I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (2° Parte)

Come promesso continuiamo la carrellata di personaggi importanti della nostra Calabria. Nelle puntate precedenti (da leggere con voce baritona), abbiamo parlato di Telesio, Barlaam, D’amico. Viste le reazioni dei lettori, è evidente che l’obiettivo è stato raggiunto, incuriosire e far conoscere nomi noti e meno noti. In questa seconda parte incontreremo personaggi di epoche diverse, che per molti sono fonte di ispirazione grazie al loro pensiero.

TOMMASO CAMPANELLA

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Tommaso Campanella, al secolo Giovan Domenico Campanella, nasce a Stilo in Calabria, il 5 settembre 1568, da povera famiglia. Entra in un convento domenicano a tredici anni prendendo il nome di fra Tommaso. La sua formazione è fortemente influenzata dal filosofo calabrese Bernardino Telesio (1509-1588), da cui riprende le posizioni antiaristoteliche e naturalistiche. Sulla sua scorta scrive un’opera in latino, Philosophia sensibus demonstrata [La filosofia dimostrata attraverso i sensi], che gli attira le persecuzioni della Chiesa. Arrestato a Napoli, dove frequentava Giambattista Della Porta, esperto in magia naturale e in arti occulte, Tommaso Campanella subisce un primo processo nel 1592. Fugge viaggiando da una città all’altra, ma a Padova, dove conosce Galileo Galilei, è nuovamente arrestato; portato a Roma, dove resta in prigione per alcuni mesi, viene costretto all’abiura e poi condannato a ritornare in un convento calabrese. Nel 1599, in Calabria, dove le masse contadine erano costrette a subire, in terribile miseria, l’oppressione della Spagna e della Chiesa, Tommaso Campanella organizza una rivolta popolare che avrebbe dovuto instaurare una società teocratica secondo il modello poi esposto nella Città del sole. La congiura viene scoperta. Tommaso Campanella, arrestato nel novembre 1599, può salvarsi solo fingendo di essere pazzo: i folli, infatti, non potevano essere condannati a morte. Nonostante venga torturato più volte, riesce a resistere alle sofferenze e a restare fedele alla propria finzione. Così viene condannato all’ergastolo, a Napoli, nel 1602.

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In carcere resta per 27 anni, dal 1599 al 1626. Qui scrive La Città del sole, le poesie e molte delle sue opere filosofiche, fra difficoltà incredibili di ordine materiale e intellettuale che lo costringono a venire a patti con le autorità: cosicché non è facile capire quanto, in questo periodo, risponda al suo effettivo pensiero e quanto, invece, alle esigenze di un compromesso con la Chiesa. Per l’intervento del papa Urbano VIII, Tommaso Campanella riottiene la libertà, dapprima condizionata e limitata, poi definitiva, vivendo a Roma, nella cerchia di intellettuali e di prelati che assistevano il pontefice. Ma nel 1633 la scoperta di una congiura antispagnola in cui è coinvolto un suo discepolo, lo pone di nuovo in una posizione di pericolo, cosicché l’anno successivo si rifugia in Francia, alla corte di Luigi XIII. Qui prepara un piano di pubblicazione delle sue opere in dieci volumi, ma riesce a pubblicarne solo tre, perché muore il 21 maggio 1639.

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Nella cultura di Tommaso Campanella confluiscono tendenze diverse: da quelle dei movimenti ereticali del Medioevo (si pensi a una figura come quella del monaco calabrese Gioacchino da Fiore, 1130-1202, la cui concezione religiosa era fondata sull’attesa della fine del mondo, profetizzata per l’anno 1260, e dell’avvento successivo di un nuovo “millennio”, in cui Dio e il Bene avrebbero governato la vita umana) a quelle del naturalismo, del magismo e dell’ermetismo che avevano caratterizzato la cultura platonica rinascimentale; dalla cultura popolare calabrese, con la sua concezione magica e animistica della natura, alla teologia della Controriforma, che mirava a unire potere politico e potere religioso (programma ripreso infatti da Tommaso Campanella). Della cultura rinascimentale egli riprende la tendenza alla magia, non il metodo scientifico e razionalistico; la spregiudicatezza intellettuale, non l’individualismo né la fiducia nell’azione del singolo; egli privilegia invece l’aspetto comunitario, sociale, collettivo spingendosi fino a ipotizzare una società comunistica nella Città del sole.

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Tommaso Campanella scrisse le sue poesie perlopiù in carcere. Un gruppo di 89 venne pubblicato nel 1622 in Germania, per interessamento dell’amico Tobia Adami, con il titolo Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla (pseudonimo di Tommaso Campanella), accompagnate dal commento dell’autore. Sono sonetti, madrigali, odi e tre elegie «fatte con misura latina» (è uno dei primi tentativi di rendere nella metrica italiana quella latina), tutti componimenti scritti fra l’inizio del secolo e il 1613.
Le poesie di Tommaso Campanella partono spesso da temi autobiografici (anzitutto quello del carcere) per innalzarsi sino all’esaltazione della superiore missione del poeta, alla condanna dei vizi e delle ipocrisie dominanti, alla riproposizione dei motivi politici che parallelamente confluiscono nella Città del sole.
Accanto alle opere in latino (come la Philosophia realis [Filosofia reale], la Theologia e la Metaphysica) spicca il trattato in volgare, scritto nel 1604, Del senso delle cose e della magia. Il mondo vi è immaginato come un animale, come un organismo vivente i cui vari aspetti sono tutti dotati di sensibilità. Tutta la natura dunque è pervasa da un’unica vita, da un’anima comune: la morte è solo un momento necessario alla continuazione di questa vita perpetua. La magia permette di intervenirvi così come l’astrologia concede di prevederne gli sviluppi. Dio si identifica con il processo naturale guidandolo verso una complessiva conciliazione di tutte le cose, verso un’armonia universale che si realizza progressivamente nel flusso stesso dell’esistenza. Il progetto politico si inserisce appunto in questa fiducia. Si tratta di portare a compimento quanto è già previsto dal piano di Dio. Il teorico della politica è dunque anche un profeta.

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Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all’esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea (materia).
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Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all’azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l’America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l’uomo e pertanto afferma l’esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di autocoscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus’, che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus’ che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d’Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus’ sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito’: io penso quindi esisto (cogito ergo sum).
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In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l’ordine universale dell’universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il cristianesimo è l’unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma al contempo coincide con l’ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.
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Campanella fu autore anche di un’importante opera di carattere utopico, ovvero La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all’Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell’utopismo campanelliano è da annoverare anche La nuova Atlantide di Ruggero Bacone. L’utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere. L’incertezza è già evidente nell’interpretazione della critica idealistica, che nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell’opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale.

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Per Silvio Spaventa, Campanella è il “filosofo della restaurazione cattolica”, in quanto, la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: “Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo”. È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi “sono vani se non hanno per base l’istruzione e la felicità delle classi più numerose”. Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo.

PASQUALE GALLUPPI

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Pasquale Galluppi nacque a Tropea il 2 aprile del 1770 da un’antica casata nobiliare e possidente terriera. Formato al cattolicesimo, dopo i primi studi incentrati soprattutto sulla filosofia e sulla matematica, nel 1788 fu mandato a Napoli a studiare giurisprudenza. Egli tuttavia disattese il volere paterno: apprese il greco con Pasquale Baffi, seguì le lezioni di teologia (passione nata già ai tempi di Tropea grazie alla Teodicea di Gottfried Wilhelm von Leibniz e alle opere di Christian Wolff) di Francesco Conforti e si dedicò a una lettura attenta dei testi biblici e dei Padri della Chiesa, dalla quale fin da subito emerse un interesse peculiare per gli scritti e la figura di sant’Agostino. Dopo il suo ritorno nella città natale, nel 1794, egli proseguì gli studi filosofici, approfondendo in particolare testi appartenenti alla scuola cartesiana. Al 1795 risale il deferimento da parte del Sant’Uffizio di Roma a causa di una dissertazione di teologia tenuta presso la Regia accademia degli Affaticati di Tropea circa l’idea che le «supposte virtù dei pagani […] mancanti della vera carità debbono dirsi vizi» (L. Meligrana, prefazione a P. Galluppi, Memoria apologetica, a cura di L. Meligrana, 2004, p. XXIX). Per difendersi dall’accusa di eresia egli compose una Memoria apologetica ispirata a sant’Agostino, il cui pensiero ritenne essere la difesa più efficace della propria innocenza. L’introduzione a tale scritto fu redatta da monsignor Carlo Santacolomba, le cui teorie gianseniste, cariche di ferrea intransigenza morale e caratterizzate da salde «tendenze anticurialiste e antitemporaliste»  sono ben riconoscibili.

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Al 1799 è datato invece il coinvolgimento nei fatti della Repubblica partenopea. Alcuni anni più tardi ricoprì la carica di Controllore delle contribuzioni dirette per diciassette anni, dunque sia sotto i Napoleonidi che sotto il governo dei Borboni. Intorno al 1800 scoprì Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), un autore che egli non solo ritenne importante, ma addirittura un punto di svolta di tutto il suo percorso di studio e di pensiero. Il sensismo dell’abate francese, insieme all’empirismo dell’Essay concerning human understanding di John Locke (1632-1704), fu infatti il viatico per uno scandaglio filosofico di tipo analitico-fondativo precedente ogni ricerca metafisica su Dio e sull’universo. Pur essendo per indole lontano da ogni estremismo, dunque, tra i due schieramenti – dei giacobini e dei sanfedisti – il pensatore tropeano non solo fu vicino per formazione intellettuale alla causa giacobina, ma si adoperò anche, tramite la traduzione di fogli propagandistici in favore delle truppe del generale francese Championnet, perché questa potesse diffondersi. L’episodio fu causa del suo imprigionamento nella fortezza di Pizzo quando la città di Tropea si assoggettò alle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, contro il quale il nostro si scagliò duramente nel primo scritto politico intitolato Pensieri filosofici sulla libertà individuale compatibile con qualunque forma di governo, risalente al 1805, che tuttavia, forse per prudenza, non diede alle stampe e che rimase inedito fino alla pubblicazione nel 1865. Tale scelta di comodo non deve tuttavia far dimenticare il valore delle parole, queste sì non ambigue, rivolte contro un clero che svilisce «il vero spirito del Cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo» e che ha permesso a «un Cardinale di comandare delle masse di ribaldi e di fanatici» e di «innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e di ogni sorta d’iniquità» (Tulelli 1865, pp. 111-12).

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Il 1820 è l’anno dei moti carbonari in Piemonte e nel Regno di Napoli: questo nuovo fervore gli ispirò, tra l’altro, la composizione degli Opuscoli politico-filosofici sulla libertà. In questi libelli troviamo interventi a favore “della eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni e della propria industria”, oltre che della libertà di stampa e di culto, interventi stimolati tra l’altro da avvenimenti come la promulgazione della legge sulla libertà di stampa nel Regno di Napoli, risalente al 26 luglio 1820, e dalle discussioni sui principi costituzionali e sulle libertà civili che avevano luogo all’interno del Parlamento del Regno. La difesa di un liberalismo monarchico-costituzionale può spiegare anche la presa di posizione a favore del re Ferdinando I, contenuta nello scritto intitolato Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli, che appare a tutti gli effetti non solo una valutazione storica errata, ma anche una triste contraddizione rispetto alla memoria dei martiri del 1799, considerato che il re aveva fatto massacrare buona parte dell’avanzata intellighenzia illuminista napoletana, tra cui anche i maestri del filosofo Conforti e Baffi. Essa, infatti, potrebbe rientrare in un orizzonte più ampio, finalizzato a salvaguardare in ogni modo l’identità di uno Stato, che egli chiama già «nazione» (Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, cit., p. 85), delineando una posizione netta contro l’ingerenza straniera nel territorio italiano.  Il cambiamento di prospettiva sarebbe dovuto quindi proprio alla necessità di perseguire con la maggiore efficacia possibile un progetto nazionale di autonomia per gli Stati italiani. È per questo che «nel nome del filosofo di Tropea» si è inteso evocare la rinascita speculativa della Nazione Italiana, quale simbolo e auspicio di quello che sarebbe stato, più tardi, l’agognato risorgimento politico della nostra terra.

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Con i suoi scritti egli pone al centro una questione politico-civile fondamentale: quale è quella libertà civile, di cui deve godere il cittadino, in rapporto al potere politico in generale, prescindendo da qualunque forma di governo? In primo luogo vi è per Galluppi la libertà di pensare, che nessun errore o eccesso può limitare, e di seguito la libertà di stampa, di cui tuttavia sono ammessi alcuni vincoli rispetto alla religione. Egli sostiene la possibilità per ciascuno di non uniformarsi alla religione di Stato e l’illegittimità di azioni da parte dello Stato stesso che forzino in qualche modo scelte e libertà dell’individuo in questo campo: si tratta però appunto di libertà di coscienza, e non di libertà di culto, rispetto alla quale la decisione è invece rimessa allo Stato. Questa limitazione è connaturata a un concetto stesso di libertà di ispirazione essenzialmente giusnaturalistica, intesa come un diritto naturale precedente ogni ordinamento positivo.

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Lungimirante e all’avanguardia per i tempi resta tuttavia la sua posizione a favore del matrimonio civile, il cui significato di principio in termini legislativi e sociali è evidente quanto innegabile: in forza della libertà di coscienza già riconosciuta, la legislazione non può più riguardare il matrimonio se non come un contratto civile; altrimenti il cittadino non avrebbe la libertà di essere non conformista. «La libertà di essere non conformista»: in questa espressione si racchiude l’essenza del Galluppi teorico e filosofo della libertà. Le sue istanze e spinte liberali, pur se mediate sovente da una distanza di comodo, indicano tuttavia un elemento centrale della sua dimensione politico-civile destinato a riversarsi in maniera coerente e sentita nell’opera filosofica, ovvero il primato della coscienza. La “filosofia dell’esperienza” galluppiana è a tutti gli effetti un tentativo di riscrittura e di oltrepassamento del criticismo gnoseologico kantiano. Una gnoseologia elaborata per superare sia gli eccessi dogmatico-soggettivi del razionalismo sia quelli scettico-oggettivi dell’empirismo in una conciliazione teorica che neanche nelle tre Critiche sarebbe stata raggiunta. Secondo Galluppi, il discorso kantiano è messo in crisi in maniera decisiva proprio dalla constatazione che un fenomeno suppone necessariamente due realtà; quella del soggetto, a cui qualche cosa apparisce; quella della cosa che al soggetto si mostra. L’accesso al fenomeno dunque non è solo mera espressione o proiezione di un soggetto, ma è sempre interazione di soggetto e oggetto; ciò induce a individuare una dimensione che garantisca proprio tale interazione: la coscienza: «io percepisco il me, il quale percepisce un fuor di me». Giungiamo così al cuore della filosofia morale del filosofo tropeano: i precetti morali non sono né massime né imperativi, ma verità primitive che si fondano sull’esperienza, pur se prescritti dalla ragione: «l’esistenza de’ doveri, e perciò del bene e del male morale è una verità primitiva, che la Coscienza ci manifesta».

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Nel 1831 si insediò con successo presso la cattedra di logica e metafisica dell’Università di Napoli. Intanto la sua fama di studioso si diffondeva non solo in Italia (dove fu insignito di molte onorificenze), ma anche all’estero. Una testimonianza di siffatta considerazione proviene dal privilegiato rapporto con l’ambiente culturale francese, che fu suggellato nel 1838 con la nomina a socio corrispondente estero dell’Académie des sciences de l’Institut de France e nel 1841 con il conferimento della Legion d’onore. Galluppi morì a Napoli, al suo tavolo di lavoro, il 13 dicembre 1846.

 

LUIGI GIGLIO (LILIO)

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Luigi Giglio, in latino Aloysius Lilius, nacque intorno al 1510 a Cirò, presso Crotone, in Calabria, da una famiglia di modeste condizioni. Delle vicende della sua vita ben poco si sa, tanto che in passato ne è stata persino messa in dubbio l’origine calabrese e il nome di battesimo è stato indicato nella forma di Alvise Baldassarre. Luigi Lilio, medico e astronomo, ideò la riforma del calendario, promulgata da Papa Gregorio XIII (da cui prese il nome) nel 1582. Fu una delle piu’ importanti riforme del Rinascimento italiano, ideata da Lilio e portata avanti a Roma, nella seconda meta’ del XVI secolo, da un gruppo di calabresi guidati dal Cardinale Guglielmo Sirleto.  Insieme al fratello Antonio, frequento’ l’Universita’ di Napoli dove si laureo’ in medicina, non tralasciando pero’ di coltivare la passione per la matematica e l’astronomia. Nella città partenopea era agli stipendi della famiglia Carafa, feudatari di Cirò, non essendo sufficienti le magre sostanze paterne per potere attendere agli studi. Dopo una permanenza presso l’Universita’ di Perugia, quale docenti di medicina nel 1552, i fratelli Lilio frequentarono un influente gruppo di intellettuali che facevano capo all’Accademia delle Notti Vaticane, fondata a Roma dal Cardinale Sirleto e dal Cardinale Carlo Borromeo.  A quanto sembra Giglio dedicò l’ultimo decennio della vita a perfezionare la sua proposta di riforma del calendario, ma morì prima che questa fosse presentata al papa.

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Il grande problema astronomico-confessionale che Lilio si trovo’ ad affrontare era stato posto quando il Concilio di Nicea stabili’ che la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima domenica dopo il plenilunio di primavera. In epoca successiva pero’ era stato evidenziato che l’anno solare risultava piu’ lungo di 11 minuti e 14 secondi, per cui ogni 128 anni si sommava un giorno in piu’ (13 giorni nel 1500). Nel tentativo di risolvere il rompicapo, tutti i piu’ grandi astronomi e matematici di varie epoche si erano cimentati inutilmente. Fu Lilio a proporre di calcolare l’anno solare in base alle Tavole Alfonsine: in questo modo la durata dell’anno solare risulto’ essere di 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 12 secondi. La proposta di ricondurre l’equinozio di primavera al 21 marzo, eliminando dieci giorni e sopprimendo il bisesto a tutti gli anni centenari non multipli di 400 (gli anni centenari venivano cosi’ calcolati normalmente ad eccezione di quelli le cui prime cifre erano divisibili per quattro – 1700, 1800, 1900 – mentre il 2000 era considerato a cadenza normale), alla fine risulto’ vincente. L’anno di 366 giorni fu detto bisestile, perché quel giorno complementare doveva cadere sei giorni prima delle calende di marzo (facendo raddoppiare il 23 febbraio), e chiamarsi così bis sexto die ante Kalendas Martias (nel doppio sesto giorno prima delle calende di marzo). Inoltre, al fine di una più corretta misurazione delle lunazioni, essenziale per indicare il termine pasquale, il Giglio propose di sostituire al sistema del ciclo metonico (che prevedeva l’intercalazione, in un periodo di 19 anni composti ciascuno di 12 mesi, di altri sette mesi) un nuovo metodo basato sul calcolo delle epatte, di cui redasse delle tabulae.

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Sfortunatamente Lilio non pote’ seguirne il destino perche’ mori’, nel 1576, dopo una grave malattia. Nel 1577 Antonio Lilio presento’ pero’ il lavoro del fratello a Papa Gregorio XIII che lo accolse con molta gratitudine. Nello stesso anno venne stampato un volumetto che riportava le osservazioni di Luigi Lilio con i passaggi piu’ significativi, i calcoli e le tavole del nuovo calendario. La stampa venne eseguita a cura del Cardinale Sirleto, sorta di ‘deus ex machina’ dell’impresa, e curata da Pietro Ciaconio, esperto in Storia della Chiesa per le implicazioni civili ed ecclesiastiche, e Cristoforo Clavio, gesuita di Bamberga, astronomo e matematico, direttore dell’Osservatorio Vaticano. Nell’ultima pagina era possibile leggere la proibizione, da parte di Sirleto, pena la scomunica, di vendere o ristampare il volume.Dopo innumerevoli polemiche e veleni, il 14 settembre 1580, la Congregazione voluta da Gregorio XIII presento’ la relazione conclusiva dal titolo “Ratio corrigendi festes confirmata et nomine omnium qui ad calendarii correctionem delecti sunt oblata SS.mo D.N. Gregori XIII”. Di questo testo esistono due copie: l’una conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’altra presso la Biblioteca Casanatense di Roma. Il 24 febbraio 1582 il documento venne poi firmato e promulgato dal pontefice che, in data 5 marzo 1582, lo fece pubblicare, per affissione, sulla porta della Basilica di San Pietro.

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Un’intuizione che, in breve tempo, divento’ oggetto di discussione tra esperti di matematica ed astronomia. Astronomi e matematici, come Giuseppe Giusto Scaligero, Georgius Germanus e François Viète non approvarono la riforma liliana e cercarono in tutti i modi di creare calendari alternativi senza però riuscirci. James Heerbrand, professore di teologia a Tubinga, presentò le sue obiezioni nel Disputatio de adiaphoris et calendario gregoriano, tanto che accusò il papa, da lui definito “Il Calendarista”, di essere “l’Anticristo” che aveva creduto di poter mutare il tempo, ingannando i veri cristiani a celebrare le festività religiose in giorni volutamente sbagliati. In un altro scritto polemico, i cui principali autori furono Maestlin e il teologo Osiander, si argomentava che il papa avesse rubato dieci giorni dalla vita di ciascuno, i contadini non sapevano più quando arare o seminare i campi e gli uccelli smarriti non sapevano più quando cantare o emigrare. La prima difesa del calendario fu pubblicata nel 1585 ad opera del gesuita Johannes Busaeus, le cui argomentazioni, dirette principalmente contro le posizioni del teologo Heerbrand, vertono sulla correttezza scientifica e soprattutto interpretativa della riforma rispetto alle direttive del Concilio di Nicea. Tycho Brahe e Giovanni Keplero, gli astronomi più autorevoli del tempo, nonostante fossero protestanti, fattore che indubbiamente limitava le loro pubbliche dichiarazioni, considerarono la riforma elaborata da Lilio perfetta da un punto di vista scientifico. Keplero lasciò un articolo, pubblicato dopo la sua morte, nel quale presenta le sue argomentazioni in forma di dialogo tra un cancelliere protestante, un predicatore cattolico e un esperto matematico. La frase finale di questo dialogo è illuminante: ”La Pasqua è una festa e non un pianeta. Tu non puoi determinarla con giorni, ore, minuti e secondi.” L’opinione di Brahe è nota grazie a due lettere nelle quali l’autore afferma che le critiche mosse dagli astronomi contrari alla riforma erano dettate non da rigore scientifico ma da avversione verso il pontefice.

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Egidio Mezzi, storico di Lilio, afferma: ‘Matematici ed astronomi italiani e stranieri non danno il giusto rilievo a questa straordinaria figura  che riusci’ ad elaborare un calendario che ancora oggi, nonostante i ritmi vertiginosi raggiunti dalla scienza, non e’ stato superato”. Il fisico Antonio Zichichi in un’intervisse disse del Giglio: “Il mio interesse per Luigi Lilio nasce dal fatto che se fosse stato un inglese, un tedesco o una persona non italiana a scoprire il calendario perfetto lo saprebbero tutti, invece nessuno sa che e’ stato un italiano. Nessuno sa che e’ stato Aloysius Lilius, nato a Ciro’ in Calabria, a elaborare questo calendario passato alla storia con la benedizione di Papa Gregorio XIII, un bolognese. Bologna e’ la mia citta’ universitaria. Penso sia corretto rendere omaggio a questi due grandi personaggi della storia d’Italia e del mondo”. Il Calendario Gregoriano elaborato da Aloysius Lilius, ha detto Papa Giovanni Paolo II agli scienziati della World Federation of Scientists è: «… un contributo tra i più significativi e duraturi offerto dalla Cultura Cattolica sin dal lontano 1582 a tutti i popoli del mondo».

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Il Calendario Gregoriano venne man mano adottato nei diversi Paesi del mondo: in Italia, Portogallo e Spagna nell’ottobre del 1582; nel dicembre dello stesso anno in Francia e nei Paesi Bassi di Fede Cattolica. Diciotto anni dopo, nel 1600, venne adottato in Scozia. Bisogna attendere il 1700 per vederlo in uso nei Paesi di Fede Protestante: Danimarca e Norvegia. E addirittura il 1752 per vederlo in uso nel Regno Unito d’Inghilterra. Nei paesi di Fede Ortodossa andò in vigore tra il 1916 e il 1923. In Russia fu introdotto nel 1917. In Cina il governo repubblicano adottò il Calendario Gregoriano il 20 novembre 1911. Negli usi comuni però rimase in vigore il vecchio Calendario finché il governo di Nanking stabilì che col 1º gennaio 1930 il solo Calendario valido a tutti gli effetti giuridici dovesse essere quello Gregoriano di Aloysius Lilius. È attraverso queste diverse fasi che oggi, per la prima volta nella storia del mondo, tutte le Nazioni si trovano ad avere lo stesso Calendario.

Nel 2012 la Regione Calabria ha istituito la Giornata del Calendario in memoria di Luigi Lilio fissandola per il 21 marzo di ogni anno.

Il cratere Lilius sulla Luna prende il suo nome.

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Giuseppe Oliva – team Mistery Hunters

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, calabriaonline, figlidicalabria, adnkronos, eccellenzecalabresi, treccani.

 

 

 

 

 

 

Triora la Salem Italiana

Avete mai sentito parlare di “Inquisizione”?
Credo tutti, almeno una volta nella vita. Il termine racchiude in sé dolore, sopruso, ingiustizia, rabbia. Molte sono state le sue vittime, la maggior parte innocenti, con metodi poco ortodossi e senza rispetto per la vita umana. Un termine che non conosce confini.
E in Italia? Parlando del nostro Paese, particolarmente eclatante il caso della città di Triora, che nel 1587 circa era strategica dal punto di vista commerciale, essendo podesteria di Genova. Ricopriva un ruolo fondamentale negli scambi commerciali tra Italia, Francia e Mediterraneo tutto. In quegli anni fu al centro di una grave carestia, che stava mettendo a dura prova tutta la popolazione. La popolazione viveva nella costante paura della morte, e si ricercava una causa a tutto ciò; in quel periodo era decisamente frequente che venisse usata la medicina naturale, quindi erbe aromatiche e medicinali, ma quello che accadde a Triora lascia ancora oggi molti senza fiato. Si scatenò infatti una psicosi verso tutte quelle persone che erano in grado di guarire tramite le erbe, vennero accusate di stregoneria, di avere sottoscritto un patto con il Demonio che si serviva dunque di loro per ottenere i suoi scopi malvagi.


Complice l’ignoranza, mista alla paura e la religione che fomentava ogni genere di fobia, si diffuse questa convinzione. Intervenne l’Inquisizione e a quel punto non c’era più niente da fare. Venti persone incarcerate ingiustamente, case adibite a prigioni, torture e sevizie di ogni genere pur di ottenere una confessione di qualcosa mai commesso. Molte sono state le vite che vennero stroncate.
Fu inviato a Triora un Commissario di giustizia. In effetti, tra le altre enormità giuridiche rammentiamo che tutte le donne che fossero “nominate” da quelle già inquisite e torturate erano, a loro volta, inquisite e torturate immediatamente, senza che fossero giudicate giustamente e processate, e ciò accadeva con tale continuità, che praticamente quasi tutte le donne del circondario erano diventate “streghe”, a iniziare dalle plebee per finire con quelle di più alto livello socio-economico. Ma il peggio doveva venire: caso volle che il nuovo Commissario, Giulio Scribani, sul quale si nutriva grande fiducia per competenza e rettitudine, fosse misogino e totalmente imbevuto del pregiudizio fondante la caccia alle streghe. Ciò che accadde successivamente è facilmente immaginabile in quanto la psicosi unita all’ignoranza, portarono alla morte di venti donne ed un uomo.
Triora passò dunque alla storia come la Salem italiana, anche se il suo rapporto con il mistero parte dalle origini: lo stemma di Triora contiene l’immagine di Cerbero, cane a tre teste che sta a guardia degli inferi. Non è difficile rimanere affascinati da un borgo talmente colmo di mistero e storia, ma bisogna anche ammettere che molto probabilmente tutta questa situazione è stata creata “ad hoc” per una questione meramente economica. Creare una carestia lì a Triora, ritenuta il granaio d’Italia, per alzare i prezzi del grano, e spostare automaticamente l’attenzione da processi ben più gravi ed importanti che sono così passati in secondo piano. Questa dunque la vera motivazione di tanta cattiveria, incrementare la produzione di grano e alzare i prezzi improvvisando una carestia di cui vennero accusate le streghe. Tutta questa sofferenza ha avvolto Triora in un’atmosfera misteriosa e oscura che ancora oggi è percepita vividamente.


Nel maggio del 2000, il congresso della stregoneria si è riunito proprio a Triora e dopo giorni di convegni, ha deciso di organizzare un’escursione notturna per il borgo e visitare così i luoghi protagonisti del processo. Alcuni dei partecipanti all’escursione hanno avvertito dei malori, ai quali però non si è dato peso in quell’istante, solo successivamente, analizzando le foto e i video fatti quella sera, i protagonisti della vicenda si sono resi conto di alcune luci che si muovevano velocemente, probabilmente “orbs”, agglomerati di materia primordiale dunque, intorno a loro e di alcune forme umanoidi in una nube bianca. Gli stessi partecipanti al congresso hanno aspettato qualche giorno prima di rendere pubblico l’accaduto poiché credevano fossero foto fuori fuoco o difetti delle apparecchiature; controllando e verificando poi però si sono resi conto della veridicità di quello che stavano vedendo. Episodio probabilmente isolato, ma che non ha fatto altro che aumentare il mistero intorno a quello che è considerato uno dei borghi più spaventosi al mondo. Gli stessi abitanti successivamente hanno ammesso di aver visto spesso delle presenze aggirarsi per il borgo, soprattutto nella zona di Cabotina, quartiere periferico malfamato dove si narrava che le streghe si incontrassero per svolgere i loro Sabba e per preparare gli unguenti e gli incantesimi che avrebbero poi causato la carestia. La presenza più “famosa” sarebbe quella di Isotta Stella, nobil donna di Triora tra le prime ad essere accusata di stregoneria. Naturalmente la leggenda sguscia nei meandri del tempo, ma tra gli abitanti resiste la convinzione che effettivamente quel posto incantato e misterioso non sia mai stato abbandonato da coloro che lì hanno vissuto i loro ultimi giorni di vita.
Naturalmente cavalcando l’onda dell’entusiasmo e del turismo, il comune di Triora ha non solo aperto un museo sulla storia della città e sui suoi usi e costumi, ma sulla stregoneria in genere e sull’episodio che ha riguardato il borgo. All’interno dello stesso vi sono sia sezioni storiche dunque, sia una sezione, ubicata nelle cantine dello stabile, dove in origine furono imprigionate le donne; sono state ricostruite alcune scene come gli interrogatori e la prigionia e all’interno di tutto il museo sono state dislocate statue che riproducono l’immagine classica e stereotipata della strega, a cavallo di una scopa ad esempio. Sono contenuti anche dei documenti del processo, ma gli atti originali del processo sono andati persi quasi totalmente.


Tutto questo e molto altro è Triora, luogo magico, circondato dalla natura, avvolto nel mistero e sospeso nel tempo, in un tempo in cui magia e scienza erano un’anima sola.

Annachiara Mele – Team Mistery Hunters