lo scrittore inglese nel suo viaggio in Calabria), e oggi è il terzo vocabolo italiano più conosciuto nel mondo. Come non esserne fieri? Il problema è che è un mestiere in via di estinzione. Con la scusa degli scandali ne stanno distruggendo la credibilità. Oggi chiunque può improvvisarsi paparazzo. Basta un cellulare e si va all’arrembaggio, per sfornare tonnellate di foto postprodotte, finte. E poi dilagano i servizi anonimi costruiti. Questo crea un bel po’ di difficoltà a chi come me ci mette la firma e la faccia.” E continua: “Sono cambiate le tecnologie per la fotografia, adesso ci sono le macchine digitali e i grandi obiettivi. Ma soprattutto sono cambiati i personaggi. Oggi la star è costruita da un’équipe: c’è una produzione intera dietro a un personaggio, che di sé offre in ogni momento un’immagine studiata nei dettagli. Al reporter non rimane niente da documentare se non quello che la star stessa vuole mostrargli: non si può entrare nella sua vita privata, è tutta una finzione. Sono più stanchi, annoiati. Stufi anche della gente che li ferma per i selfie. Alcuni si autopromuovono pubblicando gli scatti sui propri siti. E il servizio se lo fanno da soli: l’attore rivela di essere innamorato, l’attrice di essere incinta. Che gusto c’è mostrare fotografie ritoccate e bellissime, di dive che appaiono lontane anni luce dalla gente comune?”. È stato nominato docente honoris causa in fotografia presso la Xi’an International University nell’ottobre 2011 e Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana il 2 giugno 1998. Molte sono state le mostre dei suoi scatti nel mondo tra cui le più importanti a Roma, Gerusalemme, Stoccarda, Mosca, Los Angeles, San Pietroburgo e Xi’an. Ha partecipato ad alcuni film dove per lo più ha rappresentato se stesso tra cui “Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica, “Stanno tutti bene” di Giuseppe Tornatore, “Paparazzi” di Neri Parenti, “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino e “Frank and Ava” di MIchael Oblowits per citarne qualcuno.

Ecco cosa pensa Barillari della fotografia: “La fotografia è la storia fissata e raccontata per immagini, il suo carattere fondamentale è la possibilità di immortalare l’istante: è questo che voglio fare con il mio lavoro. La mia idea è di fermare e comunicare l’importanza di un determinato momento, o di un particolare personaggio in quel momento; si può anche sbagliare lo scatto, ma ciò che conta per me, al di là del valore artistico di un’immagine, è documentare. Una volta che lo si è fotografato, si consacra l’istante alla storia. Quando ho iniziato a lavorare non pensavo che i miei scatti avrebbero assunto questo significato, me ne sono reso conto dopo. Hanno iniziato a parlare delle mie fotografie, sono stato anche molto criticato, ma si è riconosciuto che in quelle immagini c’era la storia del nostro Paese.”

 

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, eccellenzecalabresi, treccani, utopiecalabresi, italianways.com, libreriamo.it

Il Tesoro di Cosenza: La Stauroteca Di Federico II

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Il Reliquiario della vera Croce, detto Stauroteca (dal greco Stauròs che significa Croce, e heke, che significa raccolta) o Croce bizantina o Croce di Federico II può essere considerato il tesoro più importante di Cosenza. Interessante e affascinante è la sua storia. Questa importante reliquia giunse a Cosenza il 30 gennaio del 1222, in occasione della cerimonia di consacrazione della Cattedrale dopo il devastante terremoto nel 1184, come dono dell’Imperatore Federico II Hohenstaufen di Svevia alla città: “una reliquia del legno della Croce custodita in una croce aureo-gemmata”. Nonostante non si sia in possesso di un documento che ne attesti la veridicità, la critica ritiene l’evento verosimile in considerazione della politica federiciana di unità del Regno Meridionale e dei suoi rapporti con l’arcivescovo Luca Campano, promotore della ricostruzione e della consacrazione dell’edificio. In seguito ad una recente rilettura del Liber usuum Ecclesiae Cusentinae composto da Luca Campano, si attesta l’uso di una croce-reliquiario nella liturgia del Venerdì Santo che fa riferimento alla Stauroteca e alla “crocetta d’oro” fatta baciare da Carlo V quando entrò nella città nel 1535 e annoverata nel 1695 da G. B. Pacichelli tra le reliquie della Cattedrale.

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Da “Cæsar Semper Augustus”, Federico II ha la medesima visione laica del nonno materno calabro-normanno Ruggero II il quale gli ha lasciato oltretutto uno stato che è quasi un impero ma anche ereditato la potente visione unitaria dell’impero germanico dal nonno paterno Federico Barbarossa. Non vuole separare la corona imperiale da quella del regno dell’Italia meridionale, e con grande rammarico di papa Onorio III, continua ad operare in modo da annullare anche le resistenze feudali, adottando un sistema di governo che completa e razionalizza quanto di più innovativo proviene dall’esperienza politica dei nonni.  Lo “stupor mundi et immutator mirabilis”, lo stupore del mondo e il miracoloso trasformatore come ebbe a scrivere Matteo da Parigi.

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Federico ha più volte rinviato una crociata già concordata e papa Onorio III invia alla corte di Palermo il legato apostolico Niccolò Chiaromonte, vescovo di Tuscolo e cardinale, con l’incarico di obbligare il regnante, sotto la minaccia della scomunica, a rispettare le promesse. Il legato ingiunge infine all’imperatore di partire immediatamente per recarsi a colloquio con il pontefice presso la nuova Abbazia cistercense di Casamari a Veroli. Federico è un pericoloso rivale del papato nel voler gestire il potere spirituale e temporale, e con la crociata il pontefice intende allontanarlo dall’Italia, forse per sempre.

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È ormai inverno e Federico con la sua armata intraprende l’ennesimo viaggio nella penisola, cavalcando lungo le reliquie del cursus publicus ab Regio ad Capuam, nota anche come Via Popiliamostrandosi, alle popolazioni che incontra, in tutta la sua magnificenza imperiale. Tra intemperie e terribili tempeste si dirige a Veroli come gli ha chiesto il papa, ma vuole prima presiedere alla consacrazione della Chiesa di Cosenza, la città di Gioacchino da Fiore, confessore e guida spirituale di sua madre, Costanza d’Altavilla.

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Nella capitale dei bruzi, sotto la guida dell’arcivescovo Luca Campano, discepolo e biografo di Gioacchino da Fiore e abate della Sambucina a Luzzi, sono tutti impegnati a completare la chiesa, ora Duomo di Cosenza, dopo diciotto anni di duro lavoro, così come sul vertice del Colle Pancrazio di riassettare il Castello normanno, ricostruito, come l’Ecclesia maior, dopo la distruzione della città causata dal terribile terremoto del 9 giugno 1184.

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Il suono delle campane saluta il potente imperatore svevo e tutti in città assistono all’arrivo della corte, composta da principi, guerrieri musulmani, falconieri, scienziati, notai, musici e altri addetti alle mansioni più varie, tutti vestiti con un abbigliamento sfarzoso.  Ma è ancora più grande lo stupore dei cosentini al passaggio del serraglio imperiale composto da animali esotici come i leopardi e i ghepardi, giraffe, leoni ed elefanti, dromedari e cammelli con palanchini con tende che coprono alla vista donne velate misteriose accompagnate da giganteschi eunuchi neri.

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Tra sacerdotium e imperium, Federico II è oggetto di esaltazione, quasi di culto. Le maestranze erigono nel cortile del castello padiglioni eleganti con tende in grado di ospitare l’imperatore e tutto il suo seguito. Chi è ammesso all’accampamento può meravigliarsi del fastoso banchetto e dalle rappresentazioni degli artisti provenienti da tutto il Mediterraneo e disquisire con l’imperatore di argomenti che vanno dall’imminente Terza età dello Spirito di Gioacchino da Fiore alla leggenda del tesoro di Alarico fino all’interpretazione dei versi della bibbia e altre questioni teologiche.

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Federico di primo mattino si reca presso la grangia di San Martino di Canale a Pietrafitta dove Gioacchino da Fiore passò gli ultimi giorni della sua vita e successivamente venne sepolto.

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È il 30 gennaio dell’anno 1222, nel sesto anno del pontificato di papa Onorio III, e in tutta Cosenza è un giorno di festa.  Federico entra nella chiesa, indossando una tunica crociata con un ampio manto blu ricamato in oro, perle, filigrane e smalti e porta in dono la stauroteca consegnandola nelle mani di Luca Campano. In questo modo si rinnovava, una tradizione risalente a Guglielmo II (1153-1189) che era solito omaggiare con preziose croci d’oro e argento le fondazioni ecclesiastiche del regno. Niccolò Chiaramonte non può fare altro che porgere l’apostolica benedizione all’imperatore e al suo seguito e rivolgendosi alla folla consacra solennemente la Cattedrale di Cosenza in quel particolare giorno cosicché i posteri ricordino per sempre questo avvenimento.

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La storia critica della stauroteca  di  Cosenza – essa fra l’altro si può dire sia l’unica opera d’arte calabrese che possiede una vasta bibliografia – ebbe invece inizio  solo  alla  fine dell’Ottocento  quando  fu  presentata  all’Esposizione  di  Orvieto  (1896) ed è stata fin da subito oggetto di varie e contrastanti attribuzioni e datazioni.  Il silenzio perdurato fino  a  quel momento  è,  per certi  versi,  sorprendente. Nel commento a margine della mostra, Émile Bertaux riconobbe nella croce «la rivelazione più straordinaria  dovuta  all’Esposizione  (orvietana)»  e  ravvisò  in  essa «un’opera fatta a Costantinopoli, nell’epoca più florida dell’arte dello  smalto, verso i primi  anni  dell’XI  secolo». La traccia  segnata  dallo  studioso  francese  sulla provenienza orientale della stauroteca fu seguita negli anni successivi da tutti coloro che  si  occuparono  del  pregevole manufatto  e le uniche distinzioni  riguardarono  solo la cronologia del pezzo. Fu però  solo  a  seguito  della  presentazione  della  stauroteca all’Exposition internationale  d’art byzantine di  Parigi  del  1931 che il  dibattito  critico entrò  nel  vivo.  Zaloziecky   propose infatti  di  riconoscere  al  pezzo  un’origine siciliana  e  la  sua  ipotesi  fu  accettata  da  Lipinsky,  Hackenbrock   e  Haftmann, anche  se  il  giudizio  di  quest’ultimo,  espresso  nella  recensione  alla  Mostra Autarchica  Minerale  (Roma,  1939),  fu  in  parte  condizionato  dal  carattere  politico dell’esposizione.

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Si delinearono  dunque  due  filoni  critici  principali:  il  primo,  sostenuto  in modo particolare  da  bizantinisti,  tese  ad  attribuire  la  croce‐reliquiario  a  manifatture costantinopolitane  o,  quanto  meno,  a  distinguere  tra  la  parte  di  oreficeria (occidentale) e gli smalti (orientali); il secondo, portato avanti perlopiù da specialisti italiani,  ricercò  l’origine  della  stauroteca  nell’ambito  dei  laboratori  siciliani  della corte normanna.   In tempi recenti l’opzione dell’origine occidentale dell’opera si è resa prevalente e sostenuta anche dalla sua esposizione alle importanti mostre sui Normanni  (Roma, 1994) e su Federico II e la Sicilia (Palermo,  1995). I problemi di attribuzione della croce cosentina, rimasti  a  lungo  centrali nella  disamina critica del manufatto,  non  appaiono decisivi  per il  corretto inquadramento del reliquiario  che si  dimostra comunque un’alta ed originale espressione dell’arte comnena, espressione massima dell’arte ellenistica, a prescindere  da  questioni  attribuzionistiche,  anche  se  è  del  tutto  lecito supporre  che il manufatto cosentino possa essere frutto di un maestro costantinopolitano chiamato nelle officine di Palermo e/o essere stata realizzata in età tardo-normanna nei laboratori regali siciliani ed è plausibilmente entrata in possesso di Federico II assieme al composito tesoro dei suoi predecessori.

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Nonostante le lacune e le perdite, soprattutto la scomparsa di  tutti i fili  di  perle, che profilavano la croce all’esterno e i  singoli medaglioni, la stauroteca di  Cosenza emerge,  ancora  oggi, come uno  dei  vertici  più alti  della produzione dei  laboratori della  corte palermitana,  soprattutto  per il  sapiente  accordo  tra ciascuna  delle  sue parti. Se da un lato la croce affonda le proprie radici nella migliore produzione  costantinopolitana del  programma  figurativo dello  smalto  cloisonné, l’incastonatura di pietre preziose e di paste vitree entro un reticolato di cellette ad alveolo su lamina d’oro, la vera gloria artistica di Bisanzio almeno dal X secolo,  dall’altro  alcune peculiarità  iconografiche  e  stilistiche  la  connotano  indubbiamente  come  opera occidentale come  la  cosiddetta  filigrana  ‘a  vermicelli’  o  i  castoni  ‘a  cestello’ che conferiscono  all’intera superficie dell’opera un effetto di  brulicante  movimento  che,  per contrasto,  sottolinea la  fissità  delle immagini  a smalto. Sono certamente più coevi allo stile bizantino gli evangelisti, nei medaglioni laterali e la figura di Cristo, in quello centrale, mentre più vicino alla scultura gotica del 1200, sembra essere Cristo crocifisso per la resa della sua fisicità.

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Calata in un contesto storico ed artistico preciso, la stauroteca di Cosenza appare dunque  nella  pienezza  del  suo  significato  di  manufatto  prezioso  per  la  corte,  di squisita  custodia  per  la  reliquia  della  Vera  Croce  e  di  veicolo  iconografico  di meditazione sui  temi  della  Passione di  Cristo  per  quei  pochi  eletti  che avevano  la possibilità di  tenerla tra le mani  e di  osservarla da vicino. È dunque espressione di un’epoca in cui  le arti suntuarie avevano  una vocazione alla rappresentatività della dignità — veicolata dai materiali preziosi, su tutti l’oro, lavorati e combinati insieme con sapienza — se non pari, quanto meno paragonabile a quella espressa dai cicli musivi delle principali chiese. Nella  stauroteca  affiorano,  in  una  sintesi  originale  di  eccellente livello,  le differenti  tendenze culturali  che caratterizzavano  la  Sicilia normanna sullo  scorcio del XII secolo.

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La Stauroteca di Cosenza, così descritta, sembrerebbe una delle tante croci reliquario diffuse nella nostra penisola ed esposte nei più prestigiosi musei. Ma in realtà non è così. Ciò che rende tanto preziosa la Stauroteca di Cosenza è la preziosità della tecnica utilizzata per la sua realizzazione. (In questo link trovate la stauroteca in 3D http://www.museodiocesanocosenza.it/opere-360/360-stauroteca/). E’ alta cm. 26,2 e larga cm. 20,7. I medaglioni laterali misurano cm. 4,5 e il medaglione centrale cm. 5. E’ una Croce potenziata a schema cruciale quadrilobato in lamine d’oro ed orlo in filigrana. Fissata ad uno scheletro di legno, e ornata di smalti e gemme preziose. La Croce evidenzia una preziosa descrizione iconografica sul recto e sul verso. Da ambo le parti è presente l’iscrizione IC-XC, monogrammi del nome di Cristo.

Il recto presenta cinque medaglioni a smalto e sette placchette ornamentali a smalto: il disco centrale è più grande e ritrae l’immagine del Pantocratore, Cristo Signore assiso in trono, quelli laterali raffigurano gli Evangelisti per intero, seduti e nell’atto di scrivere: San Matteo (in alto), S. Luca (in basso), S. Marco (a sinistra), S. Giovanni (a destra); le placchette probabilmente rappresentano l’Albero della Vita. La disposizione dei medaglioni è stata ritenuta confacente a uno schema canonico-liturgico che, trovando affinità con quello architettonico-liturgico delle chiese ortodosse e protonormanne a cinque cupole, affermerebbe il carattere cerimoniale della stessa faccia.

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Sotto l’immagine del Redentore, per contenere la reliquia della Croce, vi è un incavo cruciforme.

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Il verso presenta quattro medaglioni a smalto e una placca cruciforme a smalto: la piastra centrale rappresenta Cristo Crocifisso con quattro chiodi (iconografia del Patiens) e si qualifica per l’accentuato plasticismo d’accezione puramente costantinopolitana. Lungo la linea dei bracci corre l’iscrizione greca lstaurosis (crocifissione);

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il medaglione in alto rappresenta un arcangelo, forse Michele; i due laterali rappresentano la Vergine sulla sinistra e San Giovanni Battista in atteggiamento intercessore sulla destra, illustrati secondo i dettami dell’iconografia bizantina della Dèisis, cioè la preghiera della Madonna e del Precursore al fine di ottenere la clemenza divina; il disco inferiore rappresenta un altare con i simboli della Passione, della Resurrezione e dell’Eucarestia, le Arma Christi, con la scritta HC – TA (=la croce).

Il piedistallo a pianta ottagonale, tardo gotico in argento dorato arricchito con statuette, sul quale poggia la Stauroteca tramite un puntale, è stato realizzato da un orafo spagnolo tra la fine del ‘400 e i primi quattro decenni del ‘500.  Si può spiegare il motivo della possibile sostituzione dell’antica base, forse logorata dall’uso o andata perduta, con il ritorno del culto per la reliquia e della devozione alla Vera Croce in seguito al Concilio di Firenze del 1439. Infatti, risalgono a quest’epoca i numerosi rifacimenti e le aggiunte di importanti reliquiari bizantini importati in Occidente. Si è pure ritenuto che il cardinale Taddeo Gaddi – o un non meglio identificato cardinale Torquemada (Juan?) – al seguito di Carlo V, abbia regalato alla Cattedrale cosentina il bel piedistallo d’argento dorato in stile flamboyant che da allora sorregge il reliquiario e oggi costituisce, assieme al coevo e simile “Calice del Duomo”, uno dei pezzi più interessanti d’oreficeria spagnola presenti in Calabria.

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La struttura interna della Stauroteca è in legno di acero, mentre il rivestimento esterno è composto da oro, pietre preziose e smalti. Il profilo del prezioso reliquiario, che doveva essere completato da un filo di piccole perle, insieme alla distribuzione delle gemme, rimanda a quello della Crux gemmata dalle estremità potenziate; queste, si allargano comprendendo medaglioni ornati ognuno da quattro castoni, in origine probabilmente impreziositi da gemme e ora ricostruiti, nel restauro del 1982, in numero di quaranta su tutta la superficie, del tipo “a cestello” realizzati con un filo d’oro ripiegato tante volte fino a formare una corolla – che trattengono un piccolo alamadino tagliato “a cabochon”. La concezione costruttiva e la decorazione del profilo delle due facce è identica, ma sul davanti la superficie dei bracci e arricchita da decorazione a filigrana disposta “a vermicelli”. La disposizione e la distanza delle strisce metalliche, atte a contenere lo smalto e dividere le sezioni colorate, delineano con efficacia le figure e il loro accamparsi nei medaglioni, esprimendo, fra l’altro, la morbidezza delle stoffe, sottolineando la struttura corporea dei personaggi e conferendo volume e vivacità icastica. Oggi è possibile visionare questo bellissimo e importantissimo tesoro nel Museo Diocesano collocato nel centro storico della città di Cosenza.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: http://www.museodiocesanocosenza.it/la-stauroteca/ , http://www.ladeaeditori.it/federico-ii-a-cosenza-ita.html , http://www.incalabriatiguidoio.it/la-stauroteca-di-cosenza/ , http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it , Martinelli Stefano:La stauroteca di Cosenza.Iconografia, tecnica, stile, foto da internet.

Tra Grotte e Misteri: La Civiltà Rupestre in Calabria

cxy17soxuaaqjww-e1517352942785.jpgAncor prima della fondazione delle numerose città Magno-Greche in Calabria, risalenti al periodo che va dall’VIII al V secolo A.C., vi sono vestigia di agglomerati urbani che fanno pensare a più antichi centri abitati, ma non con tracce di città in muratura, bensì si fa riferimento a siti, ancora integri, di insediamenti rupestri. Sulle loro origini, che per tanti versi sembrano misteriose, è in corso da alcuni decenni una ricerca che dà ormai luogo ad interessanti scoperte. Il popolo che ha scavato tali grotte ha fondato la “Civiltà rupestre”. Ma in che epoca? Deduzioni logiche ci dicono che bisogna risalire ad una civiltà pre-ellenica: non bruzia, o latina, o greca non use ad abitare in siti rupestri, e nemmeno Enotra e Iapigia di cui è nota la tipologia degli insediamenti. Nè vi sono testimonianze letterarie che parlano di un popolo scavatore di insediamenti rupestri che già da sempre sono descritti come esistenti (Senofonte nell’Anabasi). Inoltre queste costruzioni se edificate in “periodo storico”, avrebbero dovuto lasciare memoria in numerosi riferimenti da commentari e da storici (il fenomeno non sarebbe sfuggito a Plinio, a Strabone, a Stefano Bizantino) mentre nulla permane. Ed allora bisogna risalire ad epoche precedenti, e, per deduzione, a popoli decisamente preistorici, anzi ad un unico popolo scavatore di grotte: questo popolo operò e visse sia da noi che nel Nord-Africa ed in Asia Minore e soprattutto nei paesi dell’Europa orientale. Una attenta ricerca archeologica, del resto mai operata, potrebbe indicarne il periodo originario con maggiore precisione. Fu primo il prof. Cosimo Damiano Fonseca ad aver detto che le grotte di tutto l’arco ionico ed altre d’oltremare sembrano edificate dalla mano di uno stesso popolo. Anzi ha precisato: “Quello che v’é da dire per un insediamento, vale per tutti gli altri!” L’asserzione convalida adeguatamente le ipotesi formulate su una unica civiltà preistorica che per libera scelta abitativa adottava insediamenti ipogei ed in tutto il bacino del Mediterraneo. Infatti si sono potute osservare delle caratteristiche architettoniche comuni in tutti gli insediamenti. Le analogie sono fondate su così sottili particolari che non vi é ombra di dubbio sulla loro unica matrice. Ne enumeriamo alcuni:

1) grotta di civile abitazione, alta in media m. 2,50, ad uso della famiglia troglodita, molto spesso divisa in due antri interni da colonna divisoria (Casabona, Matera, Massafra, Cappadocia);

2) piccole nicchie absidali alla base delle pareti e triangolari nella parete alta per riporvi orcioli di acqua, vino, miele, ecc. (Casabona, Matera Massafra);

3) fori alti per inserirvi la struttura di ripiani lignei, fori bassi per lettiere. (Matera, Casabona, Massafra, Petilia, Zungri)

4) criptoportico: intorno all’atrio spesso insistono una serie di grotte a raggera (Bari, Massafra, Casabona, Petilia);

4) sistemi di grotte caratterizzati talvolta da corridoio di ingresso (dromos), con distribuzione degli ambienti sui due lati (Bari, Matera, Casabona);

7) vasto camerone quale ” laboratorio ” che in periodo medievale ospitò, poi, trappeti o palmenti (a Casabona ancora oggi, Zungri).

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Sulle colline digradanti dalle pendici orientali della Sila, verso il mar Ionio, si concentra un gruppo consistente di aggrottamenti distribuiti in vari comuni della provincia di Cosenza e di Crotone. Questi centri più che mai si configurano come preistorici, e, siccome dalle caratteristiche appaiono coeve alle grotte materane, anch’esse sono da classificare d’origine del Paleolitico superiore con prosecuzione nel Neolitico. Le tipologie dell’habitat rupestre calabrese includono una vasta gamma di modelli di villaggi: si va dai grandi casali rupestri, quali Casabona, Verzino, Caccuri e Sbariati di Zungri ai piccoli nuclei insediativi composti da poche unità come Melissa e Rocca di Neto, fino alle dimore rupestri isolate, assimilabili all’insediamento sparso, come l’abitazione di Belvedere Spinelli. Un’analoga complessità si riscontra anche nella strutturazione urbanistica dei maggiori villaggi rupestri calabresi, riconducibili sostanzialmente a due categorie: la prima include unità disposte su più livelli ricavate nella roccia sfruttando gravine con pareti verticali ad andamento sinuoso o a gradoni lungo piste parallele, con accesso sia dalla sommità dell’altura che dal fondovalle, come ad esempio nei casi di Verzino, Casabona, Caccuri, Pietrapaola o, in parte Zungri, dove tuttavia la disposizione appare meno regolare; in altri casi le unità abitative si dispongono lungo un unico livello, come nel villaggio di Colle della Chiesa a Petilia Policastro o negli aggrottamenti di Rocca di Neto e Melissa. La sussistenza nei maggiori tra i casali rupestri considerati di un efficace impianto di viabilità interna, di raccordi tra i diversi livelli dell’insediamento realizzati con gradini ricavati nella roccia, di sistemi per la canalizzazione e la raccolta delle acque pluviali, costituisce l’indice di un embrionale ma efficace modello di ‘urbanesimo rupestre’, peraltro ancora sfuggente sotto molti aspetti. Così la stessa, diremmo, qualità della vita in relazione al materiale delle dimore rupestri risulta comparabile se non, per alcuni versi, superiore, rispetto a quanto si coglie dallo studio dei coevi villaggi epigei o di alcuni settori delle città medievali, dove abitazioni in materiale deperibile, di certo per tanti aspetti più precarie e meno salùbri delle dimore ricavate nella roccia, costituivano una costante del paesaggio. All’interno di alcuni villaggi si colgono altresì indizi di una seppur minima gerarchizzazione sociale, quali la maggiore raffinatezza di alcuni manufatti all’interno di uno stesso villaggio, come nel caso della cosidetta Grotta del Principe a Pietrapaola, o alcune abitazioni rupestri di Zungri che si distinguono per una ricercatezza estetica e per una certa complessità spaziale. La non infrequente attestazione, accanto a stalle, di strutture di lavorazione e trasformazione dei prodotti della terra quali i palmenti, l’individuazione di silos per la conservazione dei cerali, di vasche di lavorazione, e di forni, consente di scorgere, seppur in maniera ancora confusa, il rapporto tra i centri rupestri e il territorio circostante. Allo stesso modo la presenza di artigiani-intagliatori della pietra indica la capacità dei rupestri di disporre di saperi empirici non irrilevanti che potevano tornare utili in attività artigianali, come attestato a Petilia Policastro. Infine il collegamento, nella gran parte dei casi ad arterie viarie che connettevano tali nuclei demici (si pensi solo ai centri posti lungo le vie della valle del Neto, o Melissa e Verzino lungo l’itinerario della via Silara ricordata in una carta dell’imperatrice Costanza del 1196), fornisce la possibilità di postularne un rapporto con i fulcri economici principali dei rispettivi territori. Si tratta di elementi che concorrono nel delineare una situazione che inserire nella categoria socioeconomica della marginalità apparirebbe quantomeno azzardato.  Non usa mezzi termini Marilena De Sanctis, professoressa e autrice di un importante studio sull’urbanistica rupestre: “I monaci basiliani non scavarono nulla, semplicemente riutilizzarono qualcosa di preesistente”.

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Nella zona dello Ionio Cosentino sono presenti queste caratteristiche “città fatte di grotte” permeate da un alone di mistero riguardante le loro origini e dove poi successivamente furono trasformate, riadattate e modellate ad usi congrui per ogni epoca come per esempio Rossano con i monaci basiliani. Proseguendo verso mezzogiorno, nella provincia di Crotone, lungo la valle del Neto, un’importante arteria di penetrazione verso la Sila e il versante tirrenico (la Silara) agganciata alla via litoranea jonica traianea, la medievale via de Apulia, si snoda una serie di insediamenti che presentano le caratteristiche peculiari dei casali rupestri. E se Casabona era il centro propulsore di una civiltà, la città capoluogo, molti villaggi rupestri le ruotavano intorno: Caccuri e Cerenzia con oltre un centinaio di grotte, Petilia Policastro con un congruo villaggio rupestre, Cotronei con ben tredici siti ipogei, Mesoraca con la sua località “Grutti”, e poi a Nord i caratteristici Melissa e Verzino e a Sud Santa Severina, Rocca di Neto e Belvedere Spinelli; e tutti i siti sono disposti in piccole valli, ma a ridosso di percorsi transumanti per indicare la vocazione pastorale seminomade di quella antica popolazione. L’utilizzazione delle grotte a scopo abitativo sarà stata poi praticata, ma in tono del tutto trascurabile, durante l’Evo Antico, il Tardo Antico ed il periodo bizantino. Il Monachesimo italo-greco in alcuni di tali siti fu solo un fenomeno transitorio, come a Colle della Chiesa, a Santa Lucia, a Timpa dei Santi, da riferire ad epoca tra il VII e il XII secolo d.C. e più che aver scavato ha rimodellato alcune grotte. Presso il sito di Colle della Chiesa è stata rinvenuta un’ascia in pietra ed oggetti di selce e presso Timpa dei Santi delle asce dell’età del bronzo testimonianza che la zona era già abitata in epoche molto precedenti; non sembra affatto, infine, una coincidenza che le grotte di Casabona furono costruite in terreni del “Cenozoico” formati da calcareniti e da arenarie molto atte ad essere incise e soprattutto in strati geologici ricchi di selce che potrebbe essere stata la motivazione primaria della ubicazione, ma sicuramente lo è stata dello sviluppo della città rupestre preistorica. Scendendo poi più a Sud nel reggino abbiamo i casi isolati di Gerace e Sant’Ilario allo Jonio e Brancaleone e Vinco. Ancora più raro è invece il villaggio situato nel comune di Zungri che può considerarsi un unicum nel panorama dei villaggi rupestri in Calabria perché si affaccia sul mar Tirreno.

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ROSSANO

Gli insediamenti rupestri di Rossano risultano tra i più rilevanti e meglio studiati; qui, ad un consistente complesso all’interno del perimetro urbano con unità pluricellulari a pianta tendenzialmente rettangolare concentrate in tre nuclei principali, si affianca un secondo complesso in rupe nelle campagne circostanti. Un’identita scavata nel tufo da una comunità che viveva di pastorizia e agricoltura che ha dato vita ad un insediamento trogloditico. Le strutture sono scavate nell’arenaria e dislocate in quasi tutto il territorio; alcune sono inglobate in abitazioni e sono diventate magazzini. NeI rione “Pente” vi sono ventuno unità rupestri, di cui sette rilevate, oltre a quelle non più visibili perché andate distrutte. Un secondo nucleo omogeneo di undici unità, di cui sette rilevate, è situato nell’area Nord-Est del centro urbano, nella zona detta Conceríe, nella quale, come suggerisce il toponimo, era fiorente l’industria conciaria: ciò permette di ipotizzare che esse fossero opifici o magazzini. Sette, tre rilevate, sono ubicate nell’area denominata “Spuntone”, sei grotte al “Ciglio della Torre”. In Contrada Calamo si riscontrano quattro unità rupestri scavate in unico sperone roccioso e intercalate da una serie di gradini che consentono un facile accesso alla sovrastante spianata. Marilena De Sanctis commenta così i suoi studi su Rossano: ”Rossano presenta un centinaio tra grotte ed insediamenti rupestri. Di questi ne sono stati documentati trenta, con un accurato rilievo e documentazione, in sezioni e piante. Tanto da poter parlare di Rossano come città in rupe. Da qualsiasi parte si voglia raggiungere il centro storico, è facile vedere delle feritoie nella montagna, alternando ad abitazioni private del centro storico con un piano terra scavato. Una sorta di grotta palazzo sul modello pugliese. Rossano come Matera, come Casalrotto, come le Gravine di Puglia, come Massafra. Tutte zone in cui l’insediamento e la documentazione di una civiltà rupestre è parte integrata di un contesto, che fino agli anni ’50 non raccoglieva alcun interesse e che invece oggi, ha permesso a Matera di diventare capitale della cultura 2019. A Rossano si potrebbe fare altrettanto. Ogni casa di proprietà ha centinaia e centinaia di metri quadri di grotte, monocellulari e pluricellulari, scavati da pastori e contadini.”

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PIETRAPAOLA

Di grande interesse risultano gli aggrottamenti di Pietrapaola costituiti da un nucleo rupestre principale dispiegato lungo il costone della Timpa del castello, un massiccio bastione arenitico ospitante numerose unità rupestri, ricavate su livelli grossomodo paralleli, e da un secondo nucleo ricavato lungo un imponente costone prospiciente, della stessa natura geologica, la Roccia del Salvatore, dove spicca, sul punto più alto dell’insediamento, la cosiddeta Grotta del Principe, un esempio estremamente raffinato di architettura rupestre, individuato negli anni ’70 da Domenico Minuto: si tratta di un invaso tricellulare cui si accede attraverso una serie di gradini ricavati in roccia, al cui interno si rinviene un arco a tutto sesto e una serie di colonnine con capitelli a motivi floreali riprodotti nell’arenaria. Oggi molte delle grotte sono state chiuse da privati e adibite a stalle o cantine. Una dimensione rupestre che del resto trova riferimento già nel nome stesso del paese derivante, secondo alcuni studiosi, dalla combinazione fra il termine pietra e il nome proprio Paula (dal lat. Paulus) oppure da un termine osco arcaico “petrapa” col significato di ‘luogo della rupe’ riferibile alla grande rupe che lo sovrasta.

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CAMPANA

Altra comune interessato al fenomeno rupestre è senza dubbio Campana. Molto interessanti sono le centinaia di grotte in tutto il circondario del territorio di questo paese silano( ricordiamo anche quelle del comune vicino di Scala Coeli) e tra queste quelle più conosciute sono le “Grotte di Guardia”, un complesso di grotte scavate con grandissima cura nell’arenaria che hanno una larghezza e una profondità davvero notevole. Gli studiosi e gli storici parlano di abitanti del Neolitico, di guerrieri-pastori enotri e bruzi, di profughi fuggiti dalle invasioni arabe, di monaci bizantini, di eremiti che praticavano l’ascetismo e di contadini e briganti. Una lunga serie di gente che ha vissuto qui. Oggi le loro uniche tracce sono i segni di scalfittura, la patina di fuliggine sulle pareti e due grotte sono state murate con pietre e mattoni e usate come granai, magazzini e stalle. Ma forse quelle più importanti si trovano in località Incavallicata sotto le maestose e gigantesche “statue di pietra”, a tre metri l’una dall’altra, dell’Elefante e del Ciclope.  La prima figura è un elefante, precisamente un “elephans antiquus” antenato dei mammut, alto circa 5 metri, splendidamente scolpito, con le zampe posteriori in una flessione ponderale che lo fa sembrare in movimento e con gli occhi, la proboscide e le zanne ben marcati (i fossili di un intero elefante di questo esemplare sono stati ritrovati a pochi chilometri di distanza nel 2017 sul lago Cecita. Le misure del fossile coincidono con quello della statua). Dietro la zanna c’è un’altra protuberanza cilindrica mutilata che si protende verso il basso, e dà l’impressione della gamba di un uomo in groppa all’animale, ma la statua nella sua parte alta è incompleta. La seconda è alta sei metri ed è di interpretazione più difficile, ma forse rappresenta due gambe umane fino alle ginocchia, (poi la statua si interrompe poiché mutilata della sua parte superiore). Sarebbe stata nel complesso una figura davvero gigantesca. La posizione ricorda molto le statue di Memmone a Tebe e quelle di Ramses II nella facciata del Tempio di Abu Simbel in Egitto. I blocchi mancanti sono in parte andati perduti, in parte giacciono sul terreno circostante a qualche decina di metri di distanza.  Come dice lo scopritore del sito, l’architetto Domenico Canino: ”Se tali giganti fossero opera umana, saremmo di fronte alle sculture preistoriche più grandi d’Europa” e quindi ad una civiltà molto evoluta. Sotto le due figure nel blocco di roccia sottostante sono state scavate due piccole grotte, testimonianza di una civiltà cavernicola. La zona e’ particolarmente ricca di testimonianze preistoriche: il territorio di Campana, in base ai reperti rinvenuti negli anni e conservati all’ interno dei musei di Reggio Calabria e Crotone, risulta essere abitato sin dall’età del Ferro. Sono una testimonianza millenaria di una straordinaria civiltà preistorica della Calabria.

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CASABONA

Il complesso rupestre calabrese più esteso è costituito senza dubbio dall’insediamento di Casabona . Oggi piccolo centro di appena 3000 abitanti, si configura come il villaggio preistorico più popoloso dell’antica Calabria. Se si escludono le grotte scavate di recente, le altre presentano le caratteristiche tipiche delle grotte neolitiche, mentre numerose sono state inghiottire dalla moderna urbanizzazione, altre ritoccate, ingrandite. Dal numero di quelle arcaiche doveva contenere, approssimativamente, almeno 200 fuochi (una enormità per il Neolitico) e gli abitanti dediti soprattutto ad una economia piuttosto pastorale che agricola, quindi seminomade, come è considerata per esempio dai Materani la civiltà neolitica dei Sassi.  Il villaggio si distribuisce sui due versanti della forra di Vallecupa. Lungo il versante sinistro della valle, al di sotto dell’attuale abitato, il Casu Bonum delle fonti medievali, si distende il nucleo maggiore, distribuito a scacchiera su ben sette terrazze parallele degradanti a spirale, ad andamento sinuoso confluenti verso l’unico asse viario di fondovalle, come ancora appare, su ognuna delle quali si dispongono, lungo piste naturali decine di grotte scavate nell’arenaria.  Molte delle unità rupestri presentano le caratteristiche tipiche dell’abitazione e l’utilizzo di elementi in muratura, articolate in uno o più vani. In quest’ultimo caso la parte più interna risulta divisa in due ambienti da un setto ricavato nella stessa roccia. Alla base dei vani spesso si aprono piccole nicchie per la conservazione dei prodotti. Gli ambienti si caratterizzano per la presenza di numerosi fori funzionali all’alloggiamento di pali lignei: pertugi sulla parte bassa indicano la presenza di lettiere sulle quali si posizionava il materasso, altri fori, posti più in alto, costituiscono innesto per ripiani e mensole. Alcune abitazioni sono fornite anche di focolare, né mancano locali adibiti ad attività di trasformazione dei prodotti della terra, quali vasche di palmenti per la realizzazione del vino: quest’ultimo ambiente è parte di un’unità tricellulare organizzata intorno ad un atrio centrale. All’interno di alcune grotte si rinvengono nicchie archiacute, elemento che sembra poter indicare una cronologia tardo medievale. La dimora rupestre spazialmente più complessa di Casabona si articola in un corridoio lungo il quale si accede da un lato e dall’altro a 4 vani scavati nella roccia. Il complesso conserva le tracce di un efficace sistema di canalizzazioni esterne ricavate nella roccia funzionale al deflusso delle acque. La lunga durata di attività dell’insediamento antropico a Vallecupa è testimoniata dalla circostanza che ancora negli anni 40 quasi tutte le unità rupestri, circa 450, erano utilizzate dagli abitanti del luogo che le detenevano in fitto dall’ente comunale. Che sia stata in epoca successiva al Neolitico l’antica Cone o l’antica Pandosia, o abbia avuto altro nome non cambia l’importanza della sua presenza nella preistoria calabra.

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MELISSA e VERZINO

Nel territorio di Melissa si individua un gruppo di nuclei rupestri, alcuni fagocitati dalla conurbazione del borgo, almeno altri due ancora ben visibili nelle campagne; qui l’aggrottamento si sviluppa lungo una pista di fondovalle ai piedi del colle sulle cui pendici sono ricavate le unità rupestri, tutte monocellulari a pianta quadrangolare, di diversa estensione. Talvolta gli ingressi risultano tompagnati da pietre legate da malta mentre i soffitti sono piatti o a capanna. Non distante, nel territorio di Crucoli si individuano altre unità rupestri. Il villaggio rupestre di Verzino fu ricavato lungo i fianchi arenitici della collina Spiruni su cui sorge l’attuale borgo a circa 500 m s.l. m., pochi chilometri ad est di Melissa. L’insediamento si compone di oltre 70 unità rupestri disposte su 4 livelli di terrazze ad andamento spiraliforme, attualmente per lo più adibite a deposito per attrezzi agricoli. Le unità rupestri di Verzino presentano planimetrie differenti con articolazioni interne che vanno dal semplice vano, probabilmente depositi, alle più complesse strutturazioni tricellulari tra loro comunicanti, con tracce di sedili risparmiati e nicchie sulle pareti con funzioni di credenze e per l’appoggio di lucerne. All’interno delle unità si notano spesso buchi di palo che dovevano reggere sistemi di scaffalature per la conservazione dei prodotti. I diversi livelli sui quali si dispone il villaggio, risultano raccordati da piste che costeggiano le unità rupestri.

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CERENZIA e CACCURI

Non lontano da Casabona, nel comune di Cerenzia, nei pressi dell’antico centro è ancora visibile un piccolo nucleo abitativo rupestre composto da 9 unità ricavate lungo un costone di arenaria, al cui interno sono nicchie, incisioni cruciformi, forni in muratura e pilastri divisori ancora in muratura. Appena a sud di Casabona e Cerenzia, nel territorio di Caccuri, si individuano almeno 4 distinti centri demici rupestri. L’insediamento più consistente è posto lungo la parete meridionale dello spalto di arenaria sulla cui cima fu edificato il castello di Caccuri. Le unità rupestri attualmente rilevabili sono circa 50, disposte lungo terrazzamenti paralleli. Di particolare interesse un’abitazione con due ambienti comunicanti parzialmente divisi da un setto risparmiato nella roccia e un livello superiore. Il livello inferiore presenta una pianta rettangolare con soffitto a capanna; nella parete di sinistra si notano due nicchie e un’apertura per accedere alla quale furono realizzati gradini ricavati nella roccia; sulla destra è un foro praticato in corrispondenza dell’imposta della falda del soffitto. La porta conduce ad un secondo ambiente di pianta rettangolare irregolare, con soffitto a volta a botte irregolare e chiusa da un muro a secco sul lato meridionale. Attraverso una “botola” si accede ad un ambiente soprastante a pianta elissoidale. Si tratta di un tipo di abitazione rupestre che non trova confronti in Calabria. In genere le abitazioni rupestri di Caccuri risultano strutturate in ambienti monocellulari e dicellulari, con nicchie scavate lungo le pareti e, talvolta, con chiusure in muratura. Poco distante, in contrada Patia, nei pressi del monastero dei tre fanciulli, è presente un piccolo aggregato rupestre formato da almeno sette unità all’interno delle quali si scorgono nicchie e fori per travi, con ingressi in muratura. Sempre in territorio di Caccuri un nucleo di 5 grotte si rinviene nella località Vurdoi in prossimità dei ruderi di un’anonima chiesetta. Ancora lungo la valle del Neto, è l’insediamento rupestre di Timpa dei Santi: si tratta di un nucleo insediativo di cui oggi sussistono almeno 4 unità rupestri monocellulari gravitanti intorno ad una chiesa rupestre ricavata nella calcarenite con tre nicchie sul fondo affrescate.

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COTRONEI

Nel territorio di Cotronei si individua una costellazione di aggrottamenti, disposti lungo le vie di crinale che costituivano itinerari di risalita dallo Jonio in direzione della Sila sin dall’epoca preistorica. Tra questi i più consistenti e meglio conservati si rinvengono nelle contrade Rivioto, Santa Lucia e Favata. Quest’ultimo è costituito da almeno 20 unità rupestri visibili lungo un costone arenitico, mentre altre sono state inglobate in recenti edifici in muratura. Si tratta di unità per lo più monocellulari, di dimensioni variabili tra i 20 e i 30 mq, frequentemente tompagnate parzialmente da pareti in muratura. A poche centinania di metri si rinviene il piccolo nucleo rupestre di Santa Lucia, dove sussistono alcune unità, anche di notevoli dimensioni (fino a 100 mq), articolate in più vani, alcune comunicanti tra loro con solai a volta e a capanna, mentre altre sono state cancellate dalla conurbazione della zona. La vicinanza dei due complessi all’abitato medievale di Cotronei ne indica la natura di piccoli villaggi rupestri. Infine sei unità rupestri costituiscono il piccolo nucleo di località Rivioto, disposto su un unico livello: qui le grotte presentano una tipologia standardizzata, con intradossi voltati, nicchie interne e fori per mensole; in una delle unità si riscontra un raro caso, per la Calabria, di lettiera ricavata nella roccia di una foggia riconducibile alla tipologia ad arcosolio.

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PETILIA POLICASTRO

Il villaggio rupestre di Colle della Chiesa si articola in circa 30 unità, distribuite sui due livelli digradanti che caratterizzano il colle, 7 sulla terrazza superiore, almeno 23 sul costone inferiore. La tipologia degli ambienti rupestri di Colle della Chiesa risulta alquanto varia: le unità differiscono per dimensioni ( ve ne sono di monocellulari e bicellulari divise da setti risparmiati nella roccia, oltre a due esempi di ipogei con tre ambienti che si aprono lungo un portico esterno), per icnografia (tendenzialmente circolare o trapezoidale), per la forma dei tetti (a capanna e a volta), ma anche per i modi di realizzare i giacigli, che potevano essere ricavati nella roccia o con il già ricordato sistema delle lettiere lignee. Gli ingressi non presentano segni di chiusure in muratura. Singolare nel panorama rupestre policastrese risulta essere una grotta il cui ingresso è posizionato ad oltre tre metri dal piano di calpestio. Fori nella parete rocciosa testimoniano come l’accesso avvenisse attraverso una scala con pioli lignei. Alcune grotte presentano numerosi fori parietali su di una medesima parete, tracce in negativo di una complessa struttura di scaffalature, probabilmente per l’essiccazione dei formaggi o per la conservazione di altri prodotti. L’individuazione in uno di questi ambienti di una croce incisa nella roccia, con evidente funzione apotropaica, testimonia l’importanza che, nel contesto della loro economia, gli abitanti di quei casali attribuivano ai prodotti lì conservati.

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MESORACA

A Mesoraca, nel cui territorio ricadeva la celebre abbazia cistercense di Sant’Angelo de Frigillo, in località “Grutti”, nelle vicinanze dei ruderi di una chiesa medievale, si conserva un insediamento costituito da circa 20 unità rupestri disposte su un unico livello. All’interno delle grotte si scorgono nicchie ricavate nella roccia con funzioni di ripostigli, nicchiette laterali basse e triangolari, fori laterali alti per ripiani, e fori posti in basso per lettiere. Non mancano, in qualche caso, forni con volte realizzate in muratura utilizzando calcarenite e argille. In alcune unità rupestri, almeno in 5, si nota la presenza di intonaci dipinti e in un’altra si scorge un efficace sistema di raccolta interna delle acque. L’elemento icnografico e spaziale più notevole del complesso rupestre mesorachese si rinviene nella parte centrale dell’insediamento: qui, attorno ad un atrio, si distribuiscono a raggiera tre ambienti; partendo di qui altre tre unità risultano collegate da un cunicolo interno che si estende per una lunghezza totale di ben 40 metri.

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SANTA SEVERINA, ROCCA DI NETO, BELVEDERE SPINELLI

Anche il centro di Santa Severina conserva tracce di un insediamento rupestre lungo i fianchi rocciosi del colle, nel quartiere Grecìa qui alcune unità rupestri, già notate da Paolo Orsi, sembrano indicare l’esistenza di un nucleo demico consistente in rapporto con il borgo soprastante. Poco distante da questi casali, ancora nel territorio Marchesato lungo la riva destra del Neto, si rinvengono altri nuclei rupestri con caratteristiche analoghe. Nei pressi della confluenza del torrente Vitravo nel fiume Neto, a pochi km dalla costa jonica, il territorio di Rocca di Neto custodisce un casale rupestre composto da oltre 40 unità ricavate nell’arenaria, lungo le pareti di tre colli nelle vicinanze dell’antica Rocca di Neto. Le unità, monocellulari e bicellulari, si dispongono su di un unico livello e presentano schemi planimetrici quadrangolari, con soffitti piani e nicchie scavate lungo le pareti. Scendendo lungo la valle del Neto, in territorio di Belvedere Spinello, si conservano i ruderi di un piccolo oratorio rurale nelle cui immediate vicinanze si rinvengono tre unità rupestri scavate in una calcarenite molto compatta. La tipologia potrebbe far pensare ad un piccolo insediamento lavritico ma non è da escludere si tratti un minuscolo nucleo di casale rupestre.

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BRANCALEONE e VINCO

Il piccolo borgo di Brancaleone superiore, oggi abbandonato, sorge su di una collinetta a circa 300 m s.l.m. nei pressi della costa jonica. Il complesso ipogeo, individuato da Francesca Martorano, si posiziona nei pressi dell’abitato subdiale ed è costituito da una ventina di unità rupestri disposte in tre nuclei principali di aggrottamenti, in parte inglobati in abitazioni in muratura. I nuclei rupestri erano collegati alla viabilità maggiore attraverso un sistema di sentieri che conducevano al fondovalle da dove si accedeva agevolmente alla via litoranea jonica. Le unità abitative di Brancaleone si caratterizzano per le dimensioni ridotte con presenza di nicchie per lucerne e sedili ricavati nella roccia, una articolazione interna elementare (solo di rado si riscontrano suddivisioni interne) e per una planimetria tendente alla circolarità. In un caso si osserva la presenza di vasche per la lavorazione la cui funzione specifica non è possibile precisare. La strutturazione dei piccoli nuclei demici rupestri di Brancaleone si completava con la presenza di una chiesa rupestre a pianta elissoidale, la Madonna del Riposo, dove sono conservati affreschi databili al XVI secolo. La più famosa è sicuramente la “Grotta dell’Albero della vita”, famosa in tutta Europa perché unica nel suo genere per tipologia (si pensi che delle grotte simili si trovano soltanto in Cappadocia); essa attira ogni anno studiosi ed appassionati che si immergono in un atmosfera suggestiva che solo questo luogo riesce a trasmettere. Sono ancora visibili dei graffiti davvero incredibili, posti dove un tempo vi era l’altare, orientato secondo la tradizione verso levante, un pavone stilizzato ed una croce astile. Sebastiano Stranges (noto archeologo e ricercatore, attivo collaboratore nella gestione del Parco Archeologico Urbano di Brancaleone a cura della Pro-Loco di Brancaleone), dopo aver scoperto molte grotte nel 2016 nel comune di Brancaleone, ha dato notizia che, agli inizi del 2018, nella zona detta “Calvario”, sono state individuate delle grotte interrate da detriti di frana che non sono state mai censite dagli studiosi perché praticamente nascosti dalla vegetazione affermando che è un altro passo per la riscoperta dell’antica Sperlinga, dal Greco Spelingx che vuol dire caverna-spelonca-grotta, che secondo i suoi studi corrisponde proprio con Brancaleone. Alla punta estrema della Calabria, poco a nord della città di Reggio, è stata individuata una serie di insediamenti rupestri alla falde meridionali dell’Aspromonte nei pressi del centro di Vinco a pochi km da Reggio, 13 nuclei per un totale di circa 50 unità rupestri, che, a differenza di Brancaleone, appaiono totalmente isolati, privi di qualsiasi collegamento con la non lontana città sullo Stretto e con la viabilità maggiore della zona. Alcune delle unità rupestri identificate, tuttavia, presentano una organizzazione planimetrica relativamente complessa, articolandosi in diversi ambienti e, in un caso, strutturandosi intorno ad un piccolo vestibolo centrale avente la funzione di raccordo tra diversi ambienti, fornito di camino con fori d’areazione in alto.

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GERACE e SANT’ILARIO DELLO IONIO

Nei pressi del borgo, in contrada Stefanelli, è stato individuato un piccolo nucleo di villaggio, già attivo in età preistorica, dalla quale provengono ricche testimonianze archeologiche conservate nel Museo Civico della Città sito in Piazza Tribuna. Si pensa che la zona sia abitata da lungo tempo perché sono stati rinvenuti resti del periodo neolitico anche sull’acrocoro di Prestarona (dal greco”colombaia”) e nella grotta di Kau (dal greco baratro/voragine”) tra cui un’ascia bipenne in bronzo, dei coltellini in ossidiana e una testa di mazza a forma di virgola. Anche nella vicina grotta del Ponte sono stati rinvenuti ben 14 asce di bronzo che secondo il compianto scrittore Salvatore Gemelli appartenevano ad una popolazione preistorica che aveva contatti con la cultura egeo micenea. A Sant’Ilario ha fatto scalpore ultimamente il ritrovamento, fatto dell’Ingegnere Giuseppe Fausto Macrì insieme ad un gruppo di suoi amici, di un complesso rupestre di sensazionale bellezza composto da due ambienti. Il primo, a sezione pressoché quadrata, misurava approssimativamente 2.70 metri in larghezza e poco meno di 3 metri in altezza, per una profondità di circa 15 metri. La presenza di piccole stalattiti sul soffitto e di notevoli concrezioni calcaree sulle pareti concorre a far supporre un lunghissimo periodo di inutilizzazione della grotta se non come sorgente: il muro, ora crollato, all’imbocco della grotta serviva appunto a raccogliere l’acqua, che, poi, raggiunta l’altezza di un foro, fuoriusciva all’aperto. Per questo motivo, tra l’altro, il sito era conosciuto come sorgente (è anche così riportato in mappa catastale). Sul fondo di questo primo ambiente, parallelamente alla sezione di imbocco, persiste una parete perfettamente liscia, al centro della quale c’è un varco, della profondità di quasi 2 metri, che conduce ad un secondo ambiente: la particolarità di questo varco è data dalla forma ad arco a “sesto acuto” del traverso superiore, che denota ulteriormente la fattura antropica dell’intero complesso.  Questo secondo ambiente ha pianta circolare, con le pareti perimetrali che si innalzavano verticalmente per circa 2 metri, per poi assumere una conformazione a cupola, con un’altezza interna massima di circa 4.00-4.50 metri. In posizione fondale, perfettamente in linea con l’asse longitudinale dell’intero complesso e con il varco di collegamento, una piccola nicchia, anch’essa apparentemente sormontata da un arco a sesto acuto, delle dimensioni di circa 60 x 100 cm ed una profondità di circa 40. All’interno di questo, un altro incavo, di dimensioni molto ridotte (10 x 20 cm, per una profondità di un’altra decina di cm), che appariva essere la vera e propria bocca della sorgente, essendo in tal punto lo stillicidio un po’ più copioso e continuo. Alla base della “nicchia”, consistenti concrezioni minerali, bianchissimi, stratificati e declinanti verso il centro dell’ambiente. Parzialmente inglobati in questo ammasso di concrezioni, si intravedevano alcuni elementi litici (uno a forma concava, per metà emergente dalle concrezioni, apparentemente sbozzato a mano), e alcuni blocchi squadrati di circa 60 cm di lunghezza. Sulle pareti erano ancora a fatica visibili dei piccoli fori, di qualche cm di diametro e profondità, forse effettuati per l’alloggiamento di fiaccole. La presenza di due sorgenti, di cui la prima, in posizione defilata nella prima sala e caratterizzata dalla presenza di zolfo, mentre la seconda, pura e cristallina, in posizione più solenne, nella sala circolare, suggeriscono l’ipotesi che il complesso fosse destinato alla celebrazione di riti orfici in cui il divieto di bere alla prima fonte e l’importanza di bere alla seconda, la fonte della dea Memoria, risulta atto indispensabile per avviarsi alla via sacra.

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ZUNGRI

Nel panorama dei rarissimi villaggi rupestri individuati lungo il versante tirrenico calabrese, l’esempio più ragguardevole è costituito dal casale degli Sbariati di Zungri, località ricordata per la prima volta nelle Rationes decimarum del 1310. Il villaggio sorge sull’altopiano del monte Poro dominante il promontorio di Tropea, intorno ai 600 m.s.l. Posizionato nei pressi del tratto della via Popilia che collega le pianure di Sant’Eufemia e di Gioia Tauro, non lontano da Mileto, l’insediamento rupestre degli Sbariati si compone di circa 80 unità rupestri, disposte in maniera abbastanza caotica lungo una serie di terrazzamenti e piccole gole. L’impressione iniziale di casualità nella disposizione delle abitazioni rupestri di Zungri è fugata dalla presenza di un efficace sistema di raccordo dei vari nuclei del villaggio disposti su livelli diversi, costituito da una serie di scale scavate nella roccia, funzionali alle piste che percorrono il villaggio, così come notevole risulta la raccolta delle acque attraverso un sistema di canalette ricavate nella roccia. Le unità abitative, di pianta circolare e quadrangolare, risultano frequentemente articolate in più vani, talvolta su due livelli e il buono stato di conservazione permette di rilevarne le caratteristiche peculiari. Alcune abitazioni presentano accessi elaborati con archi sagomati e stipiti in rilievo o varchi di ingresso a prospetto rettangolare, con porte di legno i cui controtelai erano poggiati in apposite riseghe. Le finestre delle abitazioni hanno fogge circolari e rettangolari, con alto dente interno ricavato nella roccia come parapetto. I soffitti delle abitazioni possono essere piatti, voltati e, in un caso, cupolati con foro d’areazione. Le pareti delle abitazioni rupestri di Zungri presentano numerose incavi ricavati nella parete rocciosa con funzione di ripostiglio e nicchiette per lucerne; in alcuni casi le nicchie sono poste a livelli più elevati al di sotto di soppalchi per raggiungere i quali vi erano scale interne talvolta ricavate nella roccia. Nelle abitazioni si rinvengono letti ricavati nella roccia mentre serie di fori a circa 40 cm da terra costituiscono l’alloggiamento per le traverse lignee sulle quali veniva posto il materasso del giaciglio. Attività agricole condotte dagli abitanti del villaggio sono suggerite dalla presenza di un grande silos per la conservazione dei cereali, di un palmento costituito da una doppia vasca sovrapposta per la pigiatura e la raccolta del mosto, e di un forno in muratura, oltre alla presenza di un certo numero di vasche di lavorazione all’interno degli ipogei.

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Un’ultima considerazione scaturisce dalla distribuzione geografica dell’insediamento rupestre in Calabria, dalla quale risulta evidente come il versante jonico della regione si caratterizzi per una consistente presenza di villaggi rupestri, a fronte di una quasi totale assenza lungo il Tirreno, se si esclude il singolare episodio di Zungri, versante dove, come hanno mostrato numerosi studi, si rinvengono per lo più antri naturali trasformati in santuari. Anche in questo caso bisognerebbe capire se una tale circostanza sia riconducibile a fattori di carattere eminentemente pratico, quali la migliore lavorabilità della roccia nell’area jonica o a motivazioni di ordine più propriamente culturale, come sembrerebbe potersi dedurre dalla pletora di villaggi rupestri, spesso analoghi nella strutturazione agli episodi calabresi, che punteggiano la medesima costa tra il Salento e la Sicilia orientale. Rimane la questione del silenzio finora riscontrato nelle fonti su questi villaggi, circostanza che, peraltro, rende oltremodo rischioso avanzare cronologie assolute che solo indagini globali potranno fornire con una certa accuratezza.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: Alessandro di Muro:Il popolamento rupestre in Calabria, famedisud.it, radicicalabre.it, Nadia Lucisano ph., Andrea Martini ph.

La Madre Geometrica : Vesica Piscis.

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La geometria sacra è un insieme di rapporti e formule che permettono all’uomo di rimanere in contatto con tutte le emanazioni energetiche che giungono costantemente dal cosmo. La geometria sacra è la struttura morfogenica che sta dietro la realtà stessa, è l’immagine della struttura del cosmo e può essere utilizzata come lettura simbolica rappresentativa dell’universo. E’ presente in ogni cosa e nell’armonia geometrica di ogni struttura si ritrova la proporzione evolutiva di ogni elemento dell’universo, di cui rappresenta la verità trascendentale. Con la geometria, l’architettura sacra esprime i concetti più complessi per trasmetterli. Molti scienziati sono convinti che la matematica sia il mezzo con cui spiegare la realtà, ma il vero salto sarà fatto quando sposteranno la loro attenzione sulla forma, unica generatrice delle leggi fisiche.

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La geometria sacra a volte viene chiamata linguaggio della luce o linguaggio del silenzio, questo è molto significativo, in quanto è a tutti gli effetti un linguaggio, è l’idioma attraverso il quale viene creata ogni cosa. E’ recente la scoperta scientifica, che ha dimostrato che il nostro cervello trasforma tutte le informazioni in entrata in immagini, prima di trasformarle in pensieri, parole e concetti e lo stesso avviene in uscita. E’ pertanto dimostrato che il cervello umano funziona per archetipi. Gli archetipi e le icone della geometria sono realtà assolutamente perfette, immutabili, senza tempo e scaturite direttamente dalla “Mente di Dio”. Un’immagine, quasi sempre geometrica, nasconde un significato a volte anche molto complesso.

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Nel simbolo sono spesso racchiusi diversi concetti contemporaneamente, può considerarsi praticamente un codice contenente una mola enorme di informazioni che si trasferiscono nel cervello in maniera subliminale. L’universo è vibrazione, e i principi della Geometria Sacra sono direttamente corrispondenti a tutti i fenomeni di forma d’onda. Tutte le vibrazioni. La Scienza è d’accordo, l’Universo è vibrazione, e la geometria è vibrazione manifesta a livello visivo sul piano del tempo e dello spazio. La Geometria Sacra è l’architettura dell’universo.

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Dall’ archetipo più semplice rappresentato dal punto, l’idea più semplice possibile, l’unità, la prima dimensione, l’onnipresente-onnipotente centro, la radice di tutto il pensiero olistico “IL TUTTO È UNO”,

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si passa all’universo bi-dimensionale con la divisione del punto singolo in due punti, la dualità, formando la prima relazione architettonica dell’Universo e allo stesso tempo creando la prima unità di misura astratta: lo spazio. Improvvisamente, il punto A è qui e il punto B è lì.

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Le potentissima energia contenuta nella prima relazione bi-dimensionale dell’universo (I Due Punti) si manifesta come un moto duale: il moto diritto (dal punto A al punto B) e il moto circolare (il punto B intorno al punto A). Questo movimento duale è chiamato Il Raggio/Arco. E’ il moto radice, il Big Bang concettuale. Tutte le varie energie dell’universo sono ricondotte al gioco tra il Raggio e l’Arco. Il Raggio/Arco è lo Yin e Yang, Luce e Ombra,Sinistra e Destra, Su e Giu, Madre e Padre… e così via. Tutte le manifestazioni di dualità vengono ricondotte al Raggio/Arco.

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Il rapporto senza tempo, sempre tenuto all’interno del Raggio/Arco, espresso scientificamente come Pi-greco (è un numero trascendente o cosiddetto irrazionale avente un valore di 3.14159265. Ai fini pratici, il valore è approssimato a 3,1416), è la formula matematica principale e si sviluppa visivamente per diventare la prima forma chiusa della Geometria Sacra, il Cerchio. Il Cerchio è l’unione e unità, è la manifestazione bi-dimensionale del Singolo Punto. Esso è anche l’essenza del Mandala, poichè contiene TUTTO in sé.

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La prima forma (Il Cerchio) viene creata ruotando il punto B attorno al punto A. Ma I Due Punti sono gemelli perfetti con eguale potenziale, e il punto A può anch’esso ruotare attorno al punto B usando il medesimo raggio. Questa naturale polarità, questo scambio di ruoli, produce un altro cerchio che interseca quello precedente creando la prima forma sovrapposta della Geometria Sacra, chiamata “I Due Cerchi Di Raggio Comune”.
Questi due cerchi sovrapposti con un raggio comune, creano la seconda forma chiusa della Geometria Sacra. Gli antichi chiamavano questo archetipo la Vesica Piscis. Il nome latino, che letteralmente significa “vescica di pesce”, deriva dall’osservazione che la forma di questa figura ricorda quella della vescica natatoria dei pesci. OGNI forma dimensionale di questo cosmo evolve da questa struttura. Questa figura può essere considerata “il grembo materno dell’universo”, infatti da essa, a ingrandimento continuo, si formano le altre strutture.

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Come prima figura si forma il petalo, creato ruotando i primi due punti (A & B) intorno ai nuovi punti di intersezione C & D (i primi figli dell’universo, i gemelli), formato da quattro cerchi di raggio comune e cinque Vesica Piscis, e che rappresenta l’essenza della famiglia rivelata nella Geometria Sacra: i genitori (cerchi 1 e 2) e i figli (cerchi 3 e 4), il cuore della famiglia. Chiamato la “forma-seme” dato che tutte le forme necessarie sono ora presenti.

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Le altre figure sono create tracciando nuovi cerchi attorno ai nuovi punti E,F,G,H e poi così via, dando vita ad un’infinità di Punti, Cerchi, Vesica Piscis e Petali per formare quella che viene chiamato “Il Primo Motivo della Natura” o “Motivo della Creazione” di cui fanno parte il “Germe della vita”, il “Seme della vita”, il “Fiore della Vita” e inscritte in esso altre figure come l’”Albero della Vita” o il “Cubo di Metatron”. Esso è il motivo bi-dimensionale perennemente in espansione che, a livello concettuale, percorre l’intero universo. In altre parole la Matrix, la Griglia Sacra attraverso la quale la Vita si manifesta. Per comprendere ancora meglio il Primo Motivo della Natura è però necessario capire che nella realtà, questa griglia si sviluppa in tre dimensioni, e dove vediamo dei cerchi dovremmo invece immaginare delle sfere che si intersecano, non su un piano, ma in una rete infinita che si espande in tutte le direzioni.

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Da uno dei suoi centri infiniti, il Primo Modello della Natura si divide naturalmente in dodici parti uguali. Questi 12 fette uguali sono di 30 gradi ciascuna e sono alla base dell’antico Sistema delle 12 Case Astrologiche. Questa divisione naturale è anche la responsabile per il nostro orologio di 12 ore e quindi del nostro metodo di divisione del tempo.

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Ritornando alla “Struttura Madre”, cioè la Vesica Piscis o Mandorla Mistica, di per sé è un simbolo arcaico semplice ma dalla grande forza evocativa e simbolica che accompagna la spiritualità umana da millenni.

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Questa figura ha differenti proprietà geometriche che l’hanno resa oggetto di numerose speculazioni filosofiche ed esoteriche nel corso dei secoli. Si può innanzitutto osservare che tracciando il tratto orizzontale mediano e unendo i suoi estremi con i due vertici, si vengono a formare al suo interno due triangoli equilateri uguali e contrapposti. In pratica, essi simbolicamente rappresentano il “Doppio Ternario”, attivo e passivo, maschile e femminile, che portati l’uno sull’altro formano un altro ben noto simbolo della Tradizione: l’Esagramma, o Stella di Davide.

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La particolare costruzione della Vesica Piscis fa sì che il rapporto tra la sua altezza e la sua larghezza sia pari alla radice quadrata di 3, ovvero 1.7320508…, un numero irrazionale, illimitato ed aperiodico, un numero sacro ai pitagorici chiamato “la misura del pesce”. Già Archimede di Siracusa dimostrò, quando si occupò della misurazione del cerchio, che questo rapporto era compreso tra due ben determinati valori razionali. La divisione tra 265 e 153 è quella più bassa per arrivare a questo risultato.

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Si può dimostrare che non esistono altre frazioni ottenibili con numeri minori di questi che diano un’approssimazione migliore per questo valore. Ebbene, il più piccolo di questi numeri, il 153, viene citato da Giovanni nel suo Vangelo (21:11) come numero di pesci miracolosamente catturati nella rete a seguito di un miracolo operato da Gesù dopo la sua resurrezione.

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Molti studi e speculazioni sono stati fatti su questo numero e sui suoi significati esoterici, e sul perché sia stato citato nel passo del Vangelo. Tutti sono concordi, infatti, che nel contesto del racconto del miracolo citare il numero esatto di pesci catturati non ha senso (coincidenza o riferimento esoterico al credo pitagorico?). Giovanni, tuttavia, non sta redigendo un libro contabile, ma sta scrivendo un Vangelo, ossia un libro di fede e di insegnamenti mistici.

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Sant’Agostino spiega che Dio aveva fatto all’umanità due grandi doni: il Decalogo, ossia un gruppo di 10 comandamenti, e i doni dello Spirito Santo, che sono 7. Questi due valori combinati insieme danno il numero 17. Ora, è noto che 153 è un multiplo di 17 tramite il fattore 9 (153 = 9 x 17), ma è anche la somma dei primi 17 numeri, ossia:

153 = 1 + 2 + 3 + 4 + … + 16 + 17

Questo numero è uno di quelli che in matematica vengono definiti “numeri triangolari”. Ma il numero 153 ha molte altre proprietà matematiche. Ad esempio è la somma dei primi cinque fattoriali:

153 = 1! + 2! + 3! + 4! + 5! = 1 + 2 + 6 + 24 + 120

Il 153 è anche un numero “narcisistico”, cioè uno di quegli strani numeri che si possono ottenere da particolari combinazioni delle loro cifre componenti. In particolare, il numero 153 può essere ottenuto sommando i cubi delle sue cifre componenti:

153 = 1³ + 5³ + 3³ = 1 + 125 + 27

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Secondo l’esoterista indiano Drunvalo Melkisedek (nel suo libro “The Ancient Secret of The Flower of Life”) la proporzione della Vesica Piscis indicherebbe la frequenza dello spettro elettromagnetico della luce. La stessa Luce del primo verso della Bibbia, quella stessa di cui Iside si fa portatrice in alcune opere dell’antichità, come il Faro di Alessandria (luce della conoscenza e della consapevolezza). Si tratta di un concetto comune anche ai pitagorici e raffigurato in diverse opere, come la statua della Legge Nuova sul Duomo di Milano e la Statua della Libertà di New York.

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Inoltre considerandone l’impiego misterico e l’utilizzo dei suoi rapporti geometrici nei progetti di alcune notissime opere architettoniche, si giunge ad intuire l’importanza del tutto particolare del soggetto che stiamo trattando. Tutte le costruzioni, qualunque esse fossero, tenevano conto della geometria sacra diventando casse di risonanza delle vibrazioni della terra. Dall’anno Mille in poi, sull’onda dei grandi pellegrinaggi, si cominciarono a costruire chiese studiate e calcolate in funzione di parametri sacri della geometria che condussero gli uomini, dal periodo oscurantista che aveva appena attraversato, a un momento di grande spiritualità.

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Le armonie che derivavano dalla musica erano ritenute l’espressione terrena dell’Armonia divina che Dio aveva emesso nell’atto della creazione e, secondo le leggi di questa armonia, il tempio veniva interpretato simbolicamente come corpo dell’uomo e corpo dell’universo. Per questo la musica usata nelle cattedrali risuonava a tal punto (come quella Gregoriana) che tutta la costruzione portava l’uomo a elevare il proprio stato di coscienza. Unendo la perfezione delle forme geometriche con la scelta oculata del posizionamento sul terreno, con l’orientamento in funzione delle stelle o dei momenti cosmici, con l’attuazione delle regole della geometria sacra, con le proporzioni e con il simbolismo, i costruttori di tutti i tempi tentarono di riunire l’uomo a dio. In architettura, ed in particolare in quella gotica, la forma della “vesica piscis” viene usata come sistema geometrico per il proporzionamento. Questo sistema è stato descritto nel “Vitruvius” di Cesare Cesariano (1521), con il nome di “regola degli architetti germanici”.

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Questo simbolo si rinviene in moltissimi contesti: su megaliti e grotte preistoriche, fu conosciuto nelle prime civilizzazioni della Mesopotamia, in Egitto, in Cina, in India, tra i popoli celti ed in Africa; per gli Ebrei era il simbolo della Creazione dell’Universo, per i Cristiani era il simbolo del pesce, l’Ichthys, acronimo di Iesus Christos Theus Soter, cioè Gesù Cristo figlio di Dio e nella successiva elaborazione dell’iconografia cristiana, la Vesica Piscis viene associata alla figura del Cristo o della Madonna in Maestà e rappresentata in molti codici miniati, sculture e affreschi del Medioevo. Nel Talmud il Messia viene chiamato Dag che vuol dire appunto pesce.

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Questo simbolo, legato alla Dea Madre, secondo René Guénon nel suo libro “Simboli della scienza sacra”, ha una radice Iperborea infatti lui afferma che: “la presenza della Vesica Piscis è stata segnalata nella Germania settentrionale e in Scandinavia e in tali regioni essa è verosimilmente più vicina al suo punto di partenza che non nell’Asia centrale, ove fu senza dubbio portata dalla grande corrente che, derivata direttamente dalla Tradizione primordiale, doveva poi dar origine alle dottrine dell’India e della Persia”.

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Si tratta della vulva della Madre Terra: la mandorla infatti è un chiarissimo richiamo al Femminino Sacro e alle proporzioni della Geometria Sacra di unione degli opposti, analogamente al concetto di Yin e Yang. Le polarità intersecantisi generano il divino figlio della Madre Terra, ossia l’Uomo: un essere superiore in grado di sviluppare dentro di sé l’illuminazione spirituale.

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Ora, essendo essa una figura geometrica formata da sole due linee curve, e dunque un disegno di massima semplicità ed essenzialità, ha fornito nel corso degli anni la base e la struttura di moltissime creazioni artistiche per le civiltà del mondo intero, e non solo: costituisce uno di quei tracciati di base su cui si fondano le complesse architetture realizzate dall’uomo, ma anche dell’universo e l’anatomia degli esseri viventi. Nel corpo umano, gli occhi, la bocca, e quasi tutti gli orifizi attraverso i quali l’interno dell’organismo comunica con l’esterno, sono strutturati geometricamente sulla base della Vescica Piscis.

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Ma perché questa apparentemente semplice figura geometrica ha avuto una così grande importanza nella raffigurazione dell’intelaiatura dell’Universo e dell’iconografia religiosa ed esoterica? La risposta è insita proprio nella sua origine geometrica: essa segna e rappresenta visivamente l’incontro e la compenetrazione di due mondi o dimensioni dell’essere. Essa è il nucleo unitario preesistente alla separazione degli opposti, o la loro riunificazione. Rappresenta perciò una sintesi, e l’abbandono o il superamento di ogni dualismo. Così se abbinata al Cristo o ad altre figure messianiche dei culti religiosi fondati sul mistero, la Mandorla Mistica ne svela la duplice natura (divina e umana) riunita.

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Se associata alla vulva ne rappresenta la funzione di ponte fra il celato e il manifesto, fra ciò che ancora deve nascere e quel che è già venuto alla luce. La Mandorla Mistica è anche simbolo delle fasi dinamiche che intercorrono fra l’inizio e la conclusione di un’eclissi solare, matrimonio per eccellenza delle sfere celesti, nel quale l’unificazione degli opposti risulta esemplificata, almeno visivamente, al suo massimo grado. È quindi metafora dell’opera, cosmica ma anche umana ed interiore, di creazione del paradosso costituito dall’unione di ciò che sembra inconciliabile: luce ed ombra, bene e male, maschile e femminile, alto e basso, spirito e materia, movimento e quiete.

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Ma importantissimo è anche il significato della Vesica Piscis legato al culto della fertilità. Infatti l’ovale è un simbolo universale del Femminino Sacro, e la forma della vescica richiama anche quella della vulva femminile, il ‘passaggio della nascita’ e l’origine della vita. In Irlanda e in Inghilterra alcune figure di Sheela-Na-Gig, che possono essere viste in alcune chiese di origini molto antiche e che sono chiari simboli di fertilità, vengono rappresentate nude e con le gambe allargate, apertamente mostrando i loro genitali simbolicamente molto sproporzionati rispetto alla figura, come si nota ad esempio nella scultura trovata sulla chiesa di St. Mary e St. David a Kilpeck, nello Herefordshire, Regno Unito.

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Non sfugge a questa simbologia nemmeno Maria Maddalena, vista come origine della Stirpe Reale, portando in grembo la discendenza avuta da Gesù, la stirpe merovingia e il santo Graal: se il Cristo-Pesce è simboleggiato dalla ‘vesica piscis’ in posizione orizzontale, la mandorla-grembo-vulva-coppa-Graal è la stessa ‘vesica’ in posizione verticale. Maddalena è iconograficamente identificabile da un vaso che reca in mano: il vaso, o coppa, o Santo Graal, è una metafora del grembo materno, ricettacolo della vita. Nella tradizione provenzale è Maria Maddalena che, fuggendo da Gerusalemme su di una barca dopo la crocifissione di Gesù, approda in Francia portando con sé il Santo Graal. La dinastia dei Merovingi, re e taumaturghi dotati di poteri di guarigione, è il frutto di questa discendenza divina: Meroveo, il capostipite, si dice sia nato metà uomo e metà pesce (il nome stesso significa, letteralmente, “uomo del mare”), come l’Oannes, figura mitologica dal torso umano e la coda di pesce.

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Un notevole esemplare di vesica piscis è stato posto sul coperchio decorativo del pozzo del Graal a Glastonbury, all’interno del Giardino del Calice. Secondo la leggenda, Giuseppe di Arimatea, prozio di Gesù, avrebbe portato ad Avalon il Calice dell’Ultima Cena (il famoso Santo Graal), e lo avrebbe depositato sotto la collina sacra, da dove è scaturita la sorgente sanguinante, detta così per il colore rosso dato dalla presenza massiccia di ferro nell’acqua. Quindi, secondo la tradizione, il Calice è il recipiente che contiene l’essenza consacrata e Chalice Well e i suoi giardini sono essi stessi un recipiente per l’elisir vivificante della terra madre, Gaia, sotto forma delle acque che sgorgano qui. . Il coperchio è quindi il simbolo del passaggio nell’Altromondo, di protezione, di guarigione sacra, di conoscenza dei misteri della salute.

 

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Numerose teorie sulla storicità di Gesù affermano che la cristianità ha adottato certe credenze e pratiche come sincretismo di religioni misteriche come il Mitraismo, dalle quali avrebbe ereditato l’Ichthys. A sostegno di queste teorie è il fatto che sia il simbolo che la denominazione non sono una invenzione cristiana. Ichthys era, infatti il figlio della antica dea babilonese del mare, Atargatis ed era noto in vari sistemi mitici come Tirgata, Aphrodite, Pelagia o Delfina. La parola significava anche ventre e delfino in alcune lingue, e rappresentazioni di questo apparivano nella raffigurazione delle sirene. Il pesce si ritrorva poi in altre storie, fra le quali quella della dea di Efeso (che porta un amuleto a forma di pesce nella regione dei genitali), la Dea Madre cinese Kwan-Yin è una dea-pesce, e così anche la dea Afrodite che, dice la leggenda, nacque dalla spuma del mare. La dea indiana Kali, dopo aver inghiottito il pene di Shiva, diventa Minaksi, la “dea dagli occhi di pesce”, in analogia alla dea egizia Iside, che dopo aver divorato il pene di Osiride diventa Abtu, il Grande Pesce degli Abissi.

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La mandorla, come frutto o come seme, è da sempre un simbolo di fertilità, e come tale è stato associato, per esempio, alla dea frigia Cibele. Anche la ninfa greca Phyllis è stata trasformata dagli dei in un albero di mandorle. A Delfi, dove c’era l’oracolo di Apollo, la Pitonessa (o Pizia) profetizzava vaticini a chi lo consultava, ed il luogo era marcato da un omphalos di forma ovoidale. Inoltre nell’antica Grecia, “pesce” e “grembo materno” si esprimeva con la stessa parola: delphos.

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Troviamo la Vesica Piscis nei pressi dell’Antro della Sibilla di Cuma dove è chiaramente connessa con la Luna e la fertilità. Le ventotto tacche nelle pareti tufacee lo collegano al calendario mensile lunare, associato al ciclo femminile e alle mestruazioni, simbolo a loro volta della fertilità femminile. La Dea Lunare è qui colei che genera la vita sulla Terra, nel pieno rispetto del concetto della Triplice Dea.

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Caratteristiche sono anche molte sepolture nel cimitero vichingo di Lindholm Høje in Danimarca.

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Molti sigilli di ordini religiosi, come ad es. quello dei Cavalieri Gaudenti, e sigilli di Gran Maestri sono stati racchiusi all’interno di forme a mandorla invece di forme rotonde, più usuali. Modernamente, la troviamo parimenti rappresentata nella forma dei collari indossati dagli officianti dei rituali massonici, ma è anche considerata la forma più appropriata per inserirvi le figure dei sigilli delle logge, esempio lampante è il simbolo dell’ Ordo Templi Orientis di cui fece parte anche l’esoterista e scrittore Aleister Crowley.

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Nei tarocchi la ventunesima carta chiamata “Il Mondo” raffigura proprio una donna in una Vesica Piscis. La carta numero XXI dei tarocchi è l’ultima della serie che, iniziata con il Matto, la carta non numerata, via via si sviluppa fino ad arrivare a compimento della ricerca della propria identità. Dal Mondo, il compimento, si può sempre iniziare un’altra fase della vita vestendo di nuovo le vesti del mendicante, di quello che abbandona tutto e inizia da capo mettendosi in strada, in discussione, ed affrontando le difficoltà che ne conseguono. Una corona d’alloro, segno del vincitore nell’antichità, che circonda una fanciulla ignuda, dal viso estremamente rilassato. Intorno quattro Icone, l’angelo, il bue, l’aquila e il leone. Queste rappresentazioni circondano la donna nella ghirlanda, come se fossero quattro diversi tipi di energia base, in sinergia tra loro. Sono per l’ennesima volta riferimento a simboli che vengono dall’antichità. Per la tradizione cristiana rappresentano i quattro evangelisti. Per gli astrologi erano i quattro segni cardinali dello Zodiaco, rispettivamente Acquario, Toro, Scorpione, Leone. Ma sono anche a memoria dei quattro elementi, Acqua, Terra, Aria e Fuoco.

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La Dea Madre di ogni umanità ha partorito i suoi templi consacrando, con la sua presenza silenziosa, diversi luoghi sulla faccia del pianeta. Colei che non possiede altro Genere che il Principio si è adattata a far da cornice al Cristo di Chartre, si è infusa nella globalità dell’impianto del grande santuario di Karnak e nella sostanza progettuale del tempio di Tell el-Amarna.

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In merito a queste osservazioni indichiamo due tra le opere architettoniche più note del passato: Castel del Monte e la piramide di Cheope. Entrambe le costruzioni sono state realizzate attraverso l’applicazione e lo sviluppo dei rapporti geometrici della vescica e questa cosa sott’intende un legame tra i due edifici che si pone oltre il semplice confronto formale.

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Nel tempio di Osiride ad Abydos è intagliato nella pietra,o meglio, è scavato talmente in profondità che anche raschiando per diversi centimetri la pietra, rimane sempre visibile, un fiore della vita. E’ stata usata una tecnica ancora oggi sconosciuta, che nessuno è stato ancora in grado di spiegare e replicare.

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Particolare è la sfera che si trova sotto la zampa dei “Leoni di Fu” nella città proibita a Pechino dove sulla sua superficie troviamo proprio una seria di Vesica Piscis formanti una rete.

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Molto famosi sono anche i Crop Circles o cerchi nel grano che compaiono in tutto il mondo e solitamente sono costruiti basandosi appunto sulla geometria sacra e soprattutto sulla figura della Vesica Piscis. La teoria più diffusa è che queste formazioni siano fatte da popoli extreterrestri che usano proprio questo codice universale per comunicare con noi lasciandoci dei messaggi impressi nei campi.

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Questo simbolo a causa della sua chiara associazione con la sessualità è utilizzato nella società moderna in diversi loghi di marchi famosi come Gucci, Chanel, DC Shoes, Mastercard e sigarette Kool solo per citare alcuni esempi.

Una nota curiosa.

In una visita della nostra Associazione presso l’Insediamento rupestre di Zungri, in provincia di Vibo Valentia, abbiamo notato sul muro interno di uno dei silos presenti nello splendido villaggio, una grande Vesica Piscis, scolpita in maniera diligente e rispettando le proporzioni, un motivo in più per visitare questo magico sito sul Monte Poro fatto di grotte scavate nell’arenaria e di sorgenti naturali che sgorgano dal nulla.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: amoredivino.it, simbolisignificato.it, ginocacinodiangelo.blogspot.it, orizzontemagazine.it, angolohermes.com

Il Calendario di Adamo: E’ ora di riscrivere la storia.

 

13L’Africa è sempre stata considerata la culla della civiltà. Oggi, questo fatto viene avvalorato da una scoperta che ha dell’incredibile.
A circa 280 km ad ovest del porto di Maputo, la capitale del Mozambico, sono stati rinvenuti i resti di una grande metropoli che misurava, secondo stime prudenti, circa 5.000 km quadrati. Faceva parte di una comunità ancora più ampia, di circa 35.000 chilometri quadrati, risalente ad un periodo che va dal 75000 al 160.000 a.C. Le migliaia di miniere d’oro scoperte nel corso degli ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto scavando l’oro in questa parte del mondo per migliaia d’anni. E se questa regione è in realtà la culla del genere umano, è probabile che stiamo analizzando le attività della più antica civiltà sulla Terra.

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Sono sempre stati lì. Qualcuno li aveva già notati prima, ma nessuno riusciva a ricordare chi li avesse fatti o perché? Fino a poco tempo fa, nessuno sapeva nemmeno quanti fossero. Ora sono dappertutto, a migliaia, anzi no, centinaia di migliaia! E la storia che raccontano è la storia più importante dell’umanità. Ma c’è chi potrebbe non essere pronto ad ascoltare. Quando i primi esploratori incontrarono queste rovine, davano per scontato che fossero recinti per il bestiame realizzati da tribù nomadi, come il popolo Bantu, che si spostò verso sud e si stabilì in questa terra intorno al sec. XIII. Non si conoscevano le testimonianze storiche di nessuna civiltà precedente, più antica, in grado di costituire una comunità così densamente popolata. Poco sforzo fu stato fatto per indagare il sito perché la collocazione storica delle rovine non era per nulla nota.

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La situazione è cambiata quando se ne è occupato il ricercatore Michael Tellinger, in collaborazione con Johan Heine, un vigile del fuoco locale e pilota che aveva osservato queste rovine negli anni, sorvolando la regione. Heine aveva il vantaggio unico di vedere il numero e la portata di queste strane fondazioni di pietra e sapeva che il loro significato non era apprezzato. Negli ultimi anni, queste enigmatiche formazioni di pietre sono state promosse, insieme alle piramidi bosniache, come le più antiche strutture umane del pianeta. Possono solo essere veramente apprezzate dal cielo o attraverso immagini satellitari. Molte di loro sono quasi completamente erose o sono state coperte dai movimenti del suolo fatti per l’agricoltura lungo il tempo. Alcune sono sopravvissute abbastanza bene da rivelare le loro grandi dimensioni, con alcuni muri originali in piedi, sino a quasi 2 metri d’altezza e oltre un metro di larghezza, in alcuni luoghi.

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Guardando la metropoli intera, diventa evidente che si trattava d’una comunità ben progettata, sviluppata da una civiltà evoluta. Il numero di antiche miniere d’oro suggerisce la ragione per cui la comunità si trovava in questa posizione. Alcune strade si estendono per circa 500 chilometri  e collegavano le varie comunità basate sull’agricoltura a terrazzamenti molto simili a quelli trovati negli insediamenti Inca in Perù. Un calcolo approssimativo indica che le strade originali avrebbero richiesto l’utilizzo di più di 500 milioni di pietre tra i 10 e i 50 chilogrammi ciascuna.

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Il fiore all’occhiello della zona è senza dubbio il cosiddetto “Calendario di Adamo”.

L’area in questione è visibile nel quadrato formato dalle seguenti coordinate di Google Earth:

Carolina – 25 55′53,28″S / 30 16′ 13,13″ E
Badplaas – 25 47′33,45″S / 30 40′ 38,76″ E
Waterval – 25 38′07,82″S / 30 21′ 18,79″ E
Machadodorp – 25 39′22,42″S / 30 17′ 03.25″ E

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Il Calendario di Adamo, chiamato anche il Calendario di Enki, è conosciuto come il più antico sistema di menhir al mondo, è di forma circolare, simile al più celebre Stonehenge, ma più antica di molte migliaia di anni, e si trova nei pressi di Mpumalanga (significa “il luogo dove sorge il Sole” in lingua Zulu), situato sulla cima di una scogliera in pendenza verso sud, nota come la scarpata di Transvaal, una zona ricca di quarzite e di giacimenti d’oro. La ragione per cui questa struttura è stata chiamata calendario, è dovuta al fatto che è disposta in modo da seguire l’evoluzione del sole lungo tutto il corso dell’anno: così come il sole si muove durante le stagioni, anche l’ombra che proietta sulle rocce si sposta allo stesso modo.

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Il Calendario di Adamo è costituito da un gran numero di rocce apparentemente sparse a caso, di cui una piccola percentuale è stata posizionata per creare un cerchio, in tutto ci sono una dozzina di pietre che sembrano essere state collocate in posizione verticale, tra cui due alte circa 2 metri e mezzo che si distinguono in mezzo. La forma originale è ancora chiaramente visibile dalle immagini satellitari. Tra le rovine sono presenti le prime forme a piramide e alcuni dettagli scolpiti nelle rocce raffigurano il simbolo Ankh, utilizzato dagli egizi migliaia di anni dopo, come anche alcuni simboli Dogon, una tribù del Mali, dotata di inspiegabili conoscenze astronomiche. Il sito è stato eretto lungo il medesimo meridiano della Grande Piramide di Giza.

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Dalla posizione dei monoliti e dalle misurazioni fatte da Heine la struttura circolare è stata volutamente progettata per allinearsi ai punti cardinali della Terra, e con gli equinozi e i solstizi. Heine ritiene di aver individuato vari allineamenti solari, tra cui uno particolarmente interessante che riguarda tre pietre reclinate che, a suo parere, una volta erano orientate verticalmente verso le 3 stelle della cintura di Orione.

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Fin qui la cosa non susciterebbe sorpresa visto che molti siti preistorici sembrano contenere questo tipo di allineamento. La cosa che fa pensare è che l’allineamento delle pietre riguarderebbe la posizione della cintura di Orione come appariva circa 75 mila anni fa, anche se recenti studi portano la lancetta indietro nel tempo sino a 160000 A.C. . Gli indizi sembrano mostrare che ci troviamo di fronte a quella che forse è stata la più grande e misteriosa civiltà esistita sulla Terra.

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Il ritrovamento di Heine ha aperto un vero e proprio ‘vaso di pandora’ sull’Africa del Sud, permettendo la scoperta di numerosi insediamenti in pietra che rappresentano un nuovo affascinante ed enigmatico capitolo per l’archeologia contemporanea. Si stima la presenza di oltre 20 mila antiche rovine in pietra sparse sulle montagne del Sud Africa. Gli archeologi e gli antropologi speculano sull’origine delle misteriose rovine, spesso etichettandole come ‘materiale di poca importanza’ e boicottandole. Mentre la parte della comunità scientifica più attenta e possibilista intravede un quadro completamente nuovo e sorprendente sulla storia antica delle rovine africane e sulla storia dell’uomo più in generale. Questo ritrovamento è in netta contraddizione con la storiografia tradizionale che si ostina inspiegabilmente ad insegnare che le civiltà più importanti ed imponenti sono apparse in Sumer e in Egitto, e che prima di esse non v’era nulla.

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La verità è che si sa davvero molto poco su questi spettacolari rovine antiche e che purtroppo molte di esse sono andate distrutte per pura ignoranza dalla silvicoltura, dagli agricoltori e dallo sviluppo urbano. E’ chiaro che ciò pone immediatamente un problema enorme per archeologi, antropologi e storici, dato che l’inizio della storia della civiltà umana è comunemente collocata non oltre i 12 mila anni fa, con la nascita dell’agricoltura. E diventa ancora più complessa quando ci si rende conto che non si tratta di semplici strutture isolate lasciate dalla migrazione di orde di cacciatori-raccoglitori ma veri e propri osservatori astronomici e templi di un’antica civiltà perduta che risale a molte migliaia di anni fa.

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Il ricercatore sudafricano Michael Tellinger si spinge decisamente oltre, fino a suggerire che il Calendario di Adamo possa essere stato realizzato addirittura 160.000 anni fa e così esprime la sua emozione nel scoprire questo luogo: “Quando Johan per primo mi ha fatto conoscere le antiche rovine di pietra dell’Africa australe, non avevo idea delle incredibili scoperte che ne sarebbero seguite, in breve tempo. Le fotografie, i manufatti e le prove che abbiamo accumulato puntano senza dubbio ad una civiltà perduta e sconosciuta, visto che precede tutte le altre – non di poche centinaia d’anni, o di qualche migliaio d’anni… ma di molte migliaia d’anni. Queste scoperte sono così impressionanti che non saranno facilmente digerite dall’opinione ufficiale, dagli storici e dagli archeologi, come abbiamo già sperimentato. E’ necessario un completo mutamento di paradigmi nel nostro modo di vedere la nostra storia umana”.

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E riferendosi all’oro continua: “Le migliaia di antiche miniere d’oro scoperte nel corso degli ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto e scavato per l’oro in questa parte del mondo per migliaia d’anni. E se questa è in realtà la culla del genere umano, possiamo star guardando le attività della più antica civiltà sulla Terra. Mi vedo come una persona di mente aperta, ma devo ammettere che mi ci è voluto oltre un anno per digerire la scoperta e per capire che abbiamo realmente a che fare con le strutture più antiche mai costruite dall’uomo. Il motivo principale di ciò è che ci hanno insegnato che nulla di significativo è mai venuto dal Sud Africa. Che le civiltà più potenti sono apparse in Sumer e in Egitto e in altri luoghi”.

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Tellinger rispondendo alle domande incalzanti del giornalista Adriano Forgione, in una intervista per la rivista Fenix, ci fa capire il perché del suo interesse per questo misterioso luogo: “Mi occupo di ricerche sulle origini del genere umano e sulla vera storia del  pianeta. Ho iniziato a mostrare interesse per questo tipo di argomenti nel 1979, durante il mio primo anno di università. Il Calendario di Adamo è il luogo principale dove si esplica il mio studio. Fu progettato per essere allineato ai quattro punti cardinali, N-S-E-O, ma presenta anche una pietra scolpita in forma di falco. Sono dell’idea che sia relazionabile alla divinità egizia Horus. Questa scultura segna il sorgere del sole durante l’equinozio di primavera nell’emisfero sud del pianeta. Sembra che questa sia la più antica scultura in pietra di Horus mai trovata sino ad oggi. È noto che Horus rappresenti sempre il sorgere del sole, quindi questo potrebbe significare che siamo davanti al luogo del sorgere dell’Horus primigenio.”

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“C’è un problema: l’allineamento N-S-E-O è fuori allineamento di 3.1/- 4 gradi in senso antiorario in direzione nord-sud. Questo può significare solo una cosa: il Calendario di Adamo è stato costruito in un momento storico in cui nord e sud  presentavano un diverso angolo. Sto parlando del vero asse nord-sud, non di quello magnetico. Questo supporta la teoria di Charles Hapgood dello scorrimento della crosta terrestre. La pietra “Horus” è in relazione con altri tre megaliti che sono allineati con il sorgere di Orione. Questo allineamento specifico è stato datato ad almeno 160 mila anni fa. So che può sembrare assurdo ma è così. All’interno del cerchio del Calendario di Adamo abbiamo anche misurato un’incredibile quantità di campi elettromagnetici, sia nel vettore verticale che orizzontale del campo stesso. Inoltre, tracce di elevato calore sono riscontrabili sotto la superficie, fatto che suggerisce la presenza di un vulcano sotterraneo. Le frequenze sonore rilevate nel cerchio sono superiori a ogni altra misurazione effettuata in qualunque luogo della Terra, ben oltre i 375 gigaHertz. Tutto ciò è un supporto scientifico incredibile alla presenza in questi luoghi di una civiltà avanzata.  Il Calendario di Adamo è una struttura megalitica ben nota tra i custodi della conoscenza in Africa, sciamani, sangoma e uomini/donne di medicina. È considerato come uno dei due luoghi più sacri della terra, connesso alla creazione della razza umana. Nella cultura Africana di questi luoghi è conosciuto come “La Casa natale del Sole”. ”

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E continua: ” Ci sono oltre 1° milioni di costruzioni di forma circolare, simili ai nuraghi sardi in tutta l’Africa meridionale. Una cosa pazzesca. Essa copriva la maggior parte del sud Africa, tutto lo Zimbabwe, parti del Botswana e  Mozambico. Un’area grande quanto Francia,Germania e Italia messe insieme. Sono convinto che si tratti di generatori di energia per la lavorazione dei metalli e dei minerali, principalmente oro, per mezzo del suono come fonte di energia. Queste strutture sono tutte collegate da migliaia di chilometri di canali di pietra che regolavano e assicuravano la conduzione di energia tra tutti i cerchi. Ci sono anche terrazzamenti agricoli che usavano questo flusso di energia per migliorare la produzione del grano. Ho trovato pietre di forma allungata che suonano come campane. Credo che servissero come “starter” per avviare il sistema di frequenza sonora, in quanto tali pietre emettono un solo tono. Le migliaia di pietre nelle pareti dei cerchi risuonano a diverse frequenze e ciò indica che possono risuonare con molte pietre “starter”, creando una forte e permanente ondata di energia sonora. Ci sono anche delle pietre coniche, come coni gelati, che sembrano essere le punte che concentravano il suono in fasci di energia sonora. Oggi questi strumenti sono chiamati SASER (Sound Amplification by Stimulated Emission of Radiation), potentissimi dispositivi di energia impiegati in applicazioni belliche. Funzionano come la punta di cristallo in un normale laser, che focalizza la luce in un fascio.”

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Poi afferma ancora: “Vi sono pietre circolari forate al centro, perfettamente lisce e convesse, come se fossero state modellate dall’acqua nel corso dei millenni. Questi sono gli strumenti dei primi minatori e costruttori. Sono dei convertitori che generavano il passaggio da una frequenza a un’altra. Le misurazioni dell’energia, ha stabilito che i cerchi generano ancora enormi quantità di energia, lo abbiamo misurato. Onde elettromagnetiche, onde sonore e firme di calore. Abbiamo misurato il suono più in alto, 103 dB (decibel) proveniente dalle mura di alcuni cerchi. Una firma di calore di oltre 80°C (176° Fahrenheit) e 1800 Mega Hz nel Calendario di Adamo. Questi sono luoghi ancora molto attivi ed energetici. Quando le onde sonore raggiungono la superficie interna al cerchio formato dalle rocce, si rilevano dei motivi simili a fiori di ‘geometria sacra’. Inoltre, all’interno del cerchio, i segnali Gps si perdono. Se fate un passo là dentro, il segnale sparisce, se si fa un passo indietro, il Gps funziona di nuovo e tutto questo è dovuto al forte campo elettromagnetico. Chi ha creato quindi questo sistema di pietre? Non importa chi fossero quelle persone: avevano un alto grado di conoscenze di acustica e di astronomia.”

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E conclude: “Molte ricerche restano ancora da fare. Questi cerchi ci fanno tornare al primo popolo della Terra che estraeva oro in Sudafrica quasi 200000 anni fa. Le tavolette sumere lo chiamano Lulu Amelu, ed è il primo uomo Adamu. Ci sono collegamenti diretti con le tavolette sumere degli Annunaki e con la descrizione delle loro attività di estrazione aurifera sulla Terra. Siamo a conoscenza di oltre 75000 miniere d’oro e molte altre sono ancora coperte dal terreno. Questa civiltà è stata distrutta dal diluvio biblico circa 12- 13000 anni fa”.

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Le idee di Tellinger si ispirano agli scritti di Zecharia Sitchin, filologo e studioso della mitologia sumera, il quale in diverse opere ha scritto che gli Anunnaki scavarono buona parte delle miniere d’oro in Sud Africa. Costoro sarebbero giunti dal loro pianeta natale Nibiru in cerca di giacimenti d’oro. Una volta giunti sul nostro pianeta, gli Anunnaki crearono l’Homo Sapiens, modificando geneticamente un ominide (secondo alcuni l’Homo Erectus, secondo altri l’Homo di Neanderthal) e creare un lavoratore che estraesse l’oro per conto loro. La creazione dell’uomo sembra essere descritta come una specie di clonazione o di quella che noi oggi chiamiamo fecondazione in vitro. Questo intervento degli Anunnaki avrebbe dato un colpo di acceleratore all’evoluzione umana, mettendo il turbo ad un processo che naturalmente sarebbe durato migliaia di anni. Le fonti di Sitchin per le sue conclusioni partono da una serie di testi sumeri ed ebraici, tradotti in maniera non convenzionale rispetto all’interpretazione tradizionale. Ci viene detto dalle tavolette che la spedizione è venuta per l’oro, e che grandi quantità sono state estratte e spedite fuori del pianeta. La comunità in Sud Africa era chiamata “Abzu” ed era la posizione privilegiata delle operazioni minerarie.

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Poiché questi eventi sembrano coincidere con la regione delle più ricche miniere d’oro del pianeta (Abzu) e dove gli Homo Sapiens sono “nati”, alcuni ricercatori pensano che le leggende sumere possano, infatti, essere basate su avvenimenti storici. Secondo gli stessi testi, una volta conclusa la spedizione mineraria, fu deciso che la popolazione umana dovrebbe essere lasciata perire in un diluvio che era stato previsto dagli astronomi degli “dèi”. A quanto pare, il passaggio ciclico del pianeta natale degli dèi, Nibiru, stava per portarlo abbastanza vicino all’orbita della Terra e la sua gravità avrebbe provocato una risalita (marea) degli oceani a inondare la terra, mettendo fine alla specie ibrida, Homo sapiens. Secondo la storia, uno degli “dèi” aveva simpatia per un essere umano particolare, Ziusudra, e lo avvertì di costruire una barca per cavalcare l’onda del diluvio. Questo divenne la base per la storia di Noè nel libro della Genesi. Fu un fatto veramente accaduto? L’unica altra spiegazione è immaginare che le leggende sumere, che parlano della vita su altri pianeti e della clonazione umana, fossero straordinarie creazioni di fantascienza. Questo sarebbe di per sé sorprendente. Ma ora abbiamo la prova che la città mineraria, Abzu, è reale e che esisteva nella stessa epoca dell’improvvisa evoluzione degli ominidi a Homo sapiens.

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Ancora Forgione ci illustra come il Sudafrica potrebbe essere la culla dell’umanità: “Le teorie di Tellinger sull’origine sudafricana dell’uomo moderno hanno trovato inaspettata conferma qualche anno fa. L’ 8 marzo 2011, l’Università di Stanford in California, ha diramato i risultati di uno studio genetico sulle popolazioni africane. Attraverso la più grande analisi sulla diversità genetica delle popolazioni del Continente Nero mai svolta sinora, si è appurato che gli esseri umani moderni probabilmente ebbero origine in Africa meridionale più che in Africa orientale, come generalmente si supponeva. Lo studio pubblicato su “Proceeding of the National Academy of Sciences” è stato realizzato dai genetisti Brenna Henn e Marcus Feldman. Brenna Henn ha detto che lo studio ha raggiunto due conclusioni principali:  ”Una è che c’è una enorme diversità nelle popolazioni africane di cacciatori-raccoglitori. Questi gruppi di cacciatori-raccoglitori sono altamente strutturati e sono piuttosto isolati gli una dagli altri e, quindi, conservano una grande quantità di variazioni genetiche”. Henn ha aggiunto: “La seconda importante conclusione è che abbiamo preso in considerazione i modelli di diversità genetica tra le 27 diverse popolazioni africane, e abbiamo visto un calo di diversità che inizia proprio in Africa meridionale e progredisce man mano che ci si sposta verso il nord Africa. Le popolazioni dell’Africa meridionale, i Khomani Boscimani, presentano la più alta diversità genetica di qualsiasi altra popolazione. Questo suggerisce che l’Africa meridionale potrebbe essere il luogo migliore per individuare l’origine degli esseri umani moderni”. Gli scienziati non riescono ancora a capire perché questo nuovo tipo umano denominato Homo Sapiens apparve improvvisamente, o come avvenne il cambiamento, ma sono in grado di rintracciare i nostri geni sino ad una sola donna, che è nota come “Eva mitocondriale”.

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Eva mitocondriale (mt-MRCA) è il nome dato dai ricercatori alla donna che è definita come l’antenato comune matrilineare più recente (MRCA) per tutti gli esseri umani attualmente viventi. Tramandato da madre a figlio, tutto il DNA mitocondriale (mtDNA) in ogni persona vivente è derivato da questo individuo di sesso femminile. Eva mitocondriale è la controparte femminile di Adamo Y-cromosomico, l’antenato comune patrilineare più recente, pur vivendo in tempi diversi.
Si crede che Eva mitocondriale sia vissuta tra 150.000 a 250.000 anni a.C., probabilmente in Africa orientale, nella regione della Tanzania e delle zone immediatamente a sud e ad ovest (ma il ritrovamento in Sud Africa, sovverte tale certezza). Gli scienziati ipotizzano che vivesse in una popolazione di forse 4.000-5.000 femmine, in grado di produrre prole. Se altre femmine avessero avuto prole con cambiamenti evolutivi del loro DNA, non se ne registra ad oggi alcun dato sulla loro sopravvivenza. Sembra quindi che siamo tutti discendenti di questa femmina umana.

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Eva mitocondriale sarebbe stata pressoché contemporanea di esseri umani i cui fossili sono stati rinvenuti in Etiopia, nei pressi del fiume Omo e di Hertho. Eva mitocondriale visse molto prima dell’emigrazione dall’Africa, che potrebbe essersi verificata tra 60.000 e 95.000 anni fa. La regione dove si può trovare il massimo livello di diversità mitocondriale è quella segnata in arancione, mentre la regione in cui gli antropologi ipotizzano che la divisione più antica della popolazione umana abbia iniziato a verificarsi è quella in rosso scuro.

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L’antica metropoli si trova in quest’ultima regione, che corrisponde anche al periodo stimato in cui le mutazioni genetiche improvvisamente accaddero. Strana coincidenza. Abbastanza da darci da pensare per un po’.  Mentre l’umanità continua a riscoprirsi, e nuove conoscenze emergono, riflettiamo sul fatto che anche i libri di Storia dovranno essere riscritti.

 

 

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Fonti: it.scribd.com , ilnavigatorecurioso.it , liutprand.it , hystoria.info, epochtimes.it

Le Aree Archeologiche più famose della Calabria

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Continua il viaggio dell’Associazione Culturale Mistery Hunters, attraverso le bellezze della Calabria.
Una serie di ricerche nate dalla volontà di far conoscere posti meravigliosi, con storie affascinanti che aspettano solo di essere scoperte.
Per farvi ripercorrere il percorso fin qui svolto facciamo un piccolo sunto: siamo partiti dai 20 Castelli più belli della Calabria, abbiamo scoperto le 10 città fantasma Calabresi più famose e abbiamo visitato virtualmente le Grotte del Romito , il Codex Purpureus Rossanensis e la mitologica Kaulon.

Oggi invece vi parleremo del patrimonio archeologico della Calabria che ricopre nel sistema dei Beni Culturali una posizione privilegiata, dovuta alla grande rilevanza storica dei siti messi in luce nell’ultimo secolo. I Siti Archeologici in Calabria purtroppo non sono molti rispetto a quella che fu la potenza del territorio nel periodo greco-romano. Ciò è dovuto al fatto che la città odierna sorge spesso sullo stesso posto in cui sorgeva la colonia antica originaria o più semplicemente molti siti sono ancora da portare alla luce o sono stati scavati solo in parte.  I siti archeologici presenti in Calabria sono la testimonianza delle varie dominazioni e culture che hanno interessato il passato di questa regione. L’influenza della dominazione delle popolazioni italiche prima, e di quella greca e romana dopo, rimane evidente ancora oggi nella tradizione e nella cultura calabrese. All’evento TourismA 2017, il più importante evento in Italia di esposizione, divulgazione e confronto di tutte le iniziative legate al mondo antico, svoltosi nel Palacongressi a Firenze, la Calabria archeologica è stata una delle protagoniste con il suo Polo museale presente con uno stand e promotore dell’incontro “Parliamo di Calabria” curato da Angela Acordon, direttore del Polo museale Regionale, con gli interventi di Rossella Agostino, direttore dei musei Archeologici Nazionali di Locri e di Kaulon, Gregorio Aversa, direttore dei musei Archeologici Nazionali di Crotone, Capo Colonna, e Scolacium e Adele Bonofiglio, direttore dei musei Archeologici Nazionali della Sibaritide e di Vibo Valentia. Il dibattito ha fatto conoscere a livello nazionale il rilevante patrimonio storico, artistico, monumentale e archeologico calabrese con un’attenta disamina delle peculiarità delle strutture ricadenti nel Polo Regionale con una attenzione particolare data anche ai musei Archeologici più piccoli, ma altrettanto ricchi di manufatti e di storia. Di seguito sono elencati solo una parte dei siti archeologici valorizzati e non della regione, forse i più importanti e conosciuti.

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Area archeologica di Sibari

L’antica città di Sibari (in greco antico: Σύβαρις, Sybaris) fu la prima colonia fondata dai greci sulla costa ionica della Calabria intorno all’VIII secolo a.C. La città si affacciava sul mar Ionio e si trovava in mezzo a i fiumi Crati e Coscile, a sud del golfo di Taranto. La zona della Sibaritide fu il centro della civiltà degli Enotri, che ebbe la massima fioritura nell’Età del ferro, prima di essere spazzati via dai coloni greci giunti dall’Acaia nel 730-720 a.C. circa. I Greci sconfissero e ridussero i locali alla schiavitù, quindi fondarono Sibari (Sybaris), il centro della zona dove transitavano le merci provenienti dall’Anatolia, in particolare da Mileto. Nell’Antichità la ricchezza di Sibari era proverbiale, ma la sua sorte fu segnata, dopo la sconfitta contro Siris (alleata a Crotone e Metaponto). Il conflitto nacque probabilmente per ragioni di contese commerciali e culminò con la battaglia del Traente (510 a.C.), che vide la vittoria dei crotoniati, l’assedio di Sibari e, settanta giorni dopo, la sua distruzione, per la quale venne anche deviato il fiume Crati affinché passasse sopra le rovine della città sconfitta. I sopravvissuti di Sibari partirono per la madrepatria, dove ottennero l’aiuto di Atene per tornare in Calabria e fondare, nel 444 a.C. con altri nuovi coloni ateniesi, una nuova colonia sullo stesso sito, chiamata poi Thurii. Il nuovo impianto della città fu progettato dal famoso architetto e urbanista Ippodamo. I conflitti però tra sibariti e ateniesi portò a un conflitto interno, che culminò con la cacciata dei sibariti. Nel 194 a.C. la città fu fondata nuovamente come colonia romana con il nome di Copiae, che fu presto cambiato nuovamente in Thurii. Continuò ad essere in un certo qual modo un luogo importante, posta in una posizione favorevole e in una regione fruttifera, e sembrerebbe che non sia stata completamente abbandonata fino al Medioevo. Dimenticata in seguito, i suoi resti vennero individuati scavati a partire dal 1932 e con particolare intensità dal 1969. Tutt’oggi sono aperti vari cantieri, per cui lo scavo è ancora lontano da essere esaurito. Il parco archeologico, sorto in prossimità dei resti della città, riguarda una vasta area che si estende per 168 ettari di terreno. I ritrovamenti archeologici, frutto degli scavi fin ora effettuati, hanno fatto emergere reperti di età romana, risalenti alla colonia di Copia sorta sui resti della città greca di Thurii (in greco antico: Θούριοι, Thoúrioi). Una delle zone di rilevante importanza storica è quella del Parco del Cavallo, nel quale i lavori sono cominciati nel 1932. Il cantiere del Parco del Cavallo è ricco di reperti che riguardano la città di Copia. In quest’area sono stati rinvenuti i resti del più importante edificio pubblico dell’antica città: il teatro-emiciclo. La fase più antica dell’edifico risale al I secolo a.C e si trattava di una struttura a pianta semicircolare che doveva avere la funzione di mercato o di luogo per le riunioni. Dopo un secolo, intorno al I secolo d.C., l’edificio subì profonde trasformazioni e venne riadattato a teatro. Le decorazione dell’edifico, recuperate negli scavi consistevano principalmente in fregi e statue. Di fronte il teatro si trovava il foro, che fu risistemato su un’area risalente al periodo ellenistico che, probabilmente, aveva la funzione de agorà. Nell’area del Parco del Cavallo sono situati i resti dell’edificio termale la cui costruzione risale al I secolo d.C. Le terme si trovavano vicino al teatro ed al foro. All’edificio si accedeva tramite una serie di ambienti comunicanti decorati a mosaico con tessere bianche e nere che formavano motivi geometrici, dai quali si passava per arrivare agli ambienti termali. Delle terme sono riconoscibili il calidarium ed il tepidarium. L’ultima fase dell’edificio risale al VII secolo quando perse la funzione termale e venne riutilizzato come luogo di culto cristiano. Nello stesso cantiere si trovano i resti di alcune abitazioni, tutte con la tipica planimetria delle case romane di età augustea, con cotile quadrangolare. Dietro il teatro sono stati trovati i resti di una domus romana decorata da pavimenti in mosaico. Sempre in quest’area, è stato trovato un bronzo risalente al V secolo a.C. denominato Toro Cozzante. Nella zona del Parco del Cavallo sono emersi, inoltre, i resti di una grande strada lungo 350 m e larga 13 m con direzione nord-sud che incrocia un’altra strada in direzione est-ovest larga 7 metri. Un’altra zona di scavi si estende dal Parco del Cavallo verso il mare e prende il nome di Casa Bianca. Qui è conservato un ambiente costruito nel IV secolo a.C. in cui è presente una torre circolare che aveva una funzione di riparo per le imbarcazioni fino al I secolo a.C., periodo in cui venne edificato un grande ingresso. Successivamente, intorno al III secolo, l’area venne convertita in necropoli, a causa dell’allontanamento della linea costiera. Un’altra area, detta Stombi, infine mostra una zona urbana a insediamento misto, solo in parte riedificata dopo il 510 a.C., con alcune fondazioni di età arcaica, tra le quali un edificio modesto, pozzi e fornaci. A partire dalla fine degli anni Novanta e fino ad oggi, una missione composta da archeologi di diverse Università italiane e straniere, della Scuola Archeologica Italiana di Atene e da archeologi greci ha intrapreso un progetto di scavi regolari a Sibari, grazie al quale la conoscenza archeologica del sito si è enormemente ampliata. Notevole importanza hanno avuto, inoltre, le ricerche archeologiche nelle località poste ai limiti della piana di Sibari: siti come Francavilla Marittima erano noti archeologicamente molti decenni prima di Sibari stessa. Infatti ricerche condotte nel 1879 e ancora nel 1887 avevano portato alla scoperta di una vasta necropoli dell’età del ferro, formata da circa 200 sepolture ,con ricchi materiali anche precedenti l’età della colonizzazione greca, ai piedi della collina. I reperti archeologici dell’antica città sono oggi custoditi nel Museo archeologico nazionale della Sibaritide. Il museo ospita al suo interno reperti che risalgono dall’era protostorica della Magna Grecia fino alla civiltà romana relative alle città di Sybaris, Thurii e Copia, e ai vari stanziamenti presenti nella zona. Le testimonianze di maggiore interesse sono dei frammenti architettonici, i corredi tombali risalenti all’età del ferro, gli ornamenti religiosi del santuario di Atena del VI-IV secolo a.C. Di notevole importanza la tabella in bronzo con dedica appartenenti a Kleombrotos figlio di Dexilaos, cittadino sibarita vincitore di una gara ad Olimpia, risalente agli inizi del VI secolo a.C. Il 18 gennaio 2013 una forte alluvione ha provocato un allagamento dell’area archeologica di Sibari, a causa anche dell’incuria dell’uomo. 20 mila metri cubi d’acqua hanno coperto interamente il parco archeologico. Dopo 1500 giorni, l’11 febbraio 2017, con l’ausilio di pompe idrovore e impianti di sollevamento per il prosciugamento delle aree interessate, il sito è stato riaperto al pubblico e ora fruibile da tutti.

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Area archeologica di Monasterace

L’antica colonia della Magna Grecia identificata con il nome Kaulon o Kaulonia si trova nei pressi di Punta Stilo nel comune di Monasterace in provincia di Reggio Calabria. L’area intorno al sito su cui insisteva la polis viene chiamata dagli archeologi Kauloniatide. La leggenda più affascinante sulle origini di Caulonia risale a fonti del IV sec. a.C. che narrano della remota presenza sul posto dell’amazzone Clete, la nutrice di Pentesilea, regina delle Amazzoni. La donna-guerriero sarebbe qui approdata dopo la guerra di Troia quando, morta in battaglia la sua regina e deciso il rientro in patria, finì con la sua nave alla deriva sulle coste dell’Italia Meridionale a causa di una tempesta. Qui Clete sarebbe vissuta tranquillamente allorché il mito vuole che gli Achei guidati da Tifone di Aegium sbarcarono sulle coste della Calabria e, con l’aiuto dei Crotoniati, distrussero il suo regno. Solo suo figlio Claulon si sarebbe salvato e avrebbe ricostruito la città che la chiamò con il proprio nome, Caulonia, diventandone così l’eroe eponimo. Secondo Strabone, invece, il nome della città deriverebbe da aulonia, vallonia, cioè valle profonda. La città era limitata a sud dal fiume Sagra, sulle cui rive nel VI secolo a.C. si svolse la famosa Battaglia del Sagra, in cui Caulonia alleata con Crotone fu sconfitta da Locri Epizefiri e Rhegion (Reggio), grazie al miracoloso intervento dei Dioscuri, i due gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus e di Leda, conosciuti sia per essere due degli Argonauti, gli eroi che parteciparono alla ricerca del Vello d’oro, sia perché secondo la mitologia, visto il loro profondo legame, Zeus gli concesse di vivere per sempre nel cielo, sotto forma della Costellazione dei Gemelli. Nel IV secolo a.C. Kaulon fu poi sconfitta dalle forze congiunte dei Lucani e di Dionisio I di Siracusa, sconfitta che costò nel 389 a.C. la deportazione dei suoi abitanti a Siracusa e a Pietraperzia e la cessione del territorio a Locri, alleata del tiranno. Ricostruita da Dionisio il Giovane, Kaulon fu in seguito preda di Annibale durante la seconda guerra punica, finendo poi definitivamente nell’orbita di Roma per opera di Quinto Fabio Massimo nel 205 a.C. Nonostante la città sorgesse in un’area fornita di numerose risorse naturali quali il legname e i giacimenti minerari di rame, argento e piombo, nonché di un buon punto di approdo e di locali cave di pietra da costruzione, il suo rapporto con Crotone l’avrebbe resa col tempo una sua appendice. Caulonia fu tuttavia fra le prime città della Magna Grecia a coniare monete d’argento: sono infatti numerose quelle ritrovate che risultano realizzate con il metallo estratto nella vallata dello Stilaro. Le più antiche (del VI° sec. a.C.) sono gli “stateri incusi”, con figure e iscrizione incavate sul rovescio e rilevate sul diritto, con una figura maschile nuda e dai lunghi capelli ed un’altra più piccola, con accanto un cervo dalla testa rivolta all’indietro e la scritta in greco Kaul. I primi scavi sono attribuibili a Paolo Orsi (1911-1913), che in quel periodo era Soprintendente ai Beni Archeologici della Calabria e cofondatore del Museo della Magna Grecia. Paolo Orsi ritrovò sulla spiaggia i resti di un tempio dorico del quale sono rimaste le fondamenta costituite da blocchi di pietra arenaria. L’edificio è lungo 41 metri per 18,20 metri di larghezza ed è eretto su una terrazza artificiale e sopraelevato su un crepidoma (piattaforma a gradini rialzata in pietra) di 3 o 4 gradini, dove la cella vera e propria, preceduta dal pronao (spazio davanti alla cella), e conclusa da un vano retrostante, era circondata da un colonnato, di 6 colonne sui lati brevi e 14 o 13 sui lunghi che dovevano essere alte oltre 5 metri. L’area archeologica di Monasterace comprende, oltre al tempio, alcune zone situate immediatamente dopo le mura dello stesso. A 200 metri a sud-ovest delle mura sorgeva infatti il santuario della Passoliera del quale sono state rivenute solo alcune terrecotte risalenti a diverse fasi comprese fra il VI e il V secolo a.C. In quest’area archeologica sono presenti, oltre al tempio, i resti del centro urbano di Kaulon, cinto di mura e posto al livello del mare, alcune abitazioni tra cui le più famose sono quelle denominate “La casa del Personaggio Grottesco”, “Casamatta” e “La casa del Drago”, quest’ultima famosa per il ritrovamento di un mosaico di eccezionale fattura raffigurante un drago, diventato poi simbolo del parco.  Nell’edificio denominato “Terme di Nannon”, uno dei pochi edifici termali ellenistici del sud Italia, è stato ritrovato un mosaico raffigurante draghi e delfini che copre un’area di 30 m² ed è quindi considerato il più ampio mosaico della Magna Grecia. In questo sito è stata anche ritrovata una tabella in bronzo che contiene il testo più lungo in alfabeto acheo della Magna Grecia composto da 18 linee, con le lettere ordinate regolarmente secondo il sistema di scrittura detto stoichedon. Si tratta di una lunga dedica votiva, in gran parte metrica, che menziona tra l’altro l’agorà (la piazza pubblica di ogni citta’ greca, cuore della vita politica e commerciale), una statua e un elenco di divinità di grande interesse per la conoscenza dei culti. Importante anche il patrimonio sommerso e restituito dal mare tra cui gli imponenti resti di un tempio Ionico esposti al Museo di Monasterace, ricchezza che ha giustificato il vincolo apposto anche allo specchio di mare antistante il parco. Da quest’area sono emersi anche due contenitori in terracotta ancora pieni di pece, uno dei prodotti che resero famosa la Calabria nell’antichità. Tecnicamente definiti kadoi, sono esemplari molto rari paragonabili solo ad alcuni altri rinvenuti in Puglia. Oggi si sta cercando di salvare il parco archeologico, sia dall’incuria dell’uomo e sia dagli agenti atmosferici che la minano continuamente, con fondi europei che purtroppo vengono sfruttati male o non erogati a causa della burocrazia che attanaglia la nostra regione.

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Area archeologica di Scolacium

Il Parco Archeologico di Scolacium si trova in località Roccelletta di Borgia, località a 10 km di distanza dall’ attuale Squillace, a sud di Catanzaro Lido. L’identificazione del sito archeologico è da attribuire ad Ermanno Arslan. Il ritrovamento di un’epigrafe con il nome della colonia romana di Minerva Scolacium un’antica città costiera del Bruzio, ma che ebbe una storia millenaria attraverso greci, brettii, romani, bizantini, saraceni e normanni, gli permise di attestare la validità storica dell’area. Minervia Scolacium è il nome della colonia romana che fu fondata nel 123-122 a.C. nel sito dove precedentemente si trovava la città greca di Skylletion, a nord di Kaulon. Il centro greco è nominato da Strabone ed ha un mito di fondazione collegato alle vicende della guerra di Troia: sarebbe stata fondata da Ulisse, naufragato in quella terra o dall’ateniese Menesteo durante il ritorno da Troia. Storicamente la fondazione di Skylletion si deve con ogni probabilità a Crotone, che si contendeva con Locri Epizefiri il controllo sull’attuale istmo di Catanzaro e dei traffici marittimi presenti in quel settore; il centro ebbe all’origine specificamente il carattere di presidio militare, presente dalla prima metà del VI secolo a.C. Sembra sia passata sotto il controllo dell’ethnos italico dei Brettii nel corso del IV secolo a.C. e che abbia conosciuto un periodo di decadenza dal III secolo a.C., fino alla fondazione della colonia romana ad opera di Gaio Sempronio Gracco. La Scolacium romana ebbe vita prospera nei secoli seguenti e conobbe una fase di notevole sviluppo economico, urbanistico e architettonico in età Giulio-Claudia. Vi fu fondata una nuova colonia sotto Nerva, nel 96-98, col nome appunto di Colonia Minerva Nervia Augusta Scolacium. In età bizantina diede i natali a Cassiodoro (487-583), uno dei più grandi autori della tarda romanità a cui si deve una messe di opere di carattere teologico ed enciclopedico. Il declino cominciò con la guerra greco-gotica del VI secolo e le incursioni dei Saraceni dal 902 d.C., concludendosi con l’abbandono della città nell’VIII secolo. Gli abitanti, ripetendo una pratica comune in quell’epoca sul suolo italico, trasferirono il loro insediamento sulle alture circostanti, fondando altri insediamenti tra i quali quello sulla collina prospiciente l’attuale quartiere Santa Maria di Catanzaro. Successivamente questi centri provvisori furono riorganizzati in posizioni più difendibili e le popolazioni insediate intorno allo Zarapotamo come quelle della collina prospiciente l’attuale quartiere S. Maria di CZ contribuirono alla fondazione della nuova città di Catanzaro. Gli scavi, iniziati nel 1965, hanno portato alla luce non solo i resti dell’antica colonia, ma hanno posto l’attenzione anche sull’ abitato greco di Skylletion. La struttura dell’insediamento greco è ignota e dagli scavi sono emerse solo ceramiche e monete databili intorno al VI secolo a.C. Nuove campagne di scavo condotte dalla Soprintendenza archeologica della Calabria hanno fatto emergere strutture murarie di età ellenistica, cosa che farebbe pensare alla sovrapposizione topografica delle città. Il punto più importante dell’area si trova in prossimità del foro, che presenta una pianta rettangolare ricoperta da mattoni quadrati e circondato da portici, nel quale si svolgevano le principali attività della vita quotidiana della colonia romana. Sono ancora visibili i resti del Capitolium, il più importante edificio di culto della città romana che si affacciava sulla piazza. I resti dell’edificio son molto scarsi e l’unico reperto visibile è una parte del podio. La Curia, sede del senato locale, ed il Caesareum, ovvero il luogo in cui veniva celebrato l’imperatore, sono due edifici sorti al posto delle tabernae. Non molto distanti dal foro, adagiati sul pendio di una collina, si trovano i resti del teatro che mostrano tre diverse fasi edilizie: la prima risalente all’età tarda repubblicana, la seconda corrispondente all’età giulio-claudia e la terza databile intorno al II secolo. La capienza del teatro era di circa 3.500 persone; l’edifico aveva anche varie funzioni pubbliche nella Scolacium romana. Della struttura si sono conservati parte della cavea e dell’orchestra e sono ancora visibili i posti riservati alle personalità illustri. Dalla zona del teatro provengono numerosi reperti scultorei ed architettonici; inoltre sono visibili i resti dell’anfiteatro il quale ad oggi resta l’unico conosciuto in Calabria risalente al II secolo d.C. Dalla scena del teatro sono state rinvenute tre teste ritratto delle quali due di età giulio-claudia e una di età flavia. Sono state ritrovate anche due grandi statue di marmo bianco conservate nell’Antiquarium di Roccelletta annesso al Parco Archeologico. La piazza della città era attraversata inizialmente dal decumanus maximus, la principale via della città, successivamente spostata nel il lato corto della piazza e a ridosso di quest’ultima si trovava una grande fontana monumentale. Altri reperti sono stati trovati ai margini della città quali le terme e le necropoli romane con molti mausolei ad oggi ben conservati. All’ingresso del Parco archeologico di Scolacium si trovano i resti di un’imponente Basilica Normanna del XI secolo dedicata a Santa Maria della Roccella che ha subito varie trasformazioni legate allo stile occidentale Romanico,all’età bizantina e araba. L’edificio era costituito da un’unica grande navata illuminata da cinque finestre; il transetto sopraelevato era coperto da volte a crociera; attraverso il transetto si accedeva a tre absidi, abbellite con decorazioni arabo-bizantine, ugualmente sopraelevate. Nel Parco Archeologico ogni anno, durante il periodo estivo, la provincia di Catanzaro organizza la manifestazione culturale “Intersezioni”, curata dal direttore artistico del museo MARCA di Catanzaro Alberto Fiz, esponendo opere di artisti internazionali tra i quali Stephan Balkenhol, Tony Cragg, Wim Delvoye, Jan Fabre, Antony Gormley, Dennis Oppenheim, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto e Marc Quinn.

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Area archeologica di Locri Epizefiri

Locri Epizefiri fu una città della Magna Grecia, che si affacciava sul mar Ionio, fondata nel VII secolo a.C. dai greci provenienti dalla Locride. Locri Epizefiri fu l’ultima delle colonie greche fondate sul territorio dell’attuale Calabria. Nel Timeo Platone disse:” Locri, città d’Italia ordinata a leggi bellissime, dove per copia di sostanze e gentilezza di sangue non istà dopo a niuno“.  Il primo insediamento venne fondato nel luogo indicato dall’oracolo di Delfi, presso capo Zefirio (l’attuale capo Bruzzano), ma dopo alcuni anni i coloni – insoddisfatti della località occupata pur corrispondente all’indicazione dell’oracolo – si spostarono verso nord di circa venti chilometri, dove fondarono una nuova città alla quale diedero lo stesso nome del primo insediamento, probabilmente per sentirsi sempre sotto la protezione del dio Apollo, conservando però l’appellativo di Epizephyrioi, che significa appunto “attorno a Zephyrio”. I coloni si trasferirono sul colle Epopis, dove però trovarono insediate popolazioni indigene di Siculi, che sarebbero state scacciate dai locresi con uno stratagemma molto astuto: i coloni giurarono che fin quando avrebbero calcato la stessa terra e portato la testa sulle spalle sarebbero stati fedeli, ma a giuramento fatto essi si liberarono della terra messa in precedenza nei calzari e delle teste d’aglio, scacciando i Siculi dalla zona. Nel corso di un secolo la polis di Locri Epizefiri estese la propria presenza dalla costa ionica al versante tirrenico dell’attuale Calabria, probabilmente per tenere lontana la minaccia di un’espansione della nemica Kroton (Crotone). Verso il 560 a.C.-550 a.C. Locri Epizefiri ebbe alleata Reggio nella vittoriosa battaglia avvenuta al fiume Sagra che fermò la volontà espansionistica verso sud di Crotone. In seguito a tale vittoria nelle due poleis italiote di Reggio e Locri Epizefiri iniziò ad essere praticato il culto dei Dioscuri; in particolare presso gli scavi del tempio ionico di “Marasà” a Locri Epizefiri sono state rinvenute due statue, gli acroteri in marmo, che potrebbero raffigurare i gemelli figli di Zeus (oggi custodite a Reggio presso il Museo nazionale della Magna Grecia). L’esito della battaglia della Sagra confermò Locri Epizefiri come una nuova potenza della Magna Grecia. Dal V secolo a.C. Locri Epizefiri stabilì alleanze con la Siracusa di Dionisio I e del figlio Dionisio II, entrando nell’orbita dei tiranni della polis siceliota. L’alleanza tra Locri e Siracusa venne consacrata dal matrimonio tra Dionigi e la locrese Doride. Quando nel 389 a.C. il tiranno siracusano sconfisse la Lega Italiota, donò a Locri Epizefiri le terre di Kaulonia (presso Monasterace marina) e di Scolacium (nei pressi di Squillace), che delimitavano il confine nord con Crotone, mentre a sud il confine con Reggio era delimitato dal fiume Halex (presso Palizzi). Il IV secolo a.C. fu per Locri Epizefiri un periodo di grande splendore artistico, economico e, soprattutto, culturale. In particolare, di questo periodo storico, vanno ricordate le figure della poetessa Nosside e dei filosofi EchecrateTimeo ed Arione, fondatori di una fiorente scuola pitagorica (introdotto a Locri all’epoca di Dionisio I): lo stesso Platone, secondo quanto attesta Cicerone, si sarebbe recato di persona a Locri per apprenderne i fondamenti. Dopo la morte di Dionigi I, Locri Epizefiri ospitò fra le proprie mura Dionigi II il quale, esiliato da Siracusa, instaurò tra il 357 e il 347 a.C. la tirannide nella polis italiota. Ma la sua politica contro gli aristocratici locali mirava solo al ritorno in patria e dunque, una volta che ebbe svuotate le casse della cittadina calabra, il popolo insorse uccidendo tutta la sua famiglia e cacciandolo ancora. Venne dunque instaurata la democrazia. Nel 280 a.C. Locri Epizefiri si alleò con Pirro, re dell’Epiro, nella guerra tra Romani e Sanniti, sia per esigenza militare che per far fede a un’alleanza stabilita da tempo con Taranto. Dopo qualche anno però i locresi passarono dalla parte dei Romani e Pirro nel 266 a.C. devastò la città e saccheggiò il tempio di Persefone.,Nella seconda guerra punica Locri si schierò con Annibale e fu conquistata dai Romani nel 205 a.C..In seguito la città declinò e nell’VIII secolo fu abbandonata dagli abitanti che si ritirarono nell’entroterra. L’area archeologica si trova nel comune di Portigliola, circa 3 km a sud dall’attuale comune di Locri e si estende nel territorio pianeggiante compreso tra la fiumara Portigliola, la fiumara Gerace, le basse colline di Castellace, Abbadessa e Manella, e il mare. Il fatto che tale area si trovi a distanza dagli odierni centri abitati ha preservato quasi integralmente la città antica: tuttavia, nel corso dei secoli, sono state usate pietre prelevate nell’area per edificare nuove case nei dintorni. Il sito archeologico dell’antica città è oggi diviso in varie parti. La città antica, che era difesa da una cinta muraria di 7 km, in molti tratti ancora visibile. All’esterno delle mura si estendono le necropoli, mentre la maggior parte delle aree sacre sono disposte in prossimità della cinta. I santuari all’interno delle mura sono dotati di edifici templari monumentali e risalgono al periodo arcaico, mentre quelli situati immediatamente all’esterno presentano un aspetto meno monumentale, pur essendovi state rinvenute abbondanti offerte votive. Nella località Marasà, situata alle spalle del Museo Archeologico, si trova il santuario del quale oggi si sono conservate le parti principali. Il primo studio dell’area venne portato avanti da Paolo Orsi; in seguito l’area venne ulteriormente studiata ed il sito di scavo ampliato. La storia del santuario attraversa varie fasi e trasformazioni: secondo gli studi venne edificato intorno alla metà VII secolo a.C. poco dopo la fondazione della polis, fu ampliato verso la metà del VI secolo a.C. e ricostruito nel V secolo. Del tempio ionico che caratterizzava il santuario ci sono pervenute pochissime testimonianze, come la base occidentale del basamento. La scarsa quantità di reperti archeologici è dovuta ad una ricorrente asportazione dei blocchi di calcare avvenuta nel XIX secolo che servirono a costruire i moderni edifici. Gli archeologi sono tuttavia riusciti a dedurre che il tempio ionico, composto da blocchi di pietra arenaria, era costituito da un cella allungata con pronao che in tutto misurava 22 metri di lunghezza per 8 metri di larghezza. Sulla facciata del tempio era posta una decorazione che raffigurava i due Dioscuri a cavallo di un Tritone. Il santuario venne probabilmente costruito in onore della dea Afrodite vista l’importanza della sua venerazione per gli abitanti di Locri; un’altra ipotesi che fa pensare alla dea Afrodite è il ritrovamento di alcuni reperti votivi ma nonostante tutti gli studi dedicati all’area sacra ed al tempio non si può affermare questa ipotesi con certezza. Un’altra località ricca di storia è quella di Centocamere dove si trovano i resti di numerose case e fornaci grazie ai quali si può dedurre che questa zona era il quartiere ceramico della città. I resti del teatro cittadino hanno un’importanza rilevante per quanto riguarda la particolarità della struttura, l’unica presente in Calabria. L’edificio conteneva fino a 4.500 spettatori. Della struttura sono visibili ancora tutte le componenti: dalla cavea semicircolare, da dove si godeva un notevole panorama della città e del mare, con i gradini per gli spettatori divisi da scalette in sette settori, alla scena di forma rettangolare dietro alla quale si trovano due pozzi nei quali sono stati ritrovati molti oggetti di carattere sacro. Il teatro venne costruito intorno al IV secolo a.C. ma sono state apportate varie modifiche in epoca romana. Nell’ area archeologica di Locri sono stati trovati i resti del santuario di Persefone il quale sorge ai piedi del colle della Mannella a ridosso della cinta muraria della polis. Il santuario è databile tra il VII ed il III secolo a.C. La sua scoperta è da attribuire a Paolo Orsi che terminò gli scavi tra il 1908 ed il 1911; il suo lavoro portò alla luce preziosi reperti tra i quali i Pinakes (in greco antico πίνακες) , quadretti in terracotta, legno, marmo o bronzo di carattere sacro tipici dell’antica Grecia; le imponenti mura di pietra arenaria che delimitavano i confini dell’area sacra. Oltre al tempio di Persefone sono presente i resti di altre tre aree sacre: il tempio di Zeus Olimpio, il santuario di Grotta Caruso o Grotta delle Ninfe ed il santuario di Zeus Saettante. Il tempio di Zeus Olimpio non è stato ancora localizzato tranne che per la teca cilindrica, in pietra calcarea, che fungeva da archivio per il santuario. Questa venne riportata alla luce clandestinamente e derubata del suo contenuto il quale venne in parte recuperato ed è costituito da 39 tabelle di bronzo. Il santuario di Grotta delle Ninfe si trova in una grotta al di fuori delle mura della città e risale al VI secolo a.C. e venne scoperto da Enrico Arias nel 1940. Oggi la visita del luogo non è praticabile in quanto una parte della grotta crollò dopo gli scavi ma i suoi reperti sono esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Locri. Il santuario di Zeus Saettante si trova alle spalle del Museo e, grazie a reperti di carattere votivo ritrovati, si può stimare il periodo storico del tempio che va del V al III secolo a.C. Molti tra i resti trovati in quest’area raffigurano Zeus pronto a scagliare uno dei suoi fulmini; da qui l’ipotesi che il tempio sia stato costruito in suo onore. La necropoli locrese più nota è quella di Lucifero, dove sono state rinvenute circa 1.700 tombe databili tra il VII e il II secolo a.C. e spesso segnalate da vasi di grandi dimensioni, di buona fattura e pregio, opera di ceramografi ateniesi di fama, oppure da “arule”, piccoli altari in terracotta decorati con immagini del mondo dell’oltretomba.

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Area archeologica di Capo Colonna

L’area archeologica di Capo Colonna è un sito archeologico statale situato in località Capo Colonna, vicino Crotone, raggiungibile tramite una strada costiera dal capoluogo. Il parco fu realizzato dalla Soprintendenza per i beni archeologici della Calabria e raccoglie 30.000 metri quadri di terreno adibito agli scavi e 20 ettari di bosco e macchia mediterranea. In quest’ area si trova il Museo Archeologico, costituito da tre padiglioni incassati nel terreno per ridurre l’impatto ambientale. Esso è strutturato da un percorso all’ inizio del quale c’è un viale immerso nella macchia mediterranea. Successivamente si trova la cinta muraria del VI secolo a.C. rafforzata più tardi dai romani. Dopo le mura si trova l’inizio della via sacra, larga 8,5 metri e di fronte l’ingresso della via, sul alto est del promontorio di Capo Colonna, si accede al maestoso tempio dorico. Se ne erano accorti i greci della sua bellezza già nel VI secolo, quando giunsero nella vicina Kroton e vedendo dal mare il capo lo scelsero come luogo sacro. Il santuario di Hera Lacinia di Capo Colonna, dipendente dalla città di Crotone antica, fu uno dei santuari più importanti della Magna Grecia dall’età arcaica fino al IV secolo a.C., finché cioè fu sede della lega Italiota prima che si trasferisse a Taranto. Il sito del santuario era in una posizione strategica lungo le rotte costiere che univano Taranto allo stretto di Messina, su un promontorio chiamato anticamente Lacinion, che diede anche l’epiteto alla dea venerata, Hera Lacinia. Il nome odierno invece ricorda le rovine del tempio (con l’ultima “colonna” in piedi), mentre il nome usato fino all’epoca moderna, “Capo Nao”, altro non è che una contrazione del greco naos, che significa appunto tempio. Il santuario era stato edificato alla fine del VI secolo a.C. ed era anche chiamato di Hera Eleytheria, come resta testimoniato da un’iscrizione sul cippo del Lacinion, al Museo archeologico nazionale di Crotone. Nel XVI secolo fu quasi completamente saccheggiato per riutilizzare i materiali da costruzione. Il tempio era costituito da una pianta rettangolare e 48 colonne, alte circa 8 metri. La costruzione rispettava i canoni edilizi dei greci e risale intorno al VI secolo a.C. . Il tetto era di lastre di marmo e tegole in marmo pario come testimoniano i resti ora conservati nel museo di Crotone. Nulla si sa delle decorazioni che, però, erano certo presenti, come si può dedurre dal ritrovamento di una testa femminile in marmo della Grecia e pochi altri frammenti. Di tutto l’edificio sacro, oggi, si è conservata una sola colonna alta 8,5 metri, con capitello dorico e un fusto che ha 20 scanalature piatte composto da 8 rocchi sovrapposti. La colonna fino al 1638 era affiancata da un’altra caduta per un terremoto e poggia sui pochi resti del possente stilobate. Nelle adiacenze è tracciata una “Via Sacra” di una sessantina di metri e larga oltre 8 metri. Al complesso del tempio appartengono anche almeno tre altri edifici chiamati “Edificio B”, “Edificio H”, “Edificio K”:

  • L’Edificio B presenta una pianta rettangolare di quasi 200 m² e dagli archeologi è ritenuto il tempio originario; aveva la funzione di raccoglimento e di culto ipotesi sostenuta dal ritrovamento di alcuni reperti, come una navicella di bronzo, che risalgono alla prima metà del VIII secolo a.C.
  • Nel lato nord del Parco si trova il Katagogion, chiamato Edificio K, avente un portico dorico e risale al IV secolo a.C.. La pianta della struttura si sviluppa ad “elle” e ne rimangono solo i basamenti. All’ interno sono presenti ambienti decorati con quadrati e rettangoli. Probabilmente era la foresteria dove potevano trovare alloggio importanti visitatori, mentre i loro accompagnatori si dovevano accontentare di costruzioni molto meno raffinate e resistenti.
  • l’Edificio H, di pianta quadrata, chiamato anche Hestiatorion, è suddiviso in vari locali. Il ritrovamento di suppellettili tipiche dei locali dedicati ai pasti può far dedurre che si trattasse dell’edificio-mensa e ristoro dei viaggiatori oltre che dei sacerdoti. In ogni caso la datazione viene posta al IV secolo a.C. quando il tempio già aveva assunto grande celebrità.

Il vasto numero di ritrovamenti e di reliquie è diviso nei vari musei della città di Crotone: nel Museo di Capo Colonna sono conservati gli ultimi reperti rinvenuti, nell’Antiquarium di Torre Nao c’è qualche reperto di età precoloniale e nel Museo Archeologico Nazionale di Crotone sono custoditi i primi ritrovamenti di età arcaica e soprattutto il tesoro di Hera. Della maestosità del luogo in epoche remoto ci è data testimonianza da tanti elementi rinvenuti sul luogo, tanti gioielli in oro, vasi in terracotta e tanti altri doni portati dai pellegrini devoti, tra cui il famoso Diadema Aureo e la misteriosa Bacchetta Nuragica, che oggi sono custoditi proprio nel museo di Crotone. La località non ha perso l’importanza sacra che ha sempre avuto, infatti sulle rovine del tempio pagano è situato il Santuario di Santa Maria di Capo Colonna, distrutto, ristrutturato e ampliato nel corso dei secoli, ma presente già nel 1519 come risulta da storici manoscritti che descrivono che sul luogo esisteva una piccola chiesa dove si venerava l’immagine della Madonna e dove è narrato di come il dipinto si sia salvato miracolosamente dalle mani dei turchi che ne depredarono l’area. La terza domenica di maggio, in occasione dei festeggiamenti della Madonna di Capo Colonna, il dipinto, custodito nella cattedrale di Crotone, è portato in processione nel santuario alle prime luci dell’alba. Proprio davanti alla chiesa si trova un importante elemento di difesa, la torre del Capo Nao, a pianta quadrata, conosciuta come Torre Nao, costruita dagli spagnoli nel XVI secolo come elemento di difesa dagli attacchi dei turchi, e ora sede del museo Antiquarium.

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Area archeologica di Vibo Valentia

L’antica Hipponion, che dal 1932 è stata ribattezzata con la denominazione latina di Vibo Valentia, è una delle città della Magna Grecia situate sul versante tirrenico della Calabria. Hipponion sorse poco dopo delle cittò del versante ionico, nel VII sec. a.C., quando Locri Epizefiri si assicurò il controllo di buona parte della Calabria meridionale fondando sul Tirreno le sub colonie che mantennero a lungo con la stessa Locri legami politici e una forte impronta culturale, evidente nei culti religiosi e in molti prodotti artistici realizzati sotto l’influsso locrese. Gli scavi effettuati hanno ritrovato anche reperti riguardanti la città sorta dopo la colonia greca, Vibonia e resti dell’antico centro di Veipo. Hipponion attraversò complesse vicende politiche tra il IV e il II secolo a.C., con una fase di dominio della popolazione italica dei Brettii, che dalle aree interne della Calabria settentrionale si estesero anche assai più a Sud, lasciando a Hipponion importanti testimonianze, come ricchi depositi di monete argentee coniate dalla confederazione dei Brettii. Alle fasi del III sec. a.C. risalgono anche i resti imponenti della cinta muraria in blocchi squadrati di arenaria, il monumento più importante rimasto fino a noi della Hipponion greca e poi brettia. Sotto la dominazione romana la città (che per breve tempo assunse la denominazione beneaugurale di Valentia, anche più a lungo si affermò il nome di Vibo, trasformazione latina dell’antico nome greco) si sviluppò ulteriormente, favorita dalla posizione sulla via consolare Annia-Popilia e dalla vicinanza con il porto (l’attuale Vibo Marina), base navale fondamentale nelle guerre civili che portarono all’impero di Augusto, grazie alla vittoriosa attività di Agrippa collaboratore e poi genero di Ottaviano. Agrippa fu onorato a Vibo con un bellissimo ritratto marmoreo, rinvenuto nel 1972, uno dei pezzi più prestigiosi del locale Museo Archeologico, che dell’età romana ospita anche altre statue in marmo, un mosaico pavimentale con scene di pesca recuperato da una villa romana nei dintorni, mentre altri mosaici pavimentali figurati sono conservati negli edifici di età imperiale messi in luce nel quartiere urbano di S. Aloe, dove è in corso la creazione di un parco archeologico urbano. Il sito dell’antica Hipponion si trova a quattro chilometri dalla costa tirrenica, sull’ altopiano della penisola di Tropea, particolarmente favorevole allo sviluppo perché situata nelle vicinanze del mare e della costa e protetta da imponenti mura. Le mura che circondavano la colonia greca di Hipponion erano lunghe circa 7 km ed alte 10 m e sono state rinvenute da Paolo Orsi nel 1916 nella zona di Trappeto Vecchio. I resti si estendono per un tratto di 350 m; nel 1969 Ermanno Arslan trovò altri tratti di mura. Erano state costruite con blocchi regolari di pietra arenaria e calcarenite ed erano rafforzate ogni 40 metri da torri circolari. Sono state studiate quattro fasi costruttive di cui la più antica appartiene alla costruzione fatta con mattoni crudi (impasto di fango e paglia). Nella zona del Parco delle Rimembranza Paolo Orsi ritrovò i resti di un tempio dorico del 500 a.C. dedicato con molta probabilità alla dea Proserpina molto venerata degli Ipponiati, ma del tempio è rimasto molto poco poiché i marmi e le colonne vennero utilizzati per costruire la cattedrale normanna di Mileto. Oltre al tempio dorico vennero indagati altri due templi: uno ionico situato in zona Cofino, l’altro dorico posto nei pressi della Cava Cardopati. Sono stati rinvenuti inoltre i resti dell’abitato romano di Vibonia del II secolo in via XXV Aprile, mentre nella Località Stanislao Aloe sono stati trovati i reperti di un impianto termale arricchito di mosaici policromi dai quali si può individuare un ritratto di Vespasiano. Nella medesima area sono emerse due domus con pavimenti a mosaico e nell’ area dell’aeroporto militare sono stati rinvenuti i resti di una villa romana con volte a crociera che si sono ben conservate nel tempo. Nella frazione di Vena Superiore è stato scoperto un ambiente ipogeo di grandi dimensioni che riguarda una grotta di circa 1.000 metri quadri che dopo vari studi è da considerarsi una chiesa-grotta costituita da un’unica navata. Il Museo Archeologico Nazionale di Vibo Valentia è intitolato alla memoria di Vito Capialbi, importante studioso ottocentesco e collezionista delle antichità locali, di cui esposta nel museo la ricchissima raccolta numismatica, recentemente acquistata dallo Stato. Il Museo, base operativa e di ricerca per gli scavi condotti in città dalla Soprintendenza fin dalla fine degli anni ’60, ha sede prestigiosa dal 1995 nel monumentale Castello, che conserva imponenti torri e cortine del Duecento e del Trecento e fu poi sede dei principi Pignatelli; è stato restaurato e rifunzionalizzato con impegnative opere dalla Soprintendenza ai Monumenti di Cosenza. Ampi scavi nelle necropoli greche hanno messo in luce corredi funerari dal VI sec. a.C., con molti vasi importati da Corinto, al III sec. a.C., ma il reperto più significativo, che ha dato eccezionale rinomanza internazionale ad Hipponion e al suo Museo è una sottile laminetta in oro, lunga pochi centimetri, rinvenuta ripiegata più volte e deposta sul petto di una defunta nella prima metà del IV sec. a.C.. L’eccezionalità del reperto, di cui esistono solo una decina di esemplari analoghi in tutto il mondo greco, è data dalla lunga iscrizione incisa in minutissime lettere greche, su sedici fitte righe; il testo contiene la formula magico-religiosa, e per questo tracciata su un materiale prezioso e incorruttibile come l’oro, che l’anima della defunta doveva imparare a pronunciare nel suo percorso attraverso il mondo oscuro degli Inferi per superare varie prove e raggiungere un eterna, luminosa serenità nei Campi Elisi riservati ai fedeli iniziati ai rituali attribuiti al mitico cantore Orfeo. Questo tipo di religiosità detta appunto Orfica si diffuse in tutto il mondo greco, e soprattutto in Magna Grecia, a partire dal V sec. a.C., e la lamina aurea di Hipponion ce ne conserva una delle versioni più complete e più antiche. Altri aspetti del culto delle tradizionali divinità elleniche, come Demetra protettrice della fecondità della natura e della coltivazione del grano, è la figlia Persefone, che rapita da Hades signore dell’Oltretomba ne divenne sposa e regina degli Inferi, sono attestati a Hipponion dai rinvenimenti nei santuari del VI e V sec. a.C. ricchissimi depositi di offerte votive. Un caso di particolare interesse è quello del deposito votivo in località Scrimbia, il cui scavo ha fornito materiali di notevole bellezza, e molti elementi del tutto peculiari per la ricostruzione del culto. Si trattò di uno dei santuari più importanti e più frequentati dai fedeli nell’Hipponion del VI e V sec. a.C., come indica l’abbondanza delle offerte, comprese moltissime di tenue valore economico (come vasetti miniaturistici) ma non meno significative come documento del legame dei fedeli con le varie divinità che qui erano oggetto di culto. Le statuette in terracotta, numerosissime, recano immagini di divinità femminili o figure di fanciulle offerenti; i tipi sono per lo più affini a quelli rinvenuti a Locri nel santuario di Persefone: una tavoletta a rilievo reca l’immagine di una dea in trono che regge una lunga spiga stilizzata, che sembra identificabile con Demetra, mentre un’altra rappresenta sicuramente Artemide, con i tipici attributi dell’arco e del cerbiatto. La peculiarità di maggior risalto del santuario di Scrimbia è data dall’eccezionale frequenza di offerte di manufatti in bronzo, materiale di alto pregio che denota offerenti di alte capacità economiche, presumibilmente di rango sociale elevato. Alcuni dei vasi in bronzo furono importati da aree lontane, come i grandi bacili ad orlo perlato, di probabile produzione etrusca, e una brocca decorata prodotta in Laconia. Le offerte di specchi in bronzo e qualche esemplare di orecchini in argento ci riportano ad ambiti di culti femminili, che già sono sembrati dominanti nel santuario. In rapporto a ciò, appaiono quindi quasi sorprendenti le numerose offerte di armi difensive in bronzo, dedicate ad Hades, spesso impreziosite da raffinate decorazioni, evidentemente dedicate da uomini che intendono affermare nel loro rapporto con il divino un rango sociale eminente nella propria comunità. Si tratta di grandi scudi, dai bordi decorati a sbalzo con motivi a treccia multipla, schinieri, elmi di vari tipi, da quello corinzio a quelli detti calcidesi, a quelli con paraguance a testa di ariete, uno dei quali rivestito da lamine in oro e in argento. Altri elmi hanno finissime figure incise, come tritoni, lotte tra animali (un cervo sbranato da due pantere), parti di cavalli rampanti, altri animali. Si tratta evidentemente di armi da parata, che attribuivano a chi le possedeva, e qui le esibiva come offerta nel santuario, un ruolo aristocratico o quasi eroico allusivo ai mitici “guerrieri vestiti di bronzo” protagonisti dei poemi omerici. A Scrimbia la coppia Persefone e Hades forse svolgeva funzioni parallele di tutela per la componente femminile e per quella maschile della società ipponiate, soprattutto a livello dell’aristocrazia dominante tra VI e V sec. A. C.. Per concludere, le immagini di una delle offerte ceramiche più significative a Scrimbia, una “hydria” (un vaso per raccogliere e trasportare acqua, di uso specificatamente femminile) qui decorata con una scena mitica che esalta le virtù militari degli eroi antichi, la partenza di Anfiarao per la guerra dei “Sette contro Tebe”, tema adatto a un’aristocrazia sensibile ai valori eroici dell’arte della guerra. E un vaso prodotto nelle officine ceramiche calcidesi, della seconda metà del VI sec. a.C..

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Area archeologica di Bova

Il Parco Archeologico ArcheoDeri della vallata del San Pasquale, inaugurato nel giugno 2010, sorge a Bova Marina, intorno all’area sinagogale rinvenuta negli anni Ottanta, presso la contrada da cui trae il nome “Deri”, richiamando la tradizione dell’Antica Delia o Scýle, secondo gli antichi Romani. Ci troviamo in un sito archeologico tra i più importanti del Mediterraneo, infatti, la sinagoga, risalente al IV secolo d. C., è la più antica in Occidente, dopo quella di Ostia Antica, ed il suo ritrovamento ha aperto nuovi scenari storici sulla presenza degli ebrei nella Calabria meridionale. Era venuta alla luce, come accaduto in tanti altri casi, durante i lavori di realizzazione di una strada, per la precisione un tratto della statale 106 e in un primo tempo si pensò ad una villa romana, ma successivamente ne è stata poi accertata l’esatta natura grazie al rinvenimento di un mosaico raffigurante i più importanti simboli giudaici. Dopo il ritrovamento il sito fu visitato dall’allora rabbino capo di Roma Elio Toaff, il quale confermò la piena compatibilità dei ritrovamenti con una struttura sinagogale. Il mosaico è attualmente ospitato all’interno dell’Antiquarium che conserva, inoltre, importanti reperti provenienti dal territorio di Bova, risalenti al neolitico, all’età del bronzo, all’epoca greca romana e bizantina. Del Parco fa parte anche un Centro di Documentazione per il Patrimonio Culturale e l’Ebraismo nell’Area Grecanica, al cui interno si trovano una sala espositiva sulla storia del territorio, una sala dedicata all’ebraismo, una biblioteca con testi riguardanti la grecità calabrese e la storia degli ebrei in Calabria, un archivio multimediale ed una sala conferenze. Campagne di scavi archeologici hanno evidenziato come fin dall’età Neolitica fossero presenti culti legati alla dea Madre, mentre per l’età magno greca sono documentate ritualità in onore di Demetra e di Kore. Queste testimonianze del passato sono riscontrabili attraverso una piccola figura antropomorfa in ceramica, con forte enfatizzazione dei caratteri femminili, della seconda metà del VI millennio a.C., ritrovata in località Penitenzeria e di un balsamario, raffigurante una Kore (VI sec. a.C.), rinvenuto nelle fondamenta di un edificio, alle spalle di Bova, facente parte di una fortezza magno greca, distrutta durante un conflitto tra le polis di Reggio e Locri, nel corso del V sec. a.C. La restante parte dei reperti esposti, concerne invece i ritrovamenti in loco: un insediamento romano del I-II secolo d.C., nel quale pare fosse istallata la statio di Scyle. La radice onomastica di Skyle, simile a Scilla e Squillace, anch’essi posti in prossimità di promontori rocciosi, pare derivi dal latrare che le onde producono infrangendosi sugli scogli, motivando così la traduzione greca del termine “Scyle” in cagna.  L’area del parco archeologico, sita nel fondovalle ai margini della fiumara del San Pasquale, era già indicata nel Settecento come sede dell’antica Delia, una città fondata da greci provenienti dall’isola di Delo. I suoi abitanti, scampati a una incursione barbarica, generarono nel Medioevo i centri di Bova, Paracorio e Pedavoli, questi ultimi più tardi unitisi in un solo comune chiamato Delianuova, in ricordo delle origini. Le medesime fonti affermavano inoltre che queste terre erano in origine abitate “dalla gente Aramea”, giunte qui sotto la guida di Aschenez, pronipote di Noè. Ebrei dunque, poiché con il termine di aramei, erano indicati nel XVIII secolo i giudei ancora presenti nell’Italia Meridionale e nelle Isole. La presenza di una comunità ebraica nel sito di Bova Marina non integra solo il quadro degli insediamenti israeliti della costa ionica, documentati nel Tardo Antico anche a Reggio e nella vicina Lazzaro, ma accerta, grazie al rinvenimento di un timbro con un candelabro a sette bracci, impresso su un’ansa di fabbricazione locale (IV-V sec. d.C.), l’esistenza di una attiva produzione e commercializzazione di cibi kosher, cioè preparati secondo le norme alimentari ebraiche. Che queste realtà sociali fossero integrate nel territorio già da tempo, trova conferma nei Talmud (interpretazioni bibliche tardo antiche), in cui si sosteneva la tesi che la Magna Grecia era stata assegnata da Isacco a Esaù, a consolazione della primogenitura carpitagli da Giacobbe. A documentare la prosperità dell’abitato ebraico di Bova Marina è proprio il mosaico policromo che decorava il pavimento della sinagoga: trenta metri quadrati di tessere, poste in opera alla metà del IV sec. d.C.. Purtroppo le arature del terreno hanno compromesso la sua leggibilità, lasciandoci ampi dubbi circa il simbolismo figurato all’interno di riquadri, delimitati da una ghirlanda floreale e incorniciati da una treccia a più capi. Nei 16 pannelli, decorati con corone di alloro, è certa la presenza del motivo della rosetta, del nodo di Salomone e di una Menorah, (candelabro a sette bracci) affiancata a sinistra dallo shofar (corno d’ariete) e a destra da una palma (lulab) e un cedro (etrog). Questi simboli erano probabilmente disposti sul pavimento musivo nel rispetto di una specifica liturgia che prevedeva l’esistenza di un àron, cioè l’armadio, orientato ad Est, contenente i rotoli delle sacre scrittura (sifré Torà), di una bima, ovvero il pulpito da cui il cantore dirigeva la preghiera, e ancora di una suddivisione tra uomini e donne durante le funzioni religiose (matronei), ed infine di banchi, riservati ai dirigenti della comunità, e che sappiamo disposti ai lati della Torà, lungo la parete di fondo. In età Ostrogota (480-553 d.C.), la sinagoga fu munita di un’abside, di fronte al quale si ricavò nel pavimento uno spazio, mosaicato con il simbolo del Nodo di Salomone tra motivi romboidali, stilisticamente vicini alle novità artistiche importate in Occidente dal Mediterraneo orientale sul finire del V sec. d.C.. La campagna di restauri che interessò la sinagoga in questo periodo, comportò inoltre la creazione di nuovi ambienti di servizio, magazzini e la costruzione di uno ospitalia, destinato ai pellegrini e ai rabbini di passaggio. L’insediamento subì una distruzione violenta alla fine del VI sec. d.C., simultaneamente a quanto documento nel 590 d.C. anche a Taureana e a Locri, forse per mano dei Longobardi, giunti sullo Stretto di Messina al seguito di Autari. Oggi è il Museo Archeoderi che ne detiene l’eredità. In esso sono custoditi le vestigia di grandi civiltà, i fasti della loro gloria e soprattutto la memoria di tutte quelle genti, autoctone e non, che si sono insediate sul nostro territorio e delle quali abbiamo ancora oggi testimonianze nella nostra cultura tra usi, costumi, tradizioni e lingua. Risalendo il corso della fiumara del San Pasquale, la strada taglia in due un sito di età romana, già noto agli studiosi. Effettivamente in località Panaghia esisteva una struttura semicircolare da sempre ritenuta una chiesa di origine bizantina, dal momento che la toponomastica rendeva chiara la presenza di un luogo di culto intitolato alla Madonna tutta Santa. Di recente campagne di scavo effettuate sul versante nord dell’asse stradale hanno permesso di stabilire che si tratta di un complesso residenziale particolarmente vasto, databile dal III al IV sec. d. C.. Lungo il fianco della strada sono infatti emersi magazzini con dolia e diversi ambienti, alcuni dei quali absidati e probabilmente in origine mosaicati, visto l’abbondante rinvenimento di tessere musive. Interessante scoperte sono state effettuate anche nel sito della chiesa della Panaghia, i cui muri perimetrali risultano essere pertinenti una nicchia di una grande aula absidata tardo antica. Tra i reperti spiccano, oltre alle anfore da vino, soprattutto, frammenti di vetri con decorazioni a gocce e di ceramica di Navigius dalla tipica decorazione plastica a stampo. Questa tipologia di ceramica, assieme a quella di altre officine associate, veniva prodotta nella Tunisia centrale, probabilmente nella regione di Henchir e Srira, tra il 290 e il 320 d. C. La lavorazione a matrice di questa singolare ceramica si caratterizza per via di produzioni con raffigurazioni di tipi umani, di cacce, di spettacoli, di scene mitologiche; si tratta di manufatti prodotti per un mercato regionale; solo eccezionalmente si trovano tracce in Italia ed in Cirenaica. Il loro repertorio decorativo è prevalentemente antropomorfo e prevede per lo più figure caricaturali della fisionomia nord africana; le teste femminili, giovani o anziane hanno espressioni grottesche; analogamente le teste virili, con i medesimi caratteri, barbate e non, sono arricchite anche da espressioni lascive e satiresche, con folta capigliatura riccioluta, bocca e naso a volte esageratamente grandi. Le fisionomie satiresche presentano, invece, una corta barbetta, sopracciglia folte, capelli lisci, cadenti, spesso fermati da un nastro, la bocca atteggiata in un sorriso beffardo con i denti parzialmente in vista. Le forme dei vasi somigliano invece alla Lagoena, alla fiaschetta cilindrica, alla brocchetta. A circa 4 km nell’entroterra, in prossimità dell’antico confine tra i comuni di Bova Marina e Bova si trova il sito archeologico di Umbro. Alla base del dirupo roccioso sono stati rinvenuti molti reperti da cui è possibile stabilire che l’area fu intensamente occupata durante il Neolitico, precisamente dalla metà del VI millennio d.C. alla metà del V millennio d.C. (Stentinello). E’ inoltre attestata l’occupazione durante la facies di Diana e, probabilmente in maniera sporadica, durante l’età del Rame. Diversamente la sommità dell’altura risulta abitata nell’età del Bronzo. Nel complesso, l’insediamento di Umbro sembra presentare almeno tre periodi di occupazione. Durante il Neolitico Antico e Medio (VI-V millennio a.C., Strati IV-V della Trincea 1), un’occupazione risalente alla facies di Stentinello potrebbero aver avuto luogo ai piedi del dirupo. Altre aree circostanti possono essere state occupate in questa fase, tuttavia eventuali tracce sono state distrutte dall’erosione che ha interessato la zona. La stessa area occupata durante la facies di Stentinello potrebbe essere stata riutilizzata durante il Neolitico Tardo/Finale in corrispondenza della facies di Diana. I manufatti Neolitici raccolti comprendono ceramica tipica degli stili di Stentinello e Diana, alcuni esempi di ceramica Neolitica di altro tipo, quali ceramica a pittura rossa, ed alcuni probabili frammenti di epoca Eneolitica. Molti i ritrovamenti di ossidiana, una preziosa ascia in anfibolite, una piccola riproduzione di ascia in fillite, alcune macine e alcuni frammenti di concotto e di ocra rossa. I resti faunistici accertano la preponderanza degli ovini e dei caprini, con presenza di maiale; scarsi i resti dei bovini mentre del tutto assente è l’ittiofauna. Non mancano i resti di ossa di cane. Campioni di flottazione provenienti da ogni strato confermano la coltura della veccia, del Triticum e dell’orzo.

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Aree archeologiche di Tauriana e di Medma

Tauriana e Medma erano due città dell’antichità posizionate sulla “Costa Viola”, la parte meridionale della costa tirrenica della Calabria, rispettivamente nei comuni attuali di Palmi e Rosarno. Tauriana  è un’antica città brettia, il cui nome deriva da quello del populus italico che la fondò, i tauriani. La città, che sorgeva sulla riva sud del fiume Metauros (probabilmente il Petrace), segnava il confine del territorio di Rhegion (Reggio Calabria) sul versante tirrenico nord-occidentale, oltre cui iniziava quello di Locri Epizefiri. Successivamente romana e poi bizantina, Tauriana venne distrutta dai saraceni nella metà del X secolo. Gran parte dei rinvenimenti archeologici costituiscono il Parco Archeologico dei Tauriani. Sulla fondazione della città, alcune leggende narrano di una possibile colonizzazione achea dell’area in cui sorse Tauriana. Altre ipotesi ricollegano la nascita della città alla seconda metà del IV secolo a.C., quando dei gruppi brettii, che si erano resi autonomi dai lucani, raggiunsero la Calabria meridionale conquistando diverse città. La città è segnalata in atti ufficiali di età successiva, quando Tito Livio asserisce che nel 212 a.C., in occasione della guerra annibalica, nel Bruttium vi fu il passaggio dei Taureani, unitamente ai Cosentini, «sotto la protezione di Roma». Il passaggio è il seguente: ”Allo stesso tempo di dodici stati in Bruzio, che l’anno precedente per i Cartaginesi si era ribellata, Consentia e Tauriana sono state restituite alla protezione del popolo romano“.Con la romanizzazione della zona, successiva alla guerra sociale, la presenza brettia sul territorio sparì ed i tauriani, grazie ad un buon rapporto con i romani, conquistarono un’autonomia politica e amministrativa che permise loro di avere un proprio territorio, abbandonando la condizione di subordine nei confronti della città di Reghion. Di una «città dei Tauriani» scrivono anche Pomponio MelaPlinio il Vecchio nel I secolo d.C.. Quest’ultimo la definisce come “Tauroentum oppidum” nel seguente passaggio: “Dopo Vibo Valentia, che ora chiamano il Porto di Ercole, il fiume Metauro; la città di Tauriana, il Porto di Oreste e Medma”. Con il passaggio del territorio sotto il controllo dell’Impero romano d’Oriente, all’interno del Thema di Calabria, Tauriana ricadeva nell’area della “Turma delle Saline“. Nei secoli ebbe varie incursioni e scorrerie da parte soprattutto dei saraceni che costrinse la popolazione ad abbandonare la città e trasferirsi in zone più interne fino al completo abbandono. Nel 1086, Ruggiero I conte di Calabria, che aveva istituito nel 1081 il vescovado di Mileto, aggiunse a quest’ultima i territorio della distrutta ed abbandonata diocesi di Tauriana, essendo rimasta vuota la sede. Il porto della città visse fino al secolo XVIII. Difatti si presume che, sempre nell’XI secolo, vi approdò Ruggiero I per sbarcare in Calabria dalla Normandia. Il primo strumento storico sulle ricerche dell’antica Tauriana è il libro “Metauria e Tauriana”, scritto dallo studioso Antonio De Salvo sul finire del XIX secolo, nel quale l’autore indica una pianta dei ruderi ancora visibili. Sono appunto della fine del XIX secolo i primi rinvenimenti fortuiti. Essi si concentrano prevalentemente sul litorale di Scinà e sul pianoro dell’odierna Taureana di Palmi e riguardano l’area in età greco-italica, imperiale e bizantino-medievale. Negli anni novanta dello scorso secolo, alcune ricerche hanno portato all’individuazione di resti di assi stradali, strutture abitative, piani pavimentali, canalette di scolo, dolia per derrate alimentari, tutti riconducibili ad un’età compresa tra la seconda metà del IV secolo a.C. ed il I secolo a. C.. Il parco, con i suoi attuali tre ettari di estensione, occupa la parte centrale di un pianoro dominante la costa Viola. È stato realizzato con fondi APQ Beni culturali Calabria e con un finanziamento dell’Amministrazione provinciale di Reggio Calabria ed inaugurato il 17 settembre 2011. In particolare le strutture rinvenute, ed evidenziate all’interno del parco, sono:

  • Una grande strada urbana passante per l’antica Tauriana, dove si conserva la pavimentazione in basoli di dura pietra Da essa si accedeva alle gradinate dell’edificio per spettacoli. La sua prosecuzione, fuori città, conduceva alla via Popilia, importante asse viario di collegamento tra Reggio Calabria e CapuaRoma.
  • Un edificio per spettacoli. Si tratta di un’architettura singolare nel panorama italiano, che presenta la forma di un teatro ma nasce come anfiteatro per manifestazioni ludiche, come i combattimenti tra gladiatori. Occasionalmente la struttura poteva destinata a rappresentazioni teatrali. La sua capienza sarà stata di circa 3.000 spettatori.
  • Nella parte sud del pianoro è visibile un settore del quartiere abitativo brettio-romano nel quale, ai lati della strada, è possibile leggere la sovrapposizione delle strutture romane su quelle brettie.
  • Della Tauriana “brettia” (I secolo a.C.) è possibile ammirare la «casa del mosaico», così chiamata per il rinvenimento di un mosaico figurato che, insieme a un letto di bronzo decorato in argento e pietre preziose, abbelliva un ambiente identificato come sala da banchetto. Il letto è attualmente esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Al centro della sala, era collocato il mosaico realizzato con minute tessere policrome. Vi è rappresentata una scena di caccia con due cavalieri ed un portatore di lance che si dispongono ai lati di un orso, ferito. Completano la scena, dominata da un grande albero, un cane, un felino e un cinghiale.
  • Dell’area sacra, dedicata a una divinità ancora sconosciuta, sono oggi visibili i resti di un alto podio (m. 10×20 ca) e di un triportico. Originariamente il complesso presentava decorazioni e rivestimenti in pietra locale, marmo e stucchi, la cui tipologia è un “unicum” nel contesto architettonico e religioso della Calabria La scelta di erigerlo nel punto più visibile del pianoro dalle pareti a strapiombo sulla costa, non fu casuale: il tempio, chiamato “Palazzo di Donna Canfora”, a ridosso del ciglio nord, quasi isolato o comunque emergente dal resto del contesto abitativo, sarebbe stato immediatamente visibile a chiunque navigasse da settentrione.
  • Al di sotto della fase brettia e romana, non ancora visibili, vi sono i resti di capanne di un villaggio dell’età del bronzo, attivo per circa mille anni, a partire da 4.000 anni fa. Le capanne sono realizzate con alti muri in pietra e tetto in materiale deperibile.
  • Alcuni storici ipotizzano che il Porto di Oreste, fondato secondo la leggenda proprio da Oreste,  figlio del re Agamennonee di Clitennestra e fratello di IfigeniaElettra e Crisotemi, possa corrispondere al porto dell’antica città di Tauriana. La struttura si doveva trovare probabilmente più a nord di Rovaglioso, nella zona “La Scala”, tra Pietrenere e Scinà. Questo approdo naturale, in età romana, fu forse trasformato con adeguate opere murarie, in un bacino portuale attrezzato con moli.

Il parco archeologico dell’antica Medma racchiude quel che resta della città magno greca venuta alla luce dopo numerosi scavi tra il XIX e il XX secolo. Gli scavi servirono anche a dimostrare in maniera conclusiva la reale posizione di Medma o Mesma che fino ad allora era oggetto di discussione tra l’ipotesi rosarnese e quella nicoterese. Vasto fu il materiale riportato alla luce, che è oggi conservato nel museo alle spalle del parco. Colonia fondata da Locri nel VI secolo a.C. ne distava meno di un giorno di cammino e sembra che tragga il suo nome da una fonte sita nelle vicinanze; un’altra ipotesi è che il toponimo provenga dalla lingua delle popolazioni autoctone e che abbia il significato di “città di confine”. È possibile che entrambe le ipotesi siano fondate, poiché la fonte in questione dà origine all’attuale fiume Mésima, che deriverebbe appunto il suo nome antico dal termine indigeno per “confine”. Comunque, sebbene spesso riportata tra le città greche di questa parte d’Italia non sembra aver raggiunto una particolare importanza o potere ma in ogni caso sono presenti delle monete coniate nel IV secolo a.C. con l’incisione “Mesma”. Alla fine del VI secolo a.C. ebbe luogo una battaglia in cui Medma e Locri, supportarono Hipponion in una guerra contro Crotone. La notizia è riportata dall’epigrafe incisa su uno scudo di Olimpia. In seguito, nel 422 a.C. Hipponion e Medma combatterono contro la fondatrice riuscendo a sconfiggerla. La cittadina, che dalle sue dimensioni poteva ospitare una popolazione superiore ai quattromila abitanti, si trovava su quello che è attualmente il terrazzo di Pian delle Vigne (sito nel comune di Rosarno). Nel perimetro compreso tra il Bellavista del Rione Ospizio, l’attuale cimitero, la contrada Pomaro e la zona “Ospedale” sorgevano le case, i laboratori artigianali, i negozi e i templi. È probabile che la popolazione medmea si sia trasferita a Nicotera, il cui nome è presente nell’Itinerario antonino, e che fu probabilmente fondata dai medmei dopo il declino di Medma. Il parco archeologico dell’antica Medma è costituito da una grande distesa di ulivi ubicata alle spalle del Museo. L’area, espropriata intorno agli anni ottanta del secolo scorso dalla Soprintendenza per i Beni archeologici della Calabria, non senza polemiche e ostilità da parte di alcuni cittadini che hanno vanamente tentato attività speculative, corrisponde alle aree sacre di Calderazzo e S. Anna, note attraverso gli scavi dell’Orsi; ma non mancano settori che illustrano l’abitato medmeo e le zone artigianali con presenza di pozzi e fornaci. Strettamente connesso al parco archeologico è il Museo di Medma che espone una gran parte degli oggetti rinvenuti nei lunghi anni di ricerche che la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria ha effettuato a Rosarno già a partire da Paolo Orsi e fino ai nostri giorni. L’esposizione inizia con la ricostruzione della necropoli: tombe alla cappuccina, a cassa di embrici, a vasca, ricche di oggetti. Splendidi esemplari della coroplastica medmea, tra cui statuette di varie dimensioni e fogge, busti, grandi maschere, criofori (portatori di ariete), e ancora vasi ed armi in ferro rinvenuti nell’area sacra di Calderazzo, sono presentati ai lati di una virtuale via sacra che si arresta davanti ad un altare in terracotta (arula) di grandi dimensioni, con in rilievo i personaggi della tragedia di Sofocle che rappresenta la vicenda di Tyrò, giovane donna, figlia del re Salmoneo ritratta con i figli Pelia e Neleo che per vendicare la madre hanno appena ucciso la matrigna Sidero che giace esamine ai piedi di un altare, mentre il vecchio re Salmoneo fugge disperato davanti a tanto orrore. L’esposizione si conclude con i materiali provenienti dall’abitato tra i quali si segnala un modello di fontana rituale in terracotta. Sono presentati anche oggetti provenienti dalla collezione privata Giovanni Gangemi, donata allo Stato, che è costituita da pregevoli vasi sia a figure nere che a figure rosse tra cui un’anfora con scene della lotta per la conquista delle armi di Achille.

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Area archeologica di Casignana

Casignana ospita, all’interno del proprio territorio, una pluralità di siti di interesse culturale e paesaggistico. Tra questi spicca il Parco Archeologico della Villa romana di contrada Palazzi lungo la Strada Statale Jonica 106. Venne scoperta nel 1963 grazie ai lavori di costruzione di un acquedotto che riportarono in luce i resti di una domus romana privata con terme annesse che probabilmente sorgeva in prossimità dell’antica strada di collegamento tra Locri Epizefiri e Rhegion. Purtroppo parte delle strutture e de pavimenti a mosaico, in quella occasione, andarono distrutti. La villa sorse in un’area già frequentata in periodo greco, si sviluppò tra il I e il IV secolo d.C. e venne abbandonata nel corso del V sec. d.C. e gli archeologi hanno individuato quattro fasi costruttive. Quella attualmente visibile, l’ultima, risale al IV secolo. L’impianto originario della casa risale al I secolo ma gli scavi portati avanti fino ad oggi hanno indagato 1.300 metri quadri della grande villa. Il sito costituisce uno dei complessi più importanti di epoca romana dell’Italia Meridionale e conserva il più vasto nucleo di mosaici finora ritrovato in Calabria. Sala delle Nereidi, Sala di Bacco, Sala con il volto di donna, Sala delle Quattro Stagioni; fra le opere in situ, un mosaico ancora da restaurare che ha una lunghezza di oltre 25 metri del quale fa parte un “tondo” raffigurante Bacco, Marsia e una biga tirata da due tigri. Nelle terme esistono due nuclei contigui, ciascuno dei quali consente il passaggio da ambienti freddi ad ambienti caldi, secondo la successione canonica frigidarium – tepidarium – caldarium. Alcuni ambienti hanno piante complesse, come il frigidarium ottagono pavimentato a mosaico con motivo geometrico a cubi prospettici. Anche altri vani sono notevoli per qualità e varietà dei mosaici: policromi, geometrici o figurati, come il noto mosaico raffigurante un thiasos marino con quattro Nereidi in groppa a mostri con fattezze di leone, tigre, cavallo e toro. La sala della domus ha una complessa disposizione architettonica con una pianta ottagonale con quattro lati absidati e un pavimento mosaicato da piccole tessere. Il nucleo residenziale è composto da una sequenza di vani, delimitata verso il mare da un ampio e lungo corridoio terminante alle estremità con due avancorpi semicircolari. Si trattava forse di due torrioni che conferivano un aspetto fortificato all’insieme. Si può riconoscere il calidarium che doveva essere ricoperto da una volta. La presenza del calidarium è testimoniata dall’ipocausto e dei tubuli fittili nelle pareti. I reperti rinvenuti suggeriscono una decorazione sfarzosa degli interni, per la presenza di marmi pregiati, intonaci dipinti e mosaici in pasta vitrea multicolore. Arredi e statue facevano da complemento all’architettura. Del complesso della villa fanno anche parte un salone a pianta rettangolare e due ambienti riscaldati tutti decorati con l’opus sectile, una tecnica per pavimentare con lastre in marmo colorato. Nella domus è anche presente un ninfeo monumentale con vasca absidata e cisterne. Faceva sicuramente parte di un gruppo di Villae o di un centro abitato, infatti nelle vicinanze sono stati ritrovati una necropoli con sepolcri a lastroni di terracotta dove veniva praticata l’incenerazione e la sepoltura e testimonianze di costruzioni coeve. Il restauro di questo mosaico, insieme a quello di altri 5 ambienti fra cui quello più grande della villa di oltre 80 mq, è oggetto di un finanziamento già concesso dalla Regione Calabra di 2,5 milioni di euro, attraverso un progetto europeo. L’intervento più imponente, indispensabile per la conservazione e la fruizione della villa, è stata la copertura definitiva dell’intero nucleo di ambienti a monte della S.S. 106. Grazie alla copertura è stato possibile realizzare una serie di percorsi sopraelevati che si snodano all’interno degli ambienti termali, consentendo l’apprezzamento dei mosaici e dei pavimenti a intarsi marmorei. Per consentire una miglior salvaguardia di questi rivestimenti pregiati è stata installata una stazione per il monitoraggio delle condizione microclimatiche e sono stati effettuati tutti gli interventi di restauro necessari alla conservazione delle parti dell’edificio rimaste fuori della copertura. E’ stato inoltre completato lo scavo archeologico del nucleo centrale del complesso, che ha portato alla luce, tra l’altro, nuove stanze con pavimenti a mosaico, ancora non visibili perché in attesa di restauro, e una grande vasca ad ornamento del giardino. Si sono poi estese le indagini geo-archeologiche nelle aree acquisite al patrimonio pubblico, che hanno dato interessanti risultati, confermando l’estensione dell’area archeologica ben oltre il nucleo centrale già conosciuto.

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Area archeologica di Castiglione di Paludi

L’area archeologica di Castiglione di Paludi riguarda un insediamento riferito quasi sicuramente ad una città brettia del IV secolo a.C. ed una necropoli dell’età del ferro. Questo sito costituisce una delle più importanti e meglio conservate testimonianze di architettura militare della Magna Grecia. Il sito è situato nel comune di Paludi, in provincia di Cosenza, su un colle delimitato dai torrenti Coseria e Scarmaci a circa 8 km dal mar Ionio. La città, posizionata in quest’area archeologica, in seguito alla presenza di bolli con tegole in osco, potrebbe essere potrebbe essere identificata come l’antica città brettia di Cossa, la quale venne anche citata in un frammento di Ecateo di Mileto e nel De bello civili di Cesare che la pone nel territorio di Thurii. Il nome dell’attuale torrente Coseria, nei pressi di Castiglione di Paludi, sembra costituire un ulteriore indizio per l’identificazione proprio dell’antica città di Cossa. In alternativa in base al ritrovamento nel sito anche di iscrizioni in greco, il centro è stato ipotizzato di fondazione ellenica e passato in seguito sotto il controllo brettio, e ipoteticamente identificato con una città fortificata voluta da Alessandro il Molosso nel territorio di Thurii, sul fiume Acalandros, di cui ci informa Strabone. Il centro sarebbe stato costruito come sede della lega italiota per sostituire la tarantina Eraclea. Il sito archeologico di Castiglione di Paludi occupa un’altura articolata in due aree, in buona parte pianeggianti, per un totale di circa 40 ettari, collegate da una sella centrale. Il Pianoro Nord (quota massima 296 metri s.l.m) si affaccia sulla costa, il Pianoro Sud (334 m s.l.m.) si protende in direzione del paese di Paludi e dell’entroterra montuoso. L’altura, per effetto dell’erosione dei corsi d’acqua, ha assunto nel tempo una posizione isolata rispetto alle vicine colline, quindi naturalmente difesa su molti versanti da alti dirupi. Se l’area archeologica di Castiglione di Paludi conserva poche testimonianze dell’antica città di Cossa, della città brettia rimangono invece notevoli resti, primi tra tutti quelli delle mura, costruite in blocchi squadrati di arenaria disposti a secco, alcune scalette interne conducevano sugli spalti. Sul lato orientale era la porta fortificata, a corte rettangolare, difesa da due torri a pianta circolare alte due piani. All’interno, una strada collegava la porta principale al cosiddetto teatro, edificio a pianta semicircolare addossato a un pendio naturale, nel quale erano presenti sedili scavati nella roccia o fatti di pietra arenaria, che poteva accogliere 200 persone circa. Più verosimilmente si tratta di un luogo per le riunioni dell’assemblea pubblica databile intorno al IV secolo a.C. Sempre all’interno della cinta muraria, oltre a una cisterna sono stati rinvenuti i resti di alcune abitazioni, distinguibili in due fasi per la tecnica costruttiva. Il ritrovamento all’esterno della porta di un deposito di terrecotte votive di tipo femminile, testimonia l’esistenza di un piccolo luogo di culto, forense, attivo già con la città di Cossa. Tra i materiali rinvenuti tra gli scavi dell’area archeologica di Castiglione di Paludi, si segnalano per importanza un volto maschile in arenaria locale e alcuni modellini fittili di templi, e delle tegole “vereia” che attestano l’attività di una istituzione pubblica deputata alla produzione in scala di laterizi. Sul pianoro antistante l’abitato, erano già state scavate 50 sepolture del IX a.C. corredate da armi, lance in ferro e bronzo, fibule, lamine decorate ed altri oggetti. L’antico sito di Castiglione rappresentò probabilmente una tappa per la transumanza del bestiame, per l’approvvigionamento di legname e forse anche della famosa pece brettia, raccolta proprio nei vicini boschi della Sila. Per certo, l’abitato di Castiglione fu abbandonato intorno alla fine del III sec. a.C., dopo l’epilogo della Seconda Guerra Punica e la conseguente conquista romana della regione. Nonostante già nel XVIII secolo documenti d’archivio segnalassero la presenza di un antico insediamento sul pianoro di Castiglione di Paludi, solo nel 1949 ci furono regolari indagini sistematiche, seguite dall’Ispettore Giuseppe Procopio. Sul Pianoro Sud fu intercettata una grotta “lunghissima, nessuno ne ha veduto ancora il fondo. Si chiama la Grotta di Castiglione. Vi han trovato un corpo umano di bronzo ed un braccio. In quei pressi son 2 ruscelli, S. Martino e S. Elia. Sopra la grotta son le rovine di Castiglione”, già nota dalla segnalazione di Vincenzo Padula (1870-1880).  Nel 2016 è stato finalmente inaugurato il Parco Archeologico di Castiglione di Paludi, i cui lavori di completamento sono stati eseguiti grazie a finanziamenti regionali.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Le 10 città fantasma più famose della Calabria

 

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Città fantasma è un termine derivato dalla locuzione in lingua inglese “Ghost Town” che definisce una città abbandonata. Le cause possono essere sociali, come il fallimento dell’economia locale e/o l’esodo della popolazione verso zone economicamente più favorevoli, o conseguenti a guerre o calamità naturali. Le città fantasma possono essere turistiche, con notevoli entrate economiche grazie al turismo, come Oatman, in Arizona, o numerosi siti in Egitto, ma che non possono sopravvivere senza il turismo stesso; oppure una vera città fantasma totalmente abbandonata, come Bodie, in California, e Craco, in Basilicata, spesso meta di turisti o, nel caso di Craco, set cinematografici; una città fantasma può essere inoltre un sito archeologico dove rimane poco o niente sopra la superficie, come Babilonia. Alcune città fantasma rinascono sotto forma di città viventi, come Alessandria d’Egitto. Spesso una città fantasma ha un importante valore artistico e architettonico, come Vijayanagara in India o Changan in Cina. Le città fantasma sono posti allo stesso tempo un po’ tristi e macabri, dato l’abbandono, ma che ancora attirano, oltre che per le bellezze rudimentali, soprattutto per le storie affascinanti nascoste tra le macerie. Provate a camminare per le stradine di quella che un tempo era una comunità viva, con i suoi riti, e i suoi abitanti, proverete un senso di straniamento misto a nostalgia. Esistono città fantasma pressoché in tutti gli stati e le regioni importanti. In Italia sono molti i paesi fantasma. Molti si trovano nelle zone più sperdute lungo l’arco dell’Appennino. E ciascuno di questi paesi fantasma ha una propria storia. Le città fantasma costituiscono anche una parte consistente del tesoro contenuto in quello scrigno chiamato Calabria. Qui ne conosciamo alcune, le più famose e meglio documentate.

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PENTEDATTILO

Considerato  il paese fantasma più suggestivo e famoso della Calabria, il borgo di Pentedattilo fu abbandonato dai suoi abitanti per effetto di fenomeni migratori oltre che per le continue minacce naturali, terremoti e alluvioni. Pentedattilo (Pentadattilo in greco-calabro) è una frazione del Comune di Melito Porto Salvo, in Provincia di Reggio Calabria. Fino al 1811 fu comune autonomo. Posto a 250 metri s.l.m. Pentedattilo sorge arroccato sulla rupe del Monte Calvario, dalla caratteristica forma che ricorda quella di una ciclopica mano con cinque dita, e da cui deriva il nome: penta + daktylos = cinque dita. Sfortunatamente alcune parti della montagna sono crollate ed essa non presenta più tutte e cinque le “dita”, ma rimane comunque un posto affascinante e pieno di mistero, uno dei centri più caratteristici dell’Area Grecanica. Quello che era l’antico paese è risultato, fino a pochi anni or sono, quasi del tutto abbandonato: la popolazione era infatti migrata leggermente più a valle formando un nuovo piccolo centro dal quale si poteva ammirare il vecchio paese fantasma. Il suo fascino è raccontato direttamente dalle parole scritte dall’inglese Edward Learche, nel 1847, viaggiò per la provincia reggina. Scriveva nel suo ‘Diario di un viaggio a piedi’: “ La visione è così magica che compensa di ogni fatica sopportata per raggiungerla: selvagge e aride guglie di pietra lanciate nell’aria, nettamente delineate in forma di una gigantesca mano contro il cielo, mentre l’oscurità e il terrore gravano su tutto l’abisso circostante”. Ma oggi, le casette in pietra autocostruite e adornate dai fichi d’india bruciati dal sole sono diventati alloggi di ospitalità diffusa, il tutto grazie a una rete messa insieme per salvare questo splendido gioiello dell’area grecanica, dal definitivo abbandono. È così che grazie all’Associazione Pro Pentedattilo, all’Agenzia dei Borghi solidali con il sostegno di Fondazione con il Sud, alla Comunità europea e a centinaia di ragazzi che arrivano ogni anno attraverso i Campi della legalità Arci e Libera, il borgo è stato riportato in vita. Ogni estate Pentedattilo è tappa fissa del festival itinerante Paleariza, importante evento della cultura grecanica nel panorama internazionale. Inoltre ospita tra agosto e settembre il Pentedattilo Film Festival, festival internazionale di cortometraggi. Colonia calcidese nel 640 a.C., fu per tutto il periodo greco-romano un fiorente centro economico della zona; durante il dominio romano divenne inoltre un importante centro militare per la sua strategica posizione di controllo sulla fiumara Sant’Elia, via privilegiata per raggiungere l’Aspromonte. Con la dominazione bizantina iniziò un lungo periodo di declino, causato dai continui saccheggi che il paese subì prima da parte dei Saraceni ed in seguito anche da parte del Duca di Calabria. Nel XII secolo Pentedattilo fu conquistato da Normanni e fu trasformato in una baronia affidata alla famiglia Abenavoli Del Franco dal re Ruggero d’Altavilla. Nel 1589, a causa di debiti e questioni di illegittimità, il feudo fu confiscato e venduto all’asta dal Sacro Regio Consiglio per 15.180 ducati alla famiglia degli Alberti insieme al titolo di marchesi. E qui la storia si fa leggenda. La leggenda di Pentedattilo ruota tutta intorno al castello, oggi quasi completamente distrutto da terremoti, alluvioni ma anche, dalla mano dell’uomo (in tempi di carestia gli abitanti utilizzarono alcune parti per autocostruirsi le case) e alla strage degli Alberti. Protagonisti due nobili famiglie: gli Alberti appunto, marchesi del borgo e gli Abenavoli, baroni di Montebello Ionico, altro paesino vicino.
Si narra che la notte di Pasqua del 1686 le due famiglie furono protagoniste di una strage sanguinaria. Il barone Bernardino Abenavoli voleva prendere in moglie Antonietta Alberti. La donna però fu chiesta in sposa e concessa da Lorenzo Alberti a Don Petrillo Cortes, figlio del viceré di Napoli. Questa notizia indusse l’ira passionale del barone che la notte di Pasqua, grazie al tradimento di Giuseppe Scrufari, servo infedele degli Alberti, si introdusse all’interno del castello di Pentedattilo con un gruppo di uomini armati. Giunto nella camera da letto di Lorenzo, lo sorprese durante il sonno sparandogli due colpi di archibugio e finendolo con 14 pugnalate e costrinse Antonietta a sposarlo. Ma il vicerè Cortez, inviò una sua spedizione per vendicarsi e fece uccidere tutti gli uomini di Bernardino. Il barone però riuscì a fuggire portando con sé Antonietta, a Vienna. In seguito l’uomo entrò nell’esercito e la donna in convento di clausura. La strage porta con sé altre leggende come quella che, nelle notti di vento, tra le gole della mano del Diavolo si possono udire le urla di dolore di Lorenzo Alberti. Nel 2007 Robert Englund, famoso attore statunitense, noto al grande pubblico per aver interpretato il ruolo del mostruoso serial killer Freddy Krueger della saga horror Nightmare,  ha visitato (per le location del film The Vij) Pentedattilo dichiarando: “Personalmente ho tratto grandissima ispirazione da due paesini della provincia di Reggio Calabria: Pentedattilo e Bova. Quando li ho scoperti ho pensato che fossero set da milioni di dollari preparati per noi da Peter Jackson!”.

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ROGHUDI VECCHIO

Altra famosa città fantasma calabrese, Roghudi (Richùdi o Rigùdi in greco-calabro) è un comune di 1.137 abitanti della città metropolitana di Reggio Calabria. La caratteristica principale del comune di Roghudi è quella di essere suddiviso in due differenti porzioni non confinanti poste a grande distanza l’una dall’altra (circa 40 km). La prima di esse è posta nelle vicinanze di Melito di Porto Salvo, del cui territorio comunale costituisce un’enclave, contenente l’attuale sede comunale e l’abitato di Roghudi Nuovo; la seconda è posta all’interno, sulle pendici meridionali dell’Aspromonte, nella quale si trova l’abitato, ora abbandonato, di Roghudi Vecchio. La parte di Roghudi Vecchio, abitata sin dal 1050 e facente parte di un’area grecanica, ha le abitazioni posizionate sull’orlo di un precipizio e fu dichiarata totalmente inagibile a seguito delle due fortissime alluvioni avvenute nell’ottobre 1971 e nel gennaio 1973. La popolazione di Roghudi fu distribuita nei paesi limitrofi. Le leggende di Roghudi sono davvero tante e a tramandarle sono gli anziani che vi hanno trascorso la loro infanzia. Secondo una leggenda a Roghudi esistevano le Naràde, o Anaràde, che erano delle donne dalle sembianze metà umane con zoccoli di asina che vivevano nella contrada di Ghalipò, prospiciente Roghudi. Di giorno, rimanevano nascoste tra le rupi; di notte, cercavano di attirare con ogni stratagemma, come la trasformazione della voce, le donne del luogo con l’intento di ucciderle, al fine di sedurre gli uomini del paese. Per proteggersi dalle loro irruzioni vennero costruiti tre cancelli, collocati in tre differenti entrate del paese: uno a “Plachi”, uno a “Pizzipiruni” e uno ad “Agriddhea”. Non molto distante da Roghudi, sorge la frazione di Ghorio di Roghudi, anche questa completamente abbandonata. La caratteristica di questa frazione è rappresentata da un particolare masso da una forma particolare , nota come a Rocca tu Dracu, il cui significato risale al termine ellenistico Draku che vuol dire occhio. Secondo le leggende di Roghudi, infatti, si tratterebbe della testa di un drago che sul colle custodiva un tesoro inestimabile. Vicino la pietra della testa del drago è presente un’altra roccia particolare a forma di groppe. Secondo le credenze popolari si trattava delle sette caldaie o caddareddhi che permettevano al drago di nutrirsi. Il tesoro custodito dal drago, secondo le leggende, veniva assegnato soltanto a un combattente coraggioso, capace di superare una prova. Il cavaliere per poter ottenere il tesoro del drago doveva sacrificare tre esseri viventi maschio: un neonato, un capretto e un gatto nero. Nessuno ebbe mai il coraggio di sfidare il furioso drago fin quando un giorno venne alla luce un bambino con delle malformazioni, che venne affidato a due uomini affinché se ne sbarazzassero. Cosi i due uomini, pensando alla vecchia leggenda, decisero di prepararsi alla prova di coraggio per il sacrificio e ottenere il tesoro del drago. L’altare era pronto e il gatto e il capretto erano già stati sacrificati. Nel momento in cui stavano per uccidere il bambino, una violenta e improvvisa tormenta di vento scaraventò i due uomini contro le caldaie del drago, uccidendo uno dei due. In seguito nessuno osò sfidare il drago mentre l’uomo sopravvissuto visse in tormenta del diavolo fino alla fine dei suoi giorni. Stando a quanto dichiarato dallo studioso Tommaso Besozzi, intorno alla metà del Novecento nel borgo di Roghudi erano presenti dei grossi chiodi conficcati nei muri delle abitazioni, dove venivano fissate delle corde legate alle gambe o alle caviglie dei bambini. Si trattava di sistemi di sicurezza, per impedire ai bambini distratti di precipitare nel burrone che circonda il borgo fantasma.

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ACHERENTIA (Cerenzia Vecchia)

Acerenthia (più correttamente Akerentia o Acheronthia, chiamata ora Cerenzia vecchia) è un borgo abbandonato posto sul territorio di Cerenzia (KR). La città sorgeva, circondata da mura alte, sulla vallata del fiume Lese che un tempo era noto come Acheronte (da qui il nome del borgo). Il borgo venne abbandonato definitivamente nel 1844 a causa delle difficili condizioni igieniche che il paese stava vivendo. Per via delle epidemie la popolazione si ridusse con il passare del tempo, fino a raggiungere il numero di poche centinaia di persone tra il 500 e la prima metà del 600. Dopo il terremoto del 1738 che distrusse diverse zone della Calabria tra cui lo stesso borgo di Acerenthia, gli abitanti decisero di trasferirsi e costruire un nuovo borgo, su un colle posto sopra l’ormai vecchio comune. Venne realizzato il nuovo centro urbano di Cerenzia e il vecchio borgo di Acerenthia venne ufficialmente abbandonato. Il borgo è stato abbandonato per diversi decenni con zone spesso utilizzate per il pascolo. Solo nel corso degli ultimi anni sono stati lanciati dei programmi di valorizzazione e recupero del territorio, con la realizzazione di un Parco Archeologico, grazie all’intervento dell’Amministrazione Comunale. Il borgo fantasma di Acerenthia dista appena 10 chilometri a est rispetto a San Giovanni in Fiore. Sede di un importante vescovato per ben 9 secoli, tanto da essere considerata la diocesi suffraganea nel meridione, Cerenzia Vecchia si mostra ora come una vasta città diruta e abbandonata dove è possibile percorrere le antiche strade e visitare le antiche abitazioni e palazzotti, tra cui i resti dell’antico palazzo del Vescovado, simbolo e monumento di Acerenthia. Altra struttura importante del borgo era la chiesa, dedicata a San Leone e al martire San Teodoro di Amasea. Nonostante la chiesa sia in rovina, è visibile l’architettura originaria a 3 navate. Sono presenti anche le Grotte Basiliane, nella zona Giancola a 2 chilometri di distanza. Era proprio in queste grotte che si tenevano i riti della tradizione greco bizantina.

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CIRELLA VECCHIA

Cirella è l’unica frazione di Diamante, in provincia di Cosenza. Il promotorio che la sovrasta e che propende verso il mare, naturalmente difeso, ospita sulla sua sommità i resti dell’antica “Cerillae”. È un antico borgo medievale, con struttura arroccata tipica dei centri bizantino-normanni dell’alto Tirreno calabrese. Il luogo risulta abitato da tempi antichissimi infatti ci sono evidenze della presenza di tribù primitive e gli stessi luoghi erano fiorenti in età Romana. Nel 649 al Sinodo di Papa Martino I prese parte un Romanus Episcopus Cerellitanus, e ciò consente di affermare che Cirella costituiva un importante punto di riferimento nell’organizzazione della Calabria in quanto sede diocesana. Ceriallae fu una fiorente colonia della Magna Grecia. L’abitato sul monte ebbe origini in epoca successiva, intorno al IX secolo, quando le incursioni saracene sulla costa spinsero gli abitanti a stabilirsi in una posizione più sicura e facilmente difendibile come il promontorio del monte Carpinoso. Un’incursione saracena del 950 d.C., guidata dall’emiro Al Hasan avrebbe addirittura raso al suolo l’abitato costiero. Nel 1556 la famiglia Stocchi di Scigliano cedette la proprietà alla famiglia Scaglione. Nel 1576 venne saccheggiata da sette galee barbaresche, capitanate da Kair ‘el Din, detto Barbarossa. Secondo la leggenda, i pirati sarebbero arrivati a saccheggiare il paese su indicazione di un mercante romano, che aveva ricevuto dei torti dai cirellesi. La memoria di un’incursione turca avvenuta nel 1576 comunque è confermata dalle fonti sopravvissute all’abbandono del paese antico. Fu oggetto di altre scorribande da parte dei pirati ottomani Sinam Cicala Pascià, Dragut Rays e Uccialì. Successivamente con la pestilenza del 1656 e i terremoti del 1638 e 1738 che colpirono la Calabria, il feudo cadde in rovina e la sua proprietà passò dalla famiglia Sanseverino ai Catalano Gonzaga. Nel 1806-1807 un contingente di truppe napoleoniche assediò e occupò il borgo medievale, stabilendosi nella residenza dei duchi Catalano-Gonzaga. Dall’evento nacque la leggenda che il borgo venisse assalito da formiche giganti, le quali divorarono gli abitanti del paese. Nel 1808, la marina britannica, dal mare, effettuò un pesante bombardamento dell’avamposto francese, compresa la torre presente sull’isola di Cirella. L’ultimo uomo a lasciare l’abitato fu il parroco Francesco de Patto che decise di lasciare il borgo alla sua sorte portando con se gli arredi sacri della chiesa. L’abitato sul monte venne cancellato definitivamente e gli abitanti superstiti quindi decisero di ricostruire il centro sulla costa. Le strutture rimanenti vennero poi usate come cava di pietre e vandalicamente spogliate dei manufatti presenti. Attualmente la vegetazione spontanea ha invaso i vicoli e le costruzioni, rendendo, in alcuni punti, difficile il passaggio. Da visitare tra i ruderi ci sono sicuramente il castello, costruito e ampliato nei secoli con vari stili dalle famiglie che lo hanno abitato, la chiesa di San Nicola Magno che conteneva affreschi bellissimi di cui oggi rimangono poche tracce, la chiesa dell’Annunziata dove oggi rimangono solo un altare, i muri perimetrali e dei banchi per i fedeli. Tra il monastero dei minimi di San Francesco da Paola del XVI secolo (lato monti) e i ruderi della Cirella medievale (lato mare) sorge il teatro dei ruderi. La struttura, in stile greco, venne costruita tra il 1994 e il 1997, ed è attualmente utilizzata per spettacoli e concerti. Il panorama rende il teatro un posto molto suggestivo.

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AFRICO VECCHIO

Fondato nel IX° secolo col nome latino di “aprìcus” che significa “soleggiato”, Africo Vecchio è ciò che rimane di un tranquillo paese, tutto costruito in pietra, che nel 1951 si spopolò a causa di una di terribile alluvione che provocò morti ed ingenti danni materiali. Stessa sorte è toccata alla frazione Casalnuovo, ormai anch’essa fantasma. La realtà di Africo è quella di una vita dura e aspra quasi ai confini della realtà. Una storia di uomini, donne, anziani e bambini, casolari e ricoveri per le bestie, vette innevate e dirupi profondissimi. È stata avanzata l’ipotesi che nel luogo siano esistiti insediamenti in epoca precedente o contemporanea alla colonizzazione magnogreca; esistono comunque reperti archeologici di epoca bizantina. Probabilmente già nel decimo secolo vi erano presenti dei monaci basiliani. In epoca normanna, fra i secoli XI e XII, visse San Leo, il patrono del paese; secondo la tradizione, egli nacque a Bova e prima di diventare monaco studiò nel convento basiliano della SS. Annunziata di Africo. Nel 1571 Gabriele Barrio scrive che ad Africo i riti sacri sono celebrati in greco e che la popolazione adopera il greco anche nei rapporti familiari, assieme al latino. In epoca napoleonica si ebbe ad Africo uno scontro tra francesi e borbonici, in cui gli abitanti parteggiarono per questi ultimi. Nell’Ottocento fu attivo nel territorio di Africo il brigante Antonio Zemma. Le condizioni sociali ed igieniche di Africo nel periodo interbellico erano disastrose. Il meridionalista Umberto Zanotti Bianco, coadiuvato dal giovane Manlio Rossi Doria, eseguì un’inchiesta su Africo nella quale riferiva come il paese fosse annidato su case dirute per il pregresso terremoto, isolato geograficamente, afflitto da tasse indiscriminate e da malattie, fosse privo di medico, di aule scolastiche (le lezioni si svolgevano nelle stanza da letto della maestra); gli abitanti si nutrivano di un immangiabile pane fatto con lenticchie e cicerchie considerandolo il paese « più povero,  più triste, e più infelice della Calabria». Il 20 gennaio 1945 la popolazione di Africo assaltò con armi da fuoco e distrusse con bombe a mano la locale caserma dei carabinieri, costringendo i tre o quattro militi presenti a rifugiarsi negli scantinati e liberandoli solo dopo averli disarmati. In questo periodo si costituirono nel paese la sezione del Partito socialista, quella del Partito comunista e la Camera del lavoro. Nel marzo 1948 il settimanale “L’Europeo” pubblicò un reportage da Africo a firma del giornalista Tommaso Besozzi, corredato da alcune fotografie di Tino Petrelli; tale reportage (che faceva parte di un’ampia inchiesta sulle condizioni del Mezzogiono promossa da Arrigo Benedetti) mostrava come le condizioni del paese non fossero sostanzialmente migliorate rispetto a quelle descritte vent’anni prima da Zanotti Bianco. Fra il 14 e il 18 ottobre del 1951 una violenta alluvione devastò Africo e Casalnuovo, causando tre vittime ad Africo e sei a Casalnuovo nonché ingenti danni materiali. Su ordine delle autorità i due paesi semidistrutti furono evacuati e la popolazione dopo essere stata costretta a lungo a vivere in campi profughi, scese dai monti per fondare, con il nome di Africo, un nuovo paese situato a breve distanza sul mar Jonio tra i comuni di Bianco e Brancaleone, nel malcontento più totale da parte della politica locale e nazionale tanto che nel 1958 Antonio Marando poté scrivere che con la fondazione di Africo Nuovo era sorto «il primo paese italiano senza territorio». Di fatto, il comune di Africo Nuovo rimase fino al 1980 privo di delimitazione territoriale, mentre i suoi abitanti avevano perso la loro antica condizione sociale (di contadini poveri) senza però averne acquistata una migliore dovuta per lo più ai sussidi dati durante quegli anni prima come profughi e poi come disoccupati. Quello che porta dal borgo di Africo Vecchio a Casalnuovo (meglio conservato rispetto al primo) è un itinerario affascinante non solo per gli amanti del trekking e della natura ma anche per chi volesse comprendere l’intimo legame che ancora oggi lega la gente di Africo a questa terra.

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FANTINO E CARELLO (San Giovanni In Fiore)

Fantino e Carello sono due frazioni del comune di San Giovanni in Fiore, in Provincia di Cosenza, oramai abbandonate dai propri abitanti. Fantino è stata la più grande frazione della cittadina silana, ed è sita nelle vicinanze di Caccuri. Il borgo di Fantino sovrasta la vallata di Carello e l’omonimo borgo. L’origine di Fantino, o anche Infantino in forma dialettale, ha origini ancora poco chiare: molti pensano che sia riferito al fatto che i monaci basiliani, che hanno vissuto in questo paesino, abbiano portato in loco una statua di San Giovanni proveniente da una chiesa dedicata a San Fantino. La statua fu riposta dapprima nella vecchia chiesa, una chiesetta di piccole dimensioni (6 × 4 m), e in seguito al decadimento e al successivo diroccamento della stessa negli anni avvenire dopo l’abbandono, fu sistemata nella nuova chiesetta fatta erigere dal parroco dell’abitato negli anni ’70, una chiesetta dalle dimensioni simili e di forma ottagonale. Il borgo medievale di Fantino, è la frazione più antica di San Giovanni in Fiore. Un tempo è stata certamente la frazione più popolosa e grande. Il borgo nonostante la buona accessibilità, garantita dalla Sp 180, nel dopoguerra non è riuscito a garantirsi uno sviluppo economico che sostentasse la popolazione.Negli anni ’60 contava oltre 800 abitanti che costituivano così, un vero e proprio paesino. Il borgo risale al 1600 e si è sviluppato alle pendici del monte Gimmella (Jimmella in dialetto). Si narra che il primo fondatore del villaggio fu un pastorello di Pedace.  Il borgo si è poi sviluppato in una zona fortemente scoscesa e ripida, dalla quale si può ammirare la vallata di Iannia. Dopo il periodo di maggiore crescita, culminato negli anni ’60, il paese cominciò a subire un lento ed inesorabile declino, che lo portò al completo abbandono nella seconda metà del 2000. Il villaggio si è sviluppato in un luogo certamente ameno ma ricco di vegetazione e dal clima mite e favorevole a molte coltivazioni quali la vite e l’ulivo, e nel quale era molto diffusa la pratica della pastorizia ovina. Posto fra il paese di San Giovanni in Fiore e di Caccuri, lungo la vecchia strada interpoderale che collega i due paesi, sino al 2001 vi abitavano 29 persone e tutte anziane, mentre oggi (conta 4 abitanti) il vecchio borgo si anima solo per un giorno all’anno, in occasione della festa patronale di San Giuvanniellu, ovvero San Giovanni Battista Infante, quando i vecchi proprietari, e soprattutto i nipoti dei vecchi proprietari, riaprono le case facendo rivivere il paese. La festa che dura dalla mattina alla sera, è seguita da centinaia di persone, che assistono alla celebrazione della processione della statua del Santo, portato in spalla lungo i vicoli del borgo. La festa termina con un concerto e con i fuochi pirotecnici ed è diventato oramai un appuntamento fisso per i paesini della zona. Nei pressi dell’antico abitato, a qualche chilometro di distanza, si trova la discarica comunale del Vetrano, oggetto negli ultimi anni di feroci critiche dopo la scelta di un ampliamento della stessa. Per questo motivo la strada provinciale che attraversa l’antico borgo negli ultimi anni è piuttosto trafficata specie dai mezzi pesanti che l’attraversano per poter raggiungere la discarica. Questo ha comportato la progettazione dell’ampliamento della stessa strada provinciale. Carello visto le difficili condizioni orografiche sulle quali insisteva, ebbe un rapido processo di abbandono, nonostante sul suo territorio si stessero progettando alcune opere importanti, di recupero e riqualificazione. Di antica origine (probabilmente 1700, anche se non esistono dati certi), il borgo fino agli anni cinquanta, insieme alla frazione di Jannia contava quasi 100 abitanti. Per raggiungere il borgo si deve affrontare una ripidissima discesa, un tempo mulattiera, rifatta e migliorata dall’Opera Sila negli anni ’50, ma ancora insicura e pericolosa. Per risalire poi, o si procede nell’affrontare l’impervia risalita per San Giovanni o dall’altro versante, affrontare un’altrettanta ripida salita che poi porta al paese di Caccuri. Carello è posizionato nella parte terminale di una preziosissima vallata, da cui prende il nome la frazione, che ospita poche centinaia di piante di ulivo, e che grazie al microclima che la valle riproduce, secondo studi universitari fatti sulle olive prodotte, queste regalerebbero un olio dalle caratteristiche e proprietà che non ha eguali in tutt’Italia. La maggior parte degli abitanti di Carello, presa dimora nella vicina Acquafredda, continuano l’attività agricola e della pastorizia che già praticavano. Una curiosità del luogo è che negli anni ’60 l’ente Opera Sila, aveva in programma la realizzazione della linea elettrica che avrebbe dovuto raggiungere il borgo. Ciò nonostante in concomitanza della programmazione dei lavori, il borgo venne abbandonato dai suoi abitanti. La progettazione quindi, non fu portata poi a compimento. Il piccolo borgo, ancora abbastanza integro, si sviluppa in due file di case, esempi di architettura rurale calabrese, con materiali reperiti nelle zone circostanti. Oggi la maggior parte delle case sono “abitate” da alberi di ulivo, di fico e fichi d’india che sa da una parte li rende i custodi di questo borgo fantasma dall’altra recano gravi danni strutturali. Ancora camminando nel borgo si possono notare i recinti degli orti che hanno al loro interno molti alberi da frutto. Nella zona delle due frazioni sorge un monastero dedicato alla “Madre di Dio”, oggi chiesa di Santa Maria dei 3 fanciulli, chiamata così perché questa “Madonna” aveva salvato tre fanciulli che si erano persi nel bosco appiccando un incendio e dando così un punto di riferimento per tornare a casa, che oggi è localizzata nella zona denominata Patia (dal greco paios – paidea: fanciullo).

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PAPAGLIONTI

Papaglionti è un’antica località fantasma, situato a 460 m sul livello del mare, posta sul declivio che a nord delimita l’altopiano del monte Poro, nelle immediate vicinanze del comune di Zungri, in provincia di Vibo Valentia. Questo nome si suppone abbia origine greco – bizantina e deriverebbe da Paleontos, corruzione di Papas Leontios, persona ecclesiastica probabile proprietario di un casale dal quale ebbe origine il villaggio nato nel primo medioevo. Alcuni studi dimostrano che termini come Papaglionti, Papasidero, Papaleo sono tutti cognomi appartenuti a sacerdoti greci vissuti in Calabria e che si sposavano lasciando il loro nome agli eredi o, come nel caso di Papaglionti, alle loro proprietà.In seguito a una violenta alluvione avvenuta nel 1952, gli abitanti, già scossi dal terremoto del 1905, furono costretti a migrare in un territorio vicino, più adatto alla vita e alla sicurezza. Per questo motivo nacque Papaglionti nuova e morì Papaglionti vecchia. Oggi il borgo antico di Papaglionti è preda di rovi, erbacce e il degrado del tempo. Sebbene sia un borgo abbandonato quasi a se stesso rappresenta un patrimonio prezioso, di rilevanza storica e culturale che attira la curiosità e l’interesse dei turisti in vacanza in Calabria. Girando per il piccolo villaggio è possibile notare le strutture povere, semplici ma allo stesso tempo attente all’estetica architettonica. Tra le strutture che saltano all’occhio, le più importanti sono i resti della chiesa di San Pantaleone, i resti del Castello Francese, 2 Calvari, uno datato 1700 che delimitavano l’ingresso nel centro abitato. La chiesa di Papaglionti all’esterno si presenta strutturata in mattone rosso a due navate collegate tra di loro da due arcate. Sotto la navata si nota un vuoto destinato alla sepoltura. Il Palazzo della Famiglia di Francia è l’esempio di Casa Signorile di Papaglionti. La struttura risale al 1700, ha una forma rettangolare e molto grande, circa 13 metri in larghezza. Anche questo si presenta in muratura di pietra granitica con saette e scaglie di laterizio. Il pian terreno era adibito come deposito prodotti agricoli, il primo piano invece per la residenza dei proprietari. Il Calvario di Papaglionti è situato lungo la strada che conduce al vecchio borgo. Si tratta di un Calvario rettangolare, in muratura di pietra granitica locale, regolarizzata con scaglie di laterizio e mattoni. Questo Calvario è stato realizzato alla fine del 600 ed è una delle poche strutture rimaste in ottime condizioni. Al centro si nota una nicchia, all’interno della quale era ospitato un dipinto raffigurante la crocifissione. Una tappa da non perdere se siete in visita all’insediamento rupestre di Zungri o nella vicina Grotta Trisulina, siti molto famosi della zona.

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LAINO CASTELLO
Laino Castello (Castièddru in calabrese) è un comune situato nel Parco Nazionale del Pollino, nella provincia di Cosenza, e noto soprattutto per il suo centro storico abbandonato. Sorge su un’altura rocciosa a 270 metri slm, denominata colle San Teodoro, ed è circondata dal fiume Lao. Non è facile stabilire l’esatta origine di Laino Castello ma ciò che è certo è che nel 1811 Laino Castello era scissa da Laino Borgo. Una separazione che era durata fino al 1928 quando i due comuni si erano riuniti sotto il nome di ‘Laino Bruzio’. Un’annessione che si conclude nell’anno 1947 con una divisione definitiva.  Nel 1958 un muro venne giù, seppellendo la Fiat 600 del medico condotto, e i maggiorenti del paese enfatizzarono l’episodio della “frana” fino ad assumerlo quale sintomo dell’instabilità dell’intero centro abitato. Negli anni a seguire l’idea di ricostruire l’intero abitato altrove, in un luogo in piano e più al sicuro da frane e terremoti, si fece sempre più strada, via via mobilitando esperti, tecnici e progettisti, anche senza l’approvazione di tutti i cittadini (che rimasero volontariamente ad abitare nella Laino “vecchia”) e, realizzando a singhiozzo ora una casa, ora una strada, ora un edificio pubblico, si arrivò al 1982, quando, grazie ai finanziamenti del post-sisma lucano ottenuti per la ricostruzione delle due Laino, andò definitivamente in porto il progetto della nuova Laino Borgo secondo un impianto urbanistico moderno ed arioso. E, allora, quando fu interrotta d’autorità l’erogazione di luce e acqua, dovettero arrendersi anche gli irriducibili, che si consolarono solo tornando sporadicamente alle loro vecchie case per rassettarle, per zappettare l’orto, adacquare le “graste” del basilico e dei garofani sui davanzali. Non si è ancora certi se fu colonia della Magna Grecia, fondata dai superstiti della distruzione di Sybaris, o invece  come molti studiosi pensano, sia stata fondata da alcuni sopravvissuti di Lavinium, una città romana dell’area di Orsomarso, i cui abitanti erano scampati alla malaria, e da alcune persone provenienti dalla bassa e media valle del Lao che erano riuscite a sfuggire alle incursioni dei Barbari. Grazie alla sua posizione strategica e all’aumento degli scambi commerciali con altre popolazioni la città aveva incrementato talmente tanto la sua potenza che, come dimostrano alcuni reperti archeologici custoditi in alcuni musei italiani ed europei, la città aveva iniziato a coniare monete chiamate ‘Lainos’ (i cui simboli erano il vitello, la colomba e l’aquila). Nel 1812, in località Umari, si rinvennero numerosi sepolcri disposti in ordine, all’interno dei quali si trovarono 53 vasi figurati molto grandi. La costruzione con grossi blocchi di tufo intonacati all’esterno e pitturati per lo più di rosso fa pensare fossero sepolcri tipicamente greci. Sempre nella stessa zona vennero alla luce negli anni successivi resti di sepolcri e edifici di vario tipo e numerosi oggetti quali monete, statuette, busti, vasi e utensili vari, non solo di epoca greca ma anche romana. Dopo un periodo di splendore durato circa due secoli, dalla fine del IV secolo a.C., iniziò una lenta e inesorabile decadenza segnata anche dall’incedere dei Lucani e dei Bruzi animati da pressanti mire espansionistiche. La città si riduce ad un villaggio e resta tale per tutto il periodo aureo romano. Laino inizia a risollevarsi con l’arrivo dei Bizantini. Proprio i monaci basiliani iniziarono a impiantare nel territorio una serie di laure, cappelle, chiese e monasteri che fecero accrescere l’importanza religiosa e culturale di Laino e di tutta l’area circostante. Segni evidenti della presenza dei monaci basiliani si trovano nella chiesa madre di San Teodoro e nell’uso della liturgia greca durata fino al 1562, nonché nella toponomastica di varie località. Nella guerra per il predominio tra Bizantini e Longobardi, questi ultimi costruirono sul colle San Teodoro un castello (Castrum Layni). La posizione strategica del castello, con tre lati a picco e una ampia vista sulla valle sottostante, hanno consentito che il potere e l’importanza di Laino crescessero fino a farlo diventare uno dei sette gastaldati più importanti dell’Italia meridionale.Dal 851 in poi il gastaldato di Laino fu capoluogo di un vasto territorio compreso nel Principato di Salerno. L’arrivo dei Normanni segnò per il centro l’inizio di una successione di feudatari che ne riducono e smembrano il territorio. La conquista della rocca di Laino fu oggetto di varie battaglie tra Angioini e Aragonesi. Tra il XVIII e il XIX secolo si diffonde anche a Laino il fenomeno del brigantaggio. Nel 1812 sorsero a Laino delle società segrete che parteciparono alla cospirazione carbonara con le vendite “Filantropi di Tebe” a Laino Borgo e “S. Teobaldo” a Laino Castello. Il 21 ottobre 1860 viene accettata con un plebiscito l’annessione al Regno di Sardegna. Con decreto del Ministro dei LL.PP. emesso in data 3 giugno 1960, a seguito a dei problemi di natura idrogeologica, l’abitato di Laino Castello venne dichiarato da trasferire in altro luogo per problemi di natura idrogeologica e fenomeni sismici. Viene così scelto il sito dove edificare il nuovo centro abitato ed inizia la costruzione delle prime infrastrutture. Solo nel 1981, poi, a seguito di un ennesimo sisma ed in virtù delle stesse motivazioni di circa vent’anni prima, la popolazione ha dovuto abbandonare le proprie case e l’abitato fu definitivamente abbandonato.  Della fortezza e della relativa cinta muraria resta ben poco, ma il nucleo abitativo, abbandonato all’inizio degli anni ’80 è ancora in piedi. Il borgo presenta ancora stradine ripide, resti di porte, torri e fortificazioni tipiche dell’impianto medievale. Oltre ai ruderi restano, sul fianco del colle, a riprova dell’antichità del borgo, tutta una serie di grotte naturali utilizzate nel periodo bizantino dai monaci e più tardi adibite ad abitazioni civili (il dato emerge dal catasto onciario del 1755). Il nucleo di questo splendido e storico comune è caratterizzato da vicoli, gradinate, edifici e palazzi nobiliari. Uno scenario arricchito da portali in pietra scolpiti a mano e che espongono il blasone delle famiglie originarie. La Chiesa madre di San Teodoro di origine bizantina sfoggia una meravigliosa torre medievale ed è sicuramente un monumento che gode di un alta valenza architettonica e custodisce al suo interno pregiate opere artistiche come le pale dell’altare maggiore, il fonte battesimale del 1500 e il trittico in legno che raffigura la Madonna col Bambino restaurato e conservato nel Museo diocesano di Cassano allo Jonio. Come narra un’antica leggenda questo luogo di culto è stato dedicato a San Teodoro, un soldato romano che mentre era intento a difendere il territorio, dove oggi sorge il nuovo centro di Laino, e non essendo in grado di rispondere agli attacchi del nemico, aveva rivolto suppliche e preghiere a Dio che trasformò gli alberi che gremivano il territorio in soldati e in questo modo riuscì a sconfiggere l’avversario. Anche la Chiesa delle Vergini è del 1500 e la Cappella di Santa Maria degli Scolari custodisce un affresco rinascimentale della Madonna seduta sul trono. I ruderi del Castello giacciono su uno sperone di roccia, precisamente sul punto più alto del colle e un tempo il luogo ha ospitato il cimitero comunale. Ogni anno Laino Castello ripropone il ‘Presepe Vivente’ che viene allestito nel centro storico abbandonato. Un ambiente dove la natura ricrea quei luoghi che ricordano la Natività e le grotte naturali scavate nella roccia sono la base più appropriata per tale rappresentazione. Un evento e un ambiente che ogni anno attrae un folto pubblico. Dopo anni di completo abbandono, l’amministrazione comunale ha avviato un progetto per il recupero e il riutilizzo del vecchio borgo come “Borgo–Albergo”. A tale scopo, sono stati eseguiti e sono tuttora in corso diversi lavori di recupero e restauro.

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PANDURI

Panduri è una cittadina collinare nel comune di Careri (Reggio Calabria). Per la sua posizione dominava tutta la valle del torrente Bonamico, da Capo Bruzzano fino a Roccella, e da lì si potevano vedere vari paesi incastonati alle pareti dell’Aspromonte: da Platì a Ciminà, da Gerace a San Luca, da Natile a Casignana e poi in alto il monte Varraro con le sue balze, i suoi querceti fittissimi e le rare spianate messe lì come sentinelle per il paese sottostante. Questa zona con i suoi boschi inestricabili aveva un legame simbiotico con la natura, con una fatica di vivere quotidiana ed era abitata da essere umani che, anche se sofferenti, non erano ancora corrotti dalla povertà e dai mali che attanagliavano i grandi centri urbani. C’era un connubio tra i monaci e la popolazione locale che approfittarono della loro esperienza per imparare nuove tecniche di coltivazione della terra e di allevamento del bestiame. Nel 1507 venne distrutta da un tremendo terremoto, a cui sopravvisse solo un terzo della popolazione. Il sisma risparmiò praticamente solo le antiche mura di un convento. I morti non vennero seppelliti. Dalla sua distruzione, su una collina vicina, sorse il nuovo paese, Careri. Anche oggi, ogni estate, nel paese ci si riunisce a pregare per le vittime del terremoto avvenuto nel XVI secolo: si porta in processione la Madonna di Panduri, il cui quadro sembra fosse stato ritrovato nell’antico monastero grazie ad un bue che non voleva più spostarsi da quel luogo, spingendo gli abitanti a scavare, trovando appunto il dipinto. Si trattava di un’opera raffigurante una madonna, La Madonna delle Grazie di Panduri.  Dopo il terremoto, esso venne conservato fino agli Anni Ottanta del Novecento nella parrocchia di Careri e poi trafugato: l’immagine usata nel corteo, è una sua copia. Molto probabilmente rivenduto presso collezionisti. Si narra che nelle viscere della collina di Panduri si trovi una caverna alla quale si accede attraverso una piccola fessura nascosta chi sa dove, ma conosciuta dagli abitanti del posto. Questa caverna presenta, secondo il racconto di molti abitanti, misteriosi fenomeni di magnetismo.

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CAVALLERIZZO DI CERZETO

Cavallerizzo di Cerzeto (Kajverici in arbëresh) è una frazione del comune di Cerzeto nella provincia di Cosenza che ha una chiarissima origine albanese. È situata alle falde di un monte degli Appennini chiamata Colle S. Elia (Rahji i Shën Lliut), o semplicemente Rahji, che si erge a circa 1000 metri di altezza dall’abitato. Circondato da castagni, e da numerosa fauna, l’abitato antico è diviso in tre borghi. Fu fondata, come anche le altre città della medesima origine, dai profughi albanesi in fuga verso il sud Italia intorno al XV, cioè quando l’Albania subì l’invasione Ottomana. Fu chiamata inizialmente San Giorgio in San Marco che poi si trasformò prima in Cavalcato e infine in Cavallerizzo; la sua appartenenza al comune di Cerzeto gli fece poi guadagnare quell’ultimo epiteto “di Cerzeto. Nel “Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli” di Lorenzo Giustiniani per Vincenzo Manfredi, Napoli 1797, alla voce Cavallerizzo si legge: “Questa terra è abitata da albanesi. Le sole donne però vestono alla “greca”. […] Si vuole che il suo nome fosse derivato da un cavallerizzo del Principe di Bisignano, che cedette quel luogo agli albanesi, quando i medesimi trasmigrarono dall’Albania epirica. È sempre detto Sangiorgio di Sanmarco”. In realtà la popolazione albanese rifondò una città già esistente e in declino e la trasformò portando la cultura arbëresh in questa zona costruendo anche una cappella e poi una chiesa in onore di San Giorgio Martire. Nel XIX secolo una delegazione di questo paese si recò presso la piana dei Greci, oggi piana degli Albanesi (Palermo) per acquistare proprio una statua di San Giorgio, patrono anche di quel luogo, statua ancora presente nel paese. A Cavallerizzo, come in tutti i paesi albanesi in Italia, era praticata la liturgia secondo il rito bizantino, sostituita nel XVIII secolo dal rito latino. Nel “Dizionario dei luoghi della Calabria” di Gustavo Valente del 1973, riporta le seguenti notizie su Cavallerizzo: La Parrocchiale, di rito greco, è intitolata a San Giorgio. Vi era una Confraternita laicale dedicata al nome del Rosario. Il Valente riporta così che a Cavallerizzo ancora nel 1973 persiste il rito greco-bizantino, estirpato già da circa due secoli. I santi più conosciuti a Cavallerizzo sono orientali: San Giorgio Megalomartire e Sant’Antonio il Grande. La Chiesa di San Giorgio Martire in Cavallerizzo risale al 1729, molto venerata è l’icona, stranamente dai canoni latini, del santo. Nel periodo della festa di San Giorgio, il 23 aprile, molti erano i giochi e le manifestazioni culturali per bambini e per adulti. Per esempio un gioco, che è particolarmente crudele, era gjelli në shkak (il gallo come bersaglio): si interrava un gallo dentro una fossa, lasciandoli fuori solo la testa, e i giocatori bendati dovevano cercare di colpirlo, chi riusciva ad ucciderlo riceveva in premio lo stesso sfortunato animale. Questa tradizione fu abbandonata negli anni settanta del secolo scorso, ma è rimasta molto conosciuta l’espressione të bëshin si gjelli në shakë. Gli abitanti di Cavallerizzo parlano in lingua albanese, l’arbëresh. Molti sono i proverbi e i modi di dire in albanese. Numerose i Vjersh, canti popolari tipici albanesi, e i canti nuziali (kënga e martesës). Latrunera o Kusar sono l’epiteto usato correntemente, in contrapposizione ai cerzitani che sono tradhitur ed i sangiacomesi çotara. Il borgo nel corso dei secoli ha sempre dovuto fare i conti con le frane infatti già nel XVII secolo ci sono documenti che attestano di movimenti franosi avvenuti nel tempo e di danni, seppur di lieve entità, occorsi alle strutture. La tipologia di frana che colpisce questi territori è di tipo molto lento, tanto da non aver mai provocato morti, poiché il loro scorrere lento dà molteplici avvisaglie tali da permettere di mettersi in salvo con larghissimo anticipo. Questa lentezza non ha mai convinto gli abitanti di Cavallerizzo a spostare il centro abitato, piuttosto li ha spinti a ricostruire le strutture danneggiate e cercare interventi sul movimento franoso stesso, sempre in maniera sterile. Nel 1952 fu proposta dal sindaco di allora la delocalizzazione del comune proprio a causa di questi eventi franosi, ma la proposta fu mal vista dalla popolazione e quindi fu immediatamente accantonata. Ma il 7 marzo del 2005 una forte frana colpì di nuovo il borgo e poiché i danni iniziarono a farsi seri e iniziarono ad esserci anche pericoli seri per la popolazione, ci fu la delocalizzazione forzata effettuata dalla Protezione Civile, la quale impose l’evacuazione del centro abitato e la costruzione di un nuovo centro più a valle chiamato “Nuova Cavallerizzo” al quale gli abitanti si sono opposti anche con la forza. La città entra a pieno regime nell’elenco delle città fantasma. Purtroppo il nuovo paese, oltre a trovarsi a valle del terreno in movimento, è stato costruito con criteri gelidi e distaccati, con casermoni di cemento suddivisi in cinque quartieri. In molti, a distanza di anni, aspettano ancora di poter rientrare nelle proprie case e nel proprio paese antico, ma non sono stati fatti i lavori di assestamento dell’area franosa. Dal 2007, con la nascita dell’Associazione “Cavallerizzo Vive / Kajverici Rron”, è partito un progetto per ottenere dagli enti preposti un piano di recupero ambientale, edilizio, culturale e religioso di tutto il centro storico di Cavallerizzo.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

La Grotta del Romito: Usi e Costumi del Calabrese Preistorico.

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La Grotta del Romito è una delle testimonianze di arte preistorica più importante non solo d’Italia ma di tutta Europa. Si trova a 296 metri s.l.m., ubicata ai piedi del monte Ciagola o Ciavola, parte di un ambiente naturalistico di grande fascino e pregio, con le caratteristiche geologicamente tipiche del paesaggio carsico come grotte ripari e inghiottitoi, in località Nuppolara nel comune di Papasidero, nella Valle del fiume Lao, in provincia di Cosenza e deve il suo nome alla frequentazione dei monaci del vicino monastero di Sant’Elia che la utilizzarono come eremo. L’attuale toponimo dell’abitato di Papasidero deriverebbe da un Papas Isídoros, capo di una comunità basiliana del Mercurion, uno dei maggiori luoghi del misticismo dell’Italia meridionale in cui fiorì a partire dal VI° secolo il monachesimo greco-orientale, in corrispondenza di un territorio che si estendeva lungo il confine occidentale delle attuali Calabria e Basilicata. A quota m. 210 s.l.m, con i suoi 854 abitanti attuali, il piccolo paese medievale di Papasidero si sviluppa a partire da una rocca longobarda ampliata a Castello nei secoli successivi, sotto le denominazioni Normanno-Sveva, Angioina e Aragonese.

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La Grotta consta di due parti: la Grotta vera e propria lunga circa 20 metri e un tempo senz’altro ben illuminata dalla luce del giorno, ed il Riparo che si estende per circa 34 metri. I depositi della grotta e del riparo costituiscono una sola grande formazione sedimentaria dove si possono ammirare suggestive formazioni di stalagmiti e stalattiti a frange e a cuspidi di colore prevalentemente bianco. All’interno della grotta esiste anche una galleria ancora inesplorata. Sito di fondamentale importanza per la preistoria calabrese insieme alla Grotta della Madonna nella vicina località costiera di Praia a Mare, esso costituisce uno dei più importanti giacimenti italiani del Paleolitico superiore (30.000-10.000 anni fa) e attesta frequentazioni più recenti risalenti al Neolitico europeo (7.000 – 4.000 anni fa). Ed è proprio in questa cavità che visse “l’uomo del Romito”, probabilmente un uomo di Cro-Magnon, il quale non sapeva allevare gli animali e non conosceva l’agricoltura e la lavorazione della ceramica. In seguito fu l’Homo Sapiens ad abitare intensamente la grotta lasciando innumerevoli testimonianze del suo passaggio con i suoi strumenti litici e ossei, con lo stupendo graffito e con i resti dei propri scheletri.

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La Grotta viene scoperta nella proprietà di Agostino Cersosimo, nella primavera del 1961, dall’allora direttore del Museo Comunale di Castrovillari Agostino Miglio su segnalazione di due Papasideresi, Gianni Grisolia e Rocco Oliva durante un censimento agrario. In realtà, già nel 1954 un appassionato di archeologia di Laino Borgo, Luigi Attademo, aveva segnalato al Miglio l’esistenza del Riparo con una non meglio precisata figura di toro. La grande scoperta fu quindi affidata ad un archeologo di fama internazionale, Paolo Graziosi, dell’Università di Firenze, che diresse i lavori fino al 1968. Nell’ultimo decennio, a partire dal 2000, la cura del sito è stata affidata ad un suo discepolo, Fabio Martini, che insegna nella stessa Università.

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Le molteplici evidenze archeologiche restituite dal sito offrono agli studiosi numerosi elementi utili alla ricostruzione storica delle attività delle comunità di cacciatori-raccoglitori che abitarono il sito, le condizioni di vita dei gruppi umani preistorici, la loro interazione con l’ambiente e il paesaggio circostanti. Indicazioni sulla microfauna, la macrofauna e sui condizionamenti subiti dalle comunità dalle dinamiche climatiche avvenute dalla fine del Paleolitoco al Neolitico: la presenza nella grotta di un torrente, antecedente a 24.000 anni fa e avente fasi di ingrossamento alterne nei secoli , ha consentito la frequentazione umana in seguito ai prosciugamenti ed interventi di bonifica.

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Inoltre, dalla setacciatura del terreno di scavo nello strato risalente a 11.000 anni anni fa sono emersi, come per altri siti del Paleolitico superiore, dodici semi di “vitaceae” che per le loro dimensioni sono riferibili alla “Vitis silvestris”; importante anche il ritrovamento di palchi di Cervo palmato, Cervus elaphus palmidactyloides, rinvenuti sepolti in una piccola fossa e riferibili a significati simbolico-rituali e di gasteropodi bivalvi e scafopodi ovvero conchiglie marine della specie Columbella rustica e Cyclope neritea, lavorate e usate come ornamento che testimoniano altresì i contatti con il litorale tirrenico.

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Riferibile al periodo Neolitico è invece il ritrovamento di ossidiana che lascia ipotizzare “l’area del Romito” come centro di scambio e transito, tra l’area tirrenica e quella jonica, del vetro vulcanico proveniente dalle Isole Eolie, utilizzato per produrre punte di frecce, raschiatoi e altro, confermando l’importanza delle popolazioni neolitiche della Calabria nel commercio e il controllo di questo materiale. Al Neolitico Recente risale invece il deposito ceramico dello stile della necropoli di Masseria Bellavista di Taranto. È probabile che la frequentazione della grotta sia continuata nell’Età dei Metalli, nonostante non vi sia traccia documentaria. Nel cunicolo della grotta è stato rinvenuto un bel punteruolo di osso lavorato portante inciso un motivo geometrico costituito da un rettangolo inscritto in un altro, da fasci di linee parallele, rette e zig-zag e da segni a dente di lupo ai margini dello strumento. Essi ricordano analoghi motivi geometrici dell’ “arte mobiliare”, forme artistiche relative agli oggetti “Mobili” cioè di oggetti di uso sia rituale sia quotidiano risalenti al periodo preistorico, della grotta Polesini presso Tivoli e di quella spagnola del Parpallò presso Valencia.

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Nei livelli più alti del terreno sono stati rinvenute tre sepolture datate a 9.200 anni fa, contenenti ciascuna una coppia di individui disposti secondo un procedimento ben definito e giacenti in strati epipaleolitici. Una di queste sepolture si trova nella Grotta e due nel Riparo, poco distanti dal masso con la figura taurina. Gli scheletri ed il loro posto della sepoltura all’interno della Grotta del Romito, sono differenti dagli altri resti trovati in Europa perché i ricercatori precedentemente avevano trovato resti scheletrici sepolti individualmente, mentre in questo insediamento hanno trovato per lo più coppie di scheletri. Le sepolture hanno suggerito agli studiosi che probabilmente la Grotta era un posto “sacro” dove veniva effettuato il cosiddetto “Matrimonio-Sati” (la sepoltura di una coppia), conferma della supremazia delle associazioni filiali fra gli uomini e le donne dagli inizi stessi della storia umana.

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Dapprima sono venuti alla luce i depositi del Riparo: un uomo e una donna sdraiati in una piccola fossa ovale l’uno sull’altro. La donna copriva in parte la spalla sinistra dell’uomo e la sua nuca poggiava sulla guancia del compagno. L’uomo le circondava le spalle col braccio sinistro, mentre il destro era disteso lungo il corpo. Il corredo funebre era costituito da un grosso frammento di corno di bos primigenius appoggiato sul femore sinistro dell’uomo, mentre un altro corno era appoggiato sulla spalla destra. Intorno agli scheletri erano deposte delle selci lavorate. I due individui, di 15/20 anni di età, sono ambedue di statura molto piccola: 1,40 metri il maschio, 85 centimetri la femmina, che presenta il femore e l’omero affetti da un forte dismorfismo e da osteoporosi.

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Due scheletri umani disposti l’uno sull’altro e di sesso diverso costituivano l’altra duplice sepoltura contenuta in una fossa ovale. Si tratta di individui di circa 30 anni, alti 1,46 e 1,55 metri, entrambi sepolti con le gambe flesse. Alcune ossa del secondo individuo non erano al loro giusto posto (l’uomo a destra figurava, infatti senza femore e con l’epifisi nella fossa del bacino), probabilmente perché dopo la morte del primo individuo, alla riapertura della fossa per seppellirvi il secondo, sarebbero state involontariamente mosse le ossa è asportato il femore del primo.

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La terza sepoltura si trovava nel deposito della grotta circa allo stesso livello di quelle del riparo. Erano due individui sdraiati sul dorso e affiancati. Con le braccia distese, l’una appoggiata sul bacino e la sinistra entro il bacino. Si tratta di due individui maschili, di età al di sotto dei venti anni, di statura di 1,59\1,60 metri circa. Dello scheletro di sinistra rimanevano solo il bacino, gli arti inferiore e le ossa di un braccio. Parte della scatola cranica e meta della faccia furono ritrovate in seguito, in quanto il deposito era stato sconvolto in epoca imprecisata da lavori di scavi forse per rendere pianeggiante il terreno. L’individuo di destra era, invece, completo.

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Escluso la donna patologica della prima sepoltura che ha un cranio corto, tutti gli altri sono mesocefali, con cranio allungato, volta cranica piuttosto bassa, faccia stretta, mascelle robuste, triangolari e prominenti. Le orbite sono basse e il naso non molto lungo e neanche largo. Di questi scheletri una coppia è esposta al Museo di Preistoria di Firenze, insieme alle schegge litiche ritrovate (circa 280); un’altra è esposta al Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria e una terza è ancora oggetto di studio da parte dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze nei loro laboratori.

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Durante gli scavi sono state rinvenute anche un paio di sepolture singole. Un anziano di 35 anni (corrispondenti agli odierni 100) che, dagli accertamenti del caso, è risultato essere stato reso handicappato da molte malattie, ferimenti da caccia e cadute. La domanda fu, come fece a raggiungere l’età avanzata, a procurarsi il cibo necessario alla sopravvivenza; dalla dentatura molto abrasa, si è concluso che, probabilmente, si rendeva utile alla comunità lavorando le pelli con l’uso dei denti, in cambio della sussistenza. L’altro ritrovamento umano di grande interesse, si è rivelato essere quello di un giovane cacciatore che, nonostante la giovane età, fu sepolto con un corredo di oggetti degni di un capo. Altra caratteristica interessante di quest’uomo paleolitico, è l’altezza notevole per l’epoca e per la zona meridionale infatti, lo scheletro ritrovato appartenevano ad un individuo alto 1,74 metri.

 

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Un team di ricerca composto da italiani e americani ha fatto rinascere in 3D il cervello di un altro degli scheletri, chiamato “Romito 9”, delle Grotte del Romito e proprio Martini spiega che:” è lo scheletro di un ragazzino morto tra le aspre colline di quella che oggi è la Calabria. La causa della sua morte non è nota. Ma la presenza di decorazioni con conchiglie e ocra rossa trovate attorno al suo corpo deposto delicatamente fa pensare che il piccolo fu amato e pianto. Le ossa del cranio a quell’età sono ancora plastiche, in sviluppo, tanto da lasciare, seppure in maniera invisibile all’occhio umano, l’impronta del cervello, rilevabile con le tecnologie sofisticate di oggi. Un ritrovamento dunque eccezionale. Oggi possiamo sapere e toccare con mano un cervello di un nostro antenato di 17mila anni fa, grazie alla ricostruzione in 3D che un team ha realizzato negli Usa partendo dalla scatola cranica di un ragazzo ritrovato nella grotta del Romito a Papasidero in Calabria. Naturalmente non possiamo dire come quel cervello “funzionava”, come pensava, come interagiva col mondo esterno, ma sicuramente questo risultato raggiunto è destinato a fornirci importanti informazioni nuove e finora impensabili.  È la prima volta che la tecnologia ci permette di toccare con mano un cervello antico. Possiamo vedere chiaramente che l’area del linguaggio, è quasi uguale, nella morfologia, ad oggi. È lo studio più completo su un individuo così antico. Insieme alla ricostruzione 3D del cervello si prevede anche la ricostruzione del Dna dell’antico preadolescente”.

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A “leggere” queste “tracce” invisibili ci ha pensato il fisico Claudio Tuniz del Centro Internazionale di Fisica Teorica Abdus Salam di Trieste, il quale ha realizzato il modello informatico, che poi ha permesso di stampare in 3D, negli Usa, il cervello di 17mila anni fa. Tuniz ha fatto la ricostruzione teorica, grazie alle tecnologie avanzate del suo laboratorio realizzando circa 4mila radiografie, più o meno 10 per ogni grado della rotazione completa. La mappa ha permesso la stampa del cervello in California, dove sono disponibili le strutture necessarie e dove opera un altro specialista italiano, Fabio Macciardi, studioso di neuroscienze dell’università della California e docente di genetica medica all’università di Milano. Per raggiugere l’altro grande obiettivo ambizioso, l’estrazione del Dna dallo scheletro “Romito 9” è intervenuta la professoressa Olga Rickards, ordinario di antropologia molecolare all’università di Tor Vergata di Roma, che è riuscita a sequenziarlo.

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“Oggi molti ricercatori lavorano per trovare i geni legati alle patologie del linguaggio. Ma si tratta di una competenza molto complessa e si rischia di perdersi in un mare di informazioni genetiche. Serve scegliere solo quelle importanti che sono, probabilmente, sia quelle conservate nei millenni, sia quelle sviluppate nell’evoluzione. Sui dati ottenuti abbiamo realizzato molti confronti con quelli contemporanei. E il nostro obiettivo è realizzare lo stesso lavoro su 70 scheletri molto più antichi. Potremmo così ottenere una vera e propria mappa dell’evoluzione del cervello e del linguaggio degli ultimi 200mila anni. Sapere con precisione quali sono i geni del linguaggio” interviene Macciardi. Ma anche ‘datarli’, e continua: “Alcuni antropologi pensano che il linguaggio sia nato insieme all’arte, al pensiero simbolico (50 – 60mila anni fa). Altri addirittura pensano a 500mila anni fa. Due estremi su cui potremmo essere più chiari incrociando i dati morfologici e genetici delle diverse fasi evolutive. Ma si tratta di studi costosi che hanno bisogno di finanziamenti che bisognerà trovare”.

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Ma, oltre agli importanti resti umani che vanno sicuramente ad incrementare gli studi riguardo quel periodo della preistoria europea, ciò che caratterizza questo sito archeologico sono le celebri incisioni rupestri, che interessano due grandi pietre di crollo alle estremità opposte del riparo, analizzate dal Graziosi. La prima è quella dei cosiddetti “Segni Lineari”, un masso di circa 3,50 metri , con semplici tratti rettilinei o leggermente curvilinei, più o meno profondamente incisi, disposti in tutte le direzioni e variamente intersecantisi, senza alcun significato apparente. La sovrapposizione del deposito epipaleolitico consente di datarli verso la fine della serie (11.000 a.C. circa).

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La seconda è quella del “Masso dei Tori” che si trova presso l’imboccatura della grotta e reca incisi su diversi livelli tre profili di Bos Primigenius, un bovide selvatico antenato dei bovini domestici. Rappresenta una delle più importanti raffigurazioni dell’arte rupestre del Paleolitico Superiore: è così perfetto nel disegno e nella prospettiva, quanto nella scelta della superficie rupestre che gli dona un senso di 3D, da far affermare al professor Graziosi, di essere di fronte a “la più maestosa e felice espressione del verismo paleolitico mediterraneo, dovuto ad un Michelangelo dell’epoca”. L’attenzione ai dettagli anatomici e le proporzioni realiste rendono l’incisione dell’uro paragonabile, per lo stile della figurazione, al linguaggio espressivo dell’arte parietale rupestre franco-cantabrica, elementi che per importanza proiettano il sito archeologico del Romito nel più ampio contesto europeo.

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La figura di toro, lunga circa 1,20 metri è incisa su un masso di circa 2,30 metri di lunghezza e inclinato di 45° nella zona antistante l’ingresso della grotta. Il disegno, di proporzioni perfette, è eseguita con tratto sicuro così come è caratteristico dell’arte paleolitica. Le corna, viste ambedue di lato, sono proiettate in avanti ed hanno il profilo chiuso. Sono rappresentati con cura alcuni particolari, come le narici, la bocca, l’occhio e, appena accennato, l’orecchio. In grande evidenza le pieghe cutanee del collo e assai accuratamente descritti i piedi fessurati. Un segmento attraversa la figura dell’animale in corrispondenza dei reni. Secondo Graziosi:” Si ha l’impressione che almeno parte di questi segni preesistessero alla esecuzione del toro e che qualcuno sia stato addirittura utilizzato per la realizzazione delle grandi pieghe”.

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Tra le zampe posteriori dell’uro vi è incisa, molto più sottilmente, un’altra immagine di bovino di cui è eseguita soltanto la testa, il petto e una parte della schiena. Anche esso presenta le corna proiettate in avanti, ma a profilo aperto e solo nella seconda metà divise in due, mentre nella prima parte appare un solo corno, ripetendo un modulo tipico dell’arte paleolitica mediterranea. Sull’estremità inferiore dello stesso masso è incisa una terza piccola testa di toro. A fianco del masso col toro si trova una stalagmite a forma di equide senza testa. Secondo Graziosi:” Il rinvenimento delle sepolture nell’area intorno e tra i due grandi massi incisi farebbe pensare a due stele o una stele (quella col toro) delimitanti un’area funebre”. Infatti La ricorrenza di resti di uro insieme agli scheletri rimanda a funzioni di offerte funerarie, elementi che forniscono informazioni sull’universo simbolico, le pratiche rituali e funerarie paleolitiche.

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La disposizione delle inumazioni in prossimità del graffito del Bos Primigenius, “assegnano a questa immagine una valenza totemica di grande suggestione e conferisce all’ambiente un indiscutibile legame con il sacro” afferma Martini. E continua:” La consistenza e la continuità della serie stratigrafica, la rilevanza dei reperti, la presenza di un alto numero di inumazioni e dei due massi con incisioni fanno di questo sito archeologico calabrese uno dei giacimenti guida per la conoscenza delle culture preistoriche dell’Italia meridionale nell’ultima parte del Paleolitico. Effettivamente l’importanza del sito di Papasidero, a livello europeo, è legata all’abbondanza di reperti paleolitici, che coprono un arco temporale compreso tra 23.000 e 10.000 anni fa, che hanno consentito la ricostruzione delle abitudini alimentari, della vita sociale e dell’ambiente dell’Homo Sapiens”. Una storia spettacolare che spinge a dire a Maria Lombardo, Consigliere Commissione Cultura “Comitati Due Sicilie”, che: “Conoscere le nostre ricchezze è di vitale importanza per proiettare la Calabria verso un sano sviluppo del settore Turistico in chiave responsabile e sostenibile”. “Le risorse di eccellenza di Papasidero meritano di essere promosse, riconfermate e proiettate fuori dal contesto nazionale” ha affermato invece Enrico Marchianò, presidente del Club per l’ Unesco di Cosenza.

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Il sito attualmente è visitabile grazie all’intervento dell’Istituto Italiano di Archeologia Sperimentale, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Calabria ed il Comune di Papasidero, grazie ai quali sono stati realizzati interventi atti a garantire l’accesso alla grotta (passerelle, impianti di illuminazione) e la fruizione integrata del sito archeologico (guide e materiali didattici). Le illustrazioni all’interno della caverna, così come le opere d’arte geomorfologiche, sono aperte agli ospiti insieme alle repliche delle figure scheletriche (come precedentemente detto quelle reali sono state spostate a Firenze e a Reggio Calabria).

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Il professor Martini conclude una sua intervista dicendo:” Sono state avviate diverse iniziative di valorizzazione miranti ad inserire il Romito nei circuiti culturali e turistici. La grotta è stata musealizzata ed è in funzione un percorso attrezzato con servizio di visite guidate. L’Amministrazione comunale di Papasidero prevede anche l’ampliamento del locale Antiquarium nei pressi dell’antro”. Infatti, parte degli altri numerosi reperti risalenti sino alle prime frequentazioni della Grotta, attestate a oltre 23000 anni fa, unitamente al calco di sepoltura di una coppia e alla ricostruzione facciale di uno degli individui seppelliti nella grotta, sono esposti nel piccolo Antiquarium annesso al complesso, un piccolo museo didattico dove è possibile reperire tutte le informazioni indispensabili per un tuffo nel passato, alla scoperta dei nostri antenati Calabresi.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

Il Tesoro della Calabria: il “Codex Purpureus Rossanensis”

 

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Il “Codex Purpureus Rossanensis” è un Evangeliario greco miniato, del formato di 260 x 307 mm, su pergamena colore rosso-porpora (da qui il nome “Purpureus”), di straordinario interesse dal punto di vista sia biblico e religioso, sia artistico, paleografico e storico, sia documentario. I pregi del manoscritto sono numerosi, tali da renderlo il “capolavoro” della produzione libraria ed artistica bizantina e un “unícum” di valore inestimabile. La bellezza del manufatto (è probabilmente il più antico e meglio conservato documento librario e biblico della cristianità) fa di esso “la più fulgida gemma libraria della Calabria, che da solo fa Museo” (Ciro Santoro). Il testo evangelico, nonostante alcuni errori di trascrizione degli amanuensi, è radice e fonte della dottrina cristiana e della cultura europea. Ottimo è l’equilibrio tra fede e scienza, tra religiosità e tecnica raffinata, tra pazienza e abilità, quale si manifesta sia nella scrittura sia nelle illustrazioni. Oggi il Codex Purpureo si presenta mutilo dei vangeli di Giovanni e Luca; ma in origine raccoglieva i testi completi. Il frontespizio presenta, infatti, una rota riccamente decorata in cui si inseriscono entro clipei le effigi degli evangelisti, e dentro la quale ricorre la scritta in greco “prospetto della sinfonia degli evangelisti”.  Tale iscrizione rimanda alla lettera di Eusebio di Cesarea a Carpiano. In questa lettera egli informa che Ammonio di Alessandria (padre della chiesa vissuto tra il 265 e il 340 d.C.) aveva realizzato una esposizione sintetica dei quattro vangeli, affiancando il testo di Matteo agli altri vangeli canonici. All’inizio di ciascun libro vi erano i Kephalaia, cioè gli indici dei capitoli, e la tavola miniata con l’evangelista di cui rimane solo quella di Marco.

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Il codice è di elevatissima qualità e presenta una dimensione medio-grande; ha una forma più o meno quadrangolare come era consuetudine in età tardo antica per i grandi libri d’apparato. La sua qualità elevata era anche data dall’uso dell’oricello, un colorante di origine vegetale, il cui uso era abbastanza diffuso tra le classi più elevate per il suo notevole costo, in epoca tardo-imperiale. Il Codex presenta le prime tre righe dei Vangeli con lettere d’oro, mentre il resto del testo è in argento eseguita in una maiuscola biblica disposta su due colonne. Per il resto i titoli che accompagnano le miniature presentano la maiuscola ogivale diritta. Il testo è distribuito su due colonne di 20 righe ciascuna (un’impostazione grafica giornalistica ante litteram).  Le parole non recano accenti, né spiriti, né sono tra di loro separate, né compaiono segni di interpunzione, tranne il punto ortografico (“punctum”) che segna la fine dei periodi.  Quando, invece, inizia il periodo, la prima parola si apre con una vocale o consonante più grande. Per la preziosità del manoscritto, la raffinatezza dei materiali impiegati la loro alta qualità si può dedurre che dovette essere utilizzato in onore di Cristo, Rex regnantium e Megas basileus. Questo codice, noto anche come il “Rossanensis”, è uno dei sette codici miniati orientali esistenti nel mondo. Tre sono in siriaco e quattro in greco. Questi ultimi sono il “Manoscritto 5111 o Codex Cottonianus”, in possesso della British Library di Londra (di cui, però, a causa di un incendio nel XVII secolo, è rimasto qualche esiguo e decomposto frammento soltanto di una pagina), la”Wiener Genesis”, conservata presso la Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna (costituita da 26 fogli, 24 dei quali miniati), il “Frammento o Codex Sinopensis”, custodito presso la Bibliothèque National di Parigi (formato da 43 fogli e 5 miniature) e infine il “Codex Purpureus Rossanensis”, che, con i suoi 188 fogli, pari a 376 pagine, è il Codice più ampio, più prezioso, più importante di quelli sopra citati; pare che un quinto codice greco, il cosiddetto “Codice o frammento «N»” (contenente una miniatura sulla lavanda dei piedi), esista nella città russa di S. Pietroburgo ex Leningrado.

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Dal punto di vista estetico, è diffusa la convinzione tra gli storici dell’arte che le illustrazioni pittoriche delle miniature, il portamento e la severità dei protagonisti e dei personaggi, i motivi stilistici, il gusto della metafora e dell’allegoria, l’efficace tavolozza policromatica etc. rappresentino nel “Rossanensis” la continuità dell’arte classica e pagana, che nell’Oriente (specificamente in Palestina, in Asia Minore, in Siria, ad Alessandria) ha avuto i suoi qualificati centri di produzione e di irradiazione.  Il ”Codice” di Rossano, perciò, mentre raccoglie, in sintesi, l’eredità e le suggestioni della cultura artistica ellenistica e di quella religiosa cristiana, svolge l’originale ruolo di tramite e di anello di congiunzione tra la sensibilità creativa del mondo antico, avviata verso la decadenza, e quella del mondo medievale e bizantino, destinata alla nuova egemonia culturale europea. Il “Codex Purpureus Rossanensis” è, altresì, un documento ineguagliabile nella sua carica straordinaria di spiritualità, di contenuti, di messaggi, di forte tensione e, nel contempo, di sereno “pathos”, che trasudano le antiche ed espressive pagine di questo Evangeliario.

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La peculiarità del Codex Rossanese è data dalle 15 miniature, scene tratte dai Vangeli che si richiamano alle celebrazioni della settimana santa bizantina, fatto questo che sottolinea una destinazione anche liturgica del libro. In particolare le miniature riprendono:

  • la risurrezione di Lazzaro (tav. 1);
  • l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (tav. 2);
  • la cacciata dei venditori dal tempio (tav. 3);
  • la parabola delle io vergini (tav. 4);
  • l’ultima Cena e la lavanda dei piedi (tav. 5);
  • la comunione col Pane (tav. 6);
  • la comunione col Calice (tav. 7);
  • Gesù nell’orto del Getsemani (tav. 8);
  • la guarigione del cieco nato (tav. 11);
  • la parabola del Buon Samaritano (tav. 12);
  • Gesù davanti a Pilato e pentimento di Giuda (tav. 13);
  • il tribunale di Pilato ed il confronto Gesù – Barabba (tav. 14);
  • l’Evangelista Marco (tav. 15).
  • Fuori testo sono da considerare le Tavole 9 (Frontespizio delle tavole dei Canoni) e 10 (la lettera di Eusebio a Carpiano in cornice dorata e decorata con fiori ed uccelli).

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Di esse 10 illustrazioni presentano la medesima impostazione visiva e grafica: la parte superiore è occupata dalla scena evangelica ed è separata da una sottile linea blu dalla scena inferiore, che è riservata, nella parte centrale, a quattro Profeti, dipinti a mezzo busto, tutti con il braccio destro alzato, con l’aureola e soltanto Davide e Salomone anche con la corona regia; al di sotto dei Profeti, che con la mano destra indicano l’avverarsi delle loro profezie nella scena superiore, ci sono infine le loro citazioni in cartigli o rotoli. Il protagonista, il centro gravitazionale, di quasi tutte le miniature (tranne le nn.  IX, X e XV) è la figura, fiera, pensosa, ieratica, autorevole, regale, egemonica, di Gesù: il Cristo barbuto, con i capelli lunghi, riversi sul collo e sulle spalle (e non sulla fronte come privilegerà la successiva arte bizantina), con intense e sempre diverse espressioni del volto, con un grande aureo nimbo crucifero o aureola intorno alla testa, con il mantello greco o himation di colore oro, che lascia scoperto il braccio destro ed i sandali.  Sotto l’himation Gesù indossa una tunica lunga manicata o chitone, che è di colore marrone in alcune miniature (Tavv. I, II, III, VIII), mentre in altre è di colore blu-turchino (Tavv.  IV, V, VI, VII, XI, XII, XIII, XIV), perché è cambiato il miniaturista o per un significato simbolico oscuro.  Gesù, inoltre, viene rappresentato in movimento, con il braccio destro e la mano alzati (Tavv. I, III, IV, V/a, VIII/a): l’accorgimento del miniaturista mira a rendere visibile il momento in cui il Cristo sta per proferire le frasi evangeliche, molte delle quali riportate nella parte superiore o inferiore della scena evangelica della tavola (“ Titula historiarum”).

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Non si possono escludere, comunque, altre destinazioni anche in considerazione della solennità delle scene e della preziosità del materiale scrittorio, che non era certo di uso comune e quindi forse proveniente da ambiente nobile e aristocratico. E allora potrebbe trattarsi di un Codice da parato: un codice-oggetto, cioè, destinato all’ostentazione in una casa di rango sociale elevato. Una terza ipotesi, avanzata come la precedente dal Prof. Guglielmo Cavallo dell’Università La Sapienza di Roma, uno dei massimi studiosi italiani di paleografia e storia della scrittura, vede nel Codex un atto di pietà finalizzato alla salvazione dell’anima per conto di un aristocratico committente-donatore. In altri termini, nel mondo bizantino si poteva commissionare un libro sacro donandolo poi a qualche chiesa o monastero allo scopo di ottenere con quell’opera di beneficenza la salvezza dell’anima. Il Codex potrebbe aver avuto proprio questa funzione gratificante.

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Le tre ipotesi, comunque, non necessariamente si devono auto escludere, per cui la funzione inizialmente unica potrebbe aver assunto anche gli altri significati. Da oggetto di ostentazione (“status symbol”) e gesto di pietà volto ad ottenere la salvazione dell’anima, è diventato anche oggetto di culto liturgico. Il professor Cavallo afferma: ”L’Italia centro-meridionale era nella tarda antichità e tanto più continuò a essere più tardi crocevia e meta di greco-orientali per convergenti motivi geografici, etnici, politici. Dal VII secolo – spinte dall’eresia monotelita e ancor di più dalle invasioni o incursioni slave, persiane e arabe che travagliavano gravemente l’impero bizantino – ondate di greco-orientali, soprattutto monaci ma anche elementi del clero e laici, giungevano in Sicilia, e da questa in Calabria e a Roma dislocandosi in particolare da Egitto, Palestina, Siria. Si trattò, altresì, di migrazioni non solo d’individui ma pure di modelli, quali soluzioni artistiche, formule liturgiche, istituti giuridici, e di oggetti, tra cui icone, avori, libri. A emigrare da Bisanzio e dai territori a est di Bisanzio nell’Italia meridionale era anche gran parte della classe dirigente, laica ed ecclesiastica, tanto che alcuni tra i papi ‘greci’ dal 642 al 752 provenivano o dalla Sicilia o dalla Calabria: classe sociale ristretta, ma che deteneva e trasferiva in queste regioni modelli e oggetti. Il Rossanensis purpureus, dunque, può esser giunto in Calabria mediante una di queste ondate d’immigrazione, direttamente o passando prima attraverso la Sicilia o magari Roma. L’invasione araba della Sicilia da una parte e la destrutturazione dell’elemento greco a Roma dall’altra determinarono più tardi una varia dislocazione di materiali greci che trovò un ricettacolo privilegiato nella Calabria bizantina dei secoli IX e X. Sicuro in ogni caso è che la vicenda del Rossanensis purpureus venne a legarsi indissolubilmente a Rossano, e Rossano vuol dire la Calabria, la regione che per testimonianze archeologiche, tradizione di pietà, costumi, dialetti conserva, forse più di qualsiasi altrove, il segno e il ricordo dello stretto legame tra l’Italia e la Grecia antica e medievale.”

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Certo è che ci troviamo di fronte ad un documento di valore inestimabile, che, tra l’altro, conferma la storica funzione di ponte tra Oriente ed Occidente della Calabria. È da ritenere, pertanto, che il Codex fosse conservato nel tesoro della Cattedrale fin dall’antichità. Ciò giustifica anche come sia potuto sfuggire nel sec. XVI al Cardinale Sirleto, interessato ai manoscritti dei monasteri più che a quelli di conservazione ecclesiastica. In aggiunta c’è da riportare un Memoriale del 1705, conservato nell’Archivio Vaticano fatto pervenire al papa dal clero di Rossano in polemica con l’Arcivescovo Andrea Adeodati, in cui si dice:

“Beatissimo Padre. Il Clero e Publico della Città di Rossano prostrati a’ piedi della S.V. le fanno sapere, come nella Chiesa Metropolitana di detta Città, quale prima officiava sotto il rito greco, e poi da più secoli in qua fu introdotto il rito Latino; e perché si ritrovano quantità di libri greci con lettere e figure dorate e miniate, formate sopra fogli di corteccia d’alberi, quali libri si teneano in gran stima per l’antichità e singolarità”.

Cos’altro possono essere questi “libri greci con lettere e figure dorate e miniate” se non il Codex Purpureus? Inoltre, denunciano proprio l’Arcivescovo di essere “nemico dell’antichità” e di avere “fatto sotterrare i suddetti libri sotto il pavimento della sacristia e proprio sotto il lavabo dei sacerdoti, senza curarsi del danno, che faceva a detta chiesa e città, col privarli di cose così memorabili”. Ed, infine, “ricorrono” perché il Santo Padre possa apportare “opportuno rimedio” alla gravissima vicenda.  L’arcivescovo, con la nota dell’11 ottobre dello stesso anno al cardinale Paolucci, segretario di stato della Santa Sede, respinge tutti i gravi addebiti (il documento è conservato nell’Archivio Vaticano, è stato segnalato da P. Francesco Russo nel suo “Regesto Vaticano per la Calabria” vol.  IX, reg. n. 50547, pag. 443, ed è stato studiato e divulgato da Luigi Renzo sulla terza pagina de “La Gazzetta del Sud” e nel suo libro “Sprazzi di Calabria.  Società, storia e cultura” del 1994, pp. 25-32). S’ignora sia l’esito della controversia sia i risvolti tuttora oscuri della stessa.

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La seconda notizia sul Codice di Rossano la fornisce, nel 1831, Scipione Camporota, canonico della Cattedrale della città, che dà ai fogli una prima sistemazione e l’attuale numerazione delle pagine con inchiostro nero. Notizia abbastanza approssimativa la da Cesare Malpica, che nel suo Diario di viaggio nel 1845-46 annota:

“II Capitolo del Duomo (di Rossano, n.d.r.) possiede un tesoro in un libro antichissimo che contiene gli Evangeli scritti in Greco, con caratteri d’argento sovra carta azzurrina, con belle e curiose miniature in testa alle pagine. Par che sia opera fatta al cominciar del medio Evo, quando Odorisi da Gubbio, e Franco Bolognese introdussero in Italia l’arte del miniare. I signori Canonici tengano pur gelosamente questo monumento, che ricorda l’antichità della loro Cattedrale, e i tempi famosi d’Italia. Questo volume in bellezza non cede a quelli di simil natura che io vidi in S. Nicola di Bari, e in S. Pietro in Galatina”.

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È vero che non si nomina esplicitamente il Codex, ma il fatto non desta meraviglia perché l’etichetta Codex Purpureus Rossanensis si deve ai due studiosi tedeschi Gebhardt e Harnack, che nel 1879-80 pubblicizzarono l’esistenza del documento. Ancora nel 1878, del resto, un anno prima dell’arrivo dei due studiosi, il medico rossanese Pietro Romano in suo breve saggio storico ( “Frammento di storia patria sul duomo ed episcopio di Rossano”, pp. 41-42), ricorda l’esistenza a Rossano di un “libro misterioso ed arcano”, chiamato semplicemente “libro antichissimo degli Evangeli Greci”, che, avendolo cercato ma non avendolo trovato, viene paragonato all’ “araba fenice, che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa!”, anche se ammette che la notizia “viene confermata da persone degne di fede e dalla testimonianza come il Malpica”.

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Assodato allora che il Codex è stato di proprietà della Cattedrale da tempo immemorabile, restano ancora alcuni quesiti tra cui quando è stato portato a Rossano e da chi. Gli storici convengono che a portarlo in Occidente siano stati tra l’VIII-IX secolo i monaci melchiti in fuga dalla Siria, dalla Palestina, dall’Egitto e dalla Cappadocia, sia a causa dell’odio iconoclasta dei bizantini (i monaci erano perseguitati perché ritenuti i principali diffusori del culto delle immagini), sia a causa degli Arabi che avevano invaso tutto il Medio Oriente e quindi non restava loro nemmeno il deserto per vivere in pace. La Calabria per la vicinanza con l’Oriente e per la natura stessa del terreno offrì a questi monaci profughi un rifugio ideale per continuare la loro vita ascetica, anche se lontani dalla madre patria. Una di queste comunità, ipotesi molto possibile, si stabilisce in qualcuno dei tanti monasteri rupestri ipogei, costituiti da grotte di arenaria, del tipo eremitico o lauritico (il monaco vive da solo in una grotta, ma in altre grotte vicine vivono altri monaci), che formano allora la famosa “Montagna Santa” (“Aghion Oros”) della città jonica, dove portano quanto di più prezioso avevano prodotto nella loro patria di provenienza, che, proprio perché prezioso, continua a fare loro da tramite con la Divinità ed impreziosisce la nuova patria di adozione. Il territorio di Rossano proprio in questo periodo infatti si trasformò in una piccola Tebaide. Possiamo ritenere alla luce di tali fatti che questi monaci sopraggiunti si siano portato dietro il Codex, poi rimasto in dote alla Cattedrale greca di Rossano. Se poi accettiamo l’ipotesi precedentemente del Codex da parato e quindi commissionato per essere esposto all’ammirazione in una casa di nobile ceppo, potremmo anche supporre che a portarlo sia stato un nobile aristocratico della corte di Bisanzio trasferito a Rossano e che da questi poi sia stato donato, magari come gesto votivo atto ad ottenere la salvazione dell’anima, alla Cattedrale per uso liturgico.

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Non sembri ingiustificato quanto stiamo dicendo ove si pensi che tra i secoli IX-X Rossano si afferma sempre più come centro militare e di cultura fino a diventare, nella seconda metà del sec. X, sede dello Stratego, città-guida della Calabria bizantina e quindi luogo di richiamo e di riferimento per l’aristocrazia in cerca di spazio. In qualunque modo sia pervenuto a Rossano, si può supporre che il Codex sia rimasto in uso nella Cattedrale fino alla soppressione del rito greco, avvenuta intorno al 1462. I canonici greci, ormai in assoluta minoranza, dovettero loro malgrado lasciare forzatamente la Cattedrale per trasferirsi nella chiesa di S. Nicola al Vallone, dove, secondo alcune voci era ubicata l’antica cattedrale bizantina. Il Codex, non più usato dopo la rimozione del rito, col passare del tempo è stato del tutto dimenticato in qualche angolo della sagrestia in balia degli eventi. Sarebbe stato ripescato, sia pure mutilo, dopo l’incendio che l’ha in parte distrutto, conservandolo poi senza alcuna rilevanza tra gli oggetti del tesoro. In un certo senso il silenzio su questo oggetto ha consentito di salvare il Codex da furti e manovre speculative, operazioni normali in tempi non certo benevoli nei confronti delle opere d’arte locali e degli stessi beni della Chiesa. Pensiamo ai commerci di cose sacre degli ecclesiastici, ai sequestri della Cassa Sacra, ai saccheggi dei francesi tra 700 e 800.

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Delle fonti dicono che, quando il Codex è tornato alla ribalta delle cronache Europee, i Canonici stavano cercando di venderlo per trovare i fondi necessari da destinare alla ristrutturazione del Coro della Cattedrale e che solo l’intervento oculato e tempestivo dell’arcivescovo Pietro Cilento riuscì a bloccare in tempo l’operazione. Anche i due tedeschi hanno avuto un secco rifiuto alla richiesta di acquisto, malgrado avessero offerto una ingente somma di denaro, ma indubbiamente bisogna però riconoscergli il merito di aver richiamato sull’Evangeliario l’attenzione del mondo della cultura aprendo per il documento un orizzonte più vasto e qualificato. Da allora, infatti, gli studi specialistici si sono susseguiti con passione addentrandosi nel merito dei contenuti esegetici, storici e artistici del meraviglioso Codex Rossanensis.

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Gli spazi dedicati al Rossanensis sono inseriti all’interno del Museo Diocesano e del Codex, anch’esso interamente rinnovato al fine di proporre una visione privilegiata degli ulteriori antichi tesori di arte sacra che lo spazio museale conserva grazie anche a un moderno allestimento multimediale. A contenere l’opera sarà una bella scatola di seta per proteggere come un bozzolo la preziosa pelle marocchina della sua copertina e un climabox che come una culla perfettamente climatizzata e sicura, garantirà un fresco costante. Tanto che le preziose pagine, nel 2013 sfogliate sotto gli occhi di Papa Francesco e dell’allora presidente Napolitano, ora potranno essere girate solo una volta all’anno.

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Il Codex Purpureus Rossanensis, riconosciuto nel 2015 dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità, ed è stato collocato nel programma di conservazione del patrimonio documentale “Memoria del mondo” (“Memory of the world”), al fine di proteggere questo patrimonio da rischi connessi all’amnesia collettiva, alla negligenza, alle ingiurie del tempo e delle condizioni climatiche, dalla distruzione intenzionale e deliberata.

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Il restauro è stato affidato nel 2012 all’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario (ICRCPAL) del Ministero dei Beni Culturali, affinché venissero eseguite approfondite analisi biologiche, chimiche, fisiche, tecnologiche e tutte le necessarie cure per il suo restauro e la sua conservazione. Attraverso il coordinamento di un Comitato di ricerca appositamente costituito presso l’Istituto, è stata condotta un’indagine interdisciplinare al fine di chiarire gli aspetti conoscitivi ancora irrisolti insieme alla redazione di linee-guida per la migliore conservazione dell’antico manufatto dal punto di vista ambientale.

Restauro 'Codex Purpureus Rossanensis'

Il lavoro degli studiosi ha fornito, altresì, significative risposte sulla storia e sull’esecuzione del volume, oltre a dettare importanti indicazioni generali sulla fattura e lettura dei codici di analoga provenienza e periodo storico. Nei tre anni di studio e indagini sul Codex si è giunti ad una “rilettura” importante del codice stesso. Il restauro è stato effettuato in modo estremamente rispettoso del volume, per non alterarne ulteriormente le fragilità dovute all’invecchiamento naturale e a varie vicissitudini tra le quali il restauro, fra il 1917 e il 1919, di Nestore Leoni, al tempo famoso miniaturista, i cui interventi, sfortunatamente, hanno modificato in maniera irreversibile l’aspetto delle pagine miniate.

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Quasi tutti i ricercatori concordano nel datare il codice intorno alla metà del secolo VI. La legatura, in pelle scura, risale invece al secolo  XVII o XVIII. Le pergamene, contrariamente a quanto si credeva non sono state trattate con il murice, un mollusco gasteropode (conchiglia) da cui si ricavava la porpora reale (diffusa dai fenici), ma utilizzando l’oricello, un colorante di origine vegetale. Colorante, evidentemente a disposizione dell’antico laboratorio che trattò le pergamene. Tale importante esito si è ottenuto confrontando i risultati ottenuti su campioni appositamente preparati nel laboratorio di chimica con quelli forniti dagli originali, analizzati in spettroscopia di riflettanza con fibre ottiche (FORS). Le analisi di laboratorio, eseguite in micro-Raman, micro-Infrarosso in Trasformata di Fourier (FTIR) e in Fluorescenza da Raggi X (XRF), su alcuni pigmenti originali e altri appositamente preparati in laboratorio, hanno permesso di approfondire le conoscenze sui materiali pittorici impiegati nell’alto medioevo e forniscono la prima evidenza sperimentale dell’uso della lacca di sambuco in un manoscritto così antico.

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Inoltre, l’assenza nel manoscritto di ogni tipo di preparazione delle miniature conferma l’origine Bizantina del codice. Una tavolozza pittorica, composta da molti colori (bianco, nero, rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco, viola, rosa, malva, oro), è stata usata nel prezioso manoscritto. Inoltre, l’oro puro e l’argento sono stati utilizzati per la scrittura dei Vangeli, così come è stato utilizzato inchiostro nero per i titoli. Alcune parti sbiadite dei testi in argento, in epoca sconosciuta, sono state sovrascritte con inchiostro nero. Fortunatamente, per i tecnici incaricati a svolgere le analisi, il miniaturista (o miniaturisti) non ha macinato finemente i pigmenti utilizzati per le miniature. Così è stato possibile analizzare spettroscopicamente ogni singolo pigmento, anche quando applicati in miscela, favorendo così l’identificazione delle materie coloranti.

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Per il professor Cavallo: “La carica di spiritualità che vi è insita è restituita, innanzi tutto, dal colore della pergamena e dalle sue valenze simboliche. Il nesso tra porpora e sangue richiamava il sangue versato da Cristo sulla Croce, e da quanti per il trionfo della Croce avevano dato la vita. Purpurei sono dunque i martiri. Altresì la porpora non era solo correlata al simbolismo del sangue espiatorio versato sulla Croce, ma anche al colore della tunica fatta indossare a Cristo per irriderne la regalità che, insieme alla corona di spine, quel colore evocava. Con Costantino e in epoca successiva, la porpora, come simbolo congiunto del potere imperiale e della sacralità divina, una volta proiettata sul libro sacro, ne faceva oggetto di adoratio e di pompa liturgica in occasione di cerimonie sacre.”

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Il 2 luglio 2016 il Codex è stato riportato a Rossano da Roma, e per la città e la regione è stato un giorno di festa. Disse Umberto Broccoli, famoso archeologo: “L’arrivo del Codice a Rossano è paragonabile a quando si tolsero i ponteggi alla Cappella Sistina a Roma”. Il Monsignor Satriano invece commentò così:” Sta risorgendo una comunità di uomini e donne che sta producendo benessere non in termini economici ma inteso come crescita spirituale dunque bene dell’essere. Questo è il frutto maturo di un albero che è cresciuto bene”. Per Sgarbi il Codex “rappresenta, seppur nelle difficoltà di godimento di poche pagine, una testimonianza fondamentale del mondo cristiano e dell’Occidente bizantino che ha a Rossano un suo rifugio e la sua fortezza”.

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Sul futuro del Codex, la responsabile delle comunicazioni per il restauro del manoscritto, Rosi Fontana affermò: “Il Codice appartiene a Rossano e Rossano sicuramente è il suo Codice Purpureo: possiamo immaginargli ancora altri 1.500 anni di vita. Oggi è in una super teca, super climatizzata, monitorata 24 ore su 24. Quindi è tenuto nel migliore dei modi possibili e la sua musealizzazione continuerà per lunghissimo tempo ed è certamente il monumento più importante dell’Italia Bizantina del Sud.”

Un pezzo di storia che da solo vale il viaggio in Calabria.

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Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters